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Musica per la Pace

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Siamo tutti solidali?

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E Allora Dai

 

Questa è una canzone di protesta, che non protesta contro nessuno. Anzi, siamo tutti d’accordo.

Tu m’insegni quanto vale
incontrare un vero amico
Un amico è un tesoro
dice quel proverbio antico

Ed ognuno l’ha provato
quando solo si è trovato
la parola di un amico
ti può dar quel che non hai

E allora dai e allora dai
le cose giuste tu le sai
e allora dai e allora dai
dimmi perché tu non le fai

Il denaro non è tutto
è una frase che si dice
nella vita c’è ben altro
che può renderti felice

Te lo dicon tutti spesso
ricchi e poveri è lo stesso
il denaro non guarisce
e non da felicità

E allora dai …

Ogni uomo è uguale a un altro
quando viene dalle stelle
non importa la sua lingua
o il colore della pelle

Lo diceva anche il vangelo
già duemila anni fa
finalmente siam d’accordo
questa si che è civiltà

E allora dai …

Tu m’insegni che la guerra
oggi non si può più fare
che le bombe ed i cannoni 
sono cose da evitare

Lo si scrive sui giornali
siamo tutti solidali
che la pace in tutto il mondo
salverà l’umanità

E allora dai …

https://youtu.be/mbXCsINdcrk?si=8p0MxuUIHMaRqoXS

“Cercare pace è l’unica vittoria”

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IL MIO NOME È MAI PIÙ

Io non lo so chi c’ha ragione e chi no
se è una questione di etnia, di economia,
oppure solo pazzia: difficile saperlo.
Quello che so è che non è fantasia
e che nessuno c’ha ragione e così sia,
a pochi mesi ad un giro di boa
per voi così moderno.

C’era una volta la mia vita
c’era una volta la mia casa
c’era una volta e voglio che sia ancora.
E voglio il nome di chi si impegna
a fare i conti con la propria vergogna.
Dormite pure voi che avete ancora sogni, sogni, sogni

Il mio nome è mai più, mai più, mai più
Il mio nome è mai più, mai più, mai più
Il mio nome è mai più, mai più, mai più
Il mio nome è mai più…

Eccomi qua, seguivo gli ordini che ricevevo
c’è stato un tempo in cui io credevo
che arruolandomi in aviazione
avrei girato il mondo
e fatto bene alla mia gente
fatto qualcosa di importante.
In fondo a me, a me piaceva volare…

C’era una volta un aeroplano
un militare americano
c’era una volta il gioco di un bambino.
E voglio i nomi di chi ha mentito
di chi ha parlato di una guerra giusta
io non le lancio più le vostre sante bombe,
bombe, bombe, bombe, BOMBE!

Il mio nome è mai più….

Io dico si dico si può
sapere convivere è dura già, lo so.
Ma per questo il compromesso
è la strada del mio crescere.
E dico si al dialogo
perché la pace è l’unica vittoria
l’unico gesto in ogni senso
che dà un peso al nostro vivere,
vivere, vivere.
Io dico si dico si può
cercare pace è l’unica vittoria
l’unico gesto in ogni senso
che darà forza al nostro vivere.

Il mio nome è mai più…

 

La prima vittima delle guerre è l’infanzia

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LA CROCIATA DEI BAMBINI

Partirono all’alba in crociata i bambini
Le facce gelate, chi li troverà?
Partirono in fila, sepolti di neve,
i soli scampati alle bombe ed ai soldati

Volevan fuggire dagli occhi la guerra,
volevan fuggirla per cielo e per terra
un piccolo capo, la pena nel cuore,
provava a guidarli e la strada
non sapeva trovare.

Una bambina di undici, ad una di quattro, come una mamma portava per mano ed un piccolo musico, col suo tamburo,
batteva sordo, al timore di farsi trovare

E poi c’era un cane, ma morto di fame
che per compassione nessuno ammazzò,
e si faceva scuola tutti alla pari
sillabavan maestri e scolari

C’era Fede e Speranza ma né pane, né carne non chiamate ladro chi deve rubare,
per dare alle bocche, di cosa mangiare
farina ci vuole e non solo bontà

Si persero in tondo, nel freddo di neve
nessuno più vivi li poté trovare,
soltanto il cielo, li vede vagare
nel cerchio dei senza meta dei senza patria

E cercano insieme una terra di pace
non come quella che hanno lasciato,
senza fuoco e rovina di Colosseo
ed immenso dietro di loro…diventa il corteo

Il cane nel bosco fu trovato una sera
al collo portava un cartello con scritto:
qualcuno ci aiuti, abbiam perso la strada
seguite il cane, e vi prego,non gli sparate

La scritta infantile, trovò un contadino
ma non la mano che la tracciò
un anno è passato, e nessuno è venuto
il cane soltanto è restato
a morire di fame
Il cane soltanto è restato
e si muore di fame

 

Errori nelle guerre? No, la guerra è tutto un Tragico Orrore

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E SE CI DIRANNO

E se ci diranno
che per rifare il mondo
c’è un mucchio di gente
da mandare a fondo,
noi che abbiamo troppe volte
visto ammazzare
per poi sentire dire
che era un errore
noi risponderemo
noi risponderemo

NO NO NO NO NO !

E se ci diranno
che nel mondo la gente
o la pensa in un modo
o non vale niente
noi che non abbiam finito
ancora di contare
quelli che il fanatismo
ha fatto eliminare
noi risponderemo
noi risponderemo

NO NO NO NO NO !

E si ci diranno
che è un gran traditore
chi difende la gente
di un altro colore
noi che abbiamo visto
gente con la pelle chiara
fare cose di cui
ci dovremmo vergognare
noi risponderemo
noi risponderemo

NO NO NO NO NO !

E se ci diranno
che è un destino della terra
selezionare i migliori
attraverso la guerra
noi che ormai
sappiamo bene che i più forti
sono sempre stati
i primi a finir morti
noi risponderemo
noi risponderemo

NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO
NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO ….

 

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Le crociate americane?  Unicamente ipocrisia e sete di potere

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C O N T R O

 

CONTRO i fucili, carri armati e bombe

CONTRO le giunte militari, le tombe

CONTRO il cielo che ormai è pieno di tanti ordigni nucleari

CONTRO tutti i capi al potere che non sono ignari

CONTRO i massacri di Sabra e Shatila

CONTRO i folli martìri dell’Ira

CONTRO inique sanzioni, le crociate americane, per tutta la gente che soffre e che muore di fame

CONTRO chi tiene la gente col fuoco

CONTRO chi comanda ed ha in mano il gioco

CONTRO chi parla di fratellanza, amore e libertà e poi finanzia guerre e atrocità

CONTRO il razzismo sudafricano

CONTRO la destra del governo israeliano

CONTRO chi ha commesso stragi, pagato ancora non ha,per tutta la gente ormai stanca che vuole verità

CONTRO tutte le intolleranze

CONTRO chi soffoca le speranze

CONTRO antichi fondamentalismi, nuovi imperialismi

CONTRO la poca memoria della storia

CONTRO chi fa credere la guerra un dovere

CONTRO chi vuole dominio e potere

CONTRO le medaglie all’onore, alla santità

PER TUTTA LA GENTE CHE GRIDA

L I B E R T Á

 

Il terrorismo è anche un prodotto dell’interessata “esportazione di democrazia” e dell’arrogante prepotenza della superiorità delle armi

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LUGLIO, AGOSTO, SETTEMBRE (NERO)

 

Giocare col mondo facendolo a pezzi

Bambini che il sole ha ridotto già vecchi

Non è colpa mia se la tua realtà
mi costringe a fare guerra all’omertà

Forse un dì sapremo quello che vuol dire
affogar nel sangue con l’umanità

Gente colorata quasi tutta uguale

La mia rabbia legge sopra i quotidiani,
legge nella storia tutto il mio dolore

Canta la mia gente che non vuol morire

Quando guardi il mondo senza aver problemi cerca nelle cose l’essenzialità

Non è colpa mia se la tua realtà
mi costringe a fare guerra all’umanità

A tutti griderò di non partire, di non obbedire…

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IL DISERTORE

In piena facoltà,
Egregio Presidente,
le scrivo la presente,
che spero leggerà.
La cartolina qui
mi dice terra terra
di andare a far la guerra
quest’altro lunedì.

Ma io non sono qui,
Egregio Presidente,
per ammazzar la gente
più o meno come me.
Io non ce l’ho con Lei,
sia detto per inciso,
ma sento che ho deciso
e che diserterò.

Ho avuto solo guai
da quando sono nato
e i figli che ho allevato
han pianto insieme a me.
Mia mamma e mio papà
ormai son sotto terra
e a loro della guerra
non gliene fregherà.

Quand’ero in prigionia
qualcuno m’ha rubato
mia moglie e il mio passato,
la mia migliore età.
Domani mi alzerò
e chiuderò la porta
sulla stagione morta
e mi incamminerò.

Vivrò di carità
sulle strade di Spagna,
di Francia e di Bretagna
e a tutti griderò
di non partire più
e di non obbedire
per andare a morire
per non importa chi.

Per cui se servirà
del sangue ad ogni costo,
andate a dare il vostro,
se vi divertirà.
E dica pure ai suoi,
se vengono a cercarmi,
che possono spararmi,
io armi non ne ho.

Cercarsi un nemico, unico obiettivo che dà motivazione all’esistenza di poveri esserini meschini

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RE FEDERICO

 

C’era un grand’uomo sulla terra

chiamato Re Federico
che andava alla guerra,
cercando il nemico..
ma il nemico era andato a comprare un gelato e se n’era fregato del grand’uomo soldato

Nemico, nemico.. vien fora te aspeto!
Adeso non posso finisso u sorbetto
Vien fora, te aspeto coa spada e coa lanza
Adeso non posso che g’ho el mal de panza!

