L’ Eredità Umana, quella che realmente conta, lasciata da “don” Ambrogino Cicu

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di Piero  Murineddu

Dopo qualche tempo, l’accenno fatto recentemente ai vari personaggi di rilievo nati o vissuti nella storica via Farina di Sorso, mi dà lo spunto per riproporre l’articolo riguardante l’ancor poco conosciuto Ambrogino Cicu, pubblicato nell’aprile 1998 su “Orizzonte“, un giornale illustrato locale durato purtroppo il tempo di sfornarne pochissimi numeri. Esperienza editoriale senz’altro apprezzabile voluto da un volenteroso gruppo di giovani amici, che ad un certo punto, per essere confermati nell’impegno, avevano affidato la direzione al già 60enne Gavino Piras, di cui ho parlato in questa pagina, mentre in quest’altra  ho trattato del periodico illustrato rimasto a tre numero 0 e a un numero 1.  Tempo addietro vi era stato il numero unico de “Lu Siazzu” di cui da qualche parte ho scritto in questo blog e che probabilmente riprenderò in considerazione. Altro tentativo editoriale fu “Forza e coraggio“, nato in ambiente calcistico ma che voleva occuparsi anche di altro. A breve riproporrò la pagina scritta nel 2014 grazie alle notizie in proposito avute da Mario Vacca. Mi mancano conferme che a Sorso vi siano state altre iniziative simili, fatta eccezione per alcune pubblicazione nate in ambito parrocchiale o simili. Se qualcuno è più informato di me, mi faccia e ci faccia sapere.

Quindi la vicenda di Ambrogino (perché col diminutivo?). Il “don” che precede è dovuto alle origini nobiliari della famiglia.  Titolo onorifico derivante da dominus, nato per creare distinzione dalla normalissima plebe, considerata evidentemente bassa se non addirittura disprezzabile plebaglia da chi presumeva, per un motivo o per l’altro, di sentirsi superiore, quindi, guarda caso, anche i capi mafia. In seguito l’appellativo è passato ai preti secolari, giusto sempre per mantenere questa per me inaccettabile distinzione che sarebbe ora di mettere da parte.

Comunque sia e fatta questa mia piccola parentesi diciamo pure un tantino polemica, nel sentire comune dei sorsesi si arriva ancora ancora a sapere qualcosina di DON Ambrogino, mentre se si nomina Ambrogio Cicu molti si chiederebbero ” e ga saristhia?”. E va be’, dai. Punto e a capo.

A raccontare  di don Ambrogino fu Gianmario Urgeghe nel giornale che si diceva, evidentemente ben documentato su questa famiglia d’accudiddi a Sorso discendenti di un naufrago salvato dai flutti marini nientemeno che da San Pasquale Baylón, illetterato mistico spagnolo dell’Ordine dei Frati Minori Alcantarini, rimasto a lungo nei conventi addetto ai servizi di portineria. Anche su questo molto presunto salvataggio “miracoloso” attendo naturalmente delucidazioni, sempre gradite.

Un articolo, questo di Urgeghe, molto severo nei confronti di buona parte della popolazione sussinca contemporanea di Ambrogio, tutt’altro riconoscente verso un uomo che aveva speso la sua vita per elevare umanamente e culturalmente la gioventù locale. Questa severità di giudizio si evince  già dall’apertura del testo, dove si dice che di questo vero e proprio filantropo in paese non sia rimasto praticamente niente.  A parte il grande edificio fatiscente – lasciato in eredità all’unica parrocchia di allora e a cui con scarsissimi risultati l’ indimenticato Giovanni Manca aveva tentato di dare nuova vita –  e il saloncino a pianterreno usato e strausato per diverse attività, sicuramente di “roba”, di cose materiali, non è rimasta nessuna traccia, dal momento che certi furbacchioni senza scrupoli avevano fatto man bassa di tutto ciò che di pregio possedeva la famiglia Cicu. Ma la stessa cosa non si può dire dell’insegnamento ricevuto dai giovani di allora dall’unico figlio di Antonio, piemontese, e Maria, originaria di Ploaghe. Prova ne sono i tanti che l’hanno conosciuto e che, avvicinati dal sottoscritto, oltre che parlarmene ottimamente, hanno garantito che l’esempio di  disinteressata umanità ricevuto nel contatto quotidiano attraverso varie attività col generoso e intelligente Ambrogio, l’ hanno fatto proprio nella loro vita, trasmettendolo a loro volta, per quanto possibile, ai propri figli. 

L’ultimo scorcio della sua esistenza e nonostante l’ agiatezza della famiglia, Ambrogio sembra averla trascorsa nella pesante ristrettezza economica, e ancor peggio, almeno così appare nell’articolo, nella tristezza per non aver sentito alcun tipo di gratificazione da parte di chi dal suo impegno era stato beneficiato.

