Messaggio più recente

Francesco Dedola, poeta di grande sensibilità umana

 

AddText_10-24-09.28.48

di Piero Murineddu

Francesco Dedola, venuto a mancare il 22 febbraio del 2013, era nato a Montresta (NU) il 25 ottobre 1932. Da giovanissimo era arrivato a Sorso per custodire gli animali da pascolo di una zia che da qualche tempo si era stabilita nel mio paese della Romangia. Col tempo aveva scoperto in sé il dono della composizione poetica.

Due anni prima della morte –  sopraggiunta tutt’altro che improvvisa dato che Cicitu, come veniva chiamato, da tanto tempo era costretto a fare la dialisi – avevo avuto l’onore e il grande piacere di recarmi nella sua casa per intervistarlo. Come detto, sapevo della sua passione per comporre versi poetici – in sardo principalmente dato che partecipava al concorso poetico che annualmente da noi si é svolto fin quando erano in vita i miei due illustri conterranei Tonino Rubattu e Nicola Tanda – ma nello scambio avuto prima di avviare la registrazione, con sorpresa ero venuto a conoscenza che aveva trascorsi di paroliere per alcuni gruppi musicali e, sopratutto, dei venti mesi da emigrato in Germania, di cui mi diceva di aver conservato un ricordo positivo.

Grande sensibilità d’ animo Cicitu. Ricordo con quanta commozione e con quanta difficoltà era riuscito a recitare la poesia dedicata alla vita del migranti, documentata nel video a lui dedicato che riporto a conclusione di questa pagina.

Frugando nella biblioteca-rifugio dove l’indimenticato e per me carissimo Petronio Pani trascorreva molte ore delle sue giornate, quando beninteso non era impegnato ad organizzare continui eventi culturali e sportivi e in generale a migliorare il mondo, ho ritrovato questa vecchia intervista fattagli nel 1997 da Pier Vanni Cossu, titolare dell’ edicola di Piazza Bonfigli a Sorso, per il giornale “ORIZZONTE“,  riuscitissimo frutto della passione di un gruppo di giovani sorsesi durato troppo poco tempo, come purtroppo succede per le belle cose…

A seguire, il video dedicato interamente all’ indimenticato Cicitu, nativo di Montresta ma da giovanissimo sussincu.

dedola

Francesco Dedola, da paroliere a poeta

Intervista di Pier Vanni Cossu

Tra le tante forme d’arte, la Poesia ha sempre occupato un posto molto importante sul podio della cultura e tra le sue tante sfaccettature, quella dialettale in particolare, ha goduto di un forte apprezzamento e di una grande stima dagli addetti al settore.E proprio in questo contesto si colloca la Poesia di Francesco Dedola.

– Quando ha iniziato a muovere i primi passi nella Poesia?

È stato un passaggio. Negli anni 60 e 70 facevo il paroliere. Scrivevo testi di canzoni in italiano; poi ho iniziato ad interessarmi ai concorsi in lingua sarda, così ho incominciato a comporre in sardo.

– Come paroliere ha avuto dei riconoscimenti?

Si. sono arrivato in finale alla Fiera della Canzone Italiana, una manifestazione per dilettanti tenuta a Milano negli anni 70.

– E alla Poesia dialettale quando è arrivato?

Ho iniziato a comporre i primi versi in vernacolo sassarese nel ‘78, ma da subito mi sono reso conto che non rendeva, era un dialetto troppo “stretto”, poco musicale, difficile da proporre, perciò sono passato alla lingua materna, il dialetto di Montresta.

– Da dove trae ispirazione?

Nella vita vissuta, nella povertà, nella tragedia che la Sardegna si porta appresso da secoli, nonostante i critici letterari dicano che piangiamo troppo. Molle volte si cerca di evadere, di fuggire certi argomenti troppo lamentosi, finendo nella metafora e nella satira, ma millenni di storia non si cancellano facilmente; non è della polvere che ti scrolli di dosso con un colpetto di spazzola, e per forza di cose si ricade nello scrivere lamentoso.

– Quali sono gli autori, sardi o no, che gradisce leggere?

Innanzitutto, la Deledda per la sua genuinità: nelle sue opere ritornano i temi della pena, del lamento e della preghiera della gente; poi Sebastiano Satta che tutt’oggi è considerato il più grande poeta sardo. È forse meno conosciuto ma non meno bravo, Predu Mura, di cui ricordo la sua opera “Poesias de una vida”. Ultimamente si sta riscoprendo Sergio Atzeni, ma ci sono altri più conosciuti e più amati come Salvatore Satta autore de “Il giudizio universale”. Non dimentichiamo che in Sardegna esistono circa 40 premi letterari.

– Da quale poeta sente di essere stato ispirato maggiormente?

Ho letto quasi tutti i grandi, da Virgilio a Omero a Dante, ma quello che credo abbia influenzato più di tutti il mio modo di scrivere è Gozzano, che ha un genere molto vicino alla nostra Poesia.

– Ci sono dei progetti che non è mai riuscito a realizzare?

Non ho mai avuto grandi piani, sono cosciente del mio bagaglio culturale, perciò non tento i salti mortali.

– Comunque sia, avrà pur un sogno nel cassetto.

Beh, certo. Avrei voluto pubblicare qualche romanzo. Ho una raccolta di 15 racconti di cui 14 premiati. Ma in Sardegna è molto difficile riuscire a pubblicarli. Da noi si fa poca prosa, mentre ci si occupa molto di Poesia, alle volte scadente. Non ci sono concorsi per prosatori: ne esistevano due ma non si fanno più.

– Per quanto riguarda il sardo, è più difficile scrivere in prosa o in poesia?

Forse in prosa. Nella poesia ti esprimi in 50 o 40 versi, ma nella prosa hai bisogno di una conoscenza della lingua sarda più ampia e di un bagaglio di vocaboli consistente. C’è più da lavorare. Ci sono poi quelli che finiscono per storpiarla con l’uso di italianismi estranei al nostro vocabolario. Purtroppo il sardo non ha una grande varietà di neologismi e si finisce per attingere dalla lingua italiana.

– Cosa ne pensa del bilinguismo nelle scuole? Crede che sia sufficiente per riprenderci la “Limba”?

È utile, ma ci vogliono testi qualificati. Non bisogna rifilare agli studenti tutto quello che si scrive. Il materiale va vagliato e chi insegna deve far notare la differenza tra il sardo puro e ciò che sardo non è, ma che viene fatto passare come tale per comodità.

– C’è qualcosa tra tutto quello che ha scritto che avrebbe voluto non scrivere?

Non mi piacciono più le cose che ho scritto agli inizi. Sai, le rime baciate senza senso. Alcune di esse hanno pure avuto dei riconoscimenti, ma io non le ritengo più valide.

– Che peso ha la Poesia di Dedola nella letteratura sarda?

No, questo non spetta a me dirlo, non ho mai fatto classifiche. Sono solo uno di fanti.

– Quale è stata la più grande soddisfazione legata ad una sua opera?

Talvolta non sono i premi che ti appagano; ci sono state poesie meno premiate, come “Mammutones”, che mi hanno conferito più popolarità e più soddisfazione di alcuni primi posti.

– Quanto c’è di Sorso nelle sue opere?

Poco, o meglio, quello che riguarda la vita che ho vissuto quasi interamente in questo paese.

(…)

– Solitamente si dice che gli artisti siano un po’ eccentrici. Cosa c’è di stravagante in Francesco Dedola?

lo penso che l’artista debba essere soprattutto di animo nobile. Credo che tutti gli artisti lo siano.

– Che rapporto può avere un poeta con la tecnologia, ad esempio con il computer?

Possiedo un computer, ma non l’ho mai adoperato. È un oggetto freddo, non mi attira…

– Tra mille anni, come vorrebbe essere ricordato?

Con semplicità.

 

Nel video viene focalizzata l’attenzione su un fenomeno oggi drammaticamente attuale qual’ è quella dell’ emigrazione forzata, patita da miriadi di persone provenienti in prevalenza dal sud del mondo  e a suo tempo vissuta da tanti nostri connazionali ma che in troppi sembrano aver dimenticato, compresi i vari governanti di qualsiasi appartenenza partitica che si stanno succedendo negli ultimi decenni in questo smemorato Paese. Traggo la poesia inerente a questa tematica, vissuta in gioventù  in prima persona dall’ autore.  (Piero)

 

Fascismo Criminale, ieri come sempre

Premessa

di Piero Murineddu

Dopo che lo scorso anno di questi giorni il Consiglio Comunale di Bologna, a esclusione dell’ opposizione di Destra ( ma guarda!), ha deciso che d’ ora in poi il 19 febbraio sarà la Giornata del Ricordo di tutte le vittime del colonialismo in Africa da parte del regime fascista, sarebbe opportuno che tale Memoria si estendesse a tutto il Paese. In attesa che si compia questo dovuto atto di giustizia, riporto una lunga pagina in cui si elencano nomi e cifre di quello che è stato realmente il Fascismo. In questo caso, oltre i confini dello Stivalone bagnato dal Mediterraneo. Per le criminali nefandezze provocate in terra italica, specialmente nei cervelli dei suoi abitanti, non basterebbero pagine su pagine.

Diversificata e utilissima documentazione, quella che segue, per confermare, ammesso ce ne fosse ancora bisogno, che il pensare e l’agire fascista, spesso mascherato con altre sigle, impedisce in sé la realizzazione della nostra umanitá. La lunga pagina che presento, arricchita sul finale da un contributo di un amico poeta bolognese, si aggiunge a quest’ altra pubblicata qualche tempo fa di cui riporto il link.

Gli orribili crimini a lungo nascosti del GENERALE ROATTA

FB_IMG_1613713350974

19 febbraio 1937. Nella foto, il feroce assassino Rodolfo Giuliani poco prima di ordinare la strage

Italiani brava gente?

 di Mauro Albanesi

19 febbraio 1937. Durante una cerimonia per festeggiare la nascita del primogenito di Umberto di Savoia scoppiò un ordigno, preparato da due eritrei della resistenza contro l’opposizione straniera, destinato al viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani, reo fra le molte nefandezze anche di aver autorizzato l’utilizzo di gas lanciato dagli aerei per far strage di truppe e popolazione etiopi. Le vittime dell’attentato furono otto e lo stesso Graziani venne gravemente ferito. La rappresaglia iniziò immediatamente: in tre giorni vennero messi a ferro e fuoco Addis Abeba. I morti furono alcune migliaia, trentamila secondo le stime etiopiche: il regime fascista consumò in Etiopia un gravissimo crimine di guerra. I morti saranno centinaia di migliaia alla fine dell’occupazione italiana ed oltre ai militari furono gli italiani residenti a rendersi a loro volta complici del massacro.

“L’Italia ripudia la guerra, e nell’impresa etiopica, in mezzo a tanta violenza, ci fu un fatto terribile, una strage, di monaci, ragazzi, di famiglie di pellegrini nel 1937”, ha affermato lo storico Andrea Riccardi, in occasione della presentazione del libro di Paolo Borruso “Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia”. Nell’occasione il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha chiesto perdono “ai fratelli cristiani d’Etiopia” per il disprezzo con cui furono trattati all’epoca della guerra dagli italiani cattolici (per modo di dire). E c’è stato anche un riconoscimento di responsabilità e una domanda di riconciliazione, dopo piu di 80 anni, dal governo italiano attraverso il ministro della Difesa Lorenzo Guerini.

L’Etiopia, dunque, come la ex Jugoslavia, dove in due anni di occupazione (1941-1943) le truppe italiane si macchiarono di crimini gravissimi che causarono migliaia di morti e almeno 30mila sloveni finiti nei campi di concentramento: dal movimento di resistenza jugoslavo scaturì la replica degli anni seguenti che portarono a una nuova tragedia, quella delle foibe e dell’esodo forzato di tanti connazionali che in Istria e Dalmazia si erano nel frattempo stanziati.

Quelle etiopi e jugoslave furono reazioni ad un’occupazione italiana forzata, violenta e plasmata sugli esempi messi in atto dalla Germania nazista. Gioverebbe a un dibattito forse più sereno sul tema, non raccontare sempre e comunque una parte della storia. Altrimenti il nostro paese sarà destinato ancora una volta a non fare i conti a fondo con il proprio passato. Con il rischio di perpetuare ancora l’idea degli “italiani brava gente”, che migliaia e migliaia di pagine di inchieste hanno smentito fin da subito, addirittura già dal 1946-47 quando ad esempio venne istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Luigi Gasparotto, ministro della difesa nel III° Governo De Gasperi dedicata proprio a raccogliere informazioni e testimonianze sui crimini italiani in Jugoslavia.

“Segnale – commenta Riforma.it – che allora la consapevolezza di cosa accaduto era chiara. Poi cadde l’oblio: decine e decine di gerarchi e burocrati fascisti vennero riciclati alla causa repubblicana e occuparono ruoli di primo piano nelle forze armate e nella politica degli anni seguenti, contribuendo a mantenere nascosta la verità. Emblematico da questo punto di vista il caso de “l’armadio della vergogna”, scoperto da un’inchiesta giornalistica de “L’Espresso” soltanto nel 1999, e dai cui fascicoli nascosti emersero le troppe responsabilità italiane in molti dei momenti più tragici del secondo conflitto mondiale. Migliaia di pagine sono destinate solo ai crimini italiani in Grecia, per fare un esempio. Per non strumentalizzare occorre conoscere, anche se la verità è dolorosa. Ma non farne mai i conti non aiuta una nazione a diventare adulta.
E si finisce con il dedicare mausolei a Graziani come ad Affile, 80 km a est di Roma, o a fare monumento della casa del fascio a Predappio che diede i natali a Mussolini”.

inchino_etiopi

I particolari della strage del 19 e giorni seguenti nel  febbraio 1937

di Michele Strazza

Graziani, volendo imitare un’usanza etiope, decide di distribuire a ciascuno dei poveri di Addis Abeba due talleri d’argento, uno in più rispetto a quanto ha sempre distribuito Hailè Selassiè.