Nemico.. nemico? Non facciamo scherzi.. Nemico?
Come occupato? Chiama ancora.. nemico!
Usa il telefono speciale
Sono io, sono il presidente, sono il ministro della guerra, sono l’onnipotente!
Yo soy el caudillo, Yo soy el leader maximo, je suis le president, e I’m the governator, the terminator!
nemico.. bu!
nemico…un grand’uomo senza nemici è un uomo gran solo!
nemico..
pronto? nemico?
dai, non facciamo scherzi.. nemico, se ci sei spara un colpo!
dopo non imboscarti… odio, odio gli imboscati! Arrenditi dopo!
Impossibile… son qua, col mio cane e il cane del presidente..
Un grand’uomo senza nemici è un uomo gran solo.. vero Bobi?
Nemico? Vado a portar fuori il cane, quando torno voglio che tu sia qui..
Ti prego.. mia moglie si incazza!
Nemico.. soy el Re Federico!
sono tuo amico.. ma tu mi sei nemico!
nemico, per piacere.. un grand’uomo senza nemici è un uomo gran solo!
nemico?
…ti faccio vincere…

 

Nulla è più sacro della Pace

 

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Il mio nome è Pace

Il mio nome è Pace
abito nel vento quello che ribalta il cielo
Sono angelo dagli occhi combattenti
che non può vincere solo
Sono il viaggio che non è finito sai,
su a nordest o giù in Oriente
Sono quello che non ha paura mai
di fissare gli occhi della gente

Io sono l’uomo il pazzo il Cristo cercami se vuoi
Sono il sogno che non muore mai
Io sono il canto libero salvami se puoi
Sono il sogno che non muore mai

Il mio nome è pace
sono la tua luce che risplende nella sera
Sono terra, acqua e sole sono inverno e primavera
Sono pane sono pura verità che sorride in faccia al male
Sono il viso di tua madre sono io le sue parole

Io sono l’uomo il pazzo il Cristo cercami se vuoi
Sono il sogno che non muore mai
Io sono il canto libero salvami se puoi
Sono il sogno che non muore mai

Sono lungo la tua strada, sono forza sono amore
chissà se mi puoi sentire, chissà se mi sai vedere
Chissà se mi puoi trovare

Il mio nome è pace sono un viaggiatore e sarà giusto partire
Sono in piedi a una stazione ma il mio viaggio non può mai finire
Sono l’alba giusta e chiara che si leva sulla via
Sono l’ostinato bene e ora cerco casa tua

Io sono l’uomo il pazzo il Cristo cercami se vuoi
Sono il sogno che non muore mai
Io sono canto libero salvami se puoi
Sono il sogno che non muore mai

Io sono il canto libero salvami se puoi
Sono il sogno che non muore mai
Io sono il canto libero salvami se puoi
Sono il sogno che non muore mai.

Lettera dell’esclusione, pregiudizi e luoghi comuni duri a morire

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SIAMO UN GRUPPO DI RAGAZZI E RAGAZZE, Rom Sinti e Camminanti vari

 

Alcuni di noi sono italiani, altri provengono da vari paesi europei, altri ancora sono nati in Italia ma di fatto sono sempre stranieri grazie all’accoglienza burocratica del nostro paese.

Tutti noi crediamo nell’onestà, nella giustizia, nei diritti e nei doveri di ogni essere umano; noi ci stiamo impegnando e formando come attivisti per dare voce al nostro popolo, fin ora rimasto legato e imbavagliato.

Vogliamo esprimervi una sensazione che viviamo da troppo tempo, forse da sempre,, la sensazione si chiama PAURA. Messaggi diretti o indiretti che sostanzialmente dicono: “i Rom e i Sinti rubano, sono TUTTI delinquenti, vogliono vivere ai margini della società in baracche fatiscenti, non vogliono lavorare e nessuno di loro vuole studiare, ecc.”

Bene, mettendoci nei panni di chi non sa niente di questo antichissimo popolo, inizieremmo a crederci e inizieremmo a non volerli più nella nostra Italia. E se fossimo BAMBINI, che cosa impareremmo? Sicuramente, con un germoglio di odio nel cuore così potente e annaffiato bene tutti i giorni, da grande non solo odieremmo i Rom e i Sinti, ma saremo pronti a ucciderli, non per cattiveria ma per difenderci e per difendere la “Nostra” Italia dai cattivi e sporchi Rom e Sinti.

Il nostro pensiero va a tutti quei bambini che direttamente o indirettamente assimilano concetti senza alcun filtro, tramite i vari talk show, programmi d’intrattenimento e tg, che quotidianamente accompagnano alcuni momenti della giornata dei nostri figli.

LA PAURA è che questi ragazzi, e alcune persone per bene, gradualmente assimilino questi gravi concetti e che da un semplice pregiudizio cresca nel cuore della gente L’ODIO. Questo è un fatto grave, che non deve succedere, sarebbe da irresponsabili non fermarlo.

Quindi chiediamo a tutti i professionisti della comunicazione, di non macchiarsi di questa grave colpa, di non essere complici e artefici dell’istigazione all’ODIO, della PAURA e della distanza tra la gente.

Chiediamo di non essere usati dai vari politici nelle loro finte campagne elettorali, ma chiediamo a loro di agire insieme a “noi” Rom e Sinti per politiche di VERA inclusione sociale compartecipata.

Chiediamo di non essere usati dai vari giornalisti di turno scatenatori di ODIO e PAURA, per fare audience o vendere qualche copia in più.

Chiediamo a tutti i professionisti della comunicazione di ascoltare noi Rom e Sinti, perché abbiamo molte storie da raccontare sulla magnifica cultura millenaria del nostro popolo, così come sulle difficoltà che quotidianamente affrontiamo, nonostante non arrivino mai sulle prime pagine dei giornali.

Chiediamo di discutere con noi i perché di certe realtà e chiediamo di far emergere le fallimentari politiche di ghettizzazione subite da nostro popolo.

Vostro è l’Onore e il Dovere di raccontare i fatti, voi siete coloro che danno gli strumenti alle masse per capire e agire. Siate portatori di giustizia sociale. Date voce anche alle positività e alle tantissime storie di normalità, oscurate dall’ e nell’ODIO mediatico.

Chiediamo verità, chiediamo dignità per il nostro popolo !

Con questa lettera chiediamo ufficialmente il vostro IMPEGNO per fare luce e dare voce al nostro popolo, noi vi offriamo il nostro. Insieme possiamo e dobbiamo scrivere una nuova pagina. Grazie.

 

Di seguito, quattro pagine dedicate alla famiglia Rom costretta ad andar via da Sorso nove anni fa e una finale per colmare la diffusa ignoranza

 

Sorso – Sgombero dei Rom: motivi d’igiene pubblica e di regole abitative, o la solita paura del diverso?

Sorso e la questione Rom: Lode al sindaco? Ma che dice, Sig. Prof ?!

Sorso: il Sogno Svanito di una famiglia Rom e il Sogno sempre più lontano di una Nuova Civiltà

 

SORSO: alla famiglia Rom,secondo le leggi, è stato ordinato di sloggiare LA CIVILE CONVIVENZA E’ STATA PRESERVATA DAGLI “UNTORI”

 

Le Comunità Romanès: un enorme patrimonio dilapidato

Pablo Picasso. Carattere irruento, amore per la libertá, antifascismo, analisi di alcuni suoi autoritratti e “Guernica”

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Pablo Ruiz Picasso nasce il 25 ottobre 1881 a Malaga, in Plaza de la Mercede. Il padre, Josè Ruiz Blasco, è professore alla Scuola delle Arti e dei Mestieri e conservatore del museo della città. Durante il tempo libero è anche pittore. Si dedica soprattutto alla decorazione delle sale da pranzo: foglie, fiori, pappagalli e soprattutto colombi che ritrae e studia nelle abitudini e negli atteggiamenti – in modo quasi ossessivo – tanto da allevarli e farli svolazzare liberamente in casa.Si racconta che la prima parola pronunciata dal piccolo Pablo non sia stata “mamma”, ma “Piz!”, da “lapiz”, che significa matita. E prima ancora di incominciare a parlare Pablo disegna. Gli riesce talmente bene che, qualche anno dopo, il padre lo lascia collaborare ad alcuni suoi quadri, affidandogli – strano il caso – proprio la cura e la definizione dei particolari. Il risultato sorprende tutti: il giovane Picasso rivela subito una precoce inclinazione per il disegno e la pittura. Il padre favorisce le sue attitudini, sperando di trovare in lui la realizzazione delle sue ambizioni deluse.Nel 1891 la famiglia si trasferisce a La Coruna, dove Don José ha accettato un posto da insegnante di disegno nel locale Istituto d’Arte; qui Pablo a partire dal 1892 frequenta i corsi di disegno della Scuola di Belle Arti.

Intanto i genitori mettono al mondo altre due bambine, una delle quali morirà quasi subito. In questo stesso periodo il giovane Picasso rivela un nuovo interesse: dà vita a molte riviste (realizzate in un unico esemplare) che redige e illustra da solo, battezzandole con nomi di fantasia come “La torre de Hercules”, “La Coruna”, “Azuly Blanco”.Nel Giugno 1895 Josè Ruiz Blasco ottiene un posto a Barcellona. Nuovo trasferimento della famiglia: Pablo prosegue i suoi studi artistici presso l’Accademia della capitale catalana. Ha perfino uno studio, in calle de la Plata, che divide con il suo amico Manuel Pallarès.