Egli aveva ritenuto più alto e più nobile donare anziché trarre profitto dalle cose“. È uno dei passaggi evidenziato nel testo. Tristezza, si è detto, quel sentimento che in vari modi tutti si cerca, nel possibile, di evitare. Personalmente sono stato sempre convinto che ci sia più gioia nel dare che nel ricevere. Se Ambrogio ha condotto la sua esistenza nel modo descritto, chi può dire che nel suo animo, nonostante le oggettive difficoltà materiali e la non perfetta condizione di salute, abbia prevalso la tristezza? Certo, vedersi probabilmente avversato nonostante le personali motivazioni di benevolenza nei confronti altrui, benevolenza tradotta in fatti concreti, non può provocare grande allegria, ma ciò non per forza toglie la serenità interiore per aver speso bene i propri anni, ed io credo che sia questo che conta. Per Ambrogio come per ciascuno.

Nell’articolo si dice chiaramente che il mancato prete Ambrogio aveva messo su quella che molto probabilmente è stata la prima forma di associazionismo nata in paese, fatta eccezione credo per le squadre di calcio, ma questo è un altro discorso, riconoscendo tuttavia l’importanza di mettersi insieme per interessi puramente sportivi, oggi come forse allora.

Anche questo darebbe lo spunto per valutare  l’interesse che a Sorso ci sia di associarsi per portare avanti obiettivi comuni, siano essi come detto sportivi, di solidarietà e mutuo aiuto, teatrali, politici e in generale culturali. Tema su cui riflettere molto, considerando la diffusa tendenza a rinchiudersi nel proprio protettivo privato. Anche su questo vediamo in seguito di trovare spunti per parlarne.

Comunque sia, sono grato a Gianmario per questa sua passione di ricerca manifestata in questo caso per “don” Ambrogino, ma so anche per altre figure del nostro passato locale. Il valorizzare poi la conoscenza e curare la divulgazione in diverse forme a beneficio delle attuali e future generazioni è compito di ciascuno, comprese le istituzioni pubbliche, a volte, anche se comprensibilmente, prese solo dalle contingenze del presente, seppure urgenti.

Andiamo a leggere del nobile Ambrogino da Sossu, ma nato nella capitale.

La disinteressata presenza filantropica a Sorso di “don” Ambrogino

di Gianmario Urgeghe

Cosa ha insegnato don Ambrogio a Sorso? Verrebbe da rispondere nulla, perché nulla in effetti è rimasto, fatta eccezione, naturalmente, per il suo palazzo che è ancora lì, in via Farina, a sfidare il tempo e gli uomini, quelli che, se fosse stato possibile, l’avrebbero smontato e portato a casa pezzo dopo pezzo.

L’edificio è oggi vuoto e disabitato, testimone di un’epoca forse irripetibile e di un’opera che coinvolse in oltre quaranta anni centinaia di sorsensi, anche se pochi seppero coglierne il significato. Così, nella memoria rimane quest’uomo schivo, generoso e religiosissimo, ma non il suo straordinario insegnamento. E rimane pure, nei cimitero di Sorso, una tomba ormai fatiscente sulla quale, di tanto in tanto, qualcuno si ricorda di deporre dei fiori.

Nelle ultime volontà, contenute nel testamento, don Ambrogio lasciò la sua casa alla parrocchia di San Pantaleo con la clausola di cedere una parte in usufrutto, vita natural durante, ai coniugi Solinas che già vi abitavano.

Con la sua morte. sopraggiunta improvvisamente nel 1958 all’età di 76 anni, svanirono nel nulla la Filodrammatica, le scenografie del pittore Piero Mura e i ricchi costumi di scena, il Circolo cattolico, la sua biblioteca ed il gruppo degli Esploratori. Uguale sorte ebbero mobili, arazzi, tappeti, circa 300 quadri di soggetto sacro – parte di essi donata e consegnata, per volere dello stesso Cicu. alla Curia Arcivescovile di Sassari – numerosi di soggetto profano, ed altri oggetti, anche di un certo valore, in tutta fretta inventariati e subito rivenduti per quattro soldi all’asta, allo scopo di racimolare circa i 3 milioni di lire necessari per poter pagare la tassa di successione. Probabilmente nessuno allora se ne rese conto, ma quel triste epilogo rappresentò per Sorso una sconfitta: più di una persona, oggi, dovrebbe riflettere ed interrogarsi su come si sia potuto dissipare un autentico tesoro nel breve volgere di qualche giorno. Ma molto di quanto accadde subito dopo la morte del Cicu è tuttora avvolto nel mistero, e pare che oscuri personaggi siano entrati nella vicenda vantando presunte parentele e amicizie, al fine di ottenere qualcosa. In realtà, c’era da prendere molto meno di quanto si pensasse, anche perché don Ambrogio, nell’intento di assicurare una vecchiaia economicamente dignitosa, aveva già ceduto – in alcuni casi gratuitamente e in altri per cifre irrisorie – tutti i suoi terreni e il Cineteatro Goldoni. A ciò si aggiunga una quantità imprecisata di oggetti che qualcuno pensò bene di portarsi via quando egli era ancora in vita, approfittando di una progressiva cecità che colpì il poveretto negli ultimi anni.