Insieme agli invitati una folla di derelitti confluisce, così, nel cortile del palazzo imperiale (“ghebbì”).

Improvvisamente due intellettuali eritrei (Abraham Debotch e Mogus Asghedom) lanciano contro alcune bombe a mano uccidendo quattro italiani, tre indigeni e ferendo una cinquantina di presenti, tra cui lo stesso Graziani.

Dopo i primi momenti di panico e indecisione vengono chiuse le uscite del vasto cortile per evitare la fuga degli attentatori.

Subito si scatena il fuoco di fucileria dei militari italiani e degli ascari libici sulla folla che cerca di fuggire.

Si spara per tre ore.

Molte persone vengono uccise anche a colpi di scudiscio nei saloni del palazzo.

Fuori partono fulminee le rappresaglie, che proseguiranno per parecchi giorni. Anche le chiese non vengono risparmiate.

Così racconta quei momenti il giornalista Ciro Poggiali, ferito leggermente ad una gamba:

«Tutti i civili che si trovano ad Addis Abeba, in mancanza di una organizzazione militare o poliziesca, hanno assunto il compito della vendetta condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista.

Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada.

Vengon fatti arresti in massa; mandrie di negri sono spinti a tremendi colpi di curbascio come un gregge.

In breve le strade intorno al tucul sono seminate di morti. Vedo un autista che dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta.

Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara ed innocente. (…)

20 febbraio 1937, sabato. (…) Sono stato a visitare l’interno della chiesa di San Giorgio, devastata dal fuoco appiccato con fusti di benzina, per ordine e alla presenza del federale Cortese. (…)

Alla sera cerco invano di ottenere dal colonnello Mazzi di telegrafare al giornale. Gli ordini di Roma sono tassativi: in Italia si deve ignorare. (…)

Il colonnello Mazzi mi smentisce che nel santuario di San Giorgio siano state trovate mitragliatrici; è segno che l’incendio non era giustificato. Per tutta la notte, con un accanimento anche più feroce che nella notte precedente, si continua l’opera di distruzione dei tucul.

Spettacoli da tragedia delle immense fiammate notturne. La popolazione indigena è tutta sulla strada. Impressionante indifferenza dei capannelli di donne e di bambini intorno alla masserizie fumanti. Non un grido, non una lacrima, non una recriminazione.

Gli uomini si tengono nascosti, perché rischiano di essere finiti a randellate dalle orde punitive. Episodi orripilanti di violenze inutili. Mi narrano che un suddito americano, per avere soccorso un ferito abissino, è stato bastonato dalle squadre dei randellatori».

Così descrive il massacro il prof. Harold J. Marcus:

«Poco dopo l’incidente, il comando italiano ordinò la chiusura di tutti i negozi, ai cittadini di tornare a casa e sospese le comunicazioni postali e telegrafiche. In un’ora, la capitale fu isolata dal mondo e le strade erano vuote.

Nel pomeriggio il partito fascista di Addis Abeba votò un pogrom contro la popolazione cittadina. Il massacro iniziò quella notte e continuò il giorno dopo.

Gli etiopi furono uccisi indiscriminatamente, bruciati vivi nelle capanne o abbattuti dai fucili mentre cercavano di uscire.

Gli autisti italiani rincorrevano le persone per investirle col camion o le legarono coi piedi al rimorchio trascinandole a morte.

Donne vennero frustate e uomini evirati e bambini schiacciati sotto i piedi; gole vennero tagliate, alcuni vennero squartati e lasciati morire o appesi o bastonati a morte».

Il fallito attentato diventa, dunque, l’occasione per quello che Mussolini definisce, in un telegramma a Graziani del 20 febbraio, «inizio di quel radicale repulisti assolutamente (…) necessario nello Scioà».

Il giorno dopo, sempre il Duce, telegrafa: «Nessuno dei fermi già effettuati e di quelli che si faranno deve essere rilasciato senza mio ordine. Tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi».

Le violenze, come già detto, continuano per molti giorni, andando ben al di là dei tre giorni successivi nei quali si scatena la rappresaglia immediata.

Circa 700 indigeni, rifugiatisi nell’ambasciata inglese, vengono fucilati appena usciti da questa.
Non si conosce il numero esatto delle vittime nei primi giorni successivi all’attentato. Fonti etiopi parlano di 30.000 vittime, fra 3.000 e 6.000 secondo la stampa straniera del tempo.

Gli attentatori, intanto, nonostante la taglia di 10.000 talleri messa sulle loro teste, non si trovano. Su ordine di Graziani alla fine di febbraio vengono fucilate decine di notabili e ufficiali etiopi. Tutti muoiono con grande dignità e maledendo l’Italia.

Tra marzo e novembre ben 400 abissini, tra cui importanti personaggi pubblici, vengono imprigionati e deportati in Italia con cinque piroscafi.

Intere famiglie con donne e bambini sono confinate nel campo di concentramento di Danane, sulla costa somala, dopo aver sostenuto un lungo viaggio di 15 giorni con morti per stenti e malattie (vaiolo e dissenteria).

Il primo convoglio per Danane parte da Addis Abeba il 22 marzo, arrivando a destinazione solo il 7 aprile. Comprende 545 uomini, 273 donne e 155 bambini, ma moltissimi muoiono sulle strade battute continuamente dalla pioggia.

Seguiranno altri cinque convogli per un totale, secondo fonti italiane, di 1.800 unità. Per gli etiopi tale cifra va moltiplicata per quattro.

Secondo la testimonianza di Micael Tesemma (riportata da Angelo Del Boca), il quale trascorre nel campo tre anni e mezzo, su 6.500 internati ben 3.175 perdono la vita per scarsa alimentazione, acqua inquinata e malattie. Lo stesso direttore sanitario del campo – riferisce il testimone – avrebbe accelerato la fine di alcuni internati con iniezioni di arsenico e stricnina.

Il 28 febbraio Graziani arriva addirittura a proporre di «radere al suolo» la parte vecchia della città di Addis Abeba «e accampare tutta la popolazione in un campo di concentramento» ma Mussolini si oppone per paura di più decisive reazioni internazionali, pur confermando l’ordine di passare per le armi tutti i sospetti, ordine poi esteso a tutti i governatori dell’Impero.

Le esecuzioni proseguono anche a marzo e Graziani ordina anche la fucilazione di tutti i cantastorie, gli indovini e gli stregoni di Addis Abeba e dintorni, in quanto responsabili di annunciare nei vari mercati la fine prossima del dominio italiano. L’iniziativa è approvata da Mussolini.

Dalle carte di Graziani risulta una costante corrispondenza con Lessona nonché l’elenco dettagliato delle fucilazioni eseguite ad Addis Abeba e nella regione circostante dal 27 marzo al 25 luglio 1937 per un totale di 1.877 esecuzioni.

Il 7 aprile il Vicerè telegrafa al generale Maletti che il territorio deve «essere assolutamente domato e messo a ferro e fuoco», precisando:

«Più Vostra Signoria distruggerà nello Scioà e più acquisterà benemerenze».

Da una statistica dell’attività dell’Arma dei carabinieri, firmata dal colonnello Hazon e datata 2 giugno, si ricava che i soli carabinieri hanno passato per le armi 2.509 indigeni.

Sempre Ciro Poggiali racconta l’episodio di un capitano italiano che, dopo aver fatto razzia di bestiame a danno di una famiglia indigena, di fronte alle proteste del capofamiglia «uccide tutta la famiglia compresi i bambini». E ancora, sui metodi dei carabinieri:

«Sul piazzale del tribunale assisto al trasporto, dopo la condanna per furto, di un giovinetto moribondo per denutrizione. Un altro non si regge in piedi per le botte. I carabinieri che hanno in custodia i prevenuti da presentare alla così detta giustizia, hanno importato dall’Italia, moltiplicandoli per mille, i sistemi polizieschi più nefandi».

Anche ai reparti militari che operano sul territorio etiope viene dato ordine di passare per le armi gli Amhara trovati, quali presunti responsabili dell’attentato.

Così il capitano degli alpini Sartori è incaricato di eliminare 200 Amhara catturati nei dintorni di Soddu. L’ufficiale li ammassa in una grande fossa scoperta tra i dirupi e ordina ai suoi ascari di sparare. Il ricordo della carneficina turberà il resto della vita del capitano che morirà smemorato, qualche anno dopo, in una prigione del Kenya.

Da maggio in poi avviene la distruzione della chiesa copta sulla base anche di un rapporto dell’avvocato militare Oliveri. La tesi è quella di un complotto cui non è estraneo l’aiuto degli inglesi e della comunità ecclesiale copta.

Il battaglione eritreo, composto in gran parte da copti, viene sostituito con uno somalo mussulmano, più adatto alla repressione dei cristiani.

Le truppe (un battaglione di ascari mussulmani e la banda galla “Mohamed Sultan”), dunque, comandate dal generale Pietro Maletti, partono per la cieca rappresaglia. Lungo i 150 km che da Addis Abeba portano alla città-convento di Debrà Libanòs vengono incendiati 115.422 tucul, tre chiese e un convento, mentre ben 2.523 sono i “ribelli” giustiziati.

Dopo la distruzione del convento di Gulteniè Ghedem Micael, il 13 maggio, e la fucilazione dei monaci, il 18 maggio Debrà Libanòs viene accerchiata per punire i religiosi accusati di aver dato rifugio ai due attentatori di Graziani.

Il 19 arriva un telegramma di Graziani che conferma la complicità dei monaci nell’attentato e ordina di passare «per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vicepriore».

Il 20 mattina tutti i religiosi catturati vengono caricati sui camion. All’una le esecuzioni sono terminate per riprendere poi, il 26 maggio, quando 129 giovani diaconi, risparmiati sei giorni prima, vengono anch’essi trucidati.

Fino al 27 maggio vengono passati per le armi 449 tra monaci e diaconi. Secondo ricerche portate avanti da studiosi dell’Università di Nairobi e di Addis Abeba e comunicate ad Angelo Del Boca il numero delle vittime del massacro si aggirerebbe, invece, addirittura tra 1.423 e 2.033 uomini.

Le vittime, trasportate sul luogo dell’eccidio da una quarantina di camion, vengono incappucciate e fatte accucciare sul bordo di un crepaccio, uno a fianco all’altro. Le mitragliatrici sparano in continuazione per cinque ore. Interrotte solo per buttare i cadaveri nel crepaccio.

Coperto dall’approvazione di Mussolini, Graziani rivendicò «la completa responsabilità» di quella che definì con orgoglio la «tremenda lezione data al clero intero dell’Etiopia», soddisfatto di «aver avuto la forza d’animo di applicare un provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall’abuna all’ultimo prete o monaco, che da quel momento capirono la necessità di desistere dal loro atteggiamento di ostilità a nostro riguardo, se non volevano essere radicalmente distrutti».

Nel dopoguerra, nonostante le richieste etiopiche, nessun italiano venne mai punito per questi e per altri massacri, favorendo la rimozione dalla memoria collettiva dei crimini compiuti dagli italiani durante le guerre fasciste.

FB_IMG_1613802191071

Nomi da ricordare e numeri da rabbrividire

(“Magazineitalia.net”)

Siamo in Italia, si rende sempre più doveroso far conoscere la verità sul fascismo, visto che esistono ancora persone, che pensano al fascismo come a un peccato veniale.Però è proprio qui, nel nostro paese che è nato, ed ha fatto da padrino al nazismo.

Essi sono complici in nefandezze e abominio. Hanno mistificato la realtà e continuano ancor oggi attraverso accoliti ignoranti a perpetrare la sopraffazione come principio fondante, la xenofobia come ideale, la ricerca mistica del capo da adorare e risolutore dei propri ed altrui problemi, spesso artatamente creati.

Rammento che il fascismo in Italia, è punito dalla costituzione e le leggi sono molto chiare a riguardo.

É un’ideologia criminale!

Nell’ordinamento italiano, l’apologia del fascismo è un reato previsto dalla legge 20 giugno 1952, n. 645 (contenente “Norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione”), anche detta Legge Scelba.

Per tutti quelli che abbiano ancora le idee confuse sul fascismo e il modo di essere rappresentato è necessario ricordare:

1.Eccidio della Benedicta,

2.Eccidio di Monte Sole (Marzabotto, Monzuno, Grizzana),

3.Eccidio di Padule di Fucecchio,

4.Eccidio di Pietransieri,

5.Eccidio di Sant’Anna di Stazzema,

6.Eccidio di Vallucciole,

7.Strage di Acerra,

8.Strage di Bellona,

9.Strage di Boves,

10.Strage di Cavriglia,

11.Strage di Civitella,

12.Strage di Colle del Turchino,

13.Strage delle Fosse Ardeatine,

14. Strage di Godego,

15. Strage di Lippa,

16. Strage di Monchio, Susano e Costrignano…..

e tante altre nefandezze perpetrate, dalla Libia all’Etiopia, alla Grecia, alla Yugoslavia fino alla disfatta dopo 5 anni di guerra che fecero pagare al popolo italiano un enorme prezzo di vite umane .

Sono tutte azioni terroristiche che hanno visto i fascisti in azione con i nazisti. Persone massacrate con inaudita ferocia, civili prima torturati e poi passati per le armi, nessuna pietà per donne e bambini. Chiusi nelle chiese e poi arsi vivi dalle fiamme.

Tolsero i feti con le baionette alle donne agonizzanti e li gettarono in aria per farne bersaglio per i loro fucili.

Diffondere l’antifascismo ritengo sia un dovere, civile e morale.

La pagina più buia della storia italiana è stata scritta da Mussolini. Considerare quindi criminali, tutti quelli che per inerzia, per assoluto disprezzo della storia, per ignoranza o peggio per interesse personale, ancora si rifanno a quella ignominia che è il fascismo non è assolutamente fuori luogo ma doveroso per comprendere ciò che è stato, e che questi revanscismi siano finalmente relegati nella giusta dimensione.