Negli anni successivi troviamo Pablo a Madrid, dove vince il concorso dell’Accademia Reale. Lavora moltissimo, mangia poco, vive in un tugurio mal riscaldato e, alla fine, si ammala. Con la scarlattina ritorna a Barcellona dove per un periodo frequenta la taverna artistica letteraria “Ai quattro gatti” (“Els Quatre Gats”), così chiamata in onore de “Le Chat Noir” di Parigi. Qui si ritrovano artisti, politicanti, poeti e vagabondi di ogni tipo e razza.

L’anno seguente, è il 1897, porta a termine una serie di capolavori, fra cui la famosa tela “Scienza e carità”, ancora assai legata alla tradizione pittorica dell’Ottocento. Il quadro ottiene una menzione all’Esposizione nazionale di Belle Arti di Madrid. Mentre prosegue diligentemente la frequentazione dell’Accademia e il padre pensa di mandarlo a Monaco, la sua natura esplosiva e rivoluzionaria comincia pian piano a manifestarsi. Proprio in questo periodo, fra l’altro, adotta anche il nome di sua madre come nome d’arte. Egli stesso spiegherà questa decisione, dichiarando che “i miei amici di Barcellona mi chiamavano Picasso perché questo nome era più strano, più sonoro di Ruiz. E’ probabilmente per questa ragione che l’ho adottato”.

In questa scelta, molti vedono in realtà un conflitto sempre più grave tra padre e figlio, una decisione che sottolinea il vincolo d’affetto nei confronti della madre, dalla quale secondo numerose testimonianze, sembra che abbia preso molto. Tuttavia, malgrado i contrasti, anche il padre continua a rimanere un modello per lo scapigliato artista, in procinto di effettuare una rottura radicale con il clima estetico del suo tempo. Picasso lavora con furore. Le tele, gli acquerelli, i disegni a carboncino e a matita che escono dal suo studio di Barcellona in questi anni sorprendono per il loro eclettismo.

Fedele alle sue radici e ai suoi affetti, è proprio nella sala delle rappresentazioni teatrali di “Els Quatre Gats” che Picasso allestisce la sua prima mostra personale, inaugurata il primo febbraio 1900. Malgrado l’intento di fondo dell’artista (e della sua cerchia di amici) sia quella di scandalizzare il pubblico, la mostra sostanzialmente piace, malgrado le solite riserve dei conservatori, e si vendono molte opere su carta.

Pablo diventa un “personaggio”, odiato e amato. Il ruolo dell’artista maledetto per un po’ lo soddisfa. Ma alla fine dell’estate 1900, soffocato dall’ “ambiente” che lo circonda, prende un treno per Parigi.

Si stabilisce a Montmartre, ospite del pittore barcellonese Isidro Nonell, e incontra molti dei suoi compatrioti tra i quali Pedro Manyac, mercante di quadri che gli offre 150 franchi al mese in cambio della sua produzione: la somma è discreta e permette a Picasso di vivere qualche mese a Parigi senza troppe preoccupazioni. Non sono momenti facili dal punto di vista economico, nonostante le importanti amicizie che stringe in questi anni, tra cui quella con il critico e poeta Max Jacob che cerca di aiutarlo in ogni modo. Intanto conosce una ragazza della sua età: Fernande Olivier, che ritrae in moltissimi suoi quadri.

Il clima parigino, e più specificamente quello di Montmartre, ha una profonda influenza. In particolare Picasso rimane colpito da Toulouse-Lautrec, a cui si ispira per alcune opere di quel periodo.

Alla fine dello stesso anno torna in Spagna forte di questa esperienza. Soggiorna a Malaga, poi trascorre qualche mese a Madrid, dove collabora alla realizzazione di una nuova rivista “Artejoven”, pubblicata dal catalano Francisco de Asis Soler (Picasso illustra quasi interamente il primo numero con scene caricaturali di vita notturna). Nel febbraio del 1901 riceve però una terribile notizia: l’amico Casagemas si è suicidato per un dispiacere d’amore. L’evento colpisce profondamente Picasso, segnando a lungo la sua vita e la sua arte.

Riparte per Parigi: questa volta vi torna per allestire una mostra presso l’influente mercante Ambroise Vollard.

A venticinque anni Picasso é riconosciuto ed ammirato non solo come pittore, ma anche come scultore ed incisore. Durante una visita al Musée de l’Homme, al palazzo Trocadero a Parigi, rimane colpito dalle maschere dell’Africa Nera, lì esposte, e dal fascino che emanano. I sentimenti più contrastanti, la paura, il terrore, l’ilarità si manifestano con un’immediatezza che Picasso vorrebbe anche nelle sue opere. Viene alla luce l’opera “Les Demoiselles d’Avignon”, che inaugura uno dei più importanti movimenti artistici del secolo: il cubismo.

Nel 1912 Picasso incontra la seconda donna della sua vita: Marcelle, da lui detta Eva, ad indicare che é diventata lei la prima di tutte le donne. La scritta “Amo Eva” compare su molti quadri del periodo cubista.

Nell’estate 1914 si incomincia a respirare aria di guerra. Alcuni degli amici di Pablo, tra cui Braque e Apollinaire, partono per il fronte. Montmartre non é più il quartiere di prima. Molti circoli artistici si svuotano.

Purtroppo poi nell’inverno 1915 Eva si ammala di tubercolosi e dopo pochi mesi muore. Per Picasso é un duro colpo. Cambia casa, si trasferisce alle porte di Parigi. Conosce il poeta Cocteau che, in stretti contatti con i “Ballets Russes” (gli stessi per i quali componeva Stravinskij, al quale Picasso dedicherà un memorabile ritratto ad inchiostro), gli propone di disegnare i costumi e le scene del prossimo spettacolo. I “Ballets Russes” hanno anche un’altra importanza, questa volta strettamente privata: grazie a loro l’artista conosce una nuova donna, Olga Kokhlova, che diventerà ben presto moglie e sua nuova musa ispiratrice, da lì a qualche anno sostituita però con Marie-Thérése Walter, di appena diciassette anni, anche se indubbiamente assai matura. Anche quest’ultima entrerà come linfa vitale nelle opere dell’artista in qualità di modella preferita.

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Nel 1936, in un momento non facile anche dal punto di vista personale, in Spagna scoppia la guerra civile: i repubblicani contro i fascisti del generale Franco. Per il suo amore per la libertà Picasso simpatizza per i repubblicani. Molti amici dell’artista partono per unirsi alle Brigate Internazionali.

Una sera, in un caffé di Saint-German, presentatagli dal poeta Eluard, conosce Dora Maar, pittrice e fotografa. Immediatamente, i due si capiscono, grazie anche all’interesse comune per la pittura, e tra loro nasce un’intesa.

Nel frattempo le notizie dal fronte non sono buone: i fascisti avanzano.

Il 1937 é l’anno dell’Esposizione Universale di Parigi. Per i repubblicani del Frente Popular é importante che il legittimo governo spagnolo vi sia ben rappresentato. Per l’occasione Picasso crea un’opera enorme: “Guernica”, dal nome della città basca appena bombardata dai tedeschi. Attacco che aveva provocato moltissimi morti, tra la gente intenta a compiere spese al mercato. La “Guernica” diventerà l’opera simbolo della lotta al fascismo.

Negli anni ’50 Pablo Picasso é ormai un’autorità in tutto il mondo. Ha settant’anni ed é finalmente sereno, negli affetti e nella vita lavorativa. Negli anni seguenti il successo aumenta e spesso la privacy dell’artista viene violata da giornalisti e fotografi senza scrupoli. Si succedono mostre e personali, opere su opere, quadri su quadri. Fino al giorno 8 aprile 1973 quando Pablo Picasso, all’età di 92 anni, improvvisamente, si spegne.

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L’ultimo quadro di quel genio – come dice André Malraux – “che solo la morte ha saputo dominare”, reca la data 13 gennaio 1972: è il celebre “Personaggio con uccello”.

L’ultima dichiarazione che ci rimane di Picasso è questa: “Tutto ciò che ho fatto è solo il primo passo di un lungo cammino. Si tratta unicamente di un processo preliminare che dovrà svilupparsi molto più tardi. Le mie opere devono essere viste in relazione tra loro, tenendo sempre conto di ciò che ho fatto e di ciò che sto per fare”.

(Testo tratto da ” biografieonline.it)

 

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Autoritratti

di Arianna Senore

( dal blog ” La sottile linea d’ombra”)

Picasso è un emblema della pittura del Novecento e perché ha sempre avuto un certo interesse nei confronti della riproduzione di sé stesso.

(altro…)

Banca della Memoria

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di Piero Murineddu

Precisamente dieci anni fa un articoletto apparso su La Nuova Sardegna  parlava di un’iniziativa nata da un gruppo di un paesino che aveva lo scopo di mettere insieme dei ricordi che aiutassero a costruire la memoria locale. Come esposizione una pagina FB creata appositamente. Un luogo di raccolta di memorie scritte e visive, seppur virtuale, sia per conoscere quello che si era e sia capire meglio quello che si è diventati. Anche questo mi ha spinto a metter su qualcosa di simile.  Altra spinta l’ ho ricevuta entrando in contatto col sito “Memoro – Banca della memoria“, pensato e curato da quattro giovani piemontesi con la passione delle brevi interviste alle persone anziane. In particolare, questa intuizione mi aveva invogliato a filmare diversi racconti di nostri anziani concittadini, che attraverso i fatti da loro vissuti, hanno aiutato anche a capire le tante trasformazioni di Sorso, mio paese del nord Sardegna, e della vicina Sennori, due località accomunate inevitabilmente da tanti aspetti.

