Si, in tutti grande senso d’impotenza. Eppure…

di Andrea Bigalli

IMG_20240410_135328_(1080_x_1080_pixel)

 

Forse è una delle Pasque più difficili che mi è capitato di vivere, non so dirla se non con angoscia. Stiamo assistendo a mattanze che da sempre sono parte della peggiore tradizione umana, ma ci eravamo illusi che il sentire collettivo le ritenesse inaccettabili. Non è più così: credo non per un aumento di crudeltà, ma perché il senso di impotenza impera, si perdono le dinamiche di reazione, ci si assuefà al dolore altrui, all’ingiustizia che ne è la matrice.

La regola è la guerra:

– di popoli, di culture e di economie tra di
loro

– del genere umano contro l’ecosistema

– del genere maschile contro quello
femminile.

Ritenere che la buona politica sia un miraggio non mi pare eccessivo: forse, mai in atto nel senso pieno del termine. Vediamo all’opera forze disgregatrici del patto sociale, e sappiamo a scapito di chi stanno operando, chi pagherà le conseguenze dello smantellamento del sistema dei diritti di chi è malato, di chi lavora, di chi deve studiare e crescere, di chi dovrebbe inserirsi nella socialità di ogni Paese.

È come se la spinta vitale dell’empatia si stia esaurendo e con essa la dimensione culturale degli individui. Crisi dei sistemi politici, dei modelli socio finanziari (anche di quelli trionfanti come il neoliberismo ipercapitalista), delle etiche ecopacifiste, della solidarietà collettivista, tutto sommato anche del liberalismo progressista. Persino chi sta vincendo sullo scacchiere dei rapporti di forza geopolitici credo lo stia facendo nella coscienza della sconfitta. Perché i modelli di sviluppo che sussistono e imperano – lo sa anche chi li sostiene e ha fatto sì che si siano affermati – non ci stanno portando se non verso l’abisso del conflitto assoluto e definitivo.

Proprio la leggerezza (l’incoscienza?) con cui si valuta l’uso delle testate termonucleari ci fa capire che la mancanza di consapevolezza appare come il rischio più significativo che stiamo vivendo. E consegue alla crisi culturale, che passa, dati alla mano, per la riduzione dell’indice medio di intelligenza. Dati statistici che trovano il tempo che hanno: se però li valuto con il decadere dell’empatia ci ritrovo senso.

Da buon teologo contestuale non ho resistito a un’analisi del dove siamo. Riguardo al quando, è la Pasqua di quest’anno 2024. Cosa posso dire della mia identità di cristiano in questo passaggio storico, in cui anche il cristianesimo – sicuramente il cattolicesimo, in dettaglio quello italiano – sta vivendo un collasso epocale? Di significati, di presenze, nel ricambio generazionale: usiamo linguaggi a dir poco marginali, si sta sfaldando un residuo potere sociale così tanto rimpianto da qualcuno, siamo assenti sul proscenio delle arti e della letteratura. Qualcuno potrà affermare che è conseguenza degli scandali, del permanere di un potere strutturale: qualcuno dà la colpa al Concilio Vaticano II, come se la tradizione intesa in maniera rigida e nella formalità della liturgia avesse evitata, a suo tempo, una crisi ancor più grave.

Siamo in enorme difficoltà nonostante il pontefice più adeguato (parere personale) che potessimo pensare di avere. Bergoglio è consapevole delle criticità presenti, intra ed extra ecclesia, e mostra di avere il senso della necessaria transizione, verso una chiesa che si assuma il paradigma della possibile fine del cattolicesimo. La lucidità del suo pensiero sulla contemporaneità, in una limpida strutturazione umanista, è innegabile. Ma ha linee minoritarie: pure all’interno della Chiesa, vescovi in testa.

Nel nodo cruciale delle celebrazioni pasquali mi ritrovo a riflettere sulla Passione di Gesù Cristo, quest’anno in liturgia dal Vangelo di Marco. Per il cristianesimo tornare all’essenziale lezione della narrazione biblica è, per paradosso, la via più diretta per liberarsi dal grande male di ogni confessione di fede, il fondamentalismo (per la versione laica, l’integralismo, occorrerebbe tornare ai contenuti essenziali delle filosofie veramente umaniste). Per paradosso, perché nella vulgata corrente è proprio la Bibbia (o gli altri testi di riferimento, come il Corano), il presupposto di fondo delle visioni religiose più retrive sul genere umano, ad esempio su guerra e condizione femminile. E questo è vero, ma al di là di quelle che sono – o dovrebbero essere – le rette intenzioni delle confessioni religiose: un’esegesi (o una interpretazione di altro segno) accurata e scientifica dei testi canonici, che comporta la messa in discussione di molti presupposti, dati fino ad adesso per acquisiti.