LSe ancora qui in Italia non sono stati puniti come criminali di guerra è perché esistette un’armadio della vergogna, rinvenuto con le porte rivolte al muro solo nel 1994 in un locale di palazzo Cesi-Gaddi (sede di vari organi giudiziari militari) in via degli Acquasparta nella città di Roma.

Vi erano contenuti 695 fascicoli d’inchiesta e un Registro generale riportante 2274 notizie di reato, relative a crimini di guerra commessi sul territorio italiano durante l’occupazione nazi-fascista.

Per chi se ne fosse dimenticato, dopo il gran consiglio del fascismo del 24 luglio del 1943 il governo Mussolini non aveva più alcun potere legale poiché esautorato dagli stessi fascisti e quindi con la successiva proclamazione della repubblica di Salò, fu traditore ed eversivo nei confronti del successivo governo legalmente riconosciuto. Quindi criminale ad ogni effetto.

È da molto tempo che circolano su internet bufale sul fascismo e su Mussolini, spesso strumentalizzate a fini politici o di riabilitazione del fascismo, che vengono condivise da molte persone ignare della loro attendibilità. Qui di seguito verranno riportati alcuni miti su Mussolini.

Per ben inquadrare il periodo storico, ricordiamo che governò l’Italia dal 28 ottobre 1922 alla fine del fascismo con la seconda guerra mondiale, finendo per essere giustiziato dagli italiani il 28 aprile 1945 (data che coincide con la fine di quello che restava del fascismo).

Invece, per inquadrare bene Mussolini ed il fascismo, ecco spiegato in breve i suoi doni all’Italia.

Squadrismo e violenza politica.

Fra le attività “qualificanti” del fascismo del primo periodo vi è il sistematico ricorso alla violenza contro gli avversari politici, le loro sedi e le loro organizzazioni, da parte di bravacci legati ai ras locali. Torture, olio di ricino, umiliazioni, manganellate. Non di rado, tuttavia, gli oppositori perdevano la vita a seguito delle violenze.

Un calcolo approssimativo induce a calcolare in circa 500 i morti causati dalle spedizioni punitive fasciste fra il 1919 e il 1922. Il parroco di Argenta, don Giovanni Minzoni, fu assassinato in un agguato da due uomini di Balbo, nell’agosto del 1923. Ma anche quando il fenomeno della violenza squadrista sembrò perdere le proprie caratteristiche originarie, e gli uomini legati ai ras locali vennero convogliati in organizzazioni ufficiali come la Milizia volontaria, forme di violenza politica sostanzialmente analoghe allo squadrismo non cessarono di costellare la vicenda del fascismo al potere.

Per tutti, tre casi notissimi:

– nel giugno 1924 Giacomo Matteotti venne rapito e assassinato con metodo squadrista, e il gesto sarebbe stato esplicitamente rivendicato da Mussolini nel gennaio dell’anno successivo;

– Piero Gobetti, minato dall’aggressione subita nel settembre 1924, morì due anni dopo, in esilio;

– Giovanni Amendola spirò per le ferite riportate in un’aggressione fascista subita nel luglio 1925.

 

Assunto il potere Mussolini si poté giovare dell’apparato di repressione dello Stato, che venne rafforzato e riorganizzato.

Con la nascita dell’OVRA (l’Organizzazione per la Vigilanza e la Repressione dell’Antifascismo) venne razionalizzata la persecuzione degli antifascisti, con tutti i mezzi, legali e illegali. Anche l’omicidio politico in paese straniero.

Arturo Bocchini, capo della polizia, venne incaricato dallo stesso Duce e dal ministro degli Esteri Galeazzo Ciano di eliminare fisicamente Carlo Rosselli che allora risiedeva a Parigi.

Il 9 giugno 1937, a Bagnoles-de-l’Orne dove Carlo Rosselli e il fratello Nello si erano recati per trascorrere il fine settimana, un commando di cagoulards (gli avanguardisti francesi) compì la missione: bloccata l’auto sulla quale viaggiavano i due fratelli, Carlo e Nello furono prima pestati, poi, accoltellati a morte.

Lo strumento ufficiale della repressione fascista fu invece il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. L’attentato di Anteo Zamboni a Mussolini, il 31 ottobre 1926, offrì l’occasione di una serie di misure repressive.

Tra queste la “legge per la difesa dello Stato”, n. 2008 del 25 novembre 1926, che stabilì, tra l’altro, la pena di morte per chi anche solo ipotizzava un attentato alla vita del re o del capo del governo. A giudicare i reati in essa previsti, la nuova normativa istituì il Tribunale speciale, via via prorogato fino al luglio 1943, quindi ricostituito nel gennaio 1944, nella Rsi.

Nel corso della sua attività, emise 5619 sentenze e 4596 condanne. Tra i condannati anche 122 donne e 697 minori. Le condanne a morte furono 42, delle quali 31 furono eseguite mentre furono 27.735 gli anni di carcere.

Tra i suoi ‘beneficati’, ci furono Antonio Gramsci, che morì in carcere nel 1938, il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini e Michele Schirru, fucilato nel 1931 solo per avere espresso “l’intenzione di uccidere il capo del governo”.

Il confino di polizia in zone disagiate della Penisola, fu una misura usata con straordinaria larghezza. Il regio decreto 6 novembre 1926 n.1848 stabilì che fosse applicabile a chiunque fosse ritenuto pericoloso per l’ordine statale o per l’ordine pubblico.

A un mese dall’entrata in vigore della legge le persone confinati erano già 600, a fine 1926, oltre 900, tutti in isolette del Mediterraneo o in sperduti villaggi dell’Italia meridionale. A finire al confino furono importanti nomi della futura classe dirigente: da Pavese a Gramsci, da Parri a Di Vittorio, a Spinelli. Gli inviati al confino furono, complessivamente, oltre 15.000. Ben 177 antifascisti morirono durante il soggiorno coatto.

La politica antiebraica del regime fascista culminò nelle leggi razziali del 1938. Alla persecuzione dei diritti subentrò, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, anche la persecuzione delle vite. La prima retata attuata risale al 16 ottobre 1943 a Roma; degli oltre 1250 ebrei arrestati in quell’occasione, più di 1000 finirono ad Auschwitz, e di essi solo 17 erano ancora vivi al termine del conflitto.

Il Manifesto programmatico di Verona (14 novembre 1943) sancì che gli ebrei erano stranieri e appartenevano a “nazionalità nemica”. Di lì a poco un ordine di arresto ne stabilì il sequestro dei beni e l’internamento, in attesa della deportazione in Germania.

Nelle spire della “soluzione finale” hitleriana il regime fascista gettò, nel complesso, circa 10.000 ebrei. Oltre alla deportazione razziale, fra le responsabilità del regime di Mussolini c’è anche la deportazione degli oppositori politici e di centinaia di migliaia di soldati che, dopo l’8 settembre, preferirono rischiare la vita nei campi di concentramento in Germania piuttosto che aderire alla Rsi.

Nella guerra fuori dai confini i morti contano meno? Allora non si possono proprio considerare tali gli etiopi uccisi con il gas durante la guerra per l’Impero, o i libici torturati e impiccati durante le repressioni degli anni Venti e Trenta, o gli jugoslavi uccisi nei campi di concentramento italiani in Croazia.

Ma la spada di Mussolini provocò tanti morti anche tra i suoi connazionali. Mussolini trascinò in guerra l’Italia il 10 giugno del 1940, per partecipare al banchetto nazista. I risultati, per l’Italia, furono questi.

Fino al 1943, 194.000 militari e 3.208 civili caduti sui fronti di guerra, oltre a 3.066 militari e 25.000 civili morti sotto i bombardamenti alleati.

Dopo l’armistizio, 17.488 militari e 37.288 civili caduti in attività partigiana in Italia, 9.249 militari morti in attività partigiana all’estero, 1.478 militari e 23.446 civili morti fra deportati in Germania, 41.432 militari morti fra le truppe internate in Germania, 5.927 militari caduti al fianco degli Alleati, 38.939 civili morti sotto i bombardamenti, 13.000 militari e 2.500 civili morti nelle file della Rsi.

A questi vanno aggiunti circa 320.000 militari feriti sui vari fronti per l’intero periodo bellico 1940/1945 e circa 621.000 militari fatti prigionieri dalle forze anglo-americane sui vari fronti durante il periodo 1940/1943.

Ci sarebbe tanto altro da aggiungere, ampiamente documentato: corruzione dilagante, dossier, lettere, minacce, accuse vere e false oscenità, inganni, arresti, ed anche ricatti.

Un ventennio di ricatti! Gerarca contro Gerarca, amante contro amante, e l’accusa di omosessualità come arma politica, e Mussolini su tutto e su tutti fa spiare, controlla, punisce, muove le sue pedine.

La prossima volta che vi imbattete magari sui muri della vostra città in un immagine che inneggia o rievoca il triste ventennio o la saggezza del Duce e di come potrebbe essere la salvezza dell’Italia, fate una ricerca sulla storia del fascismo prima di assentire anche solo leggermente con il capo o esprimere un mezzo sorriso di beneplacito.

FASCISMO, MITO COSTRUITO SULLA PAURA

di Gabriele Via

I miei genitori sono nati in pieno fascismo: papà nel ’27 e mamma nel ’31 del secolo scorso. L’ Italia che ho conosciuto io è un’Italia che non è stata capace di fare una riflessione profonda e matura sulla propria storia.

Ancora, a livello popolare – dove non regni la tabula rasa della “Gazzetta dello sport” – siamo preda dello stereotipo Don Camillo e Peppone. Ma non potrà esserci un consapevole antifascismo se non avviene una comprensione il più meditata e studiata possibile sulla storia.

Abbiamo avuto una generazione di quello che Pasolini chiamava il fascismo naturale (per lui e la sua generazione) che va dalla marcia su Roma al 25 luglio del ’43. Dal settembre di quell’anno c’è poi stato il periodo della Repubblica Sociale e della Resistenza. E nel dopoguerra ancora abbiamo avuto il neofascismo.

Davanti a questi episodi storici ci sono stati almeno tre diversi tipi di antifascismo. Quando Silone scriveva “Vino e pane” l’antifascismo era elitario e clandestino. Davvero di pochi, in Italia. Ma tra la seconda metà del ’43 e la fine della guerra ecco un altro fascismo (nazifascismo) e un’ altra e più diffusa primavera di coscienza antifascista è poi la pagina Repubblicana.

Io credo che si possa e si debba ancora essere sempre antifascisti. Perché il fascismo è un mito costruito sulla paura, che trasforma in psicopatiche le sue prime vittime, subito pronte a trasformarsi in carnefici. Oggi il fascismo andrebbe trattato in sede clinica e ogni stato dovrebbe curarsi di fare la prevenzione necessaria sul piano educativo perché questo problema sanitario non abbia a interessare le generazioni future. Ma queste sono provocazioni idealistiche.

Quelli che 75 anni fa erano i temi al centro delle leggi razziali, di cui oggi la scienza ride e un bambino di dodici anni potrebbe smontare sul piano razionale, sono attualmente i sentimenti oscuri nelle viscere di milioni di italiani analfabeti (l’analfabetismo è un altro tema reale e concreto su cui dovere lavorare senza schemi ideologici) che vengono strumentalizzati da un potere mediatico consumistico che oggi rappresenta il vero occulto dittatore.

Oggi non ci sono più i comunisti che mangiano i bambini: non esiste cioè più la propaganda che nel comunista individua il male assoluto. Già Berlusconi usava i comunisti come una specie di caricatura del male, non proprio il male. Oggi ci sono gli islamici, i diseredati d’Africa, i neri, i gialli, i nomadi, i diversi… Contro costoro si riversano i sentimenti di paura che con poca e dolce clinica potrebbero essere materia di cura personale di sé e miglioramento della nostra vita condominiale e familiare. Alcune mie poesie sono rabbiosamente rivolte al mondo del mass media. Sono infatti sgomento dalla totale dabbenaggine con cui persone anche di studio e riflessione si lascino stuprare l’intelletto da pubblicità e tv di intrattenimento che sono neofascismo puro all’opera.

Polish_20220219_084717446

Carlo Molari e il suo Credo

Polish_20230219_092707945

Non credo nel Dio…

di Carlo Molari

 

NON CREDO nel Dio della “pura ragione”: non merita fiducia e non è sufficiente. Si può credere in Dio attraverso la riflessione filosofica, ma non giungere alla fede in Dio, cioè a considerare Dio come riferimento delle proprie decisioni, per giungere a conoscere e ad amare in un modo nuovo. Se non scopri che c’è un Dio che ti ama e che ti consente di giungere a una forma nuova di vita, a che ti serve?

NON CREDO nel Dio che opera nella creazione e nella storia intervenendo, modificando le situazioni, completando le creature, rimettendo in funzione i meccanismi della creazione e della storia quando si inceppano. L’azione di Dio è un’azione creatrice che offre possibilità, che alimenta il processo, ma che non si sostituisce mai alle creature, proprio perché fa esistere ed operare le creature. Dio è provvidente non nel senso che risolve tutti i problemi, ma nel senso che, ovunque l’uomo si venga a trovare, il suo amore è tale che può condurlo al suo compimento. Dio non può risolvere alcun problema storico se non ci sono creature che, aprendosi alla sua azione, indicano e realizzano la soluzione. Il “dio tappabuchi” non può essere il Dio della fede.

NON CREDO nel Dio che punisce i peccati, che manda le pestilenze per far ravvedere gli uomini. Per moltissimo tempo si è pensato così.

NON CREDO nel Dio che cambia atteggiamento per la preghiera degli uomini. Come se noi pregando sollecitassimo Dio a fare qualcosa di nuovo. È una pretesa insensata, un modello antropomorfico. La preghiera ha un grande valore perché mette in moto in noi dinamiche di novità e di cambiamento, non perché modifica l’atteggiamento di Dio ma perché noi accogliamo la sua azione in modo molto più profondo e ricco.