Ambrogio Cicu D’Escanu nacque a Roma, in via dei Condotti, il 23 Aprile 1881 da Antonio, procuratore generale della Corte di Cassazione, e Maria Sini, appartenente ad una delle famiglie più in vista di Ploaghe.

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I Cicu D’Escanu erano nobili oriundi della Spagna, e uno di essi giunse nell’Isola in maniera avventurosa. Un antico racconto narra infatti che sarebbe stato San Pasquale Baylòn salvarlo da un naufragio. Già nel 700 un ramo della famiglia fu a Sorso, dove divenne uno dei casati più importanti del paese, stretto da rapporti forse anche di parentela con gli Amat, baroni di Sorso.

Ambrogio crebbe in un ambiente aristocratico denso di personalità appartenenti alla medio-piccola nobiltà romana e al Vaticano; trascorse l’infanzia e la giovinezza in una Roma, quella di fine 800, che usciva da uno stato di torpore secolare e gradatamente si apriva alla cultura, ai caffè, ai salotti. Ma di quella vita mondana che egli intravide. non amò quasi nulla: ad essa preferì la Chiesa e la religione. Deciso a prendere gli ordini sacerdotali, frequentò il collegio Capranica e successivamente proseguì gli studi teologici presso la Pontificia Università Gregoriana dove si laureò e contemporaneamente studiò musica dal maestro Lorenzo Perosi, all’epoca direttore del Coro della Cappella Sistina. Quasi subito però, per non arrecare dispiacere a suo padre. si convinse a rinunciare ai voti. Fu una scelta travagliata che lo segnò per tutta la vita. In verità don Antonio non ostacolò mai la sua vocazione, sebbene non fece mistero di desiderare per lui, l’unico suo figlio, tutt’altro avvenire. I Cicu tornavano a Sorso di rado e soltanto quando gli impegni di lavoro di don Antonio lo consentivano.

In una di quelle occasioni, nel 1912, don Ambrogio costituì il gruppo degli Esploratori e la squadra sportiva. Più tardi, nel Novembre del ‘14, videro la luce anche il Circolo Cattolico Alessandro Manzoni e la Filodrammatica. Il palazzo dei Cicu divenne così il primo vero punto di aggregazione che Sorso avesse mai avuto, se non si considerano naturalmente i caffè della Piazza. Ma quelle iniziative rappresentavano per molti un’assoluta novità da osservare con distacco e diffidenza.D’altra parte, in un paese dove contavano solo poche cose – la forza fisica. la battuta, il lavoro materiale, la terra. il raccolto – e tutte potenzialmente in grado dì procurare gratificazioni, era pressoché impossibile trovare un posto per uno come don Ambrogio.

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Su di lui si iniziò a gettare fango e a diffondere storie e storielle colme di malignità come solo i sorsensi sanno fare quando si tratta di mettere in ridicolo qualcuno. Poi scoppiò la guerra e il paese si svuotò. A Sorso, così come a Roma, le case dei Cicu ospitarono laboratori per la raccolta della lana e il confezionamento di vestiario per i soldati al fronte, e la Filodrammatica allestì una serie di recite di beneficenza. Chiamato sotto le armi da Ufficiale, don Ambrogio venne assegnato al Comando della seconda armata del generale Capello, persona notoriamente intrattabile e priva di scrupoli. Fu con lui sugli Altopiani, sull’Isonzo e nelle drammatiche giornate di Caporetto, ma sempre fu sconcertato dalle sue follie e dalle inumane punizioni che infliggeva alla truppa.

Un giorno si offrì generosamente al posto di uno dei cucinieri che per punizione stava per essere sepolto sotto la neve. E ciò bastò a placare l’ira del generale e farlo recedere dai suoi propositi. Di quei terribili anni, don Ambrogio conservò una medaglia di bronzo e una piccola menomazione ad un dito della mano, causata da una ferita da guerra.