La prima registrazione, quasi casuale, la feci durante una visita a casa di  Petronio Pani e della carissima moglie Gavina Demurtas, una carissima coppia  scomparsa a cui sarò sempre grato e che a tutti gli effetti posso considerare amici seppur frequentati specialmente negli ultimi anni della loro vita.

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Il  prof Andrea Pilo mi ha incoraggiato e quasi obbligato a dare il mio seppur modesto contributo a tener ferma la memoria di ciò che siamo stati. E fatto da lui, autore di alcuni libri sulla questione, l’invito non poteva cadere nel vuoto.

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Dal momento che diversamente NON POTEVA essere, il lavoro era e continua ad essere dedicato alla memoria dei miei genitori Giovanna Maria e Antonino. Rimanendo fissa la copertina, volta per volta ho sempre cambiato la foto del “profilo”, legandola magari a una persona deceduta che mi é stata cara o a a qualche particolare evento che ritengo opportuno.

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Col tempo e in alcuni casi l’obiettivo iniziale si è allargato ad altre realtà che non riguardano solo lo stretto territorio fisico dove vivo, convinto che sono molteplici le cose che legano i sardi soprattutto.

Capita che, tramite messaggio o di persona, si continua a chiedere di ricordare defunti, notizie di parenti lontani o avvenimenti riguardanti il passato. A questo proposito è bene ribadire che dietro questo spazio digitale non c’è un gruppo o una qualsiasi associazione che si dà daffare per portarlo avanti, ma solo l’impegno di un’ UNICA persona, che NON È IL TITOLARE DI UN’AGENZIA FUNEBRE O INVESTIGATIVA, NON È UN GIORNALISTA E TANTOMENO UNO STORICO.. Se di tanto in tanto faccio memoria di qualcuno, è perché in qualche modo è stato significativo, o per il nostro territorio o per me in particolare. Questo non toglie che se qualcuno desidera che un proprio congiunto venga ricordato, prima mandi in privato elementi sufficienti per poterne parlare, e meglio ancora, che sia direttamente l’interessata/o a compilare un testo, possibilmente scritto in modo decente, grammaticamente corretto e senza inutili e sovrabbondanti puntini di sospensione. Se poi si vuole proporre un testo attinente alla pagina, ci si accomodi pure, mandandolo possibilmente per posta elettronica chiedendomi in privato l’email. Per il resto, a mia discrezione continuerò a pubblicare su persone e fatti riconducibili in qualche modo a Sorso e Sennori, ma non solo. Ricorrente spazio sarà riservato ad artisti, scrittori e musicisti locali. Per contribuire alla pagina, lo sbrigativo pollice in sù, cuoricini e disegnini vari incoraggiano ad andare avanti, ma in pratica, al fine dell’arricchimento di conoscenza per tutti, servono a…niente. Molto più utili parole, e commentate come buon senso vorrebbe.

Lo ripeto, la Banca deve essere uno spazio  aperto all’arricchimento di tutti e non riservato al mio solo sforzo, dato più che non mi sento affatto un tuttologo e le energie sono sempre più limitate. Rinnovo quindi l’invito a dare il proprio attivo contributo di conoscenze e ricordi personali e familiari, finalizzato unicamente alla crescita comune.

Dura lex sed lex, cazz!

Piero Murineddu

Sit in davanti al tribunale di Massa Carrara per chiedere la revoca del fermo amministrativo della nave Geo Barents di Medici Senza Frontiere che era attraccata con 249 migranti al porto di Marina di Carrara il 20 marzo scorso. Il fermo perché si erano tratti a bordo i migranti, udite udite, in tre salvataggi diversi e questo, secondo Piantedosie la siora presidente, non si fa non si fa e non si fa. Punto! Sembrerebbe anche che questi medici cattivoni abbiano impedito addirittura che a soccorrere questa povera gente ci pensasse, riudite riudite, la Guardia Costiera libica, che come ben si sa, ai migranti vogliono tanto, ma tanto bene. Da altra fonte leggo invece che questi signori libici in divisa e coi mitra abbiano effettuato manovre pericolose per la vita dei naviganti in fuga e tutt’altro che turisti. Ma di questo al ministro e al suo capo presidente non frega una sega. Punto.

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Riguardo alla dottrina del Peccato Originale

 

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di Ortensio Da Spinetoli

“La dottrina del peccato originale è una supposizione teorica che certi pensatori o teologi hanno liberamente chiamato in causa per spiegare le situazioni confuse in cui essi trovavano gli eventi umani che, così com’erano o apparivano, non potevano rientrare in un piano creativo voluto da Dio e che, nel caso, non potevano che derivare da interferenze esterne, abusive, trasgressive che potevano provenire dall’essere intelligente, l’uomo.

Un errore che avrebbe sconvolto la storia e tuttavia rimasto sconosciuto ai profeti (nessuno sembra parlarne) e di cui Gesù stesso non ha fatto parola…. È vero che Paolo sembra averne fatto cenno in Rm 5,12, ma è solo un suo richiamo per avallare una sua personale ipotesi cristologica relativa all’universalità della salvezza cristiana.

Al momento attuale tutti sanno che i testi biblici delle origini sono mitici, cioè non ricostruzioni di fatti accaduti ma costruzioni, supposizioni frutto di immaginazione.

Per sapere qualcosa sull’origine dell’uomo e del suo mondo bisogna non attenersi alla fantasia degli autori sacri ma ricorrere ai reperti della paleontologia che lasciano intendere che le origini non sarebbero così ideali come viene detto in Genesi 2 ma piuttosto intricate e confuse.

Il primo uomo non è l’Adamo biblico e il suo habitat non è proprio così felice come un eden. Il mondo non è uscito dalle mani di Dio così perfetto nella sua condizione conclusiva come si racconta nella Bibbia, ma in uno stadio appena iniziale, e l’uomo non è più che un primate che ha dovuto compiere un lungo cammino prima di raggiungere la sua attuale condizione di “sapiens”.

Una situazione, quella iniziale (peraltro non molto diversa da quella attuale), ardua, complessa, carente, dominata dalla violenza, dal sopruso, da un’irrazionalità almeno apparente, ma non dominata da una qualche colpa, cioè da uno stato di disaccordo, di inimicizia con il Signore della vita. (…)

L’ “errore” del creatore, si fa per dire, è che si è messo a fianco un collaboratore di second’ordine, del quale per di più rispetta i limiti e attende la maturazione, e finché questa non arriva anche il progetto globale tarda a realizzarsi.

L’uomo è un essere ancora imperfetto che non ha preso coscienza di tutte le sue potenzialità e di tutti i suoi compiti: è lento, forse pigro, stanco e disattento ma non per questo “decaduto”, per giunta per colpa di altri, da una condizione di felicità e amicizia divina in uno stato di inimicizia e irreparabile condanna. (…)

Gesù, che da “martire” di carità, con il quale i suoi discepoli sono chiamati a confrontarsi, torna a essere la “vittima” di espiazione dei peccati dell’umanità che Dio non ha mai chiesto né aspetta. Difatti Gesù non ha pagato i debiti di nessuno, poiché, a suo dire, non c’era nulla da pagare.

Se qualcuno non si fosse sentito in regola con se stesso, con la propria coscienza ossia con la voce del bene (che non può essere che la stessa di Dio e del suo Spirito) non ha che da cambiare l’orientamento dei propri comportamenti (convertirsi)”.

(da “L’inutile fardello”).

Letto tutto? Bene. Recentemente mi son ritrovato quasi a dovermi scontrare sul fatto che tutto ciò che è scritto sulla Bibbia NON sono fatti realmente avvenuti. Capìta l’ottusità dell’interlocutore, ho dovuto desistere, prima di essere tentato di mandarlo in….  Veramente ho rischiato di essere malmenato. Non c’era scrivano per descrivere il tutto? E che importa? Dio, a suo tempo, ha chiamato l’ “ispirato” di turno e ha dettato, parola per parola…… così, così e così. Ed ecco bella e pronta com’è avvenuta la Creazione. Osi dissentire..che forse…ma veramente….. simbolismo……..? Anatema sia! Eretico, blasfemo, bastian contrario, rompi balle….

Il dramma è che da molti pulpiti si continua imperterriti a raccontare la storicità di quello che è semplicemente simbolismo, e così si continua a tirare avanti da creduloni insignificanti. Grazie a Ortensio, di cui lo scorso 31 marzo ricorreva l’anniversario di morte (Piero)

Si, in tutti grande senso d’impotenza. Eppure…

di Andrea Bigalli

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Forse è una delle Pasque più difficili che mi è capitato di vivere, non so dirla se non con angoscia. Stiamo assistendo a mattanze che da sempre sono parte della peggiore tradizione umana, ma ci eravamo illusi che il sentire collettivo le ritenesse inaccettabili. Non è più così: credo non per un aumento di crudeltà, ma perché il senso di impotenza impera, si perdono le dinamiche di reazione, ci si assuefà al dolore altrui, all’ingiustizia che ne è la matrice.

La regola è la guerra:

– di popoli, di culture e di economie tra di
loro

– del genere umano contro l’ecosistema

– del genere maschile contro quello
femminile.

Ritenere che la buona politica sia un miraggio non mi pare eccessivo: forse, mai in atto nel senso pieno del termine. Vediamo all’opera forze disgregatrici del patto sociale, e sappiamo a scapito di chi stanno operando, chi pagherà le conseguenze dello smantellamento del sistema dei diritti di chi è malato, di chi lavora, di chi deve studiare e crescere, di chi dovrebbe inserirsi nella socialità di ogni Paese.