NON CREDO in un Dio che può fare le cose perfette dall’inizio perché la creatura è tempo e può accogliere il dono solo a frammenti, nella successione. Dio è eterno, è pienezza di vita, è perfezione compiuta, ma la creatura è tempo e non può accogliere l’offerta divina tutta in un solo istante. Non ci può essere una creatura perfetta all’inizio. Nella prospettiva evolutiva si capisce bene che Dio alimenta il processo continuamente, cioè la creazione continua tuttora. Il compimento è il traguardo del cammino, la perfezione piena è solo alla fine.

NON CREDO nel Dio che vuole la riparazione del male attraverso la croce di Cristo o per mezzo di coloro che si uniscono alla sua sofferenza. Dio non vuole che gli uomini siano nel dolore, e quando qualcuno soffre Dio è dalla sua parte per sostenerlo nel suo cammino, perché possa giungere ad amare anche in quella condizione. I santi che hanno attraversato grandi sofferenze si sono santificati per l’amore a cui sono pervenuti. Lo stesso Gesù è giunto ad un amore supremo sulla croce e per questo è risorto. Amando, Gesù ci ha salvato: è redentore non perché ha sofferto, ma perché la sofferenza è stata l’ambito in cui l’amore è fiorito in forme sublimi.

NON CREDO al Dio che parla all’uomo con parole umane. Dio parla nel silenzio perché non pronuncia parole umane, bensì divine, per noi silenziose. La sua Parola però alimenta la nostra vita come forza creatrice. Il contatto con Lui ci rigenera. Ma questo contatto non diventa parola, non diventa idea, non diventa immagine, bensì diventa esperienza vitale, evento di storia. Quando diciamo che la Scrittura è “parola di Dio” dobbiamo intendere la formula in senso analogico cioè di relazione. La Parola è quella forza di vita che ha suscitato gli eventi di salvezza, narrati dagli uomini secondo i modelli con cui li hanno vissuti e interpretati, e trascritta secondo i modelli culturali del tempo. Il processo che ci consente di cogliere il senso della Parola è rivivere le esperienze di fede che hanno caratterizzato l’evento narrato, coglierne la trama divina, e percepire nel silenzio la presenza che le ha rese possibili.

NON CREDO nel Dio del “Progetto intelligente” come lo presentano i gruppi statunitensi che si battono per introdurre nelle scuole l’insegnamento alternativo all’evoluzionismo neo-darwinista. Il Dio della fede non è semplicemente il Dio delle origini ma del processo nella sua interezza. Le cause dei processi cosmici sono imperfette e il male accompagna sempre lo sviluppo della vita sulla terra. Il caos e la complessità caratterizzano molti eventi, perché Dio non interviene con azioni puntuali nelle situazioni della storia. L’azione divina in ogni circostanza offre molte possibilità per cui la casualità ha una parte importante nel divenire cosmico e negli eventi della storia. Il progetto salvifico si può realizzare anche attraverso fallimenti, vicoli ciechi, eventi casuali e imprevedibili che costellano il cammino evolutivo.

Polish_20230219_140907899

Questa sopra, a cui ho affiancato un ancora energico Carlo Molari appassionato delle lunghe camminate fin quando le forze gliel’hanno consentito, è la copertina del volume curato da Paolo Scquizzato, prete  conosciuto e frequentato sulla Rete da chi non si accontenta di una lettura del Messaggio come solitamente viene passato dal ‘convento’ delle prediche domenicali. Una iniziativa pensata nel pieno della pandemia da covid che ha stravolto la vita di tutti e durante la quale si chiedeva in vario modo l’intervento divino, rimanendo poi delusi per l’ indifferenza di Chi è rimasto a farsi i suoi divini affari. Queste suppliche, con naturalmente previa conversione, avveniva sia attraverso certe radio “mariane”, sia in non poche parrocchie dove il prete saliva sul campanile per invocare l’ aiuto divino sul popolo disperato e sia anche facendo sorvolare con elicottero (militare) la statua del santo perché si decidesse a fare il tanto atteso miracolo di scacciare la peste iniziata all’ inizio del 2020 o chissà quando.

Tra le 17 persone invitate a scrivere sul significato della preghiera, e di conseguenza sul senso che si ha della presenza di Dio nel mondo, figura anche Molari. Quello che segue è un suo approfondimento sul tema, pubblicato nel febbraio 2021 sul periodico “Rocca”. Per completare e per avere ulteriori elementi per conoscere meglio il pensiero di Carlo Molari, un’intervista a lui fatta da Paolo Rodari, giornalista di professione e molto attento ai temi riguardanti la Fede. (Piero)

Pregare? In che senso?

di Carlo Molari

In questi tempi si discute da più parti sul senso della preghiera per vivere la stagione difficile che stiamo attraversando. Ogni uomo che voglia vivere intensamente deve avere momenti di raccoglimento, di interiorità, di concentrazione, di sguardo profondo.

Questi Momenti sono quelli che in ambiti religiosi viene chiamata preghiera. La ragione delle molte ambiguità che la caratterizzano penso stia nella nozione di preghiera che molti si trascinano nell’età adulta.La preghiera di domanda come viene abitualmente formulata suppone tre convinzioni da parte del credente.

La prima è che la preghiera di domanda serva per far conoscere a Dio i nostri bisogni.

La Seconda è che Dio non sia già in azione come creatore e debba essere sollecitato a farlo.

La terza è che Dio nel cosmo possa operare indipendentemente dal diventare delle creature.

Queste tre convinzioni non sono esatte.

La preghiera è il modo concreto per mantenere i canali aperti con la Vita, con il Bene, con la Verità, per non rifiutare nulla del dono che ogni giorno Dio continua ad offrirci. Qualsiasi interpretazione si dia della vita e della sua fonte, ogni persona deve quotidianamente aprirsi ai suoi doni e sviluppare un rapporto profondo con le sue sorgenti. Chiunque si illuda di essere autosufficiente e non si eserciti all’accoglienza dei doni vitali che gli vengono continuamente offerti, prima o poi si isterilisce. Così chi non si esercita a rinnovare continuamente la propria offerta perde progressivamente l’atteggiamento di accoglienza.

La preghiera è l’esercizio quotidiano per non rifiutare nulla di ciò che la vita è disposta ad offrirci. Nello stesso tempo è l’allenamento a donare la propria presenza a tutti coloro che ne hanno bisogno. Ogni giorno possiamo fare una esperienza, anche se breve, di interiorità profonda per attingere energie nuove per la nostra vita.

Dio “non fa” le cose della creazione né modifica le situazioni storiche, ma offre alle creature di
operare. Non fa le cose al posto nostro ma ci offre di farle. Pregando siamo noi che cambiamo e diventiamo capaci di accogliere l’energia che ci avvolge e che ci attraversa. Diventiamo così capaci di aiutare le persone, di camminare insieme a loro e anche di guarirle. È un cambiamento profondo dell’interiorità della persona. Pregare è sviluppare la dimensione interiore.

A volte nelle preghiere e nel linguaggio comune utilizziamo formule che esprimono in modo non
corretto l’azione di Dio in noi. Quando chiediamo qualcosa a Dio dobbiamo sempre intendere “di farci diventare capaci di realizzare noi ciò che chiediamo”. La nostra richiesta deve essere sempre accompagnata da una disposizione di animo di apertura, per diventare noi capaci di realizzare ciò che invochiamo.

La preghiera, quindi, è ordinata a cambiare la persona che prega, perché essa stessa sia in grado di capire ciò che la vita esige e di realizzarlo. Pregare è mettersi in sintonia con l’energia creatrice che alimenta lo sviluppo della creatura e la rende capace di accogliere, esprimere e comunicare forza vitale in modo più profondo. La preghiera per l’esercizio della fede che mette in atto, amplia la capacità di accoglienza della forza vitale della persona, che diventa così capace di agire in modo nuovo.

La preghiera, in conclusione, non cambia Dio, ma l’uomo. Per questo bastano poche parole, ma molta concentrazione. Diceva Gesù “non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate”. (Mt. 6,8).

La continuità della preghiera è necessaria sia per la durezza del cuore da cambiare sia per la ricchezza dei doni vitali da interiorizzare. Più infatti la persona cresce interiormente, più la vita si espande e aumenta l’esigenza di aprirsi al flusso dello Spirito per accogliere e far fiorire i suoi doni. Per questo Gesù insegnava a pregare sempre (Lc 18,1) non tanto dicendo formule quanto incontrando Dio.

Nel cosmo e nella storia Dio non fa nulla in più di ciò che operano le creature. La forza creatrice non agisce aggiungendo qualche nuova realtà di quelle realizzate dalle diverse persone, ma le alimenta in modo che esse diventino capaci di operare ciò che esse credono sia necessario. La persona umana sviluppa pienamente la propria dimensione
interiore quando vive secondo questa consapevolezza. La preghiera è il modo per realizzare la piena sintonia con l’attiva presenza di Dio in modo da far fiorire compiutamente tutte le sue diverse dimensioni, anche a volte in modo straordinario.

Anche il miracolo, in questo senso, deve essere interpretato come l’accoglienza dell’energia divina da parte della creatura. Il miracolo accade quando una persona o un’intera comunità, pregando, si apre allo Spirito e accoglie la sua azione in modo più ricco e profondo. In ogni caso è sempre la creatura ad operare il miracolo.

Anche Gesù, quando guariva, a volte diceva come alla emorroissa: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace!”. (Mc 5, 34). Siccome opera nel cosmo e nella storia sempre e solo attraverso creature, Dio assume i loro limiti, sia spaziali che temporali. Egli esprime attraverso di loro solo ciò che esse sono in grado di portare. Il dono di Dio perciò si sviluppa nel tempo e non può essere accolto totalmente in un istante. Dio perciò è onnipotente in sé e nel compimento finale, quando tutto sarà in tutti (1Cor: 15,38), ma nella storia umana e nel cosmo può esprimere la sua perfezione solo a piccoli frammenti nel corso degli eventi storici.

Per tutti questi motivi la preghiera richiede almeno tre condizioni da parte della persona per essere significativa ed evitare i rischi della presunzione: la fede in Dio, la consapevolezza di essere creatura e la disponibilità a interiorizzare l’azione divina in modo da rivelarla nella propria vita.

Credere in Dio creatore significa ritenere che il Bene urge per diventare in noi amore, che la Verità cerca di esprimersi in idee umane, che la Giustizia sollecita progetti di condivisione, che la Bellezza vuole assumere inedite forme create e aprire il cuore con fiducia per accogliere la vita. Pregare è appunto registrare le proprie capacità percettive perché la forza creatrice giunta a livello umano possa dispiegarsi in tutta la sua portata.

La vita non diventa mai possesso definitivo della creatura, ma viene sempre offerta e richiede per questo accoglienza continua. Tutto è dono e resta sempre tale. L’uomo non diventa mai il Vivente. La condizione per realizzare una interiorizzazione piena è la consapevolezza che la creatura è un nulla attraversato continuamente da una forza creatrice , un vuoto che risuona sempre di una Parola originaria.

Quando la persona opera con tale convinzione, si lascia investire dalla forza creatrice e consente alla Parola di attraversarla, rendendola viva. Anche le sue contraddizioni pian piano si dileguano. La preghiera esercita allora la sua completa funzione. Per questo nel Vangelo il comandamento dell’amore di Dio, che è aprirsi alla sua presenza, è collegato all’amore per gli altri, che è rivelare la sua gloria. Non sono due comandamenti diversi, ma due aspetti della stessa legge di vita, momenti dello stesso processo vitale. Accogliere il dono di Dio per questo è possibile solo quando si è disposti ad soffrirlo.

Chi accoglie l’amore di Dio non può trattenerlo per sé e non rivelarlo. Ogni egoismo in questa luce appare come un male sociale: esso impedisce la rivelazione di Dio, provoca il deterioramento del clima vitale, distrugge le energie necessarie alla crescita di tutti. Gli emarginati, gli oppressi, i poveri sono l’espressione dei peccati di una comunità. Finché i poveri non vengono sollevati dalla loro condizione di emarginazione di oppressione, la comunità che li ha provocati non potrà accogliere salvezza piena. La preghiera, in questa prospettiva, allena il credente a diventare espressione fedele dell’amore di Dio, rivelazione efficace del suo amore.

L’invocazione che non diventa frazione del pane e offerta di misericordia, non è preghiera cristiana perché non è epifania di Dio. Il paradigma principale della preghiera cristiana è il memoriale della fedeltà con cui Gesù ha accolto la Parola nel silenzio della sua preghiera e l’ha fatta fiorire in gesti di misericordia: “avendo amato i suoi che erano nel mondo li amò fino alla fine” (Gv 13, 1)

Carlo Molari teologo intervista libro

Intervista

  di Paolo Rodari

 

Carlo Molari,quindi su Darwin aveva ragione lei?

«Negare l’evoluzione vuole dire non rendersi conti del cammino reale che i viventi stanno facendo sulla terra».

Dio è la fonte dell’evoluzione?

«L’evoluzione è possibile proprio perché Dio ne è la fonte, il principio. Ma se Dio è al principio significa che la sua perfezione non è ancora interamente espressa. Solo l’evoluzione può spiegare la complessità della realtà e il mistero di Dio».

La storia è allora necessaria per l’uomo ma anche per la teologia cioè per la riflessione dell’uomo su Dio?

«L’evoluzione richiede la storia. Gli antichi pensavano che in origine vi fosse un Adamo perfetto, ma non può essere. L’uomo deve diventare e diventa nella storia e così la percezione che noi abbiamo di Dio».

Carlo Molari, quindi il peccato originale è fantasia?