Congedato alla fine del conflitto, fu collocato nella riserva e aggregato all’ 81° reggimento fanteria di stanza nella Capitale, mantenendo il grado di capitano e raggiungendo successivamente quello di maggiore. Nel Marzo del ‘24 gli fu concessa da Papa Pio XI l’onorificenza di San Gregorio Magno per l’impegno profuso nell’educazione dei giovani: e ancora, nell’Agosto dello stesso anno, il gruppo degli Esploratori ricevette la medaglia d’onore al valor civile per aver contribuito a spegnere un incendio divampato in un mulino a Sassari. Tuttavia, qualche anno dopo il circolo chiudeva.

Le disposizioni sullo scioglimento delle associazioni giovanili non inquadrate nelle organizzazioni del fascismo parlavano chiaro. Alla fine ci volle uno stratagemma per mettere a posto le cose: Cicu iniziò a sbarrare le porte della sede ai soci, mentre contemporaneamente spalancava quelle di casa sua agli ospiti. Cambiava la forma ma la sostanza rimaneva invariata.Il risultato fu che tutte le attività ripresero, e naturalmente in barba alle disposizioni vigenti. Il fascio di Sorso, che ovviamente era al corrente di ogni cosa. chiuse prima un occhio. e poi anche l’altro. Del resto, come si poteva impedire a don Ambrogio di ricevere ospiti?

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Nel corso degli anni 30 prese in affitto un piccolo appartamento in via Cesare Balbo, non lontano da Termini. La casa fu per anni un punto di riferimento per molti sorsensi che si recavano a Roma per i più disparati motivi. È il caso di ricordare tra gli altri lo scultore Giuliano Leonardi, l’allora giovanissimo Telesforo Manca e i fratelli Daniele e Giovannino Sassu, incanalati nello studio della musica dallo stesso Cicu e divenuti in seguito coristi al Teatro dell’Opera. Ma appena poteva, don Ambrogio tornava a Sorso tra i ragazzi del Circolo.

L’altra guerra, quella del ‘40, lo sorprese a Roma. Nell’Estate del 1943, dopo i primi bombardamenti alleati sulla Capitale e la caduta del fascismo, la città era in preda alla confusione più estrema. Per un momento si pensò che finalmente la guerra fosse finita, poi invece arrivarono Badoglio, l’ armistizio, i tedeschi di Kesselring. L’Urbe fu occupata. Don Ambrogio lasciò via Balbo e si rifugio in casa dei Conti Vannutelli che, nel frattempo, erano sfollati.

Qui egli divise tutto quello che c’era da dividere, e cioè fame, angoscia, paure con altri due rifugiati: un tale l’uggetta, funzionario dell’ Azienda dei telefoni, e il generale Durand, reduce dalla disastrosa Campagna di Grecia e tornato a Roma privo di tutto, senza più incarichi né uomini da dirigere. Non aveva più nulla Durand, neppure i vestiti. Il giorno che arrivò al rifugio si presentò vestito da cuoco, perché questo era tutto quello che era riuscito a trovare.

I tre passarono quasi tutto il periodo dell’occupazione germanica chiusi in casa, mentre fuori per le strade i tedeschi, come cani affamati, cercavano praticamente tutti: renitenti alla leva, ufficiali, ebrei, operai da inviare in Germania a lavorare per il Reich, antinazisti, cospiratori, traditori. Dopo la Liberazione don Ambrogio tornò definitivamente a Sorso.

Gli ultimi anni trascorsero tristemente e tra ristrettezze economiche. Don Ambrogio non si era mai curato del patrimonio di famiglia, non ne aveva mai avvertito la necessità. E ciò non perché egli vivesse nello sfarzo più sfrenato, ma semplicemente perché egli aveva ritenuto più alto e più nobile donare anziché trarre profitto dalle cose.

Nel Novembre del 1958 fu ospitato per alcuni giorni dalla Contessa De Lutti nella sua tenuta di Treviso. Subito però, un improvviso attacco d’ulcera di cui soffriva già da diverso tempo, lo costrinse a ripartire. Il viaggio finì all’ospedale Umberto I di Bellano, sul lago dì Como, dove il pomeriggio del 29 Novembre cessò di vivere.

Poi ci fu solo il tempo per compiere l’ultimo affronto: giunta a Porto Torres, la salma fu trasportata a Sorso su un carretto, poiché, per un motivo o per l’altro, non era stato possibile reperire un carro funebre. E quando finalmente il feretro arrivò in via Farina, si scoprì che le porte del palazzo erano state sigillate da chi evidentemente pensava di avere voce in capitolo al momento delle partizioni. Alla fine, il portoncino della Cappella dovette essere forzato per allestire la camera ardente.

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L’ Eredità Umana, quella che realmente conta, lasciata da “don” Ambrogino Cicuultima modifica: 2024-03-28T05:31:21+01:00da piero-murineddu
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