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L’ Eredità Umana, quella che realmente conta, lasciata da “don” Ambrogino Cicu

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di Piero  Murineddu

Dopo qualche tempo, l’accenno fatto recentemente ai vari personaggi di rilievo nati o vissuti nella storica via Farina di Sorso, mi dà lo spunto per riproporre l’articolo riguardante l’ancor poco conosciuto don Ambrogino Cicu, pubblicato nell’aprile 1998 su “Orizzonte“, un giornale illustrato locale durato purtroppo il tempo di sfornarne pochissimi numeri. Esperienza editoriale senz’altro apprezzabile voluto da un volenteroso gruppo di giovani amici, che ad un certo punto, per essere confermati nell’impegno, avevano affidato la direzione al già 60enne Gavino Piras, di cui ho parlato in questa pagina, mentre in quest’altra  ho trattato del periodico illustrato rimasto a tre numero 0 e a un numero 1.  Tempo addietro vi era stato il numero unico de “Lu Siazzu” di cui da qualche parte ho scritto in questo blog e che probabilmente riprenderò in considerazione. Mi mancano conferme che a Sorso vi siano state altre iniziative simili, fatta eccezione per alcune pubblicazione nate in ambito parrocchiale o simili. Se qualcuno è più informato di me, mi faccia e ci faccia sapere.

Quindi la vicenda di Ambrogino. Il “don”, anche se i preti entrano nell’argomento, è dovuto alle origini nobiliari della famiglia. A raccontarne fu Gianmario Urgeghe nel giornale che si diceva, evidentemente ben documentato su questa famiglia d’accudiddi a Sorso discendenti di un naufrago salvato dai flutti marini nientemeno che da San Pasquale Baylón, illetterato mistico spagnolo dell’Ordine dei Frati Minori Alcantarini, rimasto a lungo nei conventi addetto ai servizi di portineria. Anche su questo molto presunto salvataggio “miracoloso” attendo naturalmente delucidazioni, sempre gradite.

Un articolo, questo di Urgeghe, molto severo nei confronti di buona parte della popolazione sussinca contemporanea di Ambrogio, tutt’altro riconoscente verso un uomo che aveva speso la sua vita per elevare umanamente e culturalmente la gioventù locale. Questa severità di giudizio si evince  già dall’apertura del testo, dove si dice che di questo vero e proprio filantropo in paese non sia rimasto praticamente niente.  A parte il grande edificio fatiscente – lasciato in eredità all’unica parrocchia di allora e a cui con scarsissimi risultati l’ indimenticato Giovanni Manca aveva tentato di dare nuova vita –  e il saloncino a pianterreno usato e strausato per diverse attività, sicuramente di “roba”, di cose materiali, non è rimasta nessuna traccia, dal momento che certi furbacchioni senza scrupoli avevano fatto man bassa di tutto ciò che di pregio possedeva la famiglia Cicu. Ma la stessa cosa non si può dire dell’insegnamento ricevuto dai giovani di allora dall’unico figlio di Antonio, piemontese, e Maria, originaria di Ploaghe. Prova ne sono i tanti che l’hanno conosciuto e che, avvicinati dal sottoscritto, oltre che parlarmene ottimamente, hanno garantito che l’esempio di  disinteressata umanità ricevuto nel contatto quotidiano attraverso varie attività col generoso e intelligente Ambrogio, l’ hanno fatto proprio nella loro vita, trasmettendolo a loro volta, per quanto possibile, ai propri figli. 

L’ultimo scorcio della sua esistenza e nonostante l’ agiatezza della famiglia, Ambrogio sembra averla trascorsa nella pesante ristrettezza economica, e ancor peggio, almeno così appare nell’articolo, nella tristezza per non aver sentito alcun tipo di gratificazione da parte di chi dal suo impegno era stato beneficiato.

Egli aveva ritenuto più alto e più nobile donare anziché trarre profitto dalle cose“. È uno dei passaggi evidenziato nel testo. Tristezza, si è detto, quel sentimento che in vari modi tutti si cerca, nel possibile, di evitare. Personalmente sono stato sempre convinto che ci sia più gioia nel dare che nel ricevere. Se Ambrogio ha condotto la sua esistenza nel modo descritto, chi può dire che nel suo animo, nonostante le oggettive difficoltà materiali e la non perfetta condizione di salute, abbia prevalso la tristezza? Certo, vedersi probabilmente avversato nonostante le personali motivazioni di benevolenza nei confronti altrui, benevolenza tradotta in fatti concreti, non può provocare grande allegria, ma ciò non per forza toglie la serenità interiore per aver speso bene i propri anni, ed io credo che sia questo che conta. Per Ambrogio come per ciascuno.

Nell’articolo si dice chiaramente che il mancato prete Ambrogio aveva messo su quella che molto probabilmente è stata la prima forma di associazionismo nata in paese, fatta eccezione credo per le squadre di calcio, ma questo è un altro discorso, riconoscendo tuttavia l’importanza di mettersi insieme per interessi puramente sportivi, oggi come forse allora.

Anche questo darebbe lo spunto per valutare  l’interesse che a Sorso ci sia di associarsi per portare avanti obiettivi comuni, siano essi come detto sportivi, di solidarietà e mutuo aiuto, teatrali, politici e in generale culturali. Tema su cui riflettere molto, considerando la diffusa tendenza a rinchiudersi nel proprio protettivo privato. Anche su questo vediamo in seguito di trovare spunti per parlarne.

Comunque sia, sono grato a Gianmario per questa sua passione di ricerca manifestata in questo caso per “don” Ambrogino, ma so anche per altre figure del nostro passato locale. Il valorizzare poi la conoscenza e curare la divulgazione in diverse forme a beneficio delle attuali e future generazioni è compito di ciascuno, comprese le istituzioni pubbliche, a volte, anche se comprensibilmente, prese solo dalle contingenze del presente, seppure urgenti.

Andiamo a leggere del nobile Ambrogino da Sossu, ma nato nella capitale.

La disinteressata presenza filantropica a Sorso di “don” Ambrogino

di Gianmario Urgeghe

Cosa ha insegnato don Ambrogio a Sorso? Verrebbe da rispondere nulla, perché nulla in effetti è rimasto, fatta eccezione, naturalmente, per il suo palazzo che è ancora lì, in via Farina, a sfidare il tempo e gli uomini, quelli che, se fosse stato possibile, l’avrebbero smontato e portato a casa pezzo dopo pezzo.

L’edificio è oggi vuoto e disabitato, testimone di un’epoca forse irripetibile e di un’opera che coinvolse in oltre quaranta anni centinaia di sorsensi, anche se pochi seppero coglierne il significato. Così, nella memoria rimane quest’uomo schivo, generoso e religiosissimo, ma non il suo straordinario insegnamento. E rimane pure, nei cimitero di Sorso, una tomba ormai fatiscente sulla quale, di tanto in tanto, qualcuno si ricorda di deporre dei fiori.

Nelle ultime volontà, contenute nel testamento, don Ambrogio lasciò la sua casa alla parrocchia di San Pantaleo con la clausola di cedere una parte in usufrutto, vita natural durante, ai coniugi Solinas che già vi abitavano.

Con la sua morte. sopraggiunta improvvisamente nel 1958 all’età di 76 anni, svanirono nel nulla la Filodrammatica, le scenografie del pittore Piero Mura e i ricchi costumi di scena, il Circolo cattolico, la sua biblioteca ed il gruppo degli Esploratori. Uguale sorte ebbero mobili, arazzi, tappeti, circa 300 quadri di soggetto sacro – parte di essi donata e consegnata, per volere dello stesso Cicu. alla Curia Arcivescovile di Sassari – numerosi di soggetto profano, ed altri oggetti, anche di un certo valore, in tutta fretta inventariati e subito rivenduti per quattro soldi all’asta, allo scopo di racimolare circa i 3 milioni di lire necessari per poter pagare la tassa di successione. Probabilmente nessuno allora se ne rese conto, ma quel triste epilogo rappresentò per Sorso una sconfitta: più di una persona, oggi, dovrebbe riflettere ed interrogarsi su come si sia potuto dissipare un autentico tesoro nel breve volgere di qualche giorno. Ma molto di quanto accadde subito dopo la morte del Cicu è tuttora avvolto nel mistero, e pare che oscuri personaggi siano entrati nella vicenda vantando presunte parentele e amicizie, al fine di ottenere qualcosa. In realtà, c’era da prendere molto meno di quanto si pensasse, anche perché don Ambrogio, nell’intento di assicurare una vecchiaia economicamente dignitosa, aveva già ceduto – in alcuni casi gratuitamente e in altri per cifre irrisorie – tutti i suoi terreni e il Cineteatro Goldoni. A ciò si aggiunga una quantità imprecisata di oggetti che qualcuno pensò bene di portarsi via quando egli era ancora in vita, approfittando di una progressiva cecità che colpì il poveretto negli ultimi anni.

Ambrogio Cicu D’Escanu nacque a Roma, in via dei Condotti, il 23 Aprile 1881 da Antonio, procuratore generale della Corte di Cassazione, e Maria Sini, appartenente ad una delle famiglie più in vista di Ploaghe.

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I Cicu D’Escanu erano nobili oriundi della Spagna, e uno di essi giunse nell’Isola in maniera avventurosa. Un antico racconto narra infatti che sarebbe stato San Pasquale Baylòn salvarlo da un naufragio. Già nel 700 un ramo della famiglia fu a Sorso, dove divenne uno dei casati più importanti del paese, stretto da rapporti forse anche di parentela con gli Amat, baroni di Sorso.

Ambrogio crebbe in un ambiente aristocratico denso di personalità appartenenti alla medio-piccola nobiltà romana e al Vaticano; trascorse l’infanzia e la giovinezza in una Roma, quella di fine 800, che usciva da uno stato di torpore secolare e gradatamente si apriva alla cultura, ai caffè, ai salotti. Ma di quella vita mondana che egli intravide. non amò quasi nulla: ad essa preferì la Chiesa e la religione. Deciso a prendere gli ordini sacerdotali, frequentò il collegio Capranica e successivamente proseguì gli studi teologici presso la Pontificia Università Gregoriana dove si laureò e contemporaneamente studiò musica dal maestro Lorenzo Perosi, all’epoca direttore del Coro della Cappella Sistina. Quasi subito però, per non arrecare dispiacere a suo padre. si convinse a rinunciare ai voti. Fu una scelta travagliata che lo segnò per tutta la vita. In verità don Antonio non ostacolò mai la sua vocazione, sebbene non fece mistero di desiderare per lui, l’unico suo figlio, tutt’altro avvenire. I Cicu tornavano a Sorso di rado e soltanto quando gli impegni di lavoro di don Antonio lo consentivano.

In una di quelle occasioni, nel 1912, don Ambrogio costituì il gruppo degli Esploratori e la squadra sportiva. Più tardi, nel Novembre del ‘14, videro la luce anche il Circolo Cattolico Alessandro Manzoni e la Filodrammatica. Il palazzo dei Cicu divenne così il primo vero punto di aggregazione che Sorso avesse mai avuto, se non si considerano naturalmente i caffè della Piazza. Ma quelle iniziative rappresentavano per molti un’assoluta novità da osservare con distacco e diffidenza.D’altra parte, in un paese dove contavano solo poche cose – la forza fisica. la battuta, il lavoro materiale, la terra. il raccolto – e tutte potenzialmente in grado dì procurare gratificazioni, era pressoché impossibile trovare un posto per uno come don Ambrogio.

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Su di lui si iniziò a gettare fango e a diffondere storie e storielle colme di malignità come solo i sorsensi sanno fare quando si tratta di mettere in ridicolo qualcuno. Poi scoppiò la guerra e il paese si svuotò. A Sorso, così come a Roma, le case dei Cicu ospitarono laboratori per la raccolta della lana e il confezionamento di vestiario per i soldati al fronte, e la Filodrammatica allestì una serie di recite di beneficenza. Chiamato sotto le armi da Ufficiale, don Ambrogio venne assegnato al Comando della seconda armata del generale Capello, persona notoriamente intrattabile e priva di scrupoli. Fu con lui sugli Altopiani, sull’Isonzo e nelle drammatiche giornate di Caporetto, ma sempre fu sconcertato dalle sue follie e dalle inumane punizioni che infliggeva alla truppa.

Un giorno si offrì generosamente al posto di uno dei cucinieri che per punizione stava per essere sepolto sotto la neve. E ciò bastò a placare l’ira del generale e farlo recedere dai suoi propositi. Di quei terribili anni, don Ambrogio conservò una medaglia di bronzo e una piccola menomazione ad un dito della mano, causata da una ferita da guerra.

Congedato alla fine del conflitto, fu collocato nella riserva e aggregato all’ 81° reggimento fanteria di stanza nella Capitale, mantenendo il grado di capitano e raggiungendo successivamente quello di maggiore. Nel Marzo del ‘24 gli fu concessa da Papa Pio XI l’onorificenza di San Gregorio Magno per l’impegno profuso nell’educazione dei giovani: e ancora, nell’Agosto dello stesso anno, il gruppo degli Esploratori ricevette la medaglia d’onore al valor civile per aver contribuito a spegnere un incendio divampato in un mulino a Sassari. Tuttavia, qualche anno dopo il circolo chiudeva.

Le disposizioni sullo scioglimento delle associazioni giovanili non inquadrate nelle organizzazioni del fascismo parlavano chiaro. Alla fine ci volle uno stratagemma per mettere a posto le cose: Cicu iniziò a sbarrare le porte della sede ai soci, mentre contemporaneamente spalancava quelle di casa sua agli ospiti. Cambiava la forma ma la sostanza rimaneva invariata.Il risultato fu che tutte le attività ripresero, e naturalmente in barba alle disposizioni vigenti. Il fascio di Sorso, che ovviamente era al corrente di ogni cosa. chiuse prima un occhio. e poi anche l’altro. Del resto, come si poteva impedire a don Ambrogio di ricevere ospiti?