«Non esattamente. La dottrina tradizionale contiene una verità di fondo e cioè l’incidenza negativa di una generazione su quella successiva. La vita viene comunicata spesso con limiti e carenze. L’insufficienza della dottrina tradizionale consisteva nell’immaginare un inizio già perfetto e compiuto che sarebbe stato perduto, mentre era un traguardo da raggiungere. Tutto nella storia è in evoluzione. E, mi spiace, ma anche il pensiero della Chiesa è così. Nella Chiesa ancora oggi c’è chi pensa che l’ortodossia vada salvaguardata e che ogni sua evoluzione sia male. Ma il male è proprio avere questa visione delle cose».

Torniamo al 1978. Lei, Carlo Molari, venne giudicato eretico?

«Non proprio eretico, piuttosto non in sintonia con l’insegnamento tradizionale e sicuro».

Come reagì?

«Provai a difendermi. Chiesi a chi mi accusava di tentare nuove strade e di favorire cammini avventurosi nei paesi di missione: allora per evitare questo rischio dobbiamo sempre restare indietro di vent’anni? Mi risposero chiedendomi di lasciare l’insegnamento. Avevo riscattato gli anni delle due lauree e così, pur cinquantenne, decisi di farmi da parte e chiesi, come avevo diritto, la pensione».

Cosa non accettavano del suo pensiero?

«Insistevo sul fatto che i cambiamenti culturali richiedono un continuo adeguamento anche delle forme dottrinali. E che, sulla scia di Teilhard de Chardin, anche il pensiero che abbiamo di Dio non può che evolversi».

Chi è Dio per Carlo Molari?

«Di lui non sappiamo nulla di assoluto. Possiamo soltanto abbozzare qualcosa, ma sempre adeguando ciò che diciamo alla esperienza che compiamo, al fatto che evolviamo».

Non possiamo dire nulla di definitivo di Dio?

«Se sapessimo qualcosa di definitivo di Dio saremmo alla sua altezza, ma non lo siamo».

Per il cristianesimo però Dio si è incarnato in Gesù.

«Gesù è il nome della realtà umana che “cresceva in sapienza età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2,52). Gesù è uomo come tutti noi. Il Verbo è il nome che noi diamo alla dimensione divina che si è manifestata come Parola. Spirito è il nome che noi diamo alla dimensione divina che irrompe dal futuro e ci fa diventare figli nel Figlio. Le formule trinitarie traducono i nostri rapporti con Dio nel tempo».

Ma Gesù non ha svelato Dio?

«Lo ha svelato in modo umano, in modo progressivo e sempre inadeguato. Egli ci ha parlato di Dio secondo il livello umano attraverso cui poteva esprimersi, secondo la cultura del suo tempo».

A cosa serve allora Gesù?

«Egli ha tracciato una strada, noi la continuiamo. Diveniamo figli di Dio nel Figlio che egli è, ma Dio in quanto tale rimane inconoscibile».

Chi credeva di essere Gesù?

«Pensava di essere un inviato di Dio, l’unto, il Cristo. Il salvatore. E questo è stato».

Teilhard De Chardin esaltava l’aspetto cosmico di Cristo, Gesù salvatore di tutti gli esseri viventi esistenti nel cosmo. Condivide?

«Questo aspetto è discutibile. Credo che Cristo sia salvezza dell’umanità, ma oggi non possiamo dire che l’umanità sia il centro del cosmo e quindi che Cristo abbia una funzione cosmica perché l’umanità è un piccolo frammento dell’universo. Non è escluso che vi siano altre forme di vita intelligenti e non credo che per loro Cristo sia la salvezza. Non siamo autorizzati ad affermarlo».

Delle altre religioni cosa pensa?

«Con ognuna dobbiamo dialogare per accogliere il loro dono e dare loro il nostro dono».

Come si immagina l’aldilà?

«Dell’aldilà non possiamo dire niente. Non abbiamo elementi. I primi discepoli si aspettavano la fine del mondo da un momento all’altro, ma questa non è arrivata. Non possiamo sapere».

Ci potrebbe essere il nulla?

«Al tempo di Gesù molti ebrei pensavano così e credevano che soltanto alla fine dei tempi ci sarebbe stata la risurrezione. Il modello greco, invece, sosteneva la presenza dell’anima immortale. Questo modello, che appare nel libro della Sapienza, è prevalso anche nel cristianesimo».

Teme la morte?

«Non direi, temo di più la sofferenza della malattia che potrebbe portare alla morte. L’ideale sarebbe morire in un istante. In ogni caso cerco di essere preparato. Alla mia età spesso penso: e se morissi ora?».

Cosa avverrebbe?

«Non so rispondere. Ciò che accadrà nessuno lo può sapere con sicurezza».

Ma ci sarà qualcosa?

«Io ho fiducia. È anche possibile che per alcuni vi sia una continuità mentre per altri no. In questo senso saremmo responsabili del nostro futuro. Saremo quindi ciò che abbiamo creduto di poter diventare».

Ho letto che per lei è nel silenzio che si può scoprire ciò che si vuole essere.

«Il silenzio è creare un ambiente di ascolto delle realtà che non possiamo ancora vivere. È creare la possibilità di ascolto delle parole che non possiamo pronunciare ma che riguardano il nostro futuro».

Cosa significa allora avere fede in Dio?

«La modalità concreta di avere fede in Dio è avere fede in sé stessi, perché Dio è dentro di noi e ci fa essere. Se crediamo in noi come figli di Dio crediamo in lui come principio e fondamento del nostro divenire».

Perché però il male?

«Non può non esserci perché è la condizione per crescere, per evolvere. La creazione è possibile precisamente perché è divenire, il divenire implica l’imperfezione, passare dall’imperfezione al compimento. Se Dio crea non può evitare il male perché deve iniziare dal nulla, dall’imperfezione. Anche noi quando operiamo dobbiamo correre il rischio dell’imperfezione, la fatica di superare il male».

Nel silenzio possiamo desiderare cosa essere?

«Sì, ma dobbiamo essere disponibili ad accogliere che si realizzi ciò che non potevamo sospettare, che la forza creatrice di Dio ci porti dove non possiamo immaginare».

Buon compleanno, principe de Curtis

Polish_20240215_052131884

Antonio Vincenzo Stefano Clemente, figlio di Anna Clemente e Giuseppe de Curtis, adottato dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas di Tertiverie, assumendo, oltre il titolo di marchese, anche i nomi di

Antonio
Griffo
Focas
Flavio
Angelo
Ducas
Comneno
Porfirogenito
Gagliardi

de Curtis di Bisanzio

e per brevità e comodità,

        T    o    t     ó

 

Antonio nasce a Napoli il 15 febbraio 1898, in via Santa Maria Antesaecula,rione Sanità. Solo a partire dal 1946 il tribunale di Napoli gli riconosce il diritto a fregiarsi dei nomi e dei titoli di:

1.altezza imperiale
2.conte palatino
3.cavaliere del sacro Romano Impero
4.esarca di Ravenna
5.duca di Macedonia e di Illiria
6.principe di Costantinopoli 7.principe di Cicilia
8.principe di Tessaglia
9.principe di Ponte di Moldavia
10. principe di Dardania
11.principe del Peloponneso
12.conte di Cipro e di Epiro, 13.conte e duca di Drivasto e Durazzo

e principalmente, ma questo glielo aggiungo io,

ACUTISSIMO E INTELLIGENTE SBERLEFFONE DEGLI IMBECILLI

Muore a Roma il 15 aprile 1967, ma

la sua presenza è sempre viva in tutte le persone che gli sono grati e continuano a volergli bene, che sono tanti. Piero è tra questi tantissimi assai.

 

A LIVELLA

Ogn’anno,il due novembre,

c’é l’usanza per i defunti andare al Cimitero.

Ognuno ll’adda fà chesta crianza;
ognuno adda tené chistu penziero.

Ogn’anno,puntualmente,in questo giorno,
di questa triste e mesta ricorrenza,
anch’io ci vado,e con dei fiori adorno
il loculo marmoreo ‘e zi’ Vicenza.

St’anno m’é capitato ‘navventura…
dopo di aver compiuto il triste omaggio.
Madonna! si ce penzo,e che paura!,
ma po’ facette un’anema e curaggio.

‘O fatto è chisto,statemi a sentire:
s’avvicinava ll’ora d’à chiusura:
io,tomo tomo,stavo per uscire
buttando un occhio a qualche sepoltura.

“Qui dorme in pace il nobile marchese
signore di Rovigo e di Belluno
ardimentoso eroe di mille imprese
morto l’11 maggio del’31”

‘O stemma cu ‘a curona ‘ncoppa a tutto…
…sotto ‘na croce fatta ‘e lampadine;
tre mazze ‘e rose cu ‘na lista ‘e lutto:
cannele,cannelotte e sei lumine.

Proprio azzeccata ‘a tomba ‘e stu signore
nce stava ‘n ‘ata tomba piccerella,
abbandunata,senza manco un fiore;
pe’ segno,sulamente ‘na crucella.

E ncoppa ‘a croce appena se liggeva:
“Esposito Gennaro – netturbino”:
guardannola,che ppena me faceva
stu muorto senza manco nu lumino!

Questa è la vita! ‘ncapo a me penzavo…
chi ha avuto tanto e chi nun ave niente!
Stu povero maronna s’aspettava
ca pur all’atu munno era pezzente?

Mentre fantasticavo stu penziero,
s’era ggià fatta quase mezanotte,
e i’rimanette ‘nchiuso priggiuniero,
muorto ‘e paura…nnanze ‘e cannelotte.

Tutto a ‘nu tratto,che veco ‘a luntano?
Ddoje ombre avvicenarse ‘a parte mia…
Penzaje:stu fatto a me mme pare strano…
Stongo scetato…dormo,o è fantasia?

Ate che fantasia;era ‘o Marchese:
c’o’ tubbo,’a caramella e c’o’ pastrano;
chill’ato apriesso a isso un brutto arnese;
tutto fetente e cu ‘nascopa mmano.

E chillo certamente è don Gennaro…
‘omuorto puveriello…’o scupatore.
‘Int ‘a stu fatto i’ nun ce veco chiaro:
so’ muorte e se ritirano a chest’ora?

Putevano sta’ ‘a me quase ‘nu palmo,
quanno ‘o Marchese se fermaje ‘e botto,
s’avota e tomo tomo..calmo calmo,
dicette a don Gennaro:”Giovanotto!

Da Voi vorrei saper,vile carogna,
con quale ardire e come avete osato
di farvi seppellir,per mia vergogna,
accanto a me che sono blasonato!

La casta è casta e va,si,rispettata,
ma Voi perdeste il senso e la misura;
la Vostra salma andava,si,inumata;
ma seppellita nella spazzatura!

Ancora oltre sopportar non posso
la Vostra vicinanza puzzolente,
fa d’uopo,quindi,che cerchiate un fosso
tra i vostri pari,tra la vostra gente”

“Signor Marchese,nun è colpa mia,
i’nun v’avesse fatto chistu tuorto;
mia moglie è stata a ffa’ sta fesseria,
i’ che putevo fa’ si ero muorto?

Si fosse vivo ve farrei cuntento,
pigliasse ‘a casciulella cu ‘e qquatt’osse
e proprio mo,obbj’…’nd’a stu mumento
mme ne trasesse dinto a n’ata fossa”.

“E cosa aspetti,oh turpe malcreato,
che l’ira mia raggiunga l’eccedenza?
Se io non fossi stato un titolato
avrei già dato piglio alla violenza!”

“Famme vedé..-piglia sta violenza…
‘A verità,Marché,mme so’ scucciato
‘e te senti;e si perdo ‘a pacienza,
mme scordo ca so’ muorto e so mazzate!…

Ma chi te cride d’essere…nu ddio?
Ccà dinto,’o vvuo capi,ca simmo eguale?…
…Muorto si’tu e muorto so’ pur’io;
ognuno comme a ‘na’ato é tale e quale”.

“Lurido porco!…Come ti permetti
paragonarti a me ch’ebbi natali
illustri,nobilissimi e perfetti,
da fare invidia a Principi Reali?”.

“Tu qua’ Natale…Pasca e Ppifania!!!
T”o vvuo’ mettere ‘ncapo…’int’a cervella
che staje malato ancora e’ fantasia?…
‘A morte ‘o ssaje ched”e?…è una livella.

‘Nu rre,’nu maggistrato,’nu grand’ommo,
trasenno stu canciello ha fatt’o punto
c’ha perzo tutto,’a vita e pure ‘o nomme:
tu nu t’hè fatto ancora chistu cunto?

Perciò,stamme a ssenti…nun fa”o restivo,
suppuorteme vicino-che te ‘mporta?
Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive:
nuje simmo serie…appartenimmo à morte!”

 

A  S P E R A N Z A

 

Ogne semmana faccio na schedina:                           mm a levo ‘a vocca chella ciento lire,                            e corro quanno è ‘o sabbato a mmatina                       o totocalcio pe mm’ ‘a ji a ghiucà.

Cuccato quanno è a notte, dinto ‘o lietto,
faccio castielle ‘e n’aria a centenare;
piglio ‘a schedina ‘a dinto ‘a culunnetta,
‘a voto, ‘a giro, e mm’ ‘a torn’ ‘a stipà

Io campo bbuono tutta na semmana,
sultanto ‘o lluneri stongo abbacchiato,
ma ‘o sabbato cu ‘a ciento lire mmano
io torno n’ata vota a gghi a ghiucà .

Nun piglio niente, ‘o ssaccio…
e che mme ‘mporta?
io campo solamente
cu ‘a speranza.

Cu chi mm’aggia piglià
si chesta è ‘a sciorta,
chisto è ‘o destino mio…
che nce aggia fà ?

‘A quanno aggio truvato stu sistema
io songo milionario tutto ll’anno.
‘A ggente mme pò ddi: – Ma tu si scemo?
Ma allora tu nun ghiuoche pe piglià ? –

Si avesse già pigliato ‘e meliune
a st’ora ‘e mo starrie già disperato.
Invece io sto cu ‘a capa dinto ‘a luna,
tengo sempe ‘a speranza d’ ‘e ppiglià .

unnamed

 

 

‘ AVI

‘A VITA

 

‘A vita è bella, si, è stato un dono,

un dono che ti ha fatto la natura.