È come se la spinta vitale dell’empatia si stia esaurendo e con essa la dimensione culturale degli individui. Crisi dei sistemi politici, dei modelli socio finanziari (anche di quelli trionfanti come il neoliberismo ipercapitalista), delle etiche ecopacifiste, della solidarietà collettivista, tutto sommato anche del liberalismo progressista. Persino chi sta vincendo sullo scacchiere dei rapporti di forza geopolitici credo lo stia facendo nella coscienza della sconfitta. Perché i modelli di sviluppo che sussistono e imperano – lo sa anche chi li sostiene e ha fatto sì che si siano affermati – non ci stanno portando se non verso l’abisso del conflitto assoluto e definitivo.

Proprio la leggerezza (l’incoscienza?) con cui si valuta l’uso delle testate termonucleari ci fa capire che la mancanza di consapevolezza appare come il rischio più significativo che stiamo vivendo. E consegue alla crisi culturale, che passa, dati alla mano, per la riduzione dell’indice medio di intelligenza. Dati statistici che trovano il tempo che hanno: se però li valuto con il decadere dell’empatia ci ritrovo senso.

Da buon teologo contestuale non ho resistito a un’analisi del dove siamo. Riguardo al quando, è la Pasqua di quest’anno 2024. Cosa posso dire della mia identità di cristiano in questo passaggio storico, in cui anche il cristianesimo – sicuramente il cattolicesimo, in dettaglio quello italiano – sta vivendo un collasso epocale? Di significati, di presenze, nel ricambio generazionale: usiamo linguaggi a dir poco marginali, si sta sfaldando un residuo potere sociale così tanto rimpianto da qualcuno, siamo assenti sul proscenio delle arti e della letteratura. Qualcuno potrà affermare che è conseguenza degli scandali, del permanere di un potere strutturale: qualcuno dà la colpa al Concilio Vaticano II, come se la tradizione intesa in maniera rigida e nella formalità della liturgia avesse evitata, a suo tempo, una crisi ancor più grave.

Siamo in enorme difficoltà nonostante il pontefice più adeguato (parere personale) che potessimo pensare di avere. Bergoglio è consapevole delle criticità presenti, intra ed extra ecclesia, e mostra di avere il senso della necessaria transizione, verso una chiesa che si assuma il paradigma della possibile fine del cattolicesimo. La lucidità del suo pensiero sulla contemporaneità, in una limpida strutturazione umanista, è innegabile. Ma ha linee minoritarie: pure all’interno della Chiesa, vescovi in testa.

Nel nodo cruciale delle celebrazioni pasquali mi ritrovo a riflettere sulla Passione di Gesù Cristo, quest’anno in liturgia dal Vangelo di Marco. Per il cristianesimo tornare all’essenziale lezione della narrazione biblica è, per paradosso, la via più diretta per liberarsi dal grande male di ogni confessione di fede, il fondamentalismo (per la versione laica, l’integralismo, occorrerebbe tornare ai contenuti essenziali delle filosofie veramente umaniste). Per paradosso, perché nella vulgata corrente è proprio la Bibbia (o gli altri testi di riferimento, come il Corano), il presupposto di fondo delle visioni religiose più retrive sul genere umano, ad esempio su guerra e condizione femminile. E questo è vero, ma al di là di quelle che sono – o dovrebbero essere – le rette intenzioni delle confessioni religiose: un’esegesi (o una interpretazione di altro segno) accurata e scientifica dei testi canonici, che comporta la messa in discussione di molti presupposti, dati fino ad adesso per acquisiti.

Ne emergerebbe ben altro, rispetto a un immaginario collettivo che attribuisce a Dio caratteristiche che nei Libri non troviamo. È l’annosa questione dell’articolato rapporto tra Testo, Tradizione, Ermeneutica: non è solo una questione tecnica (e teista; vale per ogni Scritto significativo per l’umanità). Da diverse interpretazioni dei brani biblici scaturiscono elementi teologici e\o morali radicalmente diversi, addirittura opposti. Pensate ai testi in cui si tratta dell’omosessualità: vi garantisco che non tutto si risolve (resta il dato di fondo di un messaggio divino espresso con categorie culturali determinate e datate, e la questione diviene superarle alla luce dell’evoluzione culturale del genere umano), ma si può arrivare altrove, sul piano del rispetto e dell’accoglienza, da quanto gli elementi più aggressivi del cattolicesimo conservatore sostengono, dimenticando che l’omofobia è condannata dalla chiesa stessa. Il cambiamento in atto è evidente: chi scrive è uno dei componenti del Coordinamento per una pastorale di inclusione istituito dalla diocesi di Firenze, con attenzione e azione non solo verso le persone omoaffettive, ma verso tutte quelle statuizioni di vita spesso stigmatizzate da una parte della chiesa stessa.

Gesù Cristo si presenta come un leader atipico, fuori dai parametri della tipologia dettata dal potere, dal maschilismo, dal classismo, dal suprematismo. Elementi che le chiese hanno spesso assunto, a scapito della condizione e del diritto di tanti suoi membri, in primis quelli di sesso femminile.

Ne è scaturita

– la chiesa che benedice eserciti e
armamenti, il dominio maschile fino alla
liceità della violenza

– il razzismo

– il profitto incondizionato

– il disprezzo verso le diversità.

– si benedicono i guadagni illeciti del lavoro
nero

– ci si scandalizza se si benedicono
persone omosessuali.

È un Dio incarnato che teme la morte, non vorrebbe rinunciare alla propria vita, prova angoscia per questo, cerca di non viverla in solitudine. Si consegna inerme alla violenza del potere religioso e sociale per coerenza a una predicazione di reciprocità e accoglienza, che annuncia un Dio diverso: il Dio crocifisso che destina a sé la più terribile delle morti. Quella degli schiavi ribelli, di chi contesta, di chi chiede che le cose cambino. Quella che ti condanna a morire fuori dalle mura della città e delle idee sancite dalle maggioranze come lecite e adeguate, il Dio che svuota sé stesso dalla divinità per essere prossimo all’umano nell’assoluta solitudine della morte. Un Dio che morendo dichiara l’abbandono come condizione delle fasi estreme dell’esistere, calandosi in esse: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Estreme fino a quella dell’abbandono da sé stessi, l’estraniazione dell’identità di fronte al potere del Nulla. Si annienta la propria identità per garantirla a tutte e tutti: questo è il pro/esistere, l’esistere per, dell’amore.

Questa riflessione si deve estendere a tutto il percorso narrativo dei Vangeli, ricordandoci che il Cristo è stato molto diverso da quello mostrato dalle chiese con il loro agire. Non era certo il difensore degli status quo, il sostenitore dei sistemi sacrificali che condannano dissidenze e inutilità a morte: proprio perché nessuno ci salga più, Gesù è disposto a salire di persona sulla croce. Un Messia eloquente e credibile.

Un Cristo che raccoglie le memorie negate, dà ragione alle tenerezze che appaiono inutili, riabilita le esistenze bollate come deviate. In Marco 14,3-9 compare una donna che unge Gesù con un profumo di grande valore economico, c’è chi si indigna per moralismo, ma egli dissente: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».

Il ruolo delle donne emerge con chiarezza: e non è espresso in atteggiamenti convenzionali e stereotipati secondo le gerarchie maschili, marginale, mortificato dai pregiudizi. Saranno sotto la croce quando i discepoli sono fuggiti, per prime al sepolcro a farsi annunciare la Resurrezione, diventando di essa un’icona vivente. Se anche la storia ufficiale e la cronologia ecclesiastica le dimentica, sono nel cuore del Signore. La memoria di lei diviene quella del lato negato della realtà, il valore di ciò che è scartato, di quanto diviene materia per una diversa realtà, governata dalle logiche della cura e della tenerezza, non della forza e della negazione della ragione e del diritto.

Si può leggere il Vangelo come una bella illusione, la celebrazione delle frustrazioni da parte di chi non vuol accettare morte e ingiustizia e le proietta in un sogno impossibile. Oppure esso diviene l’Oltre e l’Altrove di tutte le aspirazioni migliori, le parole di chi viene a dire che la nostra anima, comunque la si voglia intendere, non solo non è morta, ma forse, nella sua dimensione più limpida e amorevole, non può essere annientata.

Un grande martire della democrazia, Salvador Allende, diceva che «noi vivremo in eterno in quella parte di noi che abbiamo donato agli altri». Corrisponde a quanto, pure lui prossimo alla morte, affermava il vescovo Oscar Romero facendo sintesi tra la sua fede in Cristo e le speranze umane sul non morire: «Se mi uccidono resusciterò nel mio popolo». Dopo venti secoli l’identità possibile di un cristiano come me passa per quanto sosteneva Paolo di Tarso: il mondo ci chiede segni o intelligenza, ma noi portiamo nelle nostre conoscenze la mancanza di intelligenza di chi consegna la propria vita per amore, il segno nefasto della morte che non si cerca, ma neanche si nega se può significare luce per altre e altri.

(volerelaluna.it)

E infine, perché?

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di David Maria Turoldo

IO VOGLIO SAPERE

se Cristo è mai stato creduto,

se l’evento è reale e presente,

se è venuto e viene e verrà;

o sia appena un’invenzione

per un irreale giorno del Signore

di contro al cupo

giorno dell’uomo.

IO VOGLIO SAPERE

se veramente qualcuno crede

e come è possibile credere:

se almeno i fanciulli

-avanti ogni cultura-

vedono ancora il Padre.

IO VOGLIO SAPERE

se l’uomo è una fiera

ancora alle soglie della foresta:

se la ragione è una rovina.