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Nel corso degli anni 30 prese in affitto un piccolo appartamento in via Cesare Balbo, non lontano da Termini. La casa fu per anni un punto di riferimento per molti sorsensi che si recavano a Roma per i più disparati motivi. È il caso di ricordare tra gli altri lo scultore Giuliano Leonardi, l’allora giovanissimo Telesforo Manca e i fratelli Daniele e Giovannino Sassu, incanalati nello studio della musica dallo stesso Cicu e divenuti in seguito coristi al Teatro dell’Opera. Ma appena poteva, don Ambrogio tornava a Sorso tra i ragazzi del Circolo.

L’altra guerra, quella del ‘40, lo sorprese a Roma. Nell’Estate del 1943, dopo i primi bombardamenti alleati sulla Capitale e la caduta del fascismo, la città era in preda alla confusione più estrema. Per un momento si pensò che finalmente la guerra fosse finita, poi invece arrivarono Badoglio, l’ armistizio, i tedeschi di Kesselring. L’Urbe fu occupata. Don Ambrogio lasciò via Balbo e si rifugio in casa dei Conti Vannutelli che, nel frattempo, erano sfollati.

Qui egli divise tutto quello che c’era da dividere, e cioè fame, angoscia, paure con altri due rifugiati: un tale l’uggetta, funzionario dell’ Azienda dei telefoni, e il generale Durand, reduce dalla disastrosa Campagna di Grecia e tornato a Roma privo di tutto, senza più incarichi né uomini da dirigere. Non aveva più nulla Durand, neppure i vestiti. Il giorno che arrivò al rifugio si presentò vestito da cuoco, perché questo era tutto quello che era riuscito a trovare.

I tre passarono quasi tutto il periodo dell’occupazione germanica chiusi in casa, mentre fuori per le strade i tedeschi, come cani affamati, cercavano praticamente tutti: renitenti alla leva, ufficiali, ebrei, operai da inviare in Germania a lavorare per il Reich, antinazisti, cospiratori, traditori. Dopo la Liberazione don Ambrogio tornò definitivamente a Sorso.

Gli ultimi anni trascorsero tristemente e tra ristrettezze economiche. Don Ambrogio non si era mai curato del patrimonio di famiglia, non ne aveva mai avvertito la necessità. E ciò non perché egli vivesse nello sfarzo più sfrenato, ma semplicemente perché egli aveva ritenuto più alto e più nobile donare anziché trarre profitto dalle cose.

Nel Novembre del 1958 fu ospitato per alcuni giorni dalla Contessa De Lutti nella sua tenuta di Treviso. Subito però, un improvviso attacco d’ulcera di cui soffriva già da diverso tempo, lo costrinse a ripartire. Il viaggio finì all’ospedale Umberto I di Bellano, sul lago dì Como, dove il pomeriggio del 29 Novembre cessò di vivere.

Poi ci fu solo il tempo per compiere l’ultimo affronto: giunta a Porto Torres, la salma fu trasportata a Sorso su un carretto, poiché, per un motivo o per l’altro, non era stato possibile reperire un carro funebre. E quando finalmente il feretro arrivò in via Farina, si scoprì che le porte del palazzo erano state sigillate da chi evidentemente pensava di avere voce in capitolo al momento delle partizioni. Alla fine, il portoncino della Cappella dovette essere forzato per allestire la camera ardente.

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David Maria e don Lorenzo

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di Piero Murineddu

Come ridare la parola ai poveri,l’argomento che più di ogni altro tormentava Lorenzo”.

Scrive così padre David Maria Turoldo nel suo libretto ” Il mio amico don Milani“, nato da appunti che aveva lasciato dopo la sua morte, all’interno di una cartella con su scritto “Milani”.

Un libretto per me preziosissimo, che non mi stanco di sfogliare e risfogliare, perchè ogni parola, ogni passaggio sono per me nutrimento continuo, e che ora, pensando di fare cosa gradita, decido di condividerlo in questa pagina.

Due uomini di carattere e temperamento diversissimi: diffidente, guardingo e leggermente ombroso Lorenzo, specialmente nel primo impatto, mentre David era si espansivo e solitamente sorridente, ma anche per lui – come scrive nell’ introduzione al libretto Abramo Levi che lo accompagnò a Barbiana nel 1967 qualche mese prima della morte di Milani – non mancavano i momenti in cui aveva il cuore “basso”, anzi, a quanto pare capitava spesso.

Un piccolo volume da tenere nel proprio comodino e da leggere preferibilmente nel silenzio notturno, come ho appena finito di fare, in quei momenti distanti dagli impegni e dal continuo correre quotidiani, quando si ha quella particolarissima predisposizione d’animo in cui ci si trova a tu per tu con ciò che si é nel profondo e quello che si ha realmente a cuore.

In quel particolare spazio in cui si é spogli di tutte le armi difensive e “offensive” con le quali normalmente si affronta una nuova giornata. Senza le solite preoccupazioni di rispondere a dei ruoli o alle aspettative che gli altri hanno nei tuoi confronti.

Occorre intendere bene ciò che David Maria dice di Lorenzo, divenuto prete da adulto perchè aveva intuito quale sarebbe stata la sua principale fatica: contribuire a far si che il povero diventasse una persona libera, in tutti i sensi, e che questa libertà se la dovesse conquistare.

Attenzione a non fraintendere. Libertà dalla miseria principalmente, cosa molto diversa dalla povertà. A stomaco vuoto per “dieta” forzata, non si ragiona e non ci sono le condizioni basilari per pensare ad altre cose.

Lo vediamo ogni giorno che chi si trova nella miseria assoluta spesso non si fa scrupolo ad umiliarsi, rinunciando quasi alla sua dignità. Ecco il motivo per cui don Milani (e molti che lo vedono come esempio o che semplicemente si ritrovano nella sua sensibilità) parteggiava sempre per i più svantaggiati: perchè in fondo sono sempre fatti oggetto di discriminazioni, presenti o passate.

Ma la mancanza di mezzi per vivere non è riferito solo al cibo.E qui veniamo al grande lavoro di promozione umana e culturale che questo prete ha fatto per quei ragazzi di montagna che gli son stati affidati e di cui ha cercato di prendersi massima cura.

Voglio comunque considerare l’aspetto che a me preme maggiormente. Oggi, coloro che in buona fede credono di essere dalla parte dei poveri, la grande moltitudine che patisce qualunque tipo di disagio non solo materiale, vogliono promuoverli o vogliono promuovere se stessi?

Un vecchio interrogativo che forse si dà troppo per scontato o addirittura è stato messo completamente da parte.

L’esempio lampante è il politico che dice di essere “a servizio”: per farsi strada o per migliorare la vita degli altri?

Ma anche per ciascuno di noi: lo facciamo per essere lodati e veder riconosciuto il nostro merito, o perchè abbiamo a cuore il benessere e la felicità altrui, ammesso che tale stato sia possibile?

Detto questo, torno alla fatica quotidiana affrontata da quel prete fiorentino mandato in esilio dal suo vescovo Florit perchè, con la pubblicazione del volume “Esperienze pastorali” , aveva fatto sapere in giro che si occupava troppo delle vicende terrene delle “anime” che gli erano state affidate.

Lui aiutava i ragazzi a diventare persone adulte e consapevoli, e aveva preso la cosa talmente sul serio, che spesso era eccessivamente intransigente con loro, motivo per cui, guarda un po’, scopriremo in seguito il grande amore con cui era ricambiata la sua severità. Non c’era tempo da sprecare nel fare “giochi da oratorio” o per ritemprare il fisico e di conseguenza la mente, come pensiamo che sia cosa giusta un po’ tutti.

No, per don Lorenzo non c’era tempo da perdere. Studiare, elaborare, conoscere, approfondire, confrontarsi…. Erano queste le condizioni perchè i poveri divenissero protagonisti del loro riscatto.

Da qui quanto afferma il suo e nostro amico David Maria:

“Don Lorenzo, un uomo in continua lotta, e non certo perché il povero diventi ricco, ma perché diventi un uomo libero, che conquisti da sé la sua libertà. Per questo egli voleva restituire ai poveri la parola, contro gli uomini dalle mille parole e pertanto sempre dominatori e sfruttatori.”

Buona lettura

Il mio amico don Milani

di David Maria Turoldo

Prima parte

UN UOMO CHE TI PIANTAVA GLI OCCHI IN FACCIA COME DUE PERFORATRICI

 

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La mia conoscenza personale risale addirittura al 1954. Don Milani stava ancora a Calenzano, alle porte di Firenze. Aveva già scritto quasi per intero le sue Esperienze pastorali: era di questo che con Gianni Meucci mi trovavo, nella sua disadorna stanza di Calenzano, a discutere. Una stanza che a lui serviva come studio e scuola e “salotto” per ricevere la gente, un locale tanto spoglio e nudo quanto era nuda e spoglia la sua parola e il suo volto.

Già d’allora ho avvertito l’identità di interno e di esterno, del dentro e del fuori di quest’uomo che ti piantava gli occhi in faccia come due perforatrici, E così già da allora ho cominciato a misurarmi con lui. E pur nella infocata polemica, mi ero con lui impegnato alla pubblicazione di quel libro presso la nostra Corsia dei Servi di Milano, anche se poi questo non è mai potuto avverarsi per via dell’imprimatur che mi è sempre stato categoricamente negato e che invece don Milani assolutamente esigeva. Un fatto cui accenna egli stesso in qualche sua lettera.

Anzi, per questo e altro, anche a me aveva scritto personalmente qualche lettera; purtroppo lettere perse o distrutte a causa dei miei spostamenti e di quanto mi è capitato nella mia avventura. Ne ricordo una particolarmente lunga e impegnata, sempre sull’argomento di come ridare la parola ai poveri, l’argomento che più di ogni altro lo tormentava.

Una frequentazione, dunque, e una conoscenza abbastanza coinvolgenti fino al punto di averlo perfino confessato. Ciò è accaduto presso l’Annunziata di Firenze, in uno sgabuzzino dietro la sacrestia, lui inginocchiato per terra, dentro la sua mantella nera e frustra, e io a giudicarlo in nome di Dio (!)

È per tutti questi fatti personali che io ho sempre stentato a parlare di don Milani: per delicatezza, per difficoltà mia personale, per la complessità della sua personalità come io l’ho vista (o credevo di vederla) anche dal di dentro. Avevo paura di servirmi di dati non riferibili, di interpretazioni fasulle; oppure temevo di finire anch’io o in clichè di parte, oppure in astrazioni offensive: tutti atteggiamenti da temere con terrore per chi ha conosciuto personalmente don Milani; atteggiamenti che penso lo fanno rivoltare anche da morto.

Un uomo con cui non si può scherzare; un uomo di denuncia e di rottura radicale e assoluta: denuncia che provoca resistenze a non finire, e condanne a diluvio come tutti sappiamo; una presenza da provocare anche oggi reazioni a catena. Per capirlo bisogna inserirci dentro il suo tempo e il suo luogo: Firenze, la Toscana. E la conversione; la vocazione; l’origine ebraica, l’ascendenza, da parte di madre, fino al grande Guicciardini.

Lui figlio di una casa pregna della più ricca e radicale cultura laica. Sono tutti richiami magistralmente esposti e rigorosamente documentati dalla biografia di lui, scritta da quella grande ricercatrice — tanto devota quanto scientificamente esatta — che è stata la Neera Fallaci, pubblicata col titolo Dalla parte dell’ultimo: un’opera che l’autrice stessa mi ha chiesto di presentare in occasione della seconda edizione. Cosa che ho fatto scrivendo un’introduzione di cui ora non posso non servirmi, e che ognuno può leggere nel libro citato; prefazione che a ragion veduta intitolavo “Santità da grandi tempi”.

Tempo, luogo, vita, scelte, opere: tutto un messaggio unico da giudicare soprattutto alla luce della conversione. Perché è stata la conversione il suo Sinai, o la sua Pentecoste; o l’uno e l’altro insieme. Perciò in lui ci sarà tanto di antico testamento quanto del nuovo, in un intreccio da calvario.

Tempo di guerre, e di dopo-guerre (che forse è peggio); e una vocazione che farà di lui un uomo di lotta implacabile; dentro un tempo di passaggio dalla civiltà agraria alla civiltà industriale; nella esplosione di infiniti problemi di cultura, di società, di religione. Società in sfacelo; moltitudini di poveri senza speranza; tempi di industriali-vampiri; valori e ideali in terribile crisi. Problemi della scuola, del lavoro, del cittadino, del credente: tutto un mondo in ebollizione.

Su tutto campeggiava il protagonista e la vittima: appunto, il povero. Da qui nasce il più grande avvocato dei poveri che io abbia mai conosciuto: lui, don Milani. Anzi neppure “dei poveri”, ma fratello e avvocato spietato del povero al singolare: perciò la Fallaci ha intitolato bene il suo lavoro, scrivendo la sua vita Dalla parte dell’ultimo. Dell’ ultimo, non degli ultimi. Don Milani sarà l’uomo più concreto e incarnato in fatto di fede, quanto a noi è difficile perfino immaginare.

Anche in questo rimarrà un ebreo che non solo odia gli astratti, ma neppure li conosce. La sua fede, proprio perché si tratta di fede adamantina, sarà sempre inserita dentro un contesto culturale da dove nasce il più originale e maggiore educatore del nostro tempo: lui, don Milani, che farà della scuola la sua unica consumante pastorale, la legge del suo sacerdozio, e il suo messaggio più rivoluzionario.

Seconda parte

CONTRO GLI UOMINI DALLE MILLE PAROLE, E PERTANTO SEMPRE DOMINATORI E SFRUTTATORI

 

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Luogo, Firenze; famiglia imparentata con Guicciardini addirittura. Ebreo e cattolico: tanto ebreo quanto cattolico. Anche in questo potrebbe essere di richiamo; per dirci quanto l’antico testamento non va disgiunto dal nuovo testamento; per dire quanto la legge non va disgiunta dallo spirito; la giustizia dalla carità. Per dire come bisogna convertire il sistema: perciò non si può non essere se non “segni di contraddizione e di opposizione per molti”; secondo l’ultima preghiera di Cristo stesso rivolta al Padre, «perché i suoi non siano del mondo»; «essi sono nel mondo ma non sono del mondo»! Per dire quanto Cristo è figlio d’Israele.

Una vita singolare, irripetibile, misteriosa, fulminante. E la sua conversione, che è la chiave per entrare nel suo segreto. Non è precisamente abbandono del suo ebraismo, ma è il substrato e l’humus della sua condizione di cristiano.