Ma quanno po’ sta vita è na sciagura,

vuie mm’ ‘o chiammate dono chisto ccà?

E nun parlo pe me ca, stuorto o muorto,

riesco a mm’abbuscà na mille lire.

Tengo ‘a salute, e, non faccio per dire,

songo uno ‘e chille ca se fire ‘e fà.

Ma quante n’aggio visto ‘e disgraziate:

cecate, ciunche, scieme, sordomute.

Gente ca nun ha visto e maie avuto

nu poco ‘e bbene ‘a chesta umanità.

Guerre, miseria, famma, malatie,

cristiane addeventate pelle e ossa,

e tanta gioventù c’ ‘o culo ‘a fossa.

Chisto nun è nu dono, è ‘nfamità.

‘A vita è bella, si, è stato un dono,

un dono che ti ha fatto la natura.

Ma quanno po’ sta vita è na sciagura,

vuie mm’ ‘o chiammate dono chisto ccà?

E nun parlo pe me ca, stuorto o muorto,

riesco a mm’abbuscà na mille lire.

Tengo ‘a salute, e, non faccio per dire,

songo uno ‘e chille ca se fire ‘e fà.

Ma quante n’aggio visto ‘e disgraziate:

cecate, ciunche, scieme, sordomute.

Gente ca nun ha visto e maie avuto

nu poco ‘e bbene ‘a chesta umanità.

Guerre, miseria, famma, malatie,

cristiane addeventate pelle e ossa,

e tanta gioventù c’ ‘o culo ‘a fossa.

Chisto nun è nu dono, è ‘nfamità.

 

 

 

 

Polish_20240215_053333829

Sul “padrepiismo” e su certa religiosità

A ciascuno la sua sensibilità

di Piero Murineddu

Anche ieri, durante una delle mie passeggiate sempre più  rare, mi è capitato di trovarmi davanti l’espressione non proprio giuliva del frate delle stigmate e delle miriadi richieste di “miracoli” andate, si dice, a buon fine. Letto il pensiero in proposito che Vigilante scriveva diverso  tempo fa che riporto sotto, mi son ricordato del riferimento che sul finale del lungo articolo vi era ad Arturo Paoli, e i pochi che frequentano questo mio spazio, sanno della stima e dell’affetto che mi hanno legato e tutt’ora continuano a legarmi al caro Arturo, “giovanissimo” vegliardo che ha speso la sua vita per confermare a se stesso e mostrare agli altri, che il Messaggio Evangelico non è pia (!) consolazione davanti alle brutture del mondo, ma è impegno concreto per cambiarlo.

Credo nel 2016 avevo già considerato l’ argomento che ripropongo oggi.

Per la mia sensibilità non sono stato mai attratto né da padre Pio, né dalle apparizioni mariane periodiche, una tantum o di lunga durata ch’ esse siano, qua e là nel pianeta Terra o anche altrove , né da veggenti vari di ogni nazionalità, molto supposti portavoce della Volontà Superiore….

Ripeto: questo è il mio sentire. Il mio caratteraccio, e non solo esso, mi porta anche a stare lontano dalle grandi folle che ascoltano estasiate qualche oratore illuminato. Preferisco la riflessione personale e il dialogo interpersonale o in un piccolo gruppo. Comunque, a differenza di come facevo negli anni giovanili e anche fino a qualche anno fa, non mi sento però di giudicare chi da questi aspetti della vita religiosa sono attratti e, da quel che dicono, traggono giovamento. Quando mi capita di parlare con qualcuno di loro, chiedo semplicemente

se questa loro sensibilità di fede ha incidenza nella vita concreta,

se si sentono motivati di più ad essere accoglienti verso gli altri,

ad avere il coraggio della denuncia,

a far prevalere sempre la giustizia,

a smascherare i sepolcri imbiancati,

a non scendere a compromessi con la loro coscienza,

a far partecipi altri delle loro possibilità economiche……..

L’idea di esporre a Roma il corpo alla venerazione pubblica non mi aveva entusiasmato granché, ma nello stesso tempo non ho provato delusione nei confronti di Papa Francesco (a proposito, perchè Vigilante parlava di un Francesco II?). Continuo a credere che questo Papa stia da sempre cercando di dare una Svolta, e questo nonostante i tanti che all’interno della stessa Chiesa lo hanno avversato sin dall’ inizio del suo pontificato, certi apertamente, la maggior parte, compresi non pochi porporati, facendo finta di applaudire se inquadrati dalle telecamere o meno.

Non dubito che i fatti su padre Pio riportati da Antonio Vigilante siano veritieri, ma sicuramente ne fa una lettura personale, come del tutto personale e soggettivo è il suo giudizio sul vastissimo popolo dei credenti, dove convivono diverse (e a volte diversissime) realtà e modi di porsi davanti alla propria e all’ altrui vita.

Lo ripeto, lo ribadisco e continuerò a farlo vita natural durante o gumenti capiita si dizi:

a ciascuno e a ciascuna la sua sensibilità, ma basta con una vita “spirituale” concentrata sulla mortificazione e sul battersi spesso ipocritamente il petto, a proposito della Quaresima che inizia oggi. Magari, si, sulla Rinuncia, ma ad ogni pensiero e soprattutto azione che vada contro il prossimo, ad iniziare da chi non se la passa per niente bene. Pax, Bonum o quel che volete per poter finalmente gioire della vita che sentiamo sempre più passeggera.

Polish_20240214_064235793

Il mondo che ruota intorno al padrepiismo

di Antonio Vigilante (*)

 

Una teca di vetro. Nella teca il cadavere di un monaco cappuccino, con il volto di cera. Sulla teca molti fiori. Davanti alla teca una donna scatta una foto con il cellulare: un selfie, per la precisione.
Il monaco è, naturalmente, padre Pio, anzi San Pio. Il contesto è quello del Giubileo Straordinario della Misericordia, proclamato da papa Francesco II con la bolla Misericordiae Vultus, “come tempo favorevole per la Chiesa, perché renda più forte ed efficace la testimonianza dei credenti”.

La religione comprende una molteplicità di cose, spesso contraddittorie, che è possibile ordinare in uno spettro che va dal bisogno al desiderio. Il bisogno è mancanza, il desiderio è slancio. Bisogno è mangiare, bere, vestire, avere un tetto. Bisogno è avere un lavoro, riconoscimento sociale, sicurezza. Il desiderio è altro. Per dirla con il Lévinas di Totalità e Infinito: “Al di fuori della fame che può essere soddisfatta, della sete che può essere estinta e dei sensi che possono essere appagati, la metafisica desidera l’Altro al di là delle soddisfazioni, senza che il corpo possa inventarsi un gesto per diminuire la aspirazione, senza che sia possibile abbozzare una qualche carezza conosciuta o inventarne una nuova”. Questo altro del desiderio può assumere forme diverse. Nella mistica, che considero il momento più alto e puro del fenomeno religioso (e che – ma il discorso sarebbe lungo – non implica alcuna fede in Dio), l’altro è l’altro dell’io: la religione è il movimento che spinge l’io oltre sé stesso, in uno slancio che è al tempo stesso terribile e gioioso. Ma l’altro può essere anche l’io dell’altro, e la religione essere amore puro, appassionato, esigente dell’altro, apertura intensa al tu, etica rigorosa. E da questa apertura, che rifiuta la riduzione dell’altro a cosa, nasce l’esigenza di un mondo altro, di una realtà liberata dalla sofferenza, dallo sfruttamento, dall’ingiustizia. Un’etica che si fa al tempo stesso politica ed escatologia.

Il cattolicesimo di Padre Pio è il cattolicesimo del bisogno. Il cattolicesimo dell’uomo e della donna che, di fronte alle difficoltà della vita, avvertono la necessità – facile, semplice – di una figura divina di riferimento, che offra una protezione pronta e sicura. Larga parte del mondo cattolico trae alimento da questo bisogno di rassicurazione. Esiste, nel cattolicesimo, una vera e propria industria della rassicurazione, fatta di polverine di Santa Rita, acque di Lourdes, coroncine benedette, eccetera. Si tratta di un fenomeno che naturalmente confina con la superstizione e con la magia, e che il padrepiismo (o sanpiismo) rappresenta alla perfezione. Il mondo nel quale nasce e si afferma la figura di Padre Pio è un mondo rurale estremamente arretrato, quel mondo contadino pugliese nel quale la figura del santone era ordinaria non meno di quella del parroco, ma al tempo stesso è una figura che sa inserirsi nel mondo e nelle sue logiche anche politiche ed economiche con straordinaria scaltrezza.

Chi era, davvero, padre Pio?

Scelgo solo tre episodi da Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento di Sergio Luzzatto (Einaudi).

Uno. 1911-1913. Dopo essere stato ordinato sacerdote, il giovane fra’ Pio passa quasi tutto il tempo nella sua casa di Pietrelcina, perché malanni non meglio precisati gli rendono impossibile la vita in convento. E da casa sua scrive lettere ai suoi direttori spirituali, fra’ Benedetto e padre Agostino, entrambi di San Marco in Lamis. Lettere nelle quali descrive con trasporto il suo travaglio spirituale, le sue estasi, il suo rapporto personale con Cristo. Ma le lettere sono copiate, per la precisione riprese parola per parola dell’epistolario di Gemma Galgani, una donna di Lucca che aveva ricevuto le stimmate nel 1899, e il cui libro era tra le letture del giovane frate.

Due. 15 agosto 1920. San Giovanni Rotondo. Un’automobile esce dal convento dei cappuccini per giungere nella piazza principale del paese. A bordo padre Pio, acclamato dalla folla. Giunto in piazza, il frate benedice la bandiera dei reduci, che nella zona hanno organizzato le prime squadre fasciste. Due mesi dopo, in quella stessa piazza, undici contadini socialisti saranno massacrati dai soldati. All’indomani dell’eccidio, il frate accoglierà con grande cordialità nel suo convento Giuseppe Caradonna, figura di primo piano del nascente fascismo in Capitanata.

Tre. 1921. Il Santo Uffizio manda a San Giovanni Rotondo monsignor Raffaele Carlo Rossi, per interrogare il frate. Tra le altre cose, monsignor Rossi gli chiede conto di una certa sostanza da lui ordinata in gran segreto in una farmacia locale, che poteva servire a procurare le stimmate. Il frate si difende sostenendo che intendeva usarla per fare uno scherzo ai confratelli, mischiandola al tabacco in modo da farli starnutire. Il profilo che emerge è quello di un fascista un po’ imbroglione, privo di qualsiasi spessore umano e culturale, che, a voler essere buoni e prendere per vera la sua deposizione, acquista sostanze pericolose per fare uno scherzo da prete ai suoi confratelli mentre si fa fotografare in pose mistiche con le stimmate in bella evidenza.

Qualche anno fa sulla facciata della chiesa di San Pietro al Cep, a Foggia, comparve una macchia di umidità. Le macchie di umidità, come le nuvole e le venature del marmo o del legno, hanno questa caratteristica: con un po’ di fantasia vi si può scorgere quello che si vuole. Soprattutto la figura tozza di un padre cappuccino. E dunque si gridò al miracolo, come succede. E come succede talmente spesso, anzi, che non varrebbe nemmeno la pena di citare la faccenda, se non fosse che in quel caso dopo qualche giorno partirono già i primi autobus di fedeli, primi segni di un promettente business o, se si preferisce, di una esaltante esperienza di fede. Per fortuna quelle macchie di umidità ebbero il buon senso di scomparire al cambiare del tempo.
La figura di padre Pio, anzi di San Pio, è una calamita che in modo irresistibile attira il peggio del cattolicesimo: la superstizione, il fanatismo, il miracolismo, l’esteriorità dei riti, la rinuncia al pensiero. E l’affarismo, la furbizia, l’abuso della credulità popolare. Se non vi fosse quest’ultimo aspetto – ma è mai separabile dal resto? – si potrebbe provare qualche indulgenza e vedere in una simile ridicola accozzaglia di assurdità e cattivo gusto una risposta al bisogno umanissimo di protezione.

Il padrepiismo è una delle malattie del cattolicesimo. Una malattia che, se la Chiesa avesse buon senso, cercherebbe di contrastare, e che invece alimenta, incoraggia, esalta, inseguendo un facile consenso e successo presso masse sempre più distratte, sempre meno religiose. Resasi conto della difficoltà di una evangelizzazione, la Chiesa sembra perseguire l’obiettivo più abbordabile della padrepiizzazione delle masse.

“Il cattolicesimo deve alla sua antichità e alla sua avversione per ogni violenta formazione di massa, la quiete e l’estensione che esercitano una fortissima attrazione su molti”, scriveva Elias Canetti in Massa e potere (1960). Queste parole, valide quando furono scritte, non sono più vere dopo il pontificato di Giovanni Paolo II, il papa dei raduni oceanici, che prima di allora si erano visti soltanto nei regimi totalitari. E non è un caso che sia stato lui a volere fortemente la santificazione di padre Pio. Il santo di Pietrelcina è la figura-chiave per il passaggio del cattolicesimo dal mondo pre-moderno della società contadina al mondo post-moderno della massa anonima. Espressione architettonica di questo passaggio è il nuovo santuario di San Giovanni Rotondo progettato da Renzo Piano: un non-luogo nel quale è impossibile qualsiasi esperienza che non sia, appunto, quella della immersione in una massa anonima.