Ne emergerebbe ben altro, rispetto a un immaginario collettivo che attribuisce a Dio caratteristiche che nei Libri non troviamo. È l’annosa questione dell’articolato rapporto tra Testo, Tradizione, Ermeneutica: non è solo una questione tecnica (e teista; vale per ogni Scritto significativo per l’umanità). Da diverse interpretazioni dei brani biblici scaturiscono elementi teologici e\o morali radicalmente diversi, addirittura opposti. Pensate ai testi in cui si tratta dell’omosessualità: vi garantisco che non tutto si risolve (resta il dato di fondo di un messaggio divino espresso con categorie culturali determinate e datate, e la questione diviene superarle alla luce dell’evoluzione culturale del genere umano), ma si può arrivare altrove, sul piano del rispetto e dell’accoglienza, da quanto gli elementi più aggressivi del cattolicesimo conservatore sostengono, dimenticando che l’omofobia è condannata dalla chiesa stessa. Il cambiamento in atto è evidente: chi scrive è uno dei componenti del Coordinamento per una pastorale di inclusione istituito dalla diocesi di Firenze, con attenzione e azione non solo verso le persone omoaffettive, ma verso tutte quelle statuizioni di vita spesso stigmatizzate da una parte della chiesa stessa.

Gesù Cristo si presenta come un leader atipico, fuori dai parametri della tipologia dettata dal potere, dal maschilismo, dal classismo, dal suprematismo. Elementi che le chiese hanno spesso assunto, a scapito della condizione e del diritto di tanti suoi membri, in primis quelli di sesso femminile.

Ne è scaturita

– la chiesa che benedice eserciti e
armamenti, il dominio maschile fino alla
liceità della violenza

– il razzismo

– il profitto incondizionato

– il disprezzo verso le diversità.

– si benedicono i guadagni illeciti del lavoro
nero

– ci si scandalizza se si benedicono
persone omosessuali.

È un Dio incarnato che teme la morte, non vorrebbe rinunciare alla propria vita, prova angoscia per questo, cerca di non viverla in solitudine. Si consegna inerme alla violenza del potere religioso e sociale per coerenza a una predicazione di reciprocità e accoglienza, che annuncia un Dio diverso: il Dio crocifisso che destina a sé la più terribile delle morti. Quella degli schiavi ribelli, di chi contesta, di chi chiede che le cose cambino. Quella che ti condanna a morire fuori dalle mura della città e delle idee sancite dalle maggioranze come lecite e adeguate, il Dio che svuota sé stesso dalla divinità per essere prossimo all’umano nell’assoluta solitudine della morte. Un Dio che morendo dichiara l’abbandono come condizione delle fasi estreme dell’esistere, calandosi in esse: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Estreme fino a quella dell’abbandono da sé stessi, l’estraniazione dell’identità di fronte al potere del Nulla. Si annienta la propria identità per garantirla a tutte e tutti: questo è il pro/esistere, l’esistere per, dell’amore.

Questa riflessione si deve estendere a tutto il percorso narrativo dei Vangeli, ricordandoci che il Cristo è stato molto diverso da quello mostrato dalle chiese con il loro agire. Non era certo il difensore degli status quo, il sostenitore dei sistemi sacrificali che condannano dissidenze e inutilità a morte: proprio perché nessuno ci salga più, Gesù è disposto a salire di persona sulla croce. Un Messia eloquente e credibile.

Un Cristo che raccoglie le memorie negate, dà ragione alle tenerezze che appaiono inutili, riabilita le esistenze bollate come deviate. In Marco 14,3-9 compare una donna che unge Gesù con un profumo di grande valore economico, c’è chi si indigna per moralismo, ma egli dissente: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».

Il ruolo delle donne emerge con chiarezza: e non è espresso in atteggiamenti convenzionali e stereotipati secondo le gerarchie maschili, marginale, mortificato dai pregiudizi. Saranno sotto la croce quando i discepoli sono fuggiti, per prime al sepolcro a farsi annunciare la Resurrezione, diventando di essa un’icona vivente. Se anche la storia ufficiale e la cronologia ecclesiastica le dimentica, sono nel cuore del Signore. La memoria di lei diviene quella del lato negato della realtà, il valore di ciò che è scartato, di quanto diviene materia per una diversa realtà, governata dalle logiche della cura e della tenerezza, non della forza e della negazione della ragione e del diritto.

Si può leggere il Vangelo come una bella illusione, la celebrazione delle frustrazioni da parte di chi non vuol accettare morte e ingiustizia e le proietta in un sogno impossibile. Oppure esso diviene l’Oltre e l’Altrove di tutte le aspirazioni migliori, le parole di chi viene a dire che la nostra anima, comunque la si voglia intendere, non solo non è morta, ma forse, nella sua dimensione più limpida e amorevole, non può essere annientata.

Un grande martire della democrazia, Salvador Allende, diceva che «noi vivremo in eterno in quella parte di noi che abbiamo donato agli altri». Corrisponde a quanto, pure lui prossimo alla morte, affermava il vescovo Oscar Romero facendo sintesi tra la sua fede in Cristo e le speranze umane sul non morire: «Se mi uccidono resusciterò nel mio popolo». Dopo venti secoli l’identità possibile di un cristiano come me passa per quanto sosteneva Paolo di Tarso: il mondo ci chiede segni o intelligenza, ma noi portiamo nelle nostre conoscenze la mancanza di intelligenza di chi consegna la propria vita per amore, il segno nefasto della morte che non si cerca, ma neanche si nega se può significare luce per altre e altri.

(volerelaluna.it)

Si, in tutti grande senso d’impotenza. Eppure…ultima modifica: 2024-04-02T05:53:46+02:00da piero-murineddu
Reposta per primo quest’articolo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non verrà pubblicato ma sarà visibile all'autore del blog.
I campi obbligatori sono contrassegnati *