È dentro questo quadro che va giudicato anche il suo concetto di chiesa; chiesa che diventa la sua Torah; una Torah comunque da salvare e ricreare continuamente con lo spirito di Cristo. Pertanto una Torah e una chiesa osservata e vissuta fino alla scrupolosità; una realtà da mai più abbandonare, costi quello che costi, anche il martirio se necessario; anche la proscrizione e la condanna, se necessario.

Una fede sempre rapportata al povero; basata sullo stesso istinto ebraico; chiamata a farsi corposità. Appunto, storia. Per questo è importante rifarci alla lettera indirizzata a don Piero dove egli parla della tragedia più grossa del prete:

«Per un prete, quale tragedia più grossa di questa potrà mai venire? Essere liberi, avere in mano sacramenti, camera, senato, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutto questa dovizia di mezzi divini e umani raccogliere il bel frutto d’esser derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti. Aver la chiesa vuota. Vedersela vuotare ogni giorno di più. Saper che presto sarà finita per la fede dei poveri. Non ti vien fatto perfino di domandarti se la persecuzione potrà esser peggio di tutto questo?». (Esperienze pastorali)

Un prete irretito fino alla fobia dal sospetto contro gli intellettuali: e tutto perché visti come responsabili di una cultura astratta; di una cultura imputabile del più grande tradimento: quello appunto di essersi dimenticata dei poveri.

Uomo spietato non tanto contro gli altri quanto contro se stesso. Tanto tenero quanto feroce; tanto obbediente quanto libero; tanto assetato di grazia quanto divorato dal peccato del mondo: peccato che per lui sarà l’ingiustizia; mentre la giustizia sarà la verità. Perciò un uomo in lotta per il povero: non certo perché il povero diventi ricco, ma perché diventi un uomo libero, uno che conquisti da sé la sua libertà. Perciò egli vuole restituire ai poveri la parola: contro gli uomini dalle mille parole, e pertanto sempre dominatori e sfruttatori.

A questo punto mi permetto di utilizzare la mia stessa prefazione, di cui dicevo sopra, sia perché si tratta di cose vissute, sia perché, specialmente a rilettura finita del libro di Neera Fallaci, sento tutta la verità di quanto ho già scritto. Così mi sarà più facile farmi capire, rivelare tutto il mio stato d’animo, dire come la profezia continui nella chiesa. Perché io sono stato testimone diretto, frequentatore di profeti, e tuttavia… Precisamente così ho scritto in occasione di quella presentazione:

«Che vergogna! Essere stati contemporanei di papa Giovanni, di don Mazzolari, di don Milani; anzi, essere stati loro amici e commensali, e non avere imparato. È non esserci convertiti. Ed essere quelli di sempre. Peggio di sempre! Sì, perché si viene dopo un concilio, si viene dopo queste lotte furibonde dei poveri contro i ricchi, lasciando soli i primi e “fornicando” sottilmente, ma poi non tanto segretamente, coi secondi. Si viene dopo quel forsennato 18 aprile dove ci siamo tutti “prostituiti” e ora ne portiamo la colpa e il rimorso!» (Dalla parte dell’ultimo)

Un 18 aprile 1948 certo lontano, preistorico riguardo al tempo, ma sempre operante, sempre corrosivo come un cancro. Un 18 aprile che ha segnato la vittoria della paura, non sulla, ma contro la fede.

Tali pensieri mi ronzano da sempre, ma più alla evocazione di tutta la vita di don Milani: una evocazione da cui nessuno esce immune. E tu ti senti fisicamente al muro, con un dito teso come una canna, ad accusarti su tutto. È una faccia, la sua, quella di don Milani, che ti folgora e ti sorride. Sì, perché aveva anche una faccia sorridente, quasi da fanciullo; pure se, insieme, da implacabile accusatore, da scatenato pubblico ministero.

E una voce che ti inchioda alla croce dei tuoi tradimenti riguardo alla fede in cui dici di credere. E così ti senti dentro. Un colpevole. Chiunque tu sia, prete, frate, vescovo, papa, industriale, professore, giudice, intellettuale:

«lo mi vergogno a scrivere quando so che, poi, mi leggerebbero tutti i borghesi: tutt’al più, per fare quattro chiacchiere da salotto».

Così, specialmente se lo hai conosciuto, senti che è proprio lui, don Lorenzo, una persona che ti denuda. E la voce della coscienza che ti frastuona: perché hai tradito? Tutti abbiamo tradito, e continuiamo a tradire. No, non si può essere cristiani a questo modo: dalla parte dei ricchi, dalla parte dei padroni, dalla parte dei militari, dalla parte degli intellettuali…

Mai sentito un prete così! Ma com’erano gli antichi profeti? Come era Gesù Cristo? Tanto è vero che han dovuto ucciderli! E per Cristo tutto è deciso nel recinto del tempio: in nome di Dio! È chiaro: tanto che la storia continua.

Dunque, tu dal confronto, eccoti al muro: è così la sua stessa testimonianza che ti grida contro. Della sua opera tutto è necessario. E dal confronto io non so come tu ne uscirai, sia che tu sia prete, sia che ti dica cristiano; anzi, pure se appena ci tieni a essere un uomo.

È così, non c’è niente da fare, basta vedere questa società, e anche la chiesa. Del resto l’ha detto: «Questa eretica società liberale» . E già egli ha visto, allo scadere del II millennio, «l’ora della resa dei conti… quando tutto il nostro mondo sbagliato sarà stato lavato in un immenso bagno di sangue…». E ha pensato che avranno imparato almeno loro, cioè i missionari cinesi del vicariato apostolico dell’Etruria «contemplando i ruderi del nostro campanile e domandandosi il perché della pesante mano di Dio su di noi».

Un sogno? Il delirio di un folle? O, non meglio, qualcosa di profetico? Non erano così le profezie bibliche? Vedi appunto la Dedica di Esperienze pastorali e la Lettera dall’oltretomba riservata e segretissima ai missionari cinesi nel medesimo libro.

Egli immaginò, dopo la nostra miseranda fine di chiesa e di cristiani dell’occidente («uccisi dai poveri», «distrutti i templi, sbugiardati gli assonnati sacerdoti»), una rievangelizzazione delle nostre terre, ad opera di missionari venuti dalla Cina. Una continuità dunque di Cristo anche per quelle nostre povere genti sopravvissute, in virtù di una specie di viaggio di ritorno del cristianesimo in occidente.

Quasi paradossalmente meritato dal nostro tradimento. Cioè, egli immagina che possa accadere come per Israele, il quale, avendo tradito, è stato occasione di salvezza per la Cina e per l’Asia. E come, alla fine, si spera nella salvezza d’Israele, così speriamo succeda anche per noi. Questo sarebbe il significato dell’approdo dei missionari cinesi sul suolo devastato dell’Etruria.

Tutto sommato è una visione positiva della storia. Non la disperazione di un vinto, ma la concezione della storia come mistero di salvezza, storia che obbedisce al disegno di Dio! Non incredulità, ma fede: comunque vada la storia per colpa nostra.

«Troppe estranee cause con quella del Cristo abbiamo mescolato. Essere uccisi dai poveri non è un glorioso martirio. Saprà il Cristo rimediare alla nostra inettitudine. E lui che ha posto nel cuore dei poveri la sete della giustizia». (Esperienze pastorali)

 

Terza parte

MI SON FATTO CRISTIANO E PRETE SOLO PER SPOGLIARMI DI OGNI PRIVILEGIO

 

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Nella Lettera dall’oltretomba Milani scrisse:

«E stato l’amore dell’ordine che ci ha accecato… ‘segnando ai piccoli catecumeni bianchi la storia del lontano 2000 (cioè questo nostro 2000 che per
essi sarà lontanissimo quando verranno: “mille anni davanti a Dio sono come un giorno solo”, secondo la rivelazione), non parlate loro del nostro martino. Dite loro solo che siamo morti e che ne ringraziamo Dio».

Una voce tanto più crudele quanto piu vera e scontata dalla storia. Una voce perfino pietosa che cerca di salvarti e di giustificarti. Sempre rivolgendosi ai missionari cinesi quali testimoni di come la storia, sia pure lentissimamente, sarà cambiata, testimoni di questo continuo sparire e apparire di civiltà, segno che non c’è altra proposta anche per il futuro più impensato, scrisse:

«Sulla soglia del disordine estremo mandiamo a voi quest’ultima nostra debole scusa supplicandovi di credere nella nostra inverosimile buona fede».

Così don Milani amava. Amava anche te. Ma ti amava come Cristo ama il ricco Epulone. Con l’amore che non scherza. È proprio dell’amore non fare un fascio di ogni erba. L’amore distingue, sceglie, divide, denuda: appunto, ti accusa, ti inchioda alla tua croce, perché ti vuole salvo a tutti i costì. L’amore è per la pace, ma non è imbelle. Tanto meno è neutrale. L’amore è lotta fino alla morte. Esigente ed implacabile. Che dà la vita per la verità. E la verità è l’uomo. Così è l’amore.

Ancora, per essere non solo accanto ai poveri, ma “dalla parte dell’ultimo”, scriveva don Lorenzo, sempre a proposito del tradimento dei poveri in seguito al 18 aprile 1948:

«Così stando le cose, è più saggio ridurre i termini a una sola semplicissima scelta. O con Dio contro i poveri, o senza Dio coi poveri. E scegliendo io di star con Dio e con la sua chiesa non resta che pregare per i poveri che calpestiamo e tentare di confessarsi spesso, per essere pronti al severo castigo di Dio che non tarderà a venire e indicarci la strada nuova».

Per riprendere l’immagine del processo, quest’uomo arriva ad accusarti persino attraverso il suo rimorso, per aver sbagliato, benché sia stato costretto a sbagliare! Quella connivenza subita dal prete con le forze della discriminazione e dello sfruttamento! Connivenza chiamata eufemisticamente “buona azione”, perché il prete riesce a trovare lavoro a un disoccupato! Connivenza che egli invece, in Esperienze Pastorali, chiama «un’opera cattiva e perfino illegale»:

«Il fratello Industriale è stato gentile con me. Ha detto alla sorella dattilografa di far la schedina al mio figliolo Franco. Io dovevo essere grato al fratello Industriale. Ma poi è successa una cosa triste: mentre m’alzavo per andare via aveva aggiunto: “Le farò fare una lettera anche dall’officina dove Franco ha lavorato fin ora per dirle quel che sa fare”. Il fratello Industriale mi ha steso la mano con un sorriso d’intesa: “Non importa, reverendo, se me lo raccomanda lei non sarà certo un comunista”. Perché non ho ritirato la mano Signore? Come ho fatto a non capire subito che quella mano e quell’occhiata e quella parola erano uno sputo sul mio sacerdozio che è il tuo sacerdozio, Signore? […] Ho avuto paura per il lavoro del mio Franco […]. Sì, che il mio Franco è un comunista. “E un comunista non deve mangiare?”, ha chiesto Franco […]. Quando, quattro mesi fa, col decreto della mia mamma chiesa, gli ho detto: “Sbagli, Franco, a essere comunista” e tu, fratello Industriale, quella mia parola dolorante di padre l’hai sbandierata festante sui tuoi giornali, e che credevi tu? Che io gliela dicessi per te? Per salvare il tuo capitale e il tuo mondo sbagliato che deve cadere? Tu, Franco, lo sai, vero? che io non sono per loro? Perdonaci tutti: comunisti, industriali e preti. Dimenticaci, disprezzaci, fai quello che vuoi, ma il tuo Signore non lo lasciare, Franco». (Dalla parte dell’ultimo)

Così, dentro il cuore di don Lorenzo continuava a dolorare il rimorso di aver vinto quella funesta battaglia.

«E la storia che mi s’è buttata contro, è il 18 aprile che ha guastato tutto, è stato il vincere la mia grande sconfitta». (Ibidem)

A questo punto non è neppure don Lorenzo che ti accusa, ma è Cristo stesso. Al suo posto si spalanca il Vangelo, letto a Donato dì Calenzano, o a Barbiana, letto oggi. Per dire com’è reale e contemporaneo.E come appunto il vangelo è dimostrato: con queste “esperienze”! Dimostrato che non è una favola. Come non è stata una favola per san Francesco e per papa Giovanni e per Mazzolari, l’uomo di fuoco, e per pochi altri.

Sì, adesso si capisce come don Lorenzo può essere stato di Cristo: al di là di ogni immagine romantica e avvilimento pietistico. Perché anche per san Francesco la vicenda non è tanto idilliaca: su uno che porta le stigmate, c’è poco da fare del sentimentalismo. E anche per papa Giovanni, pur nella pace evangelica dello spirito, nessuno può dire che non sia stato il suo un papato drammatico. La differenza di temperamenti è questione secondaria.

Di una segreta e profondissima gioia, perfino di affabilità e di grazia abbondava anche don Lorenzo, pur sempre disteso sulla graticola delle sue scelte. Ci sono documenti nei quali si manifesta la beatitudine del regno, Non una beatitudine futura, da comprarsi col sacrificio, l’obbedienza ecc., ma una beatitudine presente, viva, sorridente nella situazione di maggiore umiliazione e solitudine.

Ecco un esempio preso poco meno che a caso. Scriveva don Milani quando era già al confino ecclesiastico nella piccolissima parrocchia di Barbiana:

«È triste, è un disonore, è grave, tutto quello che vuoi, ma non è una catastrofe: s’arrangino, vadano al diavolo, pregherò per loro, riderò di loro (…). E poi? Poi andrò tranquillamente a mangiare e a dormire e cercherò di osservare giorno per giorno la legge di Dio e della chiesa e non vorrò smettere di essere una persona sorridente e serena, una persona che possiede la pace e la sa difendere (…). Combattivi fino all’ultimo sangue e a costo di farsi relegare in una parrocchia di 90 anime in montagna, e di farsi ritirare i libri dal commercio, sì tutto, ma senza perdere il sorriso sulle labbra e nel cuore e senza un attimo di disperazione o di malinconia, o di scoraggiamento o d’amarezza. Prima di tutto c’è Dio, e poi c’è la vita eterna». (Lettere)

In fondo è lo stesso spirito che già affiorava in lui nei primi anni di sacerdozio: «Mi godo il mio Dio che m’ha dato finalmente un mestiere col quale posso divertirmi tanto» (…) «Mi son fatto cristiano e prete solo per spogliarmi di ogni privilegio» (ibidem).