Con il Vaticano II, la Chiesa aveva fatto un tentativo generoso di confronto con la modernità (ed è appena il caso di ricordare l’insofferenza di Giovanni XXIII verso padre Pio). Con Giovanni Paolo II, archiviato il Concilio, la Chiesa si è lanciata nella post-modernità. Tutta o quasi la cultura moderna viene rigettata come relativismo, si condanna la teologia della speranza, si instaura il culto della persona del papa e si esalta la santità di un frate che politicamente offre molte certezze: nessuno troverà mai, nei suoi scritti o nella sua biografia, il minimo appiglio per una interpretazione del cattolicesimo che minacci il buon ordine sociale.

Torniamo all’immagine da cui siamo partiti. Il selfie è l’espressione dell’attuale narcisismo di massa. In primo piano ci sono io, sullo sfondo tutto il resto: santo compreso. La società dei consumi, che è una società di massa, si regge al tempo stesso sul narcisismo più sfrenato. È una società che dice io, ed è un dire io sempre più disperato, perché l’io è puntellato dal possesso di cose, più che dalla sostanza viva delle relazioni sociali e spirituali. Un io solo, che più dice io più si smarrisce nella massa, più acquista più perde. In questo contesto economico e culturale, anche la fede – la fede cattolica – diventa narcisismo. “Dio ti ama, ti ama talmente tanto che è morto per te”: questo è il messaggio attraverso il quale le parrocchie vendono oggi il prodotto-Dio. Superate le inquietudini del passato, la fede è oggi una cosa semplice: in definitiva una questione di gratitudine. Dio ti ama ed è morto per te, e tu gli giri le spalle? Un gesto insensato, come spegnere la televisione o rifiutare l’offerta prendi tre e paghi due. Padre Pio, alter Christus, è il protagonista di questo cattolicesimo facile, consumistico, narcisistico. Di questo cattolicesimo disperato.

Qualche tempo fa è scomparso, in silenzio ed umiltà come è sempre vissuto, Arturo Paoli, per tutti fratel Arturo. Nei suoi più di cento anni di vita questo uomo straordinario ha fatto la resistenza, ha salvato la vita di molti ebrei durante il fascismo (per questo è stato dichiarato Giusto delle nazioni) e poi, ordinato sacerdote, ha passato tutta la vita accanto ai poveri ed ai lavoratori, non retoricamente, ma faticando e lottando con loro: al porto di Orano, nelle miniere della Sardegna, nei boschi dell’Argentina. Non aveva le stimmate, non faceva miracoli. Metteva semplicemente in pratica il Vangelo. E’ lui il rappresentante più autentico e profondo, nel cattolicesimo italiano dell’ultimo secolo, di quella che ho chiamato religione del desiderio. Il suo è un cattolicesimo purissimo, al tempo stesso semplice e raffinato, capace di dialogare con gli umili senza corromperli con il fanatismo e la superstizione, che non stringe la mano ai fascisti ma attacca il potere esigendo giustizia. Ha indicato un’altra via, la via del desiderio. Una via che è, oggi, un sentiero non segnato sulla mappa, lungo il quale è sempre più raro che qualcuno si avventuri.

(*) Antonio Vigilante, 53enne docente di Filosofia e Scienze Umane al Liceo “Santa Caterina” di Siena

In ricordo di Pietro

Polish_20240214_060704161

di Giovanna Stella

Otto anni di scuola trascorsi insieme, godendo della sua intelligenza e della sua bontà d’animo. Si, Pietro aveva un grande cuore. Durante gli anni d’ elementari dimostrava la sua generosità aiutando noi compagnetti a superare le difficoltà che incontravamo nelle diverse materie scolastiche. Irene Sanna,la maestra che insegnava la matematica e la geometria scrivendo nel pavimento, voleva bene a tutti noi, ma di lui, vedendolo così disponibile verso gli altri, era quasi innamorata.

Durante le medie la sua bellezza fisica non passava inosservata davanti alle ragazze, e la professoressa Pellegrini, quella che ogni giorno mangiava una merendina all’inizio delle lezioni e una a fine mattinata, lasciando noi studenti col languorino in bocca, per Pietro aveva un occhio di riguardo.

Spesso andavamo a casa sua per fare i compiti, e oltre essere ben accolti dalla mamma Maria Francesca, lui non mancava mai di prepararci il tè coi biscotti. Mi ricordo quella volta che abbiamo trascorso l’intera serata a ridere, tra un esercizio di matematica e l’imitazione dei nostri compagni di classe e delle bidelle. Spesso, durante la scuola di catechismo, anche la simpatia e l’affetto di Nicoletta Calvia ci dava spunti per ridere.

Per tanti anni ci siamo persi di vista, ma quando capitava di rivederci, la gioia era sempre reciproca. L’ultima volta è stata in occasione di una festa di compleanno di mio fratello Mario, dove abbiamo parlato di lui, di me, della vita, e anche della nonna tata Fara, di quando venivo portata da mia madre nel suo negozio di abbigliamento per acquistare i vestiti per la domenica.

La sua perdita aveva lasciato un grande vuoto in tutte le persone che gli volevano bene e apprezzavano le sue doti umane.

Zimbonia, l’ ipagliosumini sussincu ed altro ancora

MAGGIO-19990001-1-218x300

Presentazione

di Piero Murineddu 

Scrive Andrea Pilo nelle prime pagine del suo volume pubblicato nel 1999: ” Non è certo la Brunelleschiana Fiorentina o la Michelangelesca VatIcana ma è “La nostra cupola” attraverso la quale identifichiamo il nostro mondo, il nostro tempo di ieri e di oggi, le nostre storie felici o tristi. Tutto, nel bene e nel male, è stato vissuto e si vive dentro o fuori della “Zimbonia” ed è per questo che è, e resterà, oltre all’identificazione religiosa (….)”

Esagerato? Mah! Certo che da sempre per Andrea, appassionato d’arte e, per quanto so io, anche esperto in questo  campo, Giesgia Manna col suo cupolone ha avuto sempre particolare e alto significato, e il compianto studioso Nicola Tanda nella presentazione del volume, assicura che anche  tutti li sussinchi sentono l’importanza e “vicinanza” affettiva per questo luogo “simbolico”, come lui stesso afferma qui sotto. Il docente universitario, rischiando di urtare la suscettibilità di quelli tra i sorsinchi di “poco spirito”, ne dice di tutti i colori, mettendo anche in rilievo certo nostro “ipagliosumini” sia esso vero o presunto, simboleggiato appunto da la boccia manna di la zimbonia.

C’è da conoscere, imparare, riflettere, da ridere  e d’abbascià la crestha  leggendo il pensiero di uno dei fratelli Tanda, e se vogliamo, rilassarsi  “sgonfiando il petto”. Dei maschi soprattutto, in quanto quello delle donne…vanno bene così.

Al termine della sua presentazione, il Prof rileva che una delle 28 tele tra quelle realizzate dai pittori “continentali” dopo aver ricevuto una foto da Andrea, il romano Franco Fortunato“l’ha interpretata come una nuova Arca di Noè, consapevole che quei valori comunitari che essa rappresenta e che hanno caratterizzato nel passato il paese, non possono andare dispersi, poiché costituiscono la speranza di una continuità tra passato e futuro”

Sempre il “solito” e importante auspicio: non disperdere i valori comunitari, quelli che creano continuità nel tempo che passa. Cosa condivisibile da chi ha buon senso e da chi considera fondamentale avere una propria identità personale e collettiva. “Identità collettiva”: mi chiedo spesso se ai nostri giorni ciò sia ancora possibile, considerando l’estrema e spesso esasperata soggettivazione dilagante sotto tutti i punti di vista. Ma naturalmente questo è un mio chiodo fisso, che probabilmente mi porterò dietro fino all’ultimo dei miei giorni.

cupolone0001

La Zimbonia secondo Franco Fortunato

Scrive Andrea su questa tela: “L‘Arca, immensa, ancorata su una spiaggia con la parte centrale coperta da tre velari che cadono dall’alto di un traliccio, ma che non impediscono di vedere in tutta la sua grandezza la chiesa con la sua caratteristica zimbonia. La composizione bellissima, è giocata tutta sul colore brunobruciato, che rende maggiormente poetico questo incredibile “coro” che l’artista ha voluto innalzare in onore di Santu Pantareu e della sua zimbonia”.

Introduzione al volume

di Nicola Tanda

Il termine zimbònia deriva dal catalano cimbori, e dallo spagnolo cimborio. Il Dizionario Etimologico Sardo del Wagner reca: “in logudorese settentrionale tsinbòina (sassarese zinbònia)..; anche zimbònia. In logudorese si usa anche per “cotta”, ”sbornia” (ha leadu una zimbòina), secondo il Casu.

Le due eccezioni di zimbònia, o meglio con metatesi della “i”, zimbònia, quella del linguaggio architettonico, relativa alla cupola e quella figurata e metaforica, relativa alla sbornia, si addicono entrambe alla cupola di San Pantaleo che, come tutti sanno, è un monumento neoclassico, progettato e costruito dal padre Antonio Cano agli inizi dell’Ottocento.

La chiesa parrocchiale è concepita secondo lo stesso schema e modulo impiegato nella costruzione della cattedrale di Nuoro ed è sorta sulla pianta della precedente chiesa in stile romanico di San Pantaleo. Non erano tanti i paesi che avevano titolo per vantare una chiesa tanto imponente, la quale doveva rispondere anzitutto al ruolo e al prestigio, più che di paese, di cittadina che Sorso aveva avuto nel medioevo, come capoluogo della Curatoria della Romangia, e corrispondere così, di conseguenza, all’alto concetto che di sé gli abitanti hanno sempre avuto.

Direi che nel passato, forse oggi un po’ meno, il prestigio derivava loro dal ruolo economico che svolgevano nel settore primario, quello agricolo. Un’attività che ora svolgono in misura, rispetto ad allora, assai ridotta. Non più frutta, non più ortaggi, non vino, non olio, che possano, come una volta, competere, dal punto di vista commerciale, con la produzione di altri paesi sardi, soprattutto del Campidano, che oggi risultano al passo con la produzione agricola moderna.

Non investono molto, nonostante la scolarizzazione di massa, o forse manca un pubblico adeguatamente consapevole, nemmeno in materia grigia, che costituiva, in altri tempi, una risorsa primaria sia nella cultura che nella politica. Neanche svolgono un ruolo adeguato ed appropriato nel turismo, per il quale hanno le risorse naturali ma non quelle culturali. Necessita, per questo settore, una cultura e una vocazione che non si addice all’orgoglio, alla superbia e, diciamo pure, alla megalomania dei Sorsensi.

Megalomania proverbiale, da ispanta carrela, di cui conviene ricordare almeno un esempio, neanche molto remoto. Durante la seconda guerra mondiale, anzi proprio alla fine, quando gli Alleati angloamericani erano sbarcati in Sardegna, tra le truppe di occupazione, che avevano stanza intorno a Sorso, vi erano alcuni giocatori della squadra nazionale di calcio inglese, che erano stati mandati nelle retrovie, proprio per salvaguardare alla nazione un patrimonio così prezioso. I giovani sorsensi di allora avevano una straordinaria passione per il calcio e, nel campo sportivo, che era stato ridotto dai militari ad una specie di campo trincerato, si allenavano con loro. Non fu difficile familiarizzare e venne organizzata con i giocatori inglesi una partita, come si dice oggi, amichevole. Per dare più risalto all’avvenimento, del tutto insolito, venn fatto stampare e affiggere a Sassari, a Portotorres, ad Alghero e dovunque fu possibile, un manifesto dove spiccava a grandi caratteri la dicitura: “Incontro di calcio Sorso-Gran Bretagna”. Un fatto e un gesto che è rimasto memorabile, certo in qualche misura veritiero, ma non al punto da contrapporre il Sorso alla Gran Bretagna. Ma di questa sostanza un po’ enfatica, certo “transfottente”, e un bel po’ megalomane, erano fatti gli abitanti che hanno in San Pantaleo il loro santo patrono!

Ebbene, la zimbònia di Santu Pantareu era, in qualche modo, il segno e il simbolo di tutto questo. Anche delle sbornie, grandi anch’esse come una zimbònia, le sbornie degli amici affezionati al vino, di quello buono, che oggi molti, troppi disdegnano preferendogli, fin dall’adolescenza, i prodotti dei narcotrafficanti. Dunque addio alle solenni sbornie, ai soliloqui o ai dialoghi degli ubriachi sotto i lampioni, alle loro epiche ebbrezze, di quelli chi faziani vinu bonu e davano alle feste ed alle lunghe notti estive una nota di allegria e di baldoria, e di quelli chi faziani vinu maru e che provocavano risse, scazzottature da film western, e sassaiole di triddie che rompevano il silenzio notturno delle strade deserte, suscitando un muidu, un sibilo, ad ogni rimbalzo, finché l’eco si spegneva lontano in fondo alla strada o con fragore contro un muro.

La festa del santo patrono veniva festeggiata solennemente, e quindi con grandi abbuffate che si consumavano al mare e che ogni anno si concludevano almeno con un morto i lu fossu di la Foza, per una sincope più che per annegamento. La sera, nella piazza di San Pantaleo, il pubblico assisteva alle gare che i poeti estemporanei, i cantadores, improvvisavano dal palco cantando in logudorese, a turno, le loro ottave che celebravano le virtù o i vizi corrispondenti, amati con eguale passione, gli uni e gli altri, dagli astanti.

Amati quanto le corse dei cavalli che Sorso allora allevava, a gara, e che costituivano un vanto, specie nel Logudoro e nell’Anglona. Come del resto i fantini, che allenavano i cavalli lungo i litorali della marina, irrobustendone i garretti nelle corse al galoppo sulla sabbia delle amenissime spiagge. Tutto questo sempre all’ombra della zimbònia.

Perciò dire la zimbònia era come dire Sorso, una figura metaforica di questa oltranza, di una megalomania che sapeva tuttavia a tratti fare conti con la realtà. Di questa capacità di adattamento a situazioni concrete si può raccontare, a proposito, un aneddoto rimasto memorabile, quello del vignatiere durante una delle guerre di successione spagnola.