IO VOGLIO SAPERE

se il nostro vivere

è appena una difesa

contro la vita degli altri:

questo uomo bianco

il più feroce animale

sempre all’assalto

contro ogni altro uomo,

o maledetto occidente.

IO VOGLIO SAPERE

se ci sono ancora gli assoluti

o se io sono sacerdote

di colpevoli illusioni;

se è vero che saremo finalmente liberi

se saremo ancora liberi

se saremo mai liberi.

IO VOGLIO SAPERE

se cantare è ancora possibile

se da ricchi canteremo ancora,

se ancora sarà possibile contemplare

se la bellezza esisterà sempre.

IO VOGLIO SAPERE

qual è il potere di resistere,

se sopravviverà ancora l’amore,

se pure è mai esistito.

IO VOGLIO SAPERE

se resisterà ancora Cristo,

perché io mi ammazzo.

IO VOGLIO SAPERE

se l’uomo cresce

e quale sarà l’intelligenza

d’un abitante della megalapoli;

se la scienza non sia la morte

e questa macchina non sia

la nostra bara di acciaio.

IO VOGLIO SAPERE

se esiste una forza salvatrice

che almeno la chiesa non sia

la tomba di Dio,

l’ultima sconfitta dell’uomo.

IO VOGLIO SAPERE

se la pace è possibile

se la giustizia è possibile

se lo spirito è più forte della forza.

IO VOGLIO SAPERE

se qualcuno ha fede ancora

in un futuro.

IO VOGLIO SAPERE

se Cristo è veramente risorto

se la Chiesa ha mai creduto

che sia veramente risorto.

PERCHÉ allora è una potenza?

PERCHÉ non va per le strade

come una follia di sole

a dire: Cristo è risorto, è risorto!

PERCHÉ non si libera dalla ragione

e non rinuncia alle ricchezze

per questa sola ricchezza di gioia?

PERCHÉ non dà fuoco alle cattedrali,

non abbraccia ogni uomo sulle strade

chiunque egli sia,

per dirgli solo: è risorto!

E piangere insieme,

piangere di gioia?

PERCHÉ non fa solo questo

e dice che tutto il resto è vano?

Ma dirlo con la vita

con mani candide

e occhi di fanciulli.

Come l’angelo del sepolcro vuoto

con la veste bianca di neve al sole,

a dire: «non cercate tra i morti

colui che vive, ecco, vi precede

su tutte le vie».

Mia chiesa amata e infedele,

mia amarezza di ogni domenica,

chiesa che vorrei impazzita di gioia

perché è veramente risorto.

E noi grondare luce

perché vive di noi:

noi questa sola umanità bianca

ad ogni festa

in questo mondo del nulla e della morte.

Amen

L’ Eredità Umana, quella che realmente conta, lasciata da “don” Ambrogino Cicu

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di Piero  Murineddu

Dopo qualche tempo, l’accenno fatto recentemente ai vari personaggi di rilievo nati o vissuti nella storica via Farina di Sorso, mi dà lo spunto per riproporre l’articolo riguardante l’ancor poco conosciuto Ambrogino Cicu, pubblicato nell’aprile 1998 su “Orizzonte“, un giornale illustrato locale durato purtroppo il tempo di sfornarne pochissimi numeri. Esperienza editoriale senz’altro apprezzabile voluto da un volenteroso gruppo di giovani amici, che ad un certo punto, per essere confermati nell’impegno, avevano affidato la direzione al già 60enne Gavino Piras, di cui ho parlato in questa pagina, mentre in quest’altra  ho trattato del periodico illustrato rimasto a tre numero 0 e a un numero 1.  Tempo addietro vi era stato il numero unico de “Lu Siazzu” di cui da qualche parte ho scritto in questo blog e che probabilmente riprenderò in considerazione. Altro tentativo editoriale fu “Forza e coraggio“, nato in ambiente calcistico ma che voleva occuparsi anche di altro. A breve riproporrò la pagina scritta nel 2014 grazie alle notizie in proposito avute da Mario Vacca. Mi mancano conferme che a Sorso vi siano state altre iniziative simili, fatta eccezione per alcune pubblicazione nate in ambito parrocchiale o simili. Se qualcuno è più informato di me, mi faccia e ci faccia sapere.

Quindi la vicenda di Ambrogino (perché col diminutivo?). Il “don” che precede è dovuto alle origini nobiliari della famiglia.  Titolo onorifico derivante da dominus, nato per creare distinzione dalla normalissima plebe, considerata evidentemente bassa se non addirittura disprezzabile plebaglia da chi presumeva, per un motivo o per l’altro, di sentirsi superiore, quindi, guarda caso, anche i capi mafia. In seguito l’appellativo è passato ai preti secolari, giusto sempre per mantenere questa per me inaccettabile distinzione che sarebbe ora di mettere da parte.

Comunque sia e fatta questa mia piccola parentesi diciamo pure un tantino polemica, nel sentire comune dei sorsesi si arriva ancora ancora a sapere qualcosina di DON Ambrogino, mentre se si nomina Ambrogio Cicu molti si chiederebbero ” e ga saristhia?”. E va be’, dai. Punto e a capo.

A raccontare  di don Ambrogino fu Gianmario Urgeghe nel giornale che si diceva, evidentemente ben documentato su questa famiglia d’accudiddi a Sorso discendenti di un naufrago salvato dai flutti marini nientemeno che da San Pasquale Baylón, illetterato mistico spagnolo dell’Ordine dei Frati Minori Alcantarini, rimasto a lungo nei conventi addetto ai servizi di portineria. Anche su questo molto presunto salvataggio “miracoloso” attendo naturalmente delucidazioni, sempre gradite.

Un articolo, questo di Urgeghe, molto severo nei confronti di buona parte della popolazione sussinca contemporanea di Ambrogio, tutt’altro riconoscente verso un uomo che aveva speso la sua vita per elevare umanamente e culturalmente la gioventù locale. Questa severità di giudizio si evince  già dall’apertura del testo, dove si dice che di questo vero e proprio filantropo in paese non sia rimasto praticamente niente.  A parte il grande edificio fatiscente – lasciato in eredità all’unica parrocchia di allora e a cui con scarsissimi risultati l’ indimenticato Giovanni Manca aveva tentato di dare nuova vita –  e il saloncino a pianterreno usato e strausato per diverse attività, sicuramente di “roba”, di cose materiali, non è rimasta nessuna traccia, dal momento che certi furbacchioni senza scrupoli avevano fatto man bassa di tutto ciò che di pregio possedeva la famiglia Cicu. Ma la stessa cosa non si può dire dell’insegnamento ricevuto dai giovani di allora dall’unico figlio di Antonio, piemontese, e Maria, originaria di Ploaghe. Prova ne sono i tanti che l’hanno conosciuto e che, avvicinati dal sottoscritto, oltre che parlarmene ottimamente, hanno garantito che l’esempio di  disinteressata umanità ricevuto nel contatto quotidiano attraverso varie attività col generoso e intelligente Ambrogio, l’ hanno fatto proprio nella loro vita, trasmettendolo a loro volta, per quanto possibile, ai propri figli. 

L’ultimo scorcio della sua esistenza e nonostante l’ agiatezza della famiglia, Ambrogio sembra averla trascorsa nella pesante ristrettezza economica, e ancor peggio, almeno così appare nell’articolo, nella tristezza per non aver sentito alcun tipo di gratificazione da parte di chi dal suo impegno era stato beneficiato.

Egli aveva ritenuto più alto e più nobile donare anziché trarre profitto dalle cose“. È uno dei passaggi evidenziato nel testo. Tristezza, si è detto, quel sentimento che in vari modi tutti si cerca, nel possibile, di evitare. Personalmente sono stato sempre convinto che ci sia più gioia nel dare che nel ricevere. Se Ambrogio ha condotto la sua esistenza nel modo descritto, chi può dire che nel suo animo, nonostante le oggettive difficoltà materiali e la non perfetta condizione di salute, abbia prevalso la tristezza? Certo, vedersi probabilmente avversato nonostante le personali motivazioni di benevolenza nei confronti altrui, benevolenza tradotta in fatti concreti, non può provocare grande allegria, ma ciò non per forza toglie la serenità interiore per aver speso bene i propri anni, ed io credo che sia questo che conta. Per Ambrogio come per ciascuno.

Nell’articolo si dice chiaramente che il mancato prete Ambrogio aveva messo su quella che molto probabilmente è stata la prima forma di associazionismo nata in paese, fatta eccezione credo per le squadre di calcio, ma questo è un altro discorso, riconoscendo tuttavia l’importanza di mettersi insieme per interessi puramente sportivi, oggi come forse allora.

Anche questo darebbe lo spunto per valutare  l’interesse che a Sorso ci sia di associarsi per portare avanti obiettivi comuni, siano essi come detto sportivi, di solidarietà e mutuo aiuto, teatrali, politici e in generale culturali. Tema su cui riflettere molto, considerando la diffusa tendenza a rinchiudersi nel proprio protettivo privato. Anche su questo vediamo in seguito di trovare spunti per parlarne.

Comunque sia, sono grato a Gianmario per questa sua passione di ricerca manifestata in questo caso per “don” Ambrogino, ma so anche per altre figure del nostro passato locale. Il valorizzare poi la conoscenza e curare la divulgazione in diverse forme a beneficio delle attuali e future generazioni è compito di ciascuno, comprese le istituzioni pubbliche, a volte, anche se comprensibilmente, prese solo dalle contingenze del presente, seppure urgenti.

Andiamo a leggere del nobile Ambrogino da Sossu, ma nato nella capitale.