È il cercatore di perle del Vangelo: che va, vende tutto quello che ha e compera il campo dove è nascosta la perla. Una perla che non perderà più e una gioia che non scambierà mai per nessun’altra cosa.

Così, dunque, Cristo ad ogni svolta della storia trova qualcuno che gli impresta la voce. Così il processo continua per infiniti capi d’accusa, sulla doppia preghiera, quella del curato e la sua durante la processione: «Perdonali che non sono qui con te; perdonaci che non siamo là con loro»; e poi il “tipo di cultura” del seminario e del prete, di questa «gente che si è fatta assorbire». E poi la povertà: non poter parlare sempre come lui «dalla cattedra ineccepibile della povertà». E ancora «i candelabri dorati solo verso la gente e imbiancati da quella parte che guarda il sacramento», cioè il problema dell’apparire e non dell’essere.

Poi, la persona del prete,e il suo servizio sbagliato, e quella discriminazione tra «parrocchiani di prima e seconda categoria»: quante volte il povero viene discriminato e nessuno fa caso alla sua sofferenza! E l’ordine che non è un concetto univoco: «Se lo violano i poveri è un attentato allo stato, se lo violano i ricchi è la congiuntura economica».

E tutto questo come vita vissuta, come cose pagate sulla propria pelle. E il grande dono di “ragionare” nella fede! E l’ora di evangelizzazione come liberazione dell’uomo; l’opera di promozione umana, l’opera della “acculturazione” del povero, perché il povero si difenda da solo.

Soprattutto la giustizia. Solo giustizia! Perché la giustizia è tutto: è prova dell’amore, è garanzia della libertà. Perché non si può essere in pace senza giustizia. E neanche la gioia può essere ingiusta. Non sarebbe più gioia. Questo è il paradiso umano, umanissimo di don Lorenzo. È per questo che, da convertito, penso abbia sofferto di un solo rimorso, per quell’unico peccato commesso quando non aveva ancora capito, fattogli commettere dalla politica ecclesiastica: appunto la bruciante colpa del 18 aprile 1948. Una colpa che non si perdonerà mai.

Alla fine del processo tutti si domanderanno: è possibile essere come don Lorenzo? Che cosa dobbiamo fare? La domanda che si ponevano tanti nel vangelo nell’udire Giovanni il Battista, colui che apriva la strada all’incontro con Cristo.

La risposta la dà un suo figliolo, uno di quelli che l’avevano capito. («Padre, ti ringrazio che hai nascosto queste cose ai grandi e ai sapienti, e le hai rivelate ai piccoli!»).

Essere come don Lorenzo?

«Lui aveva avuto una unzione particolare: non si può essere com’era don Lorenzo, mi permetto di dire, se non c’è un intervento diretto e particolare del Signore. È arrivato qui con questa spinta a fare un lavoro di evangelizzazione, a portare Dio dappertutto». (Dalla parte dell’ultimo)

Certo non è questo che si richiede ad un cristiano, di essere una copia dell’altro. Ognuno ha la sua faccia, e così ognuno ha la sua vocazione e il suo destino. Ma di avere il medesimo spirito, questo sì. Lo Spirito di Cristo: «Riceverete il mio Spirito». Lorenzo, quando stava ancora cercando la verità «era già pieno di Spirito santo»; come è detto di Stefano, il primo martire cristiano. Dunque, posso e debbo imitare Cristo, ma nessuno deve “scimmiottare” né Lorenzo né Francesco. A imitare i santi si può diventare anche matti, ma a “seguire” Cristo non sbagli mai; sempre nuovo e creativo, e adatto al tuo tempo. Perché Cristo è l’infinito di Dio nel tempo.

Quarta parte

HO PAURA CHE SENTENDOMI PARLARE DELLA SUA SANTITÀ, LORENZO MI DIREBBE “SMETTILA, BISCHERO!”

 

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Partiamo dall’interrogativo: quale la spiegazione del fenomeno don Milani? Il fenomeno don Milani non si spiega che con il segreto della santità.

Ciò vuol dire che si deve uscire dalle nostre logiche, qui c’è il mistero di Dio. E però, con questo, non si vuole evadere: Dio non è fuori della storia, né fuori della vita dell’uomo. Si tratta di credergli e di rispondergli. E nella misura in cui si dice di sì, allora si diventa esplosivi e rivoluzionari. Cioè si entra in un’altra logica, che è appunto la logica di Dio. Basti guardare all’evento di Cristo! Per queste logiche la santità è un assurdo, non ha spiegazioni. Tantomeno quella di don Milani. Perfino per il “cattolico” tradizionale e conformista; e per questa chiesa che egli chiama la sua “ditta”.

Santità in don Milani – ho quasi paura a continuare, paura che mi dica precisamente dal paradiso: «Smettila, bischero!» E sarebbe la prima volta che forse una tale parola risuonerebbe da lassù, ancor più acutizzata da un’eccezionale intelligenza: un’intelligenza fiorentina che è intelligenza dell’intelligenza – santità, dicevo, riuscita a sposarsi a una autentica dialettica vissuta addirittura sul piano della “cultura”. Una santità che finalmente non è solo “bontà”, come si usa giudicare da parte degli intellettuali, forse per legittimare la loro viltà e i loro compromessi. Qui non siamo di fronte solo a un convertito, qui c’è qualcosa di più. In antico si sarebbe detto che qui siamo davanti a un “predestinato”. Di fronte a un segnato, certo! Il “predestinato” lasciamolo stare, perché potrebbe indurci a un fatalismo, a un determinismo.

Mentre qui c’è un uomo che liberamente sceglie, un uomo che lotta e rischia e “sbaglia”, per troppa bontà, anzi per una “sbagliata” obbedienza: ma sarà il solo caso! Poi sarà lui, più tardi, a dire che «l’obbedienza non è più una virtù». Lui, obbedientissimo e fedele, sempre, perfino delicato verso la stessa chiesa che lo colpiva. E Lorenzo paga di persona, non fa pagare i poveri.

Fin quando la chiesa, una certa chiesa, non trova il coraggio di dire che arche don Lorenzo Milani è un santo, questa chiesa non impara. Vuol dire che non cambia, non si converte, neppure di fronte alla “lezione” di Dio; vuol dire che non ha compreso i segni dei tempi; anzi, non ha “temuto Dio che le attraversava la strada”. Papa Giovanni, don Mazzolari, don Milani… Certo, non è la santità formalistica. Non è una santità alla Pio XI e neppure alla Pio XII e tantomeno alla san Luigi Gonzaga, quale i “detrattori”, che sono i suoi agiografi, ce lo hanno descritto: un vero malato. Poveri santi! Comunque, chi ha detto che Dio si esaurisce solo in questi santi?

Certo, qui ci troviamo di fronte a una santità da grandi tempi, da ultimi tempi. Vorrei dire, da veri e soli e autentici rivoluzionari, anzi le rivoluzioni degli altri spesso finiscono per essere appena delle successioni: delle prese di potere; poi tutto è finito. Ma che qui di santità si tratti, c’è da scommettere qualsiasi cosa. Ripeto, non è una santità “tridentina”.

C’è stata la rivoluzione liberale, c’è stata la rivoluzione russa, c’è stato il concilio vaticano secondo, e altro. Ma è una santità secondo la tradizione, nel senso maiuscolo del termine: l’uomo contro il tempio, contro la legge e contro il potere. Per la libertà dell’uomo!

O comunque: non si dichiara santo uno che abbia esercitato le virtù teologali e morali in grado eroico? Uno che sia un modello di fedeltà a Cristo, alla sua chiesa, ai poveri? Allora c’è da sfidare chiunque a trovare altri che sia più fedele, nei nostri tempi, di don Lorenzo Milani. Chi può essere un esempio più efficace ai nuovi credenti, ai giovani inquieti che cercano il regno più di quanto noi conformisti riusciamo a immaginare? Ma lasciamo: oggi, per fortuna, lo stesso popolo cristiano è sempre meno interessato a una “canonizzazione”, mentre è sempre più attento alla vera santità. Il fenomeno di papa Giovanni parla da sé.

Ancora due note prima di concludere. Una, precisamente a proposito di papa Giovanni.

In una lettera in data 1 ottobre 1958, papa Giovanni, allora cardinale di Venezia -importante rilevare che era ancora cardinale: perché sarà il papato a “liberarlo completamente, sia pure nella fedeltà; a liberarlo cioè, pur perseverando egli nell’essere se stesso, uomo della più rivoluzionaria tradizione; come appunto sarà don Milani, in tempi e temperamenti diversi – il cardinale Roncalli, dicevo, esprimeva dei giudizi negativi su don Milani per via di Esperienze pastorali, libro pubblicato allora e che aveva suscitato roventi polemiche in tutti gli ambienti.

Il fatto può sorprendere solo chi non ha familiarità coi santi. I tipi più difficili nella chiesa sono i santi. Qualcuno ha scritto di loro che sono “testardi” come nessun altro. E si capisce perché: è Dio stesso che se li lavora, e Dio è uno che non è mai contento. E, se non fa un uomo uguale a un altro uomo, tanto meno fa un santo uguale a un altro santo. La santità è libertà e anti-conformismo; la santità è tutto il contrario dei nostri “uniformismi ideologici”. Appunto, perché Dio è infinito. Perciò i santi, più sono tali, più sono inconfondibili, cammini diversi, sensibilità contrastanti e acutissime, come non succede per noi uomini comuni, ed è accaduto che anche dei santi si siano scontrati “a fuoco”; come ad esempio Ippolito e papa Damaso per via dell’integrismo (come è vecchia questa questione!); oppure Cipriano e papa Stefano, per l’autonomia delle varie chiese (niente di nuovo sotto il sole’); e non sono mancati tra loro né giudizi amari né insulti. Non parliamo di san Girolamo con i suoi critici !

L’altra nota riguarda il linguaggio di don Milani: il problema delle cosiddette parolacce! Pure in questo non mancano precedenti nell’agiografia: com’è il caso di san Bernardino da Siena sul latte della Madonna «che non è una vacca», oppure di sant’Antonio da Padova che accosta i cardinali ai tacchini quando «mostrano il culo». Solo uno che non è puro ha paura a chiamare le cose con il loro nome, mentre don Milani era tanto puro che non si è mai permesso una barzelletta equivoca, e si permetteva invece di chiamare tutto col suo vero nome ed è una sua ulteriore testimonianza di verità e di carità. I suoi ragazzi infatti, anche se raggiunti da certe sferzate verbali, sapevano benissimo di essere amati da lui come da nessun altro.

Da ricordare che don Lorenzo è un toscano, poi, e la grazia rispetta sempre il …materiale d’origine.

Quinta parte

NO, DON MILANI NON ERA COME DITE VOI

Articolo di Turoldo pubblicato su “La Domenica del Corriere” il 7 luglio 1977
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Scrive don Milani a Gianni Meucci in una lettera in data 12 dicembre 1956 “mi pare di averti già detto che don Bensì mi ha consigliato di non farmi presentare in nessun posto dal p. David e non per disistima di lui (tutt’altro), ma perché gli dispiace che io sia accompagnato al primo incontro da un nome sul quale ci son già prevenzioni e giudizi già dati. La cosa mi pare giusta e penso che la condividerai anche tu. Spero che tu sia sufficientemente convinto del bene che mi farete ecc.”.

Così, non avendo potuto presentare mentre era in vita le prime fatiche di don Milani, le famose “Esperienze Pastorali”, sono ora lietissimo di parlare di lui a dieci anni dalla sua morte. E lo faccio anche per un dovere, perché quando si sentono ritratti edulcorati come quelli che ho sentito in questi giorni a certi telegiornali, non si sa neanche se sia maggiore l’indignazione o l’avvilimento che ti fa reagire fino alla sofferenza. Proprio l’altro giorno mi sono detto: va che finirà male anche don Milani; finirà peggio di sant’Antonio! Infatti pochi sanno che sant’Antonio era uno dei santi più scatenati che sia mai esistito; molti lo paragonavano a un san Giovanni Battista con la scure in mano; e predicava in modo tale che fino a ora non sono ancora pubblicati in italiano i suoi “Sermones Domini”; e perché un tempo quando li volevo pubblicare io, mi sono sentito rispondere da quelli dell’Imprimatur, “che avrebbero potuto scandalizzare la gente”. Capite? Le prediche di sant’Antonio che scandalizzano! Infatti è vero che non risparmia nessuno, neppure i vescovi (del suo tempo si capisce); dice che “a volte nelle vesti rosse dei monsignori e dei vescovi cola il sangue dei poveri”; dice che “a volte certi vescovi sono peggio dell’asina di Balaam: almeno questa si era accorta quando passava l’angelo del Signore invece i vescovi…”. Così anche i santi devono essere purgati. E poi sant’Antonio era brutto, finito per idropisia; sformato ad appena trentasei anni di età, dopo essere passato sull’Italia per dieci anni come un uragano, come un temporale di Dio; ed era Antonio che san Francesco chiamava “mio Episcopo”… Guarda cosa ti hanno fatto di sant’Antonio: un santo per fidanzate, una specie di efebo che se la gioca con quel Gesù bambino sulle mani. Qui bisognerebbe certamente aprire un capitolo sulla patologia degli agiografi e sul destino dei santi. Ho già scritto un piccolo opuscolo dal titolo “Povero sant’Antonio”…

Avrà la stessa sorte anche don Milani? Già l’altra sera al telegiornale pareva quasi un santino da prima comunione: naturalmente “prete obbedientissimo”. Così come tutti i famosi proscritti: obbedientissimo Manzoni, obbedientissimo Teilhard, obbedientissimo don Mazzolari; e ora obbedientissimo don Milani. Mai che si domandino costoro a chi e a che cosa obbedivano questi grandi uomini. E perché sono rimasti dentro la Chiesa: liberi e fedeli fino alla morte! Loro li chiamano obbedientissimi: magari dopo averli fatti sputare sangue. Così come è successo per don Mazzolari da parte di un vescovo che in vita lo additava come il “più grave pericolo per la Chiesa”, e dieci anni dopo portava i seminaristi sulla sua tomba a Bozzolo scongiurando i giovani di essere “obbedienti” come don Mazzolari. Così ora anche per don Milani? Dopo neanche 10 anni dalla sua morte; quando dal cardinale Florit e da molti altri preti tuttora viventi era stato giudicato “un bubbone pestifero” da tagliare subito, e perciò era stato confinato da San Donato di Calenzano vicino a Prato a Barbiana nel Mugello: come dire l’isola di Pianosa per i più pericolosi criminali.