I Francesi erano sbarcati dal mare e c’era, in corso, un aspro confronto a Marritza tra loro e gli Spagnoli, un vignateri, in chistu indunca, duvia allistrhì li fondi, e li dì passabani. Era antzianu, no abia più anchi boni pa divintzassi currendi. Ha ciamaddu lu figlioru:”mè figliò, eu sogu antzianu e no possu currì. Tu sei giobanu, sei lestrhu e hai anchi boni. Giompi tu a la vigna e datti cuidaddu pa allistrhì li fondi. Ma, attintzioni! Affaccu a mari sò isbarchaddi li Frantzesi e v’è un cumbattimentu tra eddi e l’Ipagnori. Li Frantzesi hani la dibisa ruja, l’Ispagnori la dibisa bianca. Si vedi chi ill’utturinu sò atzendi chiddi visthuddi di ruju, li Frantzesi, debi tzichirrià forthi: “Viva la Francia”. Si inveci vedi chi atzani chiddi vistuddi di biancu, l’Ipagnori, devi tzichirrià: “Viva la Spagna”… Attentu a no ibbaglià.

Il succo dell’aneddoto è tutto in quel “Attentu a no ibbaglià”, in quell’avvertimento a badare al sottilissimo discrimine che separa, in ogni rischio, il successo dall’insuccesso, la sfida o la scommessa nella quale si cimenta l’intelligenza o la saggezza, oppure, se volete, l’astuzia o il cinismo dei sorsensi. Machiavelli userebbe la parola “virtù”, in relazione con quella di “fortuna”, per indicare la capacità di realizzare un proprio intento mediante il corto circuito di una analisi rapida di una situazione scabrosa (“la fortuna”) per venirne a capo evitando di uscirne schiacciati.

Si potrebbe anche parlare di capacità di mettere d’accordo il principio del desiderio con quello di realtà, ma è cosa che non sempre riescono a fare, poiché spesso si abbandonano anche all’estro e alla fantasia. Si potrebbe invece teorizzare una loro impermeabilità alle lotte di potere, che passano sulla testa delle persone, e dalle quali preferiscono tirarsi fuori, sia per spirito d’indipendenza, sia per pragmatismo, portati come sono a privilegiare la onesta ed eroica lotta quotidiana per la sopravvivenza. O forse la privilegiavano allora, quando, radunati intorno alla cupola, alla zimbònia, avevano un senso fortissimo della comunità. Ed erano orgogliosi che, mentre nelle chiese romanico o gotico-catalane di altri paesi, svettavano quasi sempre un campanile isolato, in San Pantaleo, invece, affiancata al campanile, una cupola, voltata sopra un tamburo, come una enorme semisfera grigio-azzurra che si poteva riconoscere dalle lontananze dei luoghi circostanti.

Non mi sorprende perciò che Andrea Pilo si sia innamorato di questo simbolo e, da vero sorsense qual è, pieno di risorse e di ingegno, istrhavaganti che lu poipu, abbia voluto fare un monumento al suo paese, chiedendo a tanti pittori qualificati sardi e non sardi, che ha potuto incontrare, e giudicare di ingegno, una interpretazione della zimbònia.

Devo ammettere che questo simbolo così calato nell’immaginario popolare ha trovato, anche presso di loro, consensi e riscontri davvero interessanti. I pittori, si sa, come tutti gli artisti, per mestiere operano sull’immaginario e sui simboli e non hanno difficoltà a crearli o  reinterpretarli

Aveva cominciato un grande pittore sorsense, forse il massimo che abbiamo avuto, Pietro Antonio Manca, con una sua minuscola zimbònia che svapora azzurra nel cielo. Ma, Andrea ha voluto coinvolgere, a più riprese, mio fratello Ausonio, che dei sorsensi aveva assimilato virtù e difetti, in misura considerevole, e pochi hanno potuto eguagliare la sua capacità di mitizzare. È stato sempre desideroso di comunicare, di sedurre, di lasciare un segno di sé, della sua presenza, e ancora continua a parlarci, ad affascinarci coi suoi quadri, colle sue nature morte. le sue marine, le sue stazioni, i suoi pescatori. Continua insomma ad esercitare quella sua arte della seduzione, insomma, quella capacità di coinvolgere l’osservatore o il suo interlocutore, con l’energia persuasiva della fantasia. Quale si può percepire in queste sue interpretazioni della zimbònia che testimoniano una memoria appassionata di questo simbolo archetipico del suo paese di origine.

Con questa simbolica cupola si sono confrontati inoltre gli altri pittori, sardi e non sardi. Tutti ne hanno avvertito la magia e l’imponenza e sono riusciti a darne una rappresentazione, o mitica o favolosa, nel rilevarne lo slancio ascensionale, A quell’ansia, propria del monumento, di ricondurre verso l’alto lo sguardo dell’osservatore, di voler richiamare la comunità dei fedeli, quella interna alla chiesa, verso la simulata volta del cielo, e quella esterna verso quei nobili valori di cui la cupola era e resta il simbolo. Alcuni l’hanno vista sospesa al cielo con fili e tirata su da un coro di angeli, altri, come in una favola delle Mille e una notte, con una mezzaluna incombente che ne accentua il carattere orientale, quasi una moschea. Qualcuno l’ha circondata di nastri e di fiocchi che corrono, portati dal vento sulle strade dandogli l’aspetto festoso di un pacco natalizio. Qualcun altro è riuscito a conferirgli un alone quasi metafisico, o l’ha incendiata di rosso acceso, degno di Scipione, o l’ha evocata dalle nebbie dei ricordi. Ancora, qualcuno ne ha tracciato un disegno delicato e leggero smaterializzandone la possanza, oppure isolata e sospesa su un drappo di porpora ornandola con un ramo d’ulivo. C’è stato perfino chi, giustamente, l’ha interpretata come una nuova arca di Noè, consapevole che quei valori comunitari, che essa rappresenta e che hanno caratterizzato nel passato il paese, non possono andare dispersi, poiché costituiscono, come ci auguriamo davvero, la speranza di una continuità tra passato e futuro.

 

Di seguito la postfazione al volume di Gianfranco Sias

“La Zimbonia” e l’invito di Gianfranco Sias a recuperare un’identità che va perdendosi

Gioventù andata

Polish_20240211_062803842

di Piero Murineddu

L’anno è il 1984, 23 settembre. A specificare addirittura l’ ora, tra le 17, 17 e trenta, è la fervida memoria di Piero Canu, rimasto baldo giovanotto anche oggi dopo quasi quarant’ anni.

Foto di gruppo in quella che era la casa estiva delle suore vincenziane di Sorso, presso Pedras de Fogu, sulla strada per Castelsardo, rimasta in seguito abbandonata per decenni.

Era qualche giorno dopo un’esperienza comunitaria fatta a “La Madonnina”, tra San Leonardo e Cuglieri, insieme a Pietro Faedda, al tempo aiuto parroco di Giovanni Manca a Sorso. Ricordo che in quei giorni estivi trascorsi in montagna si alzava di buon mattino per sbattere uova su uova per la colazione della compagnia ancora a letto. Nelle due volte che si era fatta la vacanza in quel bellissimo posto, con noi era venuto anche zio Antonino Petretto, il factotum della parrocchia di allora. Una sera erano venuti anche i monaci del monastero benedettino di San Pietro di Sorres, che non si erano fatti scrupolo a seguire le indicazioni giocose che dava mia moglie Giovanna, in prima fila nella foto.

Ai-cichiciai-cichiciai-popof” era il canto minato, e loro, i monaci, con la nera tonaca d’ordinanza, a muovere il sederone e a ridere senza contenersi, quella espressione umana che aiuta ad allietare la vita e a renderla più leggera, nonostante i tempacci attuali.

Nella foto è presente anche la mite suor Anna, donna semplice, discreta e di pochissime parole. In alto a destra il sempre presente e sempre orante Franco Pilo, amico di una vita.

Per il resto, faccia pure chi si riconosce…

La Memoria volutamente di comodo dell’ attuale Governo

Polish_20240210_063805792

 

di Marinella Salvi (il manifesto)

Ci si son messi in tanti, tranne quelli che hanno sfogliato un atlante storico o hanno un minimo di memoria del fatto che chi ha dato il là a una serie infinita di tragedie ha nome Mussolini, quello che esportava la civiltà italica a colpi di cannone.

Gli svarioni storici, politici, di senso comune addirittura, sono assiepati invece come nulla fosse nel treno storico che è partito da Trieste, binario 1 della Stazione Centrale (nata Südbahnhof per la cronaca).

Il Treno del Ricordo 2024 è promosso dal ministro per lo Sport e i Giovani Andrea Abodi e messo a disposizione da Fondazione Fs: ci sono una mostra multimediale, l’annullo filatelico e le masserizie degli esuli da uno dei magazzini del vecchio porto di Trieste.

Nato da una risoluzione della Commissione Cultura della Camera dei deputati, è realizzato dalla Presidenza del Consiglio in collaborazione con il ministeri della Cultura, dell’Istruzione e della Difesa nonché la Rai, l’Archivio Luce e Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata. Il treno girerà l’Italia per arrivare il 27 febbraio a Taranto.

Stupisce che nessuno dei tanti collaboratori abbia avuto un momento di perplessità davanti alle belle immagini di Istria e Dalmazia ritenute di provata appartenenza all’Italia essendo state romane fin da un paio di secoli prima di Cristo. Con questa logica si potevano rinverdire «ricordi» di un gran pezzo di Europa e di Nord-Africa ma forse si è pensato fosse fuori tema.

Fuori tema alla grande, invece, questo treno delle baggianate revansciste ci va quando accomuna gli esuli ai militari italiani internati nei campi di concentramento tedeschi. L’intento? La confusione massima evidentemente. I nostri militari mandati nei Balcani per occupare terre altrui che, dopo l’8 settembre 1943, in decine di migliaia si rifiutarono di servire i nazisti e preferirono l’internamento sono semmai un chiaro esempio di antifascismo e, non a caso, vengono ricordati il 27 gennaio con tutte le vittime del nazifascismo (pesa però la damnatio memoriae dei 10mila partigiani italiani morti combattendo in Jugoslavia). Ma forse mescolare foibe e Shoah aiuta a cassare pezzi di storia per dare enfasi solo a quanto fa comodo.

La presenza, nella mostra, dei militari internati ha fatto sbigottire la loro Associazione – come tutto il Forum delle associazioni antifasciste e della Resistenza – che sottolineano come il richiamo insistente all’italianità, ancora una volta, non faccia che evocare l’esproprio dell’identità di sloveni e croati perseguita dal fascismo e dall’occupazione di quelle terre nel 1941.

Ma questo treno che porta a spasso vergognose falsità di Stato è anche una provocazione che sembra smentire la flebile voce  del presidente Mattarella sulla «rinnovata amicizia tra Italia e Slovenia».

«Ricordiamo le vittime delle foibe e quanti furono costretti ad abbandonare le proprie case, ma caliamo quelle tragiche vicende nel corretto contesto storico – ha commentato l’Anei – non per favorire il proprio nazionalismo».

FB_IMG_1708174004888

Tacciano le armi !

Polish_20240207_221324768

Appello di un gruppo di lavoratori dello spettacolo e della musica

L’ offensiva militare dello stato d’Israele contro il popolo palestinese prosegue con un sistematica e crudele ostinazione. Governi e istituzioni balbettano indecisi la loro indignazione e il loro stupore di fronte alla tragedia in corso, quasi non fossero essi stessi responsabili di ciò che sta avvenendo.

In questi giorni, tuttavia, siamo tutte e tutti testimoni di una catastrofe che è umanitaria, politica, etica, e non possiamo né vogliamo rimanere silenti di fronte a una sciagura di tali dimensioni. Stiamo assistendo ad un genocidio.

Il silenzio, l’indifferenza, il disinteresse nei confronti degli eventi in corso da parte del mondo della canzone, della musica, dello spettacolo, sono intollerabili. Abbiamo il dovere di dire basta, una volta per tutte, al genocidio del popolo palestinese.

Lo vogliamo dire nel segno della pace fra i popoli, della democrazia e dei suoi valori, della giustizia e del diritto internazionale, e lo vogliamo dire rifuggendo, senza se e senza ma, da qualsivoglia sentimento antisemita, che non ci è mai appartenuto, non ci appartiene e non ci apparterrà mai.

Siamo convinti che la pace fra Palestina e Israele sia possibile, necessaria e, oggi più che mai, urgente, per il bene del popolo palestinese, di quello israeliano, di tutti i popoli. Oggi, adesso, ora o mai più. Disconosciamo la guerra, cancro della storia, e imploriamo la pace, che è l’unica cura, l’unica soluzione possibile del conflitto in corso, di tutti i conflitti che insanguinano la comunità umana.

Non possiamo né vogliamo più rimanere inermi testimoni dell’annientamento del popolo palestinese. Dobbiamo e vogliamo tornare protagonisti del processo storico, perché è nel processo storico che insistono le nostre vite e quelle dei nostri figli, che non meritano un mondo governato dalla legge del più forte.

Tacciano, una volta per sempre, le armi, e parlino l’amore, la pietà, la compassione e la fratellanza, che sono la ragione stessa delle nostre canzoni, della musica, dei palcoscenici, dello stare insieme, dei nostri abbracci e dei nostri baci, del nostro insopprimibile desiderio di accogliere e di amare, del nostro essere partecipi dei destini del mondo. Perché il mondo non appartiene a qualcuno, il mondo è di tutti, perché tutte e tutti siamo membri di un’unica avventurosa famiglia, la Pace.

Polish_20240208_054941990

https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/02/07/i-soldati-israeliani-esultano-per-le-distruzioni-a-gaza-i-video-analizzati-dal-nyt-che-potrebbero-rivelare-violazioni-alle-convenzioni-di-ginevra/7437144/?fbclid=IwAR0Od67FDUxmqHpBuTnhpltuRHD2TxvqbXnVBMusxqBdG7q_VUfcBbJBGE4