La disinteressata presenza filantropica a Sorso di “don” Ambrogino

di Gianmario Urgeghe

Cosa ha insegnato don Ambrogio a Sorso? Verrebbe da rispondere nulla, perché nulla in effetti è rimasto, fatta eccezione, naturalmente, per il suo palazzo che è ancora lì, in via Farina, a sfidare il tempo e gli uomini, quelli che, se fosse stato possibile, l’avrebbero smontato e portato a casa pezzo dopo pezzo.

L’edificio è oggi vuoto e disabitato, testimone di un’epoca forse irripetibile e di un’opera che coinvolse in oltre quaranta anni centinaia di sorsensi, anche se pochi seppero coglierne il significato. Così, nella memoria rimane quest’uomo schivo, generoso e religiosissimo, ma non il suo straordinario insegnamento. E rimane pure, nei cimitero di Sorso, una tomba ormai fatiscente sulla quale, di tanto in tanto, qualcuno si ricorda di deporre dei fiori.

Nelle ultime volontà, contenute nel testamento, don Ambrogio lasciò la sua casa alla parrocchia di San Pantaleo con la clausola di cedere una parte in usufrutto, vita natural durante, ai coniugi Solinas che già vi abitavano.

Con la sua morte. sopraggiunta improvvisamente nel 1958 all’età di 76 anni, svanirono nel nulla la Filodrammatica, le scenografie del pittore Piero Mura e i ricchi costumi di scena, il Circolo cattolico, la sua biblioteca ed il gruppo degli Esploratori. Uguale sorte ebbero mobili, arazzi, tappeti, circa 300 quadri di soggetto sacro – parte di essi donata e consegnata, per volere dello stesso Cicu. alla Curia Arcivescovile di Sassari – numerosi di soggetto profano, ed altri oggetti, anche di un certo valore, in tutta fretta inventariati e subito rivenduti per quattro soldi all’asta, allo scopo di racimolare circa i 3 milioni di lire necessari per poter pagare la tassa di successione. Probabilmente nessuno allora se ne rese conto, ma quel triste epilogo rappresentò per Sorso una sconfitta: più di una persona, oggi, dovrebbe riflettere ed interrogarsi su come si sia potuto dissipare un autentico tesoro nel breve volgere di qualche giorno. Ma molto di quanto accadde subito dopo la morte del Cicu è tuttora avvolto nel mistero, e pare che oscuri personaggi siano entrati nella vicenda vantando presunte parentele e amicizie, al fine di ottenere qualcosa. In realtà, c’era da prendere molto meno di quanto si pensasse, anche perché don Ambrogio, nell’intento di assicurare una vecchiaia economicamente dignitosa, aveva già ceduto – in alcuni casi gratuitamente e in altri per cifre irrisorie – tutti i suoi terreni e il Cineteatro Goldoni. A ciò si aggiunga una quantità imprecisata di oggetti che qualcuno pensò bene di portarsi via quando egli era ancora in vita, approfittando di una progressiva cecità che colpì il poveretto negli ultimi anni.

Ambrogio Cicu D’Escanu nacque a Roma, in via dei Condotti, il 23 Aprile 1881 da Antonio, procuratore generale della Corte di Cassazione, e Maria Sini, appartenente ad una delle famiglie più in vista di Ploaghe.

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I Cicu D’Escanu erano nobili oriundi della Spagna, e uno di essi giunse nell’Isola in maniera avventurosa. Un antico racconto narra infatti che sarebbe stato San Pasquale Baylòn salvarlo da un naufragio. Già nel 700 un ramo della famiglia fu a Sorso, dove divenne uno dei casati più importanti del paese, stretto da rapporti forse anche di parentela con gli Amat, baroni di Sorso.

Ambrogio crebbe in un ambiente aristocratico denso di personalità appartenenti alla medio-piccola nobiltà romana e al Vaticano; trascorse l’infanzia e la giovinezza in una Roma, quella di fine 800, che usciva da uno stato di torpore secolare e gradatamente si apriva alla cultura, ai caffè, ai salotti. Ma di quella vita mondana che egli intravide. non amò quasi nulla: ad essa preferì la Chiesa e la religione. Deciso a prendere gli ordini sacerdotali, frequentò il collegio Capranica e successivamente proseguì gli studi teologici presso la Pontificia Università Gregoriana dove si laureò e contemporaneamente studiò musica dal maestro Lorenzo Perosi, all’epoca direttore del Coro della Cappella Sistina. Quasi subito però, per non arrecare dispiacere a suo padre. si convinse a rinunciare ai voti. Fu una scelta travagliata che lo segnò per tutta la vita. In verità don Antonio non ostacolò mai la sua vocazione, sebbene non fece mistero di desiderare per lui, l’unico suo figlio, tutt’altro avvenire. I Cicu tornavano a Sorso di rado e soltanto quando gli impegni di lavoro di don Antonio lo consentivano.

In una di quelle occasioni, nel 1912, don Ambrogio costituì il gruppo degli Esploratori e la squadra sportiva. Più tardi, nel Novembre del ‘14, videro la luce anche il Circolo Cattolico Alessandro Manzoni e la Filodrammatica. Il palazzo dei Cicu divenne così il primo vero punto di aggregazione che Sorso avesse mai avuto, se non si considerano naturalmente i caffè della Piazza. Ma quelle iniziative rappresentavano per molti un’assoluta novità da osservare con distacco e diffidenza.D’altra parte, in un paese dove contavano solo poche cose – la forza fisica. la battuta, il lavoro materiale, la terra. il raccolto – e tutte potenzialmente in grado dì procurare gratificazioni, era pressoché impossibile trovare un posto per uno come don Ambrogio.

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Su di lui si iniziò a gettare fango e a diffondere storie e storielle colme di malignità come solo i sorsensi sanno fare quando si tratta di mettere in ridicolo qualcuno. Poi scoppiò la guerra e il paese si svuotò. A Sorso, così come a Roma, le case dei Cicu ospitarono laboratori per la raccolta della lana e il confezionamento di vestiario per i soldati al fronte, e la Filodrammatica allestì una serie di recite di beneficenza. Chiamato sotto le armi da Ufficiale, don Ambrogio venne assegnato al Comando della seconda armata del generale Capello, persona notoriamente intrattabile e priva di scrupoli. Fu con lui sugli Altopiani, sull’Isonzo e nelle drammatiche giornate di Caporetto, ma sempre fu sconcertato dalle sue follie e dalle inumane punizioni che infliggeva alla truppa.

Un giorno si offrì generosamente al posto di uno dei cucinieri che per punizione stava per essere sepolto sotto la neve. E ciò bastò a placare l’ira del generale e farlo recedere dai suoi propositi. Di quei terribili anni, don Ambrogio conservò una medaglia di bronzo e una piccola menomazione ad un dito della mano, causata da una ferita da guerra.

Congedato alla fine del conflitto, fu collocato nella riserva e aggregato all’ 81° reggimento fanteria di stanza nella Capitale, mantenendo il grado di capitano e raggiungendo successivamente quello di maggiore. Nel Marzo del ‘24 gli fu concessa da Papa Pio XI l’onorificenza di San Gregorio Magno per l’impegno profuso nell’educazione dei giovani: e ancora, nell’Agosto dello stesso anno, il gruppo degli Esploratori ricevette la medaglia d’onore al valor civile per aver contribuito a spegnere un incendio divampato in un mulino a Sassari. Tuttavia, qualche anno dopo il circolo chiudeva.

Le disposizioni sullo scioglimento delle associazioni giovanili non inquadrate nelle organizzazioni del fascismo parlavano chiaro. Alla fine ci volle uno stratagemma per mettere a posto le cose: Cicu iniziò a sbarrare le porte della sede ai soci, mentre contemporaneamente spalancava quelle di casa sua agli ospiti. Cambiava la forma ma la sostanza rimaneva invariata.Il risultato fu che tutte le attività ripresero, e naturalmente in barba alle disposizioni vigenti. Il fascio di Sorso, che ovviamente era al corrente di ogni cosa. chiuse prima un occhio. e poi anche l’altro. Del resto, come si poteva impedire a don Ambrogio di ricevere ospiti?

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Nel corso degli anni 30 prese in affitto un piccolo appartamento in via Cesare Balbo, non lontano da Termini. La casa fu per anni un punto di riferimento per molti sorsensi che si recavano a Roma per i più disparati motivi. È il caso di ricordare tra gli altri lo scultore Giuliano Leonardi, l’allora giovanissimo Telesforo Manca e i fratelli Daniele e Giovannino Sassu, incanalati nello studio della musica dallo stesso Cicu e divenuti in seguito coristi al Teatro dell’Opera. Ma appena poteva, don Ambrogio tornava a Sorso tra i ragazzi del Circolo.

L’altra guerra, quella del ‘40, lo sorprese a Roma. Nell’Estate del 1943, dopo i primi bombardamenti alleati sulla Capitale e la caduta del fascismo, la città era in preda alla confusione più estrema. Per un momento si pensò che finalmente la guerra fosse finita, poi invece arrivarono Badoglio, l’ armistizio, i tedeschi di Kesselring. L’Urbe fu occupata. Don Ambrogio lasciò via Balbo e si rifugio in casa dei Conti Vannutelli che, nel frattempo, erano sfollati.

Qui egli divise tutto quello che c’era da dividere, e cioè fame, angoscia, paure con altri due rifugiati: un tale l’uggetta, funzionario dell’ Azienda dei telefoni, e il generale Durand, reduce dalla disastrosa Campagna di Grecia e tornato a Roma privo di tutto, senza più incarichi né uomini da dirigere. Non aveva più nulla Durand, neppure i vestiti. Il giorno che arrivò al rifugio si presentò vestito da cuoco, perché questo era tutto quello che era riuscito a trovare.