L’altra sera mi è toccato di sentire il panegirico di lui come di un esemplare del non-dissenso (a parte che poi non si sa chi più dissenta nella Chiesa; perché ve li raccomando questi lefebvriani!, questi “devoti del papa”, a una condizione, che il papa la pensi come loro; diversamente, per esempio, anche papa Giovanni non va bene). E ho sentito dire come un elogio che è “rimasto sempre prete”… Sarebbe stata bella: che non fosse rimasto prete! Questa gente non capisce come uno che crede non può non rimanere fedele, succeda qualunque cosa. Uno può essere cacciato, ma non può andarsene! Contrariamente a quanto è scritto in un documento dei vescovi lombardi dove si dice ai cattolici inquieti e scontenti “di andarsene”… San Bernardo dice che “chi crede nel regno di Dio è sempre un inquieto”. Nella Chiesa uno ci sta perché ci crede, perché c’è Gesù Cristo: perché c’è lo Spirito santo e i sacramenti e la liturgia. E i sacramenti e la liturgia e lo Spirito santo sono cose infinitamente più grandi di noi tutti, compresi i preti. Diversamente l’invito potrebbe essere valido anche per quelli che l’hanno scritto. E poi don Milani si era appena convertito, ed era appena entrato nella Chiesa, si era appena fatto prete. E quando uno si converte, non scherza.

Così l’altra sera mi sono sentito un don Milani che non riconoscevo più. Non una parola circa le sue “Esperienze Pastorali” che sono una gettata di lava incandescente; e lui già che si rivela in quel libro come un cratere in eruzione nella chiesa di Firenze, un punto dove la “crosta terrestre” ha ceduto. Quanto era soffocato dal sistema, lì si è coagulato e ha fatto colpo. Ed è scoppiato un autentico terremoto; tanto che il Sant’Uffizio interviene con forza per ritirarlo dal commercio. Niente, non una parola sulla “Lettera ai giudici”, sulla “Risposta ai cappellani militari”, sulla difesa degli obiettori di coscienza, per le quali cose ha dovuto subire perfino un processo da parte del tribunale. Non una parola sulla sua amarezza per come si è votato il famoso 18 aprile: vittoria che egli chiama “la più amara sconfitta dei poveri”. Non una parola sul suo confino, eccetera eccetera.

Certo che è un santo! Ma non è che i santi debbano essere delle mezze cartucce? Anzi, io che l’ho conosciuto, col quale ho passato i più infuocati incontri del mio sacerdozio, tenendogli appunto testa per via di quella giustizia al grado di furore di cui è stata divorata la sua vita più che dalla leucemia, dico che solo quando la Chiesa avrà il coraggio di riconoscere la santità di don Milani senza togliere neppure una parola (tanto meno le sue parolacce!) alla sua esperienza -tale e quale egli l’ha vissuta- allora dico che avremo una Chiesa veramente nuova; e una nuova santità muoverà il mondo. Sono perfino lieto della sua citazione dove dice: “Sto pensando di scrivere a p. David per il libro. Non sono punto convinto delle cose che urlavate domenica scorsa. Spero di poterle riurlare presto insieme…”. (Barbiana, 1 luglio 1955.)

Così eravamo amici, fino a urlare insieme là dove non eravamo d’accordo. Ma grandi amici: senza bisogno di ridurlo alla nostra misura! Senza dire poi che quando qualche volta mi è capitato di confessarlo, allora veramente ho sentito, per merito di lui, quanto grande e misterioso è questo sacramento della fraternità e del perdono. Cose troppo delicate per dirle in un qualsiasi articolo. Anzi, è questa una delle ragioni per cui io su don Milani ho preferito piuttosto tacere. E però questa volta, davanti a certe manipolazioni e storpiature, il silenzio poteva essere anche una colpa.

Sesta parte

LORENZO NON AVREBBE MAI PENSATO CHE “ESPERIENZE PASTORALI” SAREBBE DIVENTATO UN FATTO CULTURALE

 

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Ho conosciuto don Milani ai tempi in cui era ancora a Calenzano, in quella povertà quasi squallida, ma non disonorevole. Era un uomo molto solo, confinato in una sorta di “deserto”, al punto che attorno a lui pareva sparisse perfino il senso della comunione ecclesiastica. Fu poi il gruppo degli amici a rappresentare il suo aggancio con l’esterno. Insieme a Meucci, Gozzini, Vannucci e altri ancora, sono stato anch’io tra i suoi amici, e anzi, amico fraterno, da quando veniva all’Annunziata, nel convento dei frati Servi di Maria a Firenze, per confessarsi.

La mia amicizia e il mio rapporto con don Milani, pur nella reciprocità, è stato per fortuna più un ricevere che un dare. Con lui ho mantenuto i contatti fino a venti giorni prima che morisse. L’ultima volta andai a trovarlo a Barbiana con don Abramo Levi passandovi l’intera giornata. Lui era a letto. Era felicissimo di averci come ospiti insieme con i suoi ragazzi. Aveva appena finito di far trascrivere la sua “Lettera ad una professoressa”; ce la diede da leggere e poi ne discutemmo con lui fino a sera. Dopo neppure un mese morì.

A Calenzano aveva iniziato a scrivere le sue Esperienze Pastorali, ed è soprattutto per questo che avevo preso a interessarmi di lui. Ci fui accompagnato proprio perché vedessi il libro che egli stava scrivendo, perché lo leggessi, lo giudicassi e me ne interessassi. Ebbi dunque l’occasione di vederlo nascere, in un certo senso. Ho visto come si è architettata l’opera. Avrei perfino dovuto presentarla io stesso e pubblicarla nelle edizioni della Corsia dei Servi, a Milano. Ma se don Milani era stato esiliato a Barbiana, io, prima, ero stato cacciato da Milano per via del mio impegno per Nomadelfia. Mi impegnai comunque e per questo ritornai a Milano, dove, nel frattempo, era giunto il card. Montini. Avevo infatti rapporti molto amichevoli con Montini. Anche lui era un “cacciato” da parte di Roma. Eravamo tutti segnati.

In un nostro incontro, che gli avevo chiesto per il libro di don Milani e per altre questioni, mi disse: «Padre, tempi difficili corrono. Tempi in cui non basta neppure la prudenza, ma bisogna diventare astuti». Evidentemente alludeva al Vangelo, che parla della semplicità della colomba e dell’astuzia del serpente. Avevo dei libri da pubblicare, sia di don Milani che di Jacques Maritain, ma lui mi disse: «Prima bisogna sentire Roma. Vada a Roma a parlare col tal personaggio». Andai anche a Roma, ma l’esito di quell’incontro fu la risposta che ricevetti quindici giorni dopo: «Padre, non voglio neanche sentir parlare né di Maritain, né di Milani. Assolutamente!1».

Con questa risposta è chiaro che a Milano non si poteva fare niente, e che il libro non avrebbe mai potuto essere pubblicato dalla Corsia, perché non mi avrebbero dato l’imprimatur, e non perché si trattasse di me, ma proprio perché erano quegli anni particolari. Erano infatti gli anni di Pio XII, di Gedda, dell’integrismo più feroce. Stavano per sorgere i baschi verdi, quelli dell’Azione Cattolica, dai quali nascono poi i comitati civici.

È chiaro che non avendo la possibilità di pubblicare e sapendo don Milani di queste difficoltà (il mio esilio, Nomadelfia, i controlli continui, ecc.), lui possa aver scritto, in quella lettera a Meucci del 1956: «Mi pare di averti già detto che don Bensi mi ha consigliato di non farmi presentare in nessun posto dal padre David e non per disistima di lui (tutt’altro), ma perché gli dispiace ch’io sia accompagnato al primo incontro da un nome sul quale ci sono già prevenzioni e giudizi già dati. La cosa mi pare giusta e penso che la condividerai anche te».

Le Esperienze pastorali di Milani furono dunque presentate alla Libreria Editrice Fiorentina che si impegnò per la pubblicazione. Fu un successo, anche grazie alla polemica che ne seguì.

L’imprimatur fu ottenuto dal card. Elia
Dalla Costa. Dissero che gli era stato carpito approfittando della sua tarda età. Non è esatto. Il cardinale, un grande cardinale, fu sempre libero da Roma e mantenne sempre questa libertà e indipendenza. Non aveva mai condannato nessun prete della sua diocesi. Non so fino a che punto stimasse don Milani, ma è sicuro che la sua posizione era in un certo senso di controbilanciamento rispetto a quella di Florit. Sta di fatto che concesse l’imprimatur. E don Milani fu conosciuto a livello nazionale.

Le mie discussioni con don Milani riguardo ad Esperienze pastorali si concentravano su un punto che definirei in questi termini.
Egli era di origine ebrea, un uomo ancora da vecchio testamento, sebbene fosse illuminato, grazie alla grande cultura sua personale e della famiglia da cui proveniva, oltre che per la sua particolare intelligenza. Ma al fondo era un convertito con radici ancestrali ebraiche.

Quel tanto di nuovo testamento che compare nel libro è venuto fuori dalle nostre discussioni. Io gli facevo notare che l’importanza della giustizia andava salvaguardata, ma occorreva stare attenti, perché la giustizia può anche diventare crudeltà, disumanità. Occorre che la giustizia diventi amore e che l’amore sia giustizia. Il mio apporto, dunque, fu quello di aiutarlo ad umanizzare il messaggio biblico.

Ancora un particolare. Quando conobbi don Milani le Esperienze pastorali erano ancora in fase di progettazione e dovetti spingerlo io perché continuasse a scrivere. È infatti il rovescio della medaglia della persona intelligente, che ha il complesso della sua intelligenza e con difficoltà si espone al pubblico. Lui scriveva, ma non aveva ancora la sensazione netta che potesse servire a molti altri, cioè che quel suo libro potesse diventare un fatto culturale. Per questo era incerto. Allora lo spingemmo ad umanizzarsi, nel senso evangelico del termine, e a decidersi a pubblicare. E lui si appoggiava a noi, perché aveva bisogno di confrontarsi, al punto che si serviva quasi brutalmente e crudelmente, sebbene non strumentalizzasse mai, degli amici.

Il suo cruccio principale riguardava il linguaggio e la comunicabilità di quanto scriveva.

Continua…

Tonino Mario Rubattu

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di Piero Murineddu

Instancabile studioso e ricercatore il nostro TONINO MARIO RUBATTU, nato in un paesino nel sud dell’isola greca di Rodi, Lindos, italianizzato Lindo, dove il padre faceva il finanziere.

Grazie all’amico comune Giuseppe, nel periodo in cui era costretto a casa avevo avuto modo di fargli diverse visite, ognuna delle quali arricchente per il piacevole dialogare, dovuto alla sua vasta cultura. In una di queste occasioni, mi aveva fatto dono di una precedente versione del dizionario sardo – italiano multi volume che aveva pubblicato, segno della reciproca stima e simpatia che erano nate tra noi.

L’ incarico di sindaco per otto anni se l’era guadagnato per la piena fiducia che i sennoresi avevano riposto in lui. In questo avevano contribuito anche quei contatti pre elettorali che aveva con la gente in diverse zone del paese, parlando sempre in sardo e stimolando confronto su varie problematiche riguardanti la comunità che desiderava guidare amministrando la Cosa Pubblica.

Eccelso studioso della lingua sarda, in tutte le variazioni territoriali dell’isola. Ricordo che quando avevo qualche dubbio nello scrivere qualche termine nell’idioma locale sussincu, ambito in cui mi ritrovo purtroppo ad avere molte lacune, il consultare il suo sito mi era di grande aiuto.

Da questo sito, nato nel 2013 ad opera del suo amico di Romana Franco Piga ed oggi disattivo, riporto parte di quanto scrisse nella pagina introduttiva. È bilingue, ma per omaggiare il suo lungo ed instancabile lavoro di ricerca, scelgo la versione in sardo.

A seguire un suo testo presente nel volume “In biddas”, raccolta di poesie di autori sennoresi pubblicato nel 1994 a cura dell’amministrazione comunale guidata da Cicitu Morittu, in cui fa un excursus storico del suo paese. A questo proposito, appassionato creatore lui stesso di componimenti poetici, a lungo è stato membro della giuria  Premio di Poesia “Romangia”.

In conclusione uno dei tanti componimenti dedicati alla sua e nostra isola che tanto ha amato, con l’invito a chi vi capita, per poco o per molto non importa, di farlo col massimo rispetto, sforzandosi anche di guardare oltre i soliti luoghi comuni e non fermandosi solo all’apprezzamento dei paesaggi, siano essi marini che dell’entroterra.

Buona lettura

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Lindos, sormontato dall’acropoli e che richiama la nostra Castelsardo, paesino greco in cui era nato Tonino

DELLA MIA VITA E DELLA MIA PASSIONE

di Antoninu Rubattu

A mie, chi puru ch’apo abbertu sos ojos in una ‘iddaredda de sa Grècia, in Lindos in s’ìsula de Rodi, est capitada sa fortuna manna de aer àpidu unu babbu e una mama “sardos”, fieros de l’èssere, a tales de no aer mai sessadu de impreare sa limba insoro, s’est chi l’ana semper faeddada tra issos, forsis finas pro appasigare su dolore de ch’èssere disterrados fora ‘e domo pro chistiones de trabàgliu. Babbu fit finantzieri e in su 1938, annu de sa nàschida mia, fit servende sa pàtria in su Dodecannesu “italianu”, ue che fit bistadu imbiadu.

E dae Lindos, poi de calchi annu, nos ch’agattemis trasferidos a Bagnara, in Calàbria, ue b’istemis finas a sessare de sa 2^ gherra mundiale e ue frecuentei sas iscolas elementares. E sicomente babbu e mama ant sighidu che sempre a allegare in sardu, galu deo dae minoreddu apo suttu su limbazu insoro, chi apo mantesu e pratigadu finas a nde recuire in Sardigna.

Ma in sa terra ‘e sos mannos mios, sighinde in sas iscolas, apo dévidu istudiare e faeddare un’àtera limba, s’italianu, chi apo atzettadu, che tottu, comente una limba “sorre” de sa mea, e chi cun su tempus est finas diventada pius importante e pius appretziada.

E s’est beru chi custa segunda sorre m’at finas giuttu, prima, a unu diploma de mastru ‘e ‘iscola e, pustis, a una làurea in “lettere moderne” e a pratigare sa passione manna chi tenia pro sa poesia e sa litteradura e a su comintzu de s’attividade litterària mia, e finas a meressire maicantos prètzios e riconnoschimentos, beru est però chi mai apo olvidadu o minispretziadu sa limba “mia” prima, sa chi m’at formadu comente ómine de una “terra” ricca de valores umanos, morales, tziviles e sotziales pròprios, chi non sunt mezus de cuddos de àteras zenias, ma nemmancu peus.

Istesit gai chi, intendéndemi prima “sardu” e poi “italianu”, apo leadu s’àtera detzisione de mi dedicare a fàghere calchi cosa chi potterat servire a fagher torrare sa limba nostra a sas làccanas de “connottu”, in sa cumbintzione chi s’identidade de onzunu e de donzi pópulu no est cosa de pagu contu, ma s’indicu primu e pius ladinu de s’èssere “ómines inter ómines”, diversos eppuru cheppare in su consórtziu manu.

Apo comintzadu degai a iscrìer poesias, a imprentare lìbaros, a fàghere “bortaduras in limba” de autores de sa litteradura mondiale, cales Omero (Odissea e Iliade), Federicu Garçia Lorca (Su teatru sou: Bodas de sangre, Yerma, In casa de Bernarda Alba) e maicantas àteras cosigheddas.

A sos primos annos Settanta, finas meravizadu dae sa ricchesa de abberu manna de sa limba sarda, in cadaunu de sos limbazos nostros, cunsiderende chi sos Vocabulàrios chi aimis fint tottu “de parte”, ossiat o logudoresos o campidanesos, nugoresos o tataresos o Gadduresos, mi so cumbintu chi forsis baliat sa pena de chircare de los pònnere tottu a pare, ca sa limba est “una” (ammentàmulu!).

Mi so finas abbizadu chi mai niune aiat pensadu a comente si det iscrìere custa limba, e chi, non connoschende -sa zente- sas régulas de s’iscrittura, si regulaiat iscriende a sigundu de comente pronuntziaìat.sas peràulas.

Aerru mannu! -custu- ca non b’at “limba” in su mundu intreu chi si iscriat comente si faèddat, ca una cosa est su “fonema” (su sonu de una paràula), un’àtera su “grafema” (comente cussa paràula andat iscritta).

Aende deo fattu pro ùndighi annos su direttore de S’Ischiglia, s’ùnica rivista de poesia e Litteradura Sarda, de su 1900, animada e ghiada dae “tiu” Anzeleddu Dettori, e aende toccadu cun manu de comente onzi poeta o iscrittore iscrierat sa matessi paràula a manera pròpria (sosthe, soste, solte, solthe, sorte, sorthe, sorti, sorthi, solti), meravizadu chi mai niune in Sardigna aeret pensadu a “isdighire” custa “chistione”, forsi ca su Sardu serviat solu pro lu faeddare e mai pro essere iscrittu, meravizadu finas chi medas istudiosos e professores de limbìstiga sarda de sas Universidades de Casteddu e de Tàtari no aerent mancu pensadu a fàghere calchi cosa, apo detzisu de mi nd’impignare e, sighinde iscièntzia e bonu sensu, apo cumintzadu a ammanizare su DULS (1991), Dizionàriu Universale de sa Limba Sarda, cun 200.000 vocàbulos, tottu iscrittos a sa matessi manera, in sas chimbe faeddadas sardas (logudoresu, nugoresu, campidanesu, tataresu e gadduresu) e, po andare a passos cun sos tempos noos, aggiunghendebei finas : inglesu, frantzesu, Ispagnolu e tedescu..

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Tonino alla presentazione del dizionario in due volumi distribuito alle famiglie di Sennori

Breve sintesi della storia di Sennori

di Tonino Mario Rubattu

Il territorio di Sennori è cosparso di testimonianze prenuragiche e nuragiche. La Domus de janas dell’orto del Beneficio Parrocchiale, impreziosita da tre ancora nitide protomi taurine i resti, purtroppo malandati, dei nuraghi di Sa Pattada, Iscala de Todde, San Biagio e Chercos, la Tomba dei giganti di Oridda, come pure la vicinanza al recinto megalitico di Monte Cau, “forse fortezza e tempio ad un tempo istesso”, in cui sono stati rinvenuti numerosi reperti di varie epoche ora conservati nei Museo “Sanna” di Sassari, attestano inequivocabilmente la presenza di antichi insediamenti umani.

Alla conquista romana della Sardegna (238 a.C.), Sennori costituito in villa o Civitas, sotto la giurisdizione di un praefectus, che risiedeva certamente a Sassari, legherà il suo sviluppo e buona parte della sua storia futura al vicino e più importante centro di Sorso e a quella dei villaggi della zona (Gelidhon, Taniga, Gennos, Gerito, Uruspa, ecc.).

Fino all’età giudicale non si hanno notizie certe; verso il 1020 risulta aggregato alla Curatoria della Romandia o Romangia del Giudicato di Torres e, dopo il 1300, caduta la repubblica sassarese, andò a far parte di una delle tante baronie costituite dagli aragonesi, denominata “Encontrada de Romangia”, sotto la giurisdizione della famiglia De Senay Pilo Y Castelvì, alla quale nel 1430 subentrò quella di Gonario Gambella.

Al successore di Gonario, Antonello Gambella, e alla maggiore delle sue tre figlie, Rosa, è legata, seppure in maniera mai abbastanza chiarita, la costruzione del Palazzo di Rosa Gambella o “Palattu ‘ezzu” , tuttora esistente ed in discreto stato di conservazione.

Pare che il Palazzo non sia stato mai abitato dall’infelice baronessa, essendo questa divenuta erede del padre e avendo dovuto dimorare, “causa regni”, nel capoluogo dell’Encontrada, cioè a Sorso, se non addirittura a Sassari.

La storia, in buona parte romanzata, dalla nobile signora di Romangia è stata nel secolo scorso ripresa da Enrico Costa nel suo “Rosa Gambella”. Lo scrittore sassarese addebita al secondo marito di Rosa, il vicerè spagnolo Ximen Perez Escriva de Romani, uomo avido e dissoluto, la morte del primo marito della baronessa, il capitano Angelo Marongio, del figlio di questi e della stessa Rosa, al fine di impadronirsi delle proprietà dei Gambella. Sta di fatto che Ximen Perez ereditò comunque tali possedimenti e che, alla fine del suo mandato in Sardegna, vendette l’Encontrada a tale Antonio Cotona, ricco mercante.

Dopo varie peripezie, nel 1723, la Romangia pervenne alla famiglia degli Amat, marchesi di San Filippo, che la tennero fino alla fine del feudalesimo in Sardegna.

Sotto la loro denominazione va ricordata la rivolta del 1795, anno in cui i vassalli di Sorso e di Sennori, esasperati dalla politica fiscale del feudatario, dopo essersi rifiutati di versare i diritti feudali ed aver saccheggiato il palazzo baronale, cacciarono il barone Vincenzo Amat, il quale “veniva avviato sulla strada per Sassari a caval di un somaro”.

Immediata e spietata fu la reazione del Governatore di Sassari, cavalier Meli, che guidò di persona 2.000 cavalieri e una compagnia di dragoni. Sorso si arrese subito, nel timore di essere messa a ferro e a fuoco; Sennori tentò di resistere, ma dovette alla fine arrendersi e subire l’occupazione e il saccheggio.

Da segnalare ancora l’ adesione di Sennori al tentativo antifeudale di Giovanni Maria Angioy. Allorquando l’ex Alternos, irrimediabilmente sconfitto, si dirigeva in fuga verso Sassari, scriveva da Santu Lussurgiu al sorsese Quirico Marongiu, capo dei rivoltosi locali invitandolo a “radunare tutta quella gente che potrà unitamente ai sennoresi ed altri”, per un ultimo tentativo di riscossa.

AI suo arrivo a Sassari, Sennoresi e Sorsesi erano ad attenderlo con le armi in pugno e ad acclamarlo.

La sconfitta dell’ Angioy e della sua causa decretò la restaurazione della prepotenza feudale, prepotenza che doveva finire solo nel 1839.

Negli ultimi anni dell’ 800, sull’esempio trascinatore di quanto seppe fare “un sennorese trapiantato a Sorso”, Antonio Catta, anche Sennori fu scosso da fremiti socialisti, a tendenza repubblicana, il cui vessillo espressivo e organo propulsore fu quella Società Operaia denominata “Popolo Sovrano”, vera erede del pensiero angioyano.

FRÌMMATI, FURISTERI

di Tonino Mario Rubattu

S’ides su nuraghe
in gas alturas
chi dae sempre.
gherrat con su ‘ento,
frimmati, furisteri, unu momentu
ca che ses dadu in sa Terra mia.

Si de barveghes
bélidas t’arrivin,
de su pastore
su tristu lamentu,
s’andare tou,faghe pius lentu
ca sunt feridas de sa Terra mia.

S’àrvures notas
chena fruttu e fozzas,
pàsculos siccos
chena nutrimentu,
s’oju tou faghe pius attentu:
sun sas piaes de sa Terra mia.

Si solitariu
peri sas montagnas
su bandidu incontras
con s’armamentu,
culpa es’ totta de s’isolamentu
che da mill’annos patit Terra mia.

FERMATI, FORESTIERO

Se vedi il nuraghe
sulle alture
che da sempre
lotta con il vento,
fermati, forestiero, per un momento
ché sei capitato nella mia Terra.

Se ti arrivano
belati di pecore
e il triste lamento
del pastore,
rallenta il passo
ché sono le ferite della mia Terra.

Se noti alberi
senza frutto e foglie,
pascoli secchi
senza nutrimento,
aguzza lo sguardo:
sono le piaghe della mia Terra.

Se solitario
per le montagne
incontri il bandito armato,
è tutta colpa dell’isolamento
che da mille anni soffre la mia Terra.

Sempre grati e onorati per avere avuto come nostro conterraneo e amico una bella persona come Antoninu

 

Auguri, Celestanna

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di Piero Murineddu

Di Celestanna, figlia della coppia sassarese trasferitasi a Sorso per lavoro Teresa Loru, maestra elementare, e Edmondo Lumbau, figura storica tra i medici di Sorso, non si parla molto nel Diario familiare scritto dal figlio Mauro e pubblicato a puntate in questo spazio, salvo i tantissimi momenti in cui la si sorprende, vi si legge, “scompisciarsi dalle risate” che certi atteggiamenti del marito Piero le provocavano. Quattro anni prima del decesso della donna, che ogni qualvolta l’andavo a visitare mi accoglieva col massimo della cordialità di cui era capace, avevo realizzato alcune videointerviste in cui, oltre conoscere altri aspetti della famiglia, si coglie anche l’interesse culturale avuto da questa energica signora, sia per la letteratura e sia per la musica.

Di queste ripropongo il video in cui recita alcune poesie di autori che ha amato.

Oggi, 21 marzo, Giornata in memoria delle vittime di mafia

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DON CIOTTI: “BASTA CON LE POLITICHE CRIMINOGENE !”

di Piero Murineddu

Continuando l’ascolto di persone che aiutano a migliorare la vita collettiva e inevitabilmente quella personale, ieri è stato il turno di Luigi Ciotti, il grande prete a cui Michele Pellegrino,il cardinale con la croce di legno o fatta di corda da ragazzi più o meno sbandati, dopo l’ordinazione, affidò la parrocchia della Strada. Ed è proprio del rapporto filiale che lo legava all’allora cardinale di Torino che Luigi si sofferma nell’ evento che propongo svoltosi nell’ottobre 2022 e che lo vide ospite a Romena, la Fraternità toscana guidata da luigi Verdi.

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Oggi Giornata in memoria delle vittime di mafia. Da sempre prete Ciotti è in prima linea per combatterne le diverse sfaccettature e diramazioni nella società, per cui ascoltarlo ieri sera non è stato casuale, ma voluto.

Un altissimo intervento aperto e chiuso con l’augurio fatto a ciascuno della Solitudine, che è altra cosa dell’isolamento. Solitudine cercata per conoscere e capire l’essenza di noi stessi, per capire cosa realmente vogliamo dalla vita e per non farci travolgere da quanta ci accade intorno.

Nelle sue preziose e accorate parole, non manca di rilevare il grande rispetto per la Sacralità delle Istituzioni, ma nel contempo, insieme al dovere della FERMA DENUNCIA di molti che la rappresentano indegnamente, anche il richiamo fatto a ciascuno del necessario dovere di essere una spina al fianco se chi ha un incarico pubblico che condiziona la vita altrui non opera realmente per il Bene di tutti, di tutti,  di

TU -TTI !

 

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Ancora quel misero ministruncolo che purtroppo ci ritroviamo tra i piedi non aveva manifestato il peggio del suo cervello definendo il nostro amico prete “un signore in tonaca” volgare, ignorante e superficiale perché si era permesso di dire che il Ponte sullo Stretto più che unire due coste unirà due cosche. Un SIGNORE si don Ciotti, di cui la piccolezza mentale di costui non è degno neanche di pronunciarne il nome. Purissima verità quella di Luigi, naturalmente per chi è in grado di capire, possibilità esclusa per questo rozzo individuo.

Fai lo sforzo di dimenticarti dell’esistenza di questo miserello e ascolta con grande attenzione questo gigante della società civile.

Un invito a ogni amico e amica. Presta particolare attenzione all’ultimo scorcio della registrazione, quando Luigi ci augura di ….morire, col suo usuale modo provocatorio che ha di introdurre i grandi concetti. Non anticipo nulla. Lo ripeto: fai moooolta attenzione a quanto dice…

 

Nel link seguente, l’elenco delle persone assassinate dalla mafia, curato da Libera

https://vivi.libera.it/it-ricerca_nomi

E di ga razza sei, me figlio’ ?