I tre passarono quasi tutto il periodo dell’occupazione germanica chiusi in casa, mentre fuori per le strade i tedeschi, come cani affamati, cercavano praticamente tutti: renitenti alla leva, ufficiali, ebrei, operai da inviare in Germania a lavorare per il Reich, antinazisti, cospiratori, traditori. Dopo la Liberazione don Ambrogio tornò definitivamente a Sorso.

Gli ultimi anni trascorsero tristemente e tra ristrettezze economiche. Don Ambrogio non si era mai curato del patrimonio di famiglia, non ne aveva mai avvertito la necessità. E ciò non perché egli vivesse nello sfarzo più sfrenato, ma semplicemente perché egli aveva ritenuto più alto e più nobile donare anziché trarre profitto dalle cose.

Nel Novembre del 1958 fu ospitato per alcuni giorni dalla Contessa De Lutti nella sua tenuta di Treviso. Subito però, un improvviso attacco d’ulcera di cui soffriva già da diverso tempo, lo costrinse a ripartire. Il viaggio finì all’ospedale Umberto I di Bellano, sul lago dì Como, dove il pomeriggio del 29 Novembre cessò di vivere.

Poi ci fu solo il tempo per compiere l’ultimo affronto: giunta a Porto Torres, la salma fu trasportata a Sorso su un carretto, poiché, per un motivo o per l’altro, non era stato possibile reperire un carro funebre. E quando finalmente il feretro arrivò in via Farina, si scoprì che le porte del palazzo erano state sigillate da chi evidentemente pensava di avere voce in capitolo al momento delle partizioni. Alla fine, il portoncino della Cappella dovette essere forzato per allestire la camera ardente.

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Sono Sandro Artioli, prete operaio

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Sono nato nel 1942. Mio padre ha fatto fino alla quarta elementare, mia madre fino alla terza.Mio padre ha fatto quarant’anni di lavoro operaio alla Breda Siderurgica con due infortuni.Mia madre faceva la lavoratrice in ospedale prima che nascessimo io e le mie due sorelle.
La mia famiglia era quindi gente povera. Io non andavo all’oratorio ma ho iniziato a 8 anni a fare il chierichetto nella parrocchia Santa Francesca Romana, imparando le frasi latine.

Quando ero in quarta elementare avevo un maestro che si dichiarava ateo. Quando si rese conto che facevo il chierichetto mi aggredì. Una volta mi chiuse in un buio armadio e mi gridò “Artioli, se sei un chierichetto perché non chiedi al tuo angelo custode di tirarti fuori?”. Poi mi ha esposto dalla finestra al secondo piano e mi ha detto: “Se ti butto giù il tuo Gesù ti salva?”.

In quinta elementare mi hanno dato un tema da scrivere: “Cosa farai da grande”. Già da quella età c’erano in me alcuni pensieri che cresceranno di più nella vita cammin facendo: scrissi che fin da piccolo volevo fare il prete per andare dai bambini poveri in Cina, India, Africa. Scrissi che avrei voluto abitare nelle capanne con loro o in una roccia che mi scavo io non nelle ricche cattedrali. Non mi sarei lasciato aggredire dal ruggito di qualsiasi leoni. E dichiarai che ero disposto a morire per Gesù.

In seminario ho deciso di andarci io: i miei genitori e i miei preti mi suggerivano di andare dopo la terza media. Io invece sono andato in prima media. I primi mesi mi buttavo a piangere perché non vedevo più i miei genitori e le mie sorelline. Il rettore ha invitato mia madre a venirmi a prendere e riportarmi a casa ben 3 volte. Quando lei arrivava io, nonostante che piangevo, mi nascondevo e non mi lasciavo portare a casa.

Nella mia vita in seminario ho avuto sempre molte divergenze e contrasti sulle cose che mi proponevano e profondamente mi riferivo di più a quello che io sentivo dentro di me, sia quando ero nelle medie e nelle superiori ma anche quando ero in teologia.

Dopo la terza teologia mi sento preso di fare una pausa di vita proletaria prima di arrivare automaticamente dopo 13 anni al sacerdozio.Sono andato in Francia a Saint Priest e ho lavorato in una fabbrica. Il padrone era bestiale e mi affiancai alle delegate. Andando a messa a Natale vidi quel padrone in prima fila in chiesa. E fece comunione. Alla fine della messa andai dal parroco e gli chiesi se sapeva chi era quel personaggio. Lui mi rispose: «Il est un bon catholique mais un mauvais chrétien».
Allora vuol dire che ci possono essere cattolici che sono pessimi cristiani.

Dalla Francia ripresi contatto col mio vescovo: gli scrissi che ero disposto a svolgere il ruolo di prete ma mi sentivo preso a farlo vivendo in basso e condividendo la pesante vita operaia. Lui mi ha mi ha detto che prendeva atto della mia richiesta e che me l’avrebbe rispettata. Ma mi chiedeva di fare inizialmente qualche anno in parrocchia. Io accettai e tornai.

L’ultimo anno di teologia era ormai chiuso e quindi non potevo rientrare in seminario per frequentare il corso che io avevo già fatto nel primo anno.Andai quindi da un mio amico prete, don Vittorio Ferrari, lo aiutai nell’oratorio e studiai da solo il quarto anno di teologia andando a fare gli esami in seminario di volta in volta.

Nel settembre 1967 sono stato ordinato prete. Nelle tabelle annuali con su le foto di tutti i preti ordinati io non ci sono però su nessuna: non mi hanno messo.

Sono stato mandato in una parrocchia a Quarto Oggiaro, uno dei quartieri periferici di Milano peggiormente devastato. Lì mi ha preso molto il disturbo sociale che c’era. E mi ci sono buttato.Tra le tante cose subite ho dovuto ad esempio difendermi dalle denunce alla curia dai ricchi. Preso dalla situazione non ci stetti solo qualche anno, come mi aveva chiesto il vescovo, ma rimasi 8 anni.

Nel settembre 1975, all’età di 33 anni mi sono buttato in Breda. Mi sono presentato dicendo che ho svolto la scuola solo fino alla terza media. Per nascondere sia il mio fare il prete sia il mio livello di alta cultura: per poter essere assunto nella bassa condizione operaia.

Chiesi al Vescovo di rimanere a Quarto Oggiaro e, non potendo fare oratorio, mi sarei dedicato agli operai di tutte le 4 chiese. Invece mi disse di non farmi più vedere a Quarto Oggiaro perché gli altri preti, sapendo che io facevo l’operaio, si sarebbero sentiti agitati dalla gente.

Per due anni sono rimasto solo, poi ci siamo uniti assieme io e don Cesare Sommariva e don Luigi Consonni: anche loro preti operai.

Rimasi in Breda Termomeccanica per 27 anni. Svolgevo il ruolo di fabbro-saldo-carpentiere. Era il ruolo lavorativo più pesante della mia fabbrica.
Dopo un anno, di fronte al disastro del mio reparto, accettai di essere eletto delegato come volevano tutti i miei compagni. Sistemai il tutto ma dopo due anni non mi proposi più come delegato ma convinsi alcuni miei amici giovani a farlo loro: dicendo che li avrei comunque aiutati.
Fare il delegato era per me un ruolo più comodo rispetto a quello dei miei compagni: che dovevano lavorare tutto il giorno senza godere dei rilassanti permessi sindacali.

L’Azienda mi ha più volte proposto di avanzare in forme di lavoro più raffinate: ma io mi sono sempre rifiutato perché volevo condividere sempre la condizione degli operai più pesantemente massacrati.
Nonostante il mio pesante lavoro mi buttai nell’innescare tra i miei compagni la necessità di far nascere una autorganizzazione di base. Affittai un piccolo locale vicino alla fabbrica per riunire molti lavoratori a discutere e decidere.

Il lavoro mi aggredì profondamente. Mi sentivo sempre molto stanco e affaticato.
Ho subito quattro infortuni i cui più gravi furono la rottura della vertebra e il massacro di un ginocchio. Poi, con gli esami che ci hanno fatto per essere stati esposti all’amianto, mi hanno trovato le placche pleuriche ai polmoni. Andai quindi in pensione nel 2002.

La mia vita è stata un collocamento radicale nella stiva dell’umanità. Da questa profonda umiltà io ho sempre più guardato e giudicato criticamente le cose che mi venivano imposte dall’alto: sia dalle gerarchie politiche-padronale sia da quelle religiose-sacrali.Entrambe erano burocraticamente sul ponte della nave dell’umanità mentre io ero con tutti quelli nella stiva.

Una volta andai dal dottore di un mio amico per valutare la sua situazione. Lui mi disse: “Mi scusi il suo amico mi ha detto che lei è un prete. Ma lei è davvero un prete?”. Io gli risposi: “Nessuno “è” un prete. Ognuno è un essere umano”. Si può solo dire che uno svolge la funzione di prete, ma tutti sono essere umani. Al di là dei ruoli funzionali che svolgono è la loro umanità che può essere buona o schifosa. Sono quindi del parere che il sacramento della “consacrazione” dei preti non modifica la loro struttura umana ma affida loro solo un ruolo da svolgere.

Adesso da tre anni ho subito la pesante conseguenza dalla mia vita lavorativa. La cosa peggiore è la mia testa che non capisce più nomi di chiunque e parole di qualsiasi tipo.Sono molto triste.Sono ridotto chiuso nella piccola stanzetta del negozietto in cui facevamo gli incontri con gli operai.Non riesco a fare interventi culturali ma mi dedico a fare azioni umane a coloro che sono poveri e massacrati.
In quella stanzetta alla domenica dico messa con alcuni amici.Abbiate pietà e misericordia di me.