Introduzione

di Piero Murineddu

 

Rita Spanu oltre 40 anni fa decise di lasciare la sua Sorso per raggiungere altri lidi. E in questo caso, proprio di “lido” si tratta, in quanto vive a Soverato, una cittadina di poco meno 9000 abitanti sulla costa orientale calabrese, ad una trentina di chilometri da Catanzaro.

Una ragazza che ricordo dai modi gentili, discreti ed estremamente rispettosi, caratteristiche che oggi, raggiunta l’età del “ripensamento”, avrà sicuramente conservato.

Rita, accogliendo il mio invito racconta alcuni suoi ricordi degli anni trascorsi a Sossu, esprimendo sul finale le sue impressioni sulla Sorso attuale.

Rita continua a definirsi sussinca e “billellariana” della prima ora, ma da quello che qualche amico comune mi conferma, gia dai tempi della giovinezza aveva dei modi che si distinguevano dagli aspetti immancabilmente poco positivi che ogni comunità possiede, e il parlare con lieve accento “continentale” evidenziava questa sua piacevole “diversità”.

Nonostante ciò, o forse proprio per questo, dovendo percorrere da piccola il centro storico, dove vi abitavano probabilmente le famiglie meno abbienti e forse anche più numerose, Rita racconta che si sentiva attratta da questo mondo che provocava in lei un certo fascino. Era tra quelle vie strette che si viveva la vera essenza dell’essere sussinchi, coi suoi pregi e difetti.

La famiglia Spanu abitava di fronte all’attuale Biblioteca Comunale, la cui casa occupava uno dei quattro angoli che racchiudono il vasto blocco edilizio includente anche la parrocchiale di San Pantaleo.

Da piccola, dovendosi recare dalla nonna, Rita si trovava a dover percorrere la zona antica del paese, ed è proprio da qui che inizia il suo racconto, che sicuramente non mancherà di portare molti non più giovanissimi a ripensare a quello che si era, nel bene o meno bene.

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“E NON PASSARE DA VIA CORTE ALESSANDRIA”

di Rita Spanu

 

“Ecco, prendi questa busta e portala a nonna. Mi raccomando, vai dritta, non parlare con nessuno, non fermarti a curiosare, se qualcuno ti offre qualcosa rifiuta e corri via e NON passare da via Corte Alessandria”

La mamma di Cappuccetto Rosso faceva meno raccomandazioni!

Camminare per strada senza rischi

Sorso, negli anni ’60, era un paesotto tranquillo i bambini potevano andare ovunque senza che gli adulti li dovessero accompagnare. L’unico problema o pericolo serio era rappresentato dalle (poche) automobili che circolavano condotte da ex contadini e/o carrettieri che avendo ancora poca dimestichezza con questi nuovi mezzi di trasporto rischiavano di travolgere i pedoni con molta facilità.

Ragazzi di oggi e di ieri

Le siringhe si vedevano solo negli ambulatori dei medici di famiglia e se ne aveva un sacro terrore. I ragazzini e le ragazzine non si sognavano di entrare nei bar per prendere birrette da consumare nei marciapiedi antistanti, bevendo e ruttando in faccia ai passanti con serena incoscienza come se fosse la cosa più normale del mondo.

Tutti noi si andava dappertutto, si giocava in strada, e le nostre mamme ci spedivano ovunque per fare i “comandi”, seppure con tutte le raccomandazioni di cui sopra. In ogni caso, il più delle volte, al rientro a casa le genitrici sapevano perfettamente se avevi ubbidito o meno ai dettami impartiti prima di uscire. Infatti, comari, vicine o passanti se notavano qualcosa di strano riferivano immediatamente a chi di dovere. Il controspionaggio dei “ciarameddhi” era sempre in servizio.

Il centro storico, luogo di vita vera

Via Corte Alessandria è il tratto antistante via Jelithon: in quegli anni erano considerati una specie di suburra. Su me quella zona esercitava un fascino incredibile. Passando di lì si osservava un mondo che in altri punti del paese non esisteva. C’erano un paio di famiglie che abitavano al piano terra e vivevano la loro esistenza interamente per strada. Il nucleo che mi incuriosiva di più era la famiglia di uno degli spazzini* del paese. Non ho idea di quanti figli avessero, so solo che erano sempre per strada e la loro madre non taceva un minuto urlando contro di loro delle espressioni che, all’epoca trovavo pittoresche salvo poi capire che la cosa più carina che augurava loro, con mille sadiche varianti, era una lunga e dolorosa agonia senza rimedio e/o la morte:

ti vegghiani tuttu fragassaddu mari

ti n’esciani l’occi

vai che la chisgina

ti vegghia fatt’a pezzi…,

 

Figuratevi la mia curiosità. A parte le cose che capivo o credevo di capire, rimaneva una lunga sequela di parolacce irripetibili delle quali sapevo solo che, per l’appunto, non potevo ripetere né chiederne il significato ad anima viva!

Cantare durante le faccende domestiche

Proseguendo, superato il tratto incriminato, iniziava il “festival della canzone”. Porte e finestre spalancate con le padrone di casa che facendo pulizia (imbarrazzéndi) cantavano a squarciagola “Non ho l’età per amaaartiiii” o “Tu mi fai girar come fossi una bambolaaa” e successi vari del tempo.

Era bello vedere in tempi di pre-lavatrice come le casalinghe si aiutavano con il bucato:

“Me’ surè, véni a aggiuddammi a trippià li linzori”.

Già, strizzare bene le lenzuola per facilitarne l’asciugatura era lavoro da fare in due. Ed ecco che anche il bucato diventava un evento sociale: cosa prepari per pranzo-ancora non lo so – ieri ho fatto il minestrone e oggi lo riscaldo – non parlarmene mio marito non vuole vedere nulla di riscaldato e “li pizzinni” poi non ne parliamo…Hai sentito che la tale ha litigato con la tal’altra e non si parlano più – come sta’ tua suocera,ecc ecc.

Non si passava inosservati

Nel frattempo chi passava di lì e non abitava nei dintorni veniva squadrata/o dalla testa ai piedi e si cercava di intuire di che “razza era”. Niente di discriminante, per carità. Era solo il modo che le persone più anziane avevano per stabilire di chi eri figlio, nipote e individuare così i parenti più o meno prossimi, elemento fondamentale per la loro tranquillità psico-fisica pare, dal momento che la prima domanda che ti rivolgevano era:

“me figliò, e di ga razza sei”?

Ovvero, figliolo/a, chi sono i tuoi parenti, genitori, nonni ?

Non si passava inosservati. Crescendo, però, questo genere di attenzione cominciò a dare fastidio.

Davvero seccante tornare a casa e vedere che le mamme sapevano, con minuzia di particolari, dove eri stato, con chi e per quanto tempo… Eh sì. Le mamme a quei tempi parlavano, osservavano, curiosavano negli affari dei figli, la privacy si debellava, se necessario, con qualche scappellotto e un “stasera non esci” a seconda della gravità dei limiti superati. Attenzione: giudizio materno totalmente inappellabile, ergo, fila dritto e non provarci nemmeno.

Le mariedefilippi avevano ancora da venire e il loro Piano di Rincoglionimento e Appiattimento dell’Attività Neuronale non aveva ancora inficiato il rapporto di gerarchico rispetto presente, fino ad allora, nelle famiglie normali.

Le botteghe “umane” sotto casa

Altro evento sociale era fare la spesa nei negozi di alimentari dove trovavi dalla farina ai lacci per le scarpe, c’era sempre folla, tutto era ritardato dal servizio ad personam (pochissimi i prodotti preconfezionati): mezzo chilo di pasta, due etti di caffè, 3 etti di zucchero ecc.ecc. Per quanto il negoziante fosse veloce ci voleva un sacco di tempo per approntare tutte le richieste e quindi tempo per una “ciaramiddhadda”, scambio di pareri, notizie varie ne rimaneva sempre parecchio. Inutile dire che rimanevo incantata a sentire “i grandi” parlare di fatti per me misteriosi e di persone ancora più misteriose che dimenticavo quasi subito a meno ché non fosse qualche fatto raccontato con atteggiamento da cospiratori. Mi colpiva più il tono della voce che il racconto in sé stesso anche perché il più non capivo la portata dell’evento raccontato. Infatti per lungo tempo non riuscii a spiegarmi (avevo circa 7/8 anni) cosa ci fosse di strano nel fatto che una tale fosse andata a casa del fidanzato rimasto solo a casa perché la madre era in visita alla sorella in un paese vicino, e loro avessero trascorso l’intero pomeriggio insieme lontani da occhi indiscreti.

Feci ridere tutti i presenti affermando che mi sembrava una gran buona azione che la tale avesse fatto buona compagnia al suo fidanzato rimasto solo in casa. Arrivai addirittura a dire che probabilmente lui non sapesse cucinare e lei gli avesse preparato la cena. Beata ingenuità. Mi offese molto comunque, la gran risata di mia madre quando una delle presenti le raccontò l’accaduto e nessuna delle due volle dirmi il perché di tanta ilarità.

Rischio gravidanze …premature

In quegli anni, l’unico rischio per le ragazze era di ritrovarsi incinta e ricorrere a matrimoni riparatori in giovane età. Sia chiaro, lo “scandalo” era sempre notevole, ma dopo qualche tempo tutto finiva nel rientrare nei binari della totale normalità.

Cambiamenti trovati nelle rimpatriate occasionali

A Sorso le cose sono cambiate nel giro di pochissimo tempo. Io sono andata via definitivamente nel 1980. Bene, nel giro di pochi anni (tornavo sempre per le feste comandate e altre occasioni) cominciavo a trovare cambiamenti poco piacevoli. Intanto la desertificazione della “passeggiata” presso la stazione ferroviaria, storico punto d’incontro per tutti, giovani e meno giovani sostituita da bar affollati da ragazzini e ragazzine sbracati e sboccati con precoci facce da tossici.

Poca gente per strada. Portoni sprangati. Finestre ai piani bassi protette da inferriate. Vagabondaggio automobilistico di nullafacenti che ti ritrovi tra i piedi in continuazione.

Purtroppo Sorso non ha più una connotazione, un’identità che possa consentire a chi passa di lì di avvertire un senso di appartenenza propria dei piccoli centri. Ora non è né carne né pesce: diabolicamente presenta i problemi e disagi della grande città (uno per tutti: i parcheggi maledetti, ti ritrovi auto in ogni dove) unendo gli svantaggi dei piccoli centri: niente teatro, cinema, poche occasioni e pochi o nulla centri di aggregazione.

San Giuseppe dimenticato

di Alberto Maggi

L’ebraico Yôsep (Giuseppe), è un nome augurale per chi desidera una famiglia numerosa, infatti significa “il Signore aggiunga” (al bambino nato), tanti altri ancora.

Nome popolare nella Bibbia, è portato da personaggi illustri della storia d’Israele, dal figlio di Giacobbe e Rachele, venduto come schiavo dai suoi fratelli per gelosia, ma divenuto poi governatore d’Egitto (Gen 37-42), al marito di Maria; quel che li accomuna è che entrambi, in situazioni drammatiche, sono stati i salvatori della loro famiglia.

Nel Nuovo Testamento c’è però un’evidente reticenza nel trattare di Giuseppe di Nazaret, marito di Maria e padre di Gesù. Sia nelle lettere di Paolo sia degli altri autori del Nuovo Testamento non si fa alcun accenno a Giuseppe, ma quel che sorprende è il ruolo marginale che sembrano dargli anche gli evangelisti.

Nel vangelo considerato più antico, quello di Marco, non c’è alcun riferimento a lui, e Gesù è ricordato solo come “il figlio di Maria”; vengono nominati i fratelli Giacomo, Ioses, Giuda e Simone, e anche le sue sorelle (Mc 6,3), ma non c’è alcun cenno al padre.

Anche nel vangelo di Giovanni si parla della madre di Gesù (Gv 2,1; 19,25) e dei suoi fratelli (Gv 7,3-10), ma non si trova alcun indizio su Giuseppe. È solo nei vangeli di Luca, e in particolare di Matteo, che gli evangelisti, in modi diversi, trattano questa singolare figura della quale stranamente non riportano neanche una parola, e del cui mestiere si parla solo in relazione a Gesù, conosciuto come “il figlio del falegname” (Mt 13,55).

La scarsità di notizie riguardo a Giuseppe nei vangeli, ha fatto sì che la Chiesa e la tradizione abbiano attinto abbondantemente dai testi apocrifi, in modo particolare dal Protovangelo di Giacomo, di poco posteriore ai vangeli. È in questo testo che Giuseppe viene presentato già come anziano (“Ho figli e sono vecchio, mentre lei è una ragazza” (9,2), mentre nell’apocrifo “Storia di Giuseppe Falegname” si legge che era vedovo con ben sei figli (quattro maschi e due femmine), quando si sposò con la dodicenne Maria di Nazaret. E quando Giuseppe morì, a ben centoundici anni (15,1), Gesù e Maria erano presenti al suo capezzale insieme a tutti i suoi figli e figlie.

Queste notizie indussero la tradizione cristiana a presentare Giuseppe come una persona molto avanti con gli anni e, in modo particolare dal quindicesimo secolo, il consolidarsi del culto a San Giuseppe, portò a raffigurarlo sempre più come un anziano che sembrava più il nonno che il padre di Gesù, forse per rendere così più sicura la verginità della Madonna, e generazioni  di bambini hanno imparato la dolce filastrocca dedicata a “San Giuseppe vecchierello…”.

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La grande lezione di Giuliano Branca dal suo trono di disabilità

Da un articolo di Cristoforo Puddu

Tutta la poetica di Biglianu è percorsa da una particolare attenzione e viscerale amore per l’uomo. Un meditato messaggio e testamento di vita, malgrado un’esistenza di dolore e solitudine, che evidenzia autenticità e immediatezza nei toccanti testi con chiare e interiori radici nella tradizione letteraria sarda orale.

A partire dal 1978 con l’iniziale partecipazione al “Romangia” e gli stimoli di Tonino Rubattu a rendere pubblici i suoi versi, è stata presenza attiva nell’incredibile e sorprendente laboratorio poetico sardo degli anni Ottanta e Novanta. La sua figura, sempre discreta, offriva costante pregio e qualità poetica.

Significativi i suoi contributi a numerosi concorsi letterari e valida la collaborazione a giornali, riviste ed antologie. La sua poetica indirizza e guida verso valori autentici positivi; malgrado le forti tensioni esistenziali e di dolore c’è fede nell’umanità e nella bellezza della vita.

La sua poesia assume carattere autobiografico ma allo stesso tempo celebra paesaggi, il mistero delle piccole cose, canta con affetto e fantasia vivace la vita quotidiana, la capacità di stupirsi e meravigliarsi per la vita. Spesso la poesia è anche strumento di lotta partecipe agli eventi storici, sociali e forte impegno per la valorizzazione delle specificità della cultura sarda. Sicuramente sempre una poesia di contenuti.

Con intima voce di verità canta gli eterni sentimenti dell’uomo, cercando di penetrare nell’esasperato silenzio che avvolge la sofferenza fisica. I suoi risultati poetici sono estremamente originali e riflessivi. Analizza con lucidità la sua esperienza con linguaggio toccante: tutto è connotato da una forte tensione spirituale e meditativa.

I versi sono strazianti di verità, e ogni verso un sussulto di essenzialità. Non c’è angoscia di sconfitta, ma forza e coscienza, personale e sociale. Le sue “cantones” si nutrono dei sentimenti dell’uomo: siano essi d’amore o di dolore. Giuliano, dal suo trono, dalla sua sedia a rotelle è riuscito ad ampliare il nostro orizzonte umano, ad arricchirci con la sua semplicità e umanità trasmessa in versi.

È poesia a cui bisogna guardare, dare maggiore visibilità e tanto attingervi, è avventura letteraria di una fede laica, di una esistenza che la malattia ha chiamato a unirsi costantemente al Cristo sofferente in Croce. Dal suo trono di passione è stato capace di donare versi di giustizia, di fratellanza e amore.

Alla scomparsa, Giuliano Branca è stato commemorato con due orazioni civili pronunciate dai poeti Tonino Mario Rubattu e Antonio Pazzola.

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L’amore di Franco per la musica

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di Piero Murineddu

Come lui stesso racconta nel testo ricavato dal sito sorsomusica.altervista.org/, credo attualmente purtroppo non attivo, lo stimolo, quando era ancora uno sbarbatello, l’ebbe dalla “terzina” del fratello presente in casa. Da lì per Franco iniziò la voglia di dedicarsi alla musica, passione che negli anni futuri non lo ha mai abbandonato.

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Anche da emigrato in Belgio, dato che non sempre le sole passioni procurano il necessario da vivere, la voglia di musicare insieme ad altri non l’ha messa da parte, anzi, probabilmente lo ha aiutato a superare i disagi inevitabili del doversi trasferire all’estero per necessità, trovandoci in essa anche il tramite per costruirsi nuove amicizie.

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Personalmente ho vaghi ricordi di Franco, sia per gli anni che ci separavano e sia per la frequentazione di ambienti e interessi diversi. È qualche anno fa che ci entrai in contatto, proprio quando gli chiesi l’autorizzazione di pubblicare la sua esperienza soprattutto col gruppo de I Paggi riportata dopo questa mia premessa. Franco accolse volentieri la proposta e anzi ci riproponemmo di vederci per approfondire la reciproca conoscenza, dato più che lo stesso intendimento qualche tempo prima era nato col suo amicone artista, entrambi residenti ad Alghero, Cici Egidio Peis, nel mentre anche lui deceduto e a cui in questo blog ho dedicato una pagina. Purtroppo gli eventi della vita hanno impedito che questo desiderio diventasse una  piacevole realtà. Chissà quante cose si saremmo raccontati!

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La mia e nostra grande passione

di Franco Cappai

Uno dei primi gruppi della nostra generazione è stato quello dei Lords. Nel 1967 si divisero. Restò disponibile la sala prove che era una stanza a casa di Francesco Petretto, aspirante batterista.Ci incontravamo lì per qualche suonatina.lo portavo la chitarra terzina di mio fratello, lui aveva costruito una cassa.

Facemmo amicizia con un ragazzo di Sorso,Gavino Senes, che aveva una chitarra elettrica e cosi inserimmo anche lui.

In quel periodo con Francesco salivamo a Sennori e fu lì, precisamente alla “Scala”, che vedemmo un ragazzino che suonava un chitarra terzina tutta sgangherata. Era Giampiero Pazzola. Al gruppo si unì Albino Cappai di Sorso.

La formazione iniziale, a cui demmo il nome “I Paggi”,era formata da me alla chitarra solista, Albino Cappai voce, Giampiero Pazzola alla chitarra ritmica, Francesco Petretto alla batteria e Gavino Senes al basso.

Col tempo riuscimmo a migliorare la strumentazione, all’inizio molto scarsa come per tutti i gruppi locali.

Suonavamo nei matrimoni e nelle salette di Sassari, dove spesso non riuscivamo a ricavarne un soldo.

La nostra prima apparizione in pubblico fu a Sorso in piazza del Comune, nel 1968. Era la festa di San Costantino e suonavano I Discepoli. Il brano che eseguimmo era “Un figlio dei fiori non pensa al domani”.

Andavamo a ballare all’ “Otto Colonne” che ancora non era diventata discoteca. Zio Nicolino Pisanu usava fare dei contratti a gruppi locali. Ci sono passati un po’ tutti: I Corsari, Gli Elfi, L’ Altra Versione…

Quell’anno, dopo una stagione con i Corsari, aveva la gestione il maestro Fiori con il suo gruppo.Noi chiedevamo di fare l’intervallo e finalmente un bel giorno ci venne proposto di fare una serata.

Potemmo avere così la possibilità di rinnovare la strumentazione. Si iniziò a comprare qualche strumento e poter suonare in varie sale del circondario, come Castelsardo,Valledoria e Tergu.

Un anno dopo avevamo ingaggiato Pier Vincenzo Sechi come chitarra solista ed io ero passato al basso. Diverse serate ed anche vari concorsi. A Santa Teresa di Gallura vincemmo la tappa di “Sardegna Canta” con “Tu sei bella come sei”. Nella finale di Alghero presentammo “Davanti agli occhi miei”.

In inverno, a Porto Torres, partecipammo al Trampolino D’Oro.

In una serata dei Boba nel piazzale dei frati Cappuccini a Sorso facemmo l’intervallo e Tore Mannu e Gianni Virdis degli Humus notarono l’abilità di Pier Vincenzo in un brano dei Cream e lo ingaggiarono.

Dopo un periodo in cui suonavamo in tre, basso,chitarra e batteria, chiamammo Mario Rubattu come chitarrista. Suonammo come gruppo spalla degli Spaventapasseri a Tergu. Il manager che li aveva ingaggiati lo fece anche con noi per la tournè che questo gruppo doveva fare nel nord Sardegna. Gli Spaventapasseri era un gruppo che suonava a Settevoci, nel programma televisivo di Pippo Baudo e per la prima volta vedemmo le potenzialità della Gibson distorta e come si può suonare in tre. Era un gruppo stile Led Zeppelin.

Quell’estate suonammo ad Ittiri, Osilo e a Porto Torres nel campo sportivo, ma di compenso neanche a parlarne

Dovetti prendere così l’amara decisione di vendere tutto e partire in Belgio per lavoro. Il gruppo si sciolse.

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Aggiornamento sugli sbarchi dei migranti

di Annalisa Camilli (Internazionale)

Dal 14 al 16 marzo sono ripresi sbarchi di numerose persone a Lampedusa, la piccola isola del Mediterraneo più vicina all’Africa che alla Sicilia. In tre giorni sono arrivate circa 1.500 migranti, poi il 17 marzo il tempo è peggiorato e gli arrivi si sono fermati. Il 16 marzo la guardia costiera ha soccorso dodici imbarcazioni, mentre un’altra è arrivata in maniera autonoma fino alla spiaggia. Una barca con circa duecento persone è arrivata a Pantelleria.

Le imbarcazioni arrivate a Lampedusa – che sono soprattutto di legno – sono partite dalla Libia e dalla Tunisia: da Zuara e in misura minore da Sabratha (in Libia), e da Sfax e Kerkenna (in Tunisia). Dal 1 gennaio al 15 marzo 2024, secondo i dati diffusi dal ministero dell’interno, sarebbero arrivati in Italia in maniera irregolare 6.560 persone, meno della metà di quelle arrivate nello stesso periodo dell’anno scorso. Il governo sostiene che questo sia il risultato degli accordi stipulati con la Tunisia per fermare le partenze, ma è ancora troppo presto per dire se quest’ipotesi sia fondata o se si tratti semplicemente di una conseguenza delle condizioni del meteo e del mare, peggiori rispetto allo stesso periodo del 2023.

“Ci sono stati molti giorni di maltempo e appena la situazione è tornata calma, numerose imbarcazioni sono partite sia dalla Libia sia dalla Tunisia”, conferma Francesca Saccomandi, operatrice di Mediterranean Hope e il Forum Lampedusa Solidale, attiva nell’accoglienza dei profughi allo sbarco al Molo Favarolo di Lampedusa. “Non vediamo più barche di ferro, l’anno scorso molto usate dai migranti che arrivavano dalla Tunisia. Sappiamo che le autorità tunisine ne hanno ostacolato la costruzione e che hanno fatto delle deportazioni sistematiche da Sfax al deserto per ridurre il numero di partenze e venire incontro alle richieste dei paesi europei”, racconta Saccomandi. L’operatrice sostiene che tra i migranti ci siano molti subsahariani, anche tra quelli partiti dalla Tunisia, e che tra loro ci siano molte donne e molti bambini o minori non accompagnati.

“Le procedure allo sbarco si sono velocizzate, rispetto a qualche mese fa. Ma le condizioni di accoglienza sono ancora pessime”, spiega. “Ci siamo solo noi e qualche volta i volontari della Croce rossa a distribuire acqua e snack, i servizi igienici al molo sono fatiscenti e manca un servizio per dare notizie alle famiglie che sono rimaste a casa. Inoltre, i problemi al centro di prima accoglienza (hotspot) sono sempre gli stessi da anni. Ci sono pochi posti e basta che gli arrivi aumentino perché la situazione vada fuori controllo. Inoltre le persone sono trattenute e private della libertà personale per un periodo più lungo di quello che sarebbe consentito dalla legge, le persone sono rinchiuse nell’hotspot anche oltre il tempo necessario all’identificazione”, spiega Saccomandi.

Intanto al centro di prima accoglienza (hotspot) di Lampedusa con gli ultimi arrivi si è raggiunta subita la massima capienza. Il 17 marzo duecento migranti sono stati trasferiti con un traghetto a Porto Empedocle e nel centro di accoglienza di Contrada Imbriacola sono rimaste 439 persone. Altri due migranti hanno lasciato l’isola con l’elicottero per ragioni sanitarie e sono stati trasferiti all’ospedale di Palermo. Uno è stato spostato per crisi epilettiche, mentre l’altro per una malattia neurodegenerativa.

Lungo la rotta del Mediterraneo centrale sono attive intanto tre navi umanitarie: la Geo Barents di Medici senza frontiere, la Life Support di Emergency e la Ocean Viking di Sos Méditerranée. Altre tre sono state sottoposte a fermo amministrativo la scorsa settimana. La Geo Barents ha soccorso un totale di 249 persone in tre diverse operazioni e ora è diretta verso Marina di Carrara dove arriverà il 20 marzo. In un primo soccorso sono state salvate 28 persone a bordo di un’imbarcazione di vetroresina, nel secondo 146 persone che viaggiavano su una barca di legno, mentre nel terzo, avvenuto di notte, sono state messe in salvo 75 persone.

Nel secondo episodio l’imbarcazione umanitaria è stata attaccata dalla cosiddetta guardia costiera libica, come era già avvenuto la settimana scorsa alla nave Humanity 1. Fulvia Conte, responsabile di Medici senza frontiere a bordo della nave, ha commentato: “Le operazioni di questi giorni sono state particolarmente difficili, abbiamo provato a soccorrere un barchino con più di cento persone a 40 miglia a sud di Lampedusa. Ma abbiamo assistito a un’intercettazione da parte della guardia costiera libica in acque internazionali”. In seguito in un altro salvataggio la nave di Msf è stata minacciata e attaccata dai libici. “La Geo Barents era in comunicazione continua con tutte le autorità competenti”, spiega Conte. Anche nel terzo soccorso ci sono stati momenti drammatici: “Il barchino si è ribaltato e circa quaranta persone sono finite in mare, ma per fortuna sono state soccorse”.

Il 16 marzo la Life Support di Emergency ha aiutato un’imbarcazione in difficoltà nella zona Sar maltese con a bordo 71 persone. “A causa del buio abbiamo impiegato circa tre ore per individuarla e a raggiungerla”, ha raccontato Domenico Pugliese, comandante della nave. I naufraghi erano partiti dalla città libica di Tajura, a una dozzina di chilometri da Tripoli, alle 22 del 15 marzo. L’imbarcazione di legno su cui viaggiavano aveva il motore guasto ed era inclinata da un lato. I naufraghi sono originari del Bangladesh, dell’Egitto e dell’Eritrea e tra loro ci sono una donna e tre minori, di cui due non accompagnati, ha dichiarato l’organizzazione.

Il soccorso più drammatico degli ultimi giorni ha riguardato la Ocean Vicking dell’ong Sos Méditerranée il 13 marzo in aiuto di un’imbarcazione in difficoltà, che era in mare da più di una settimana. “I sopravvissuti hanno riferito che almeno sessanta persone sono morte durante la traversata, tra cui alcune donne e almeno un bambino”, ha affermato il 14 marzo l’ong, che ha soccorso 224 persone in tre diverse operazioni.L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) aveva reagito esprimendo forte preoccupazione. Secondo Sos Méditerranée, l’imbarcazione è partita l’8 marzo da Zawiya. Tre giorni dopo si è rotto il motore, lasciando i migranti alla deriva, senza cibo né acqua.

Dopo un primo salvataggio di 25 persone, tra il 13 e il 14 marzo la Ocean Viking ha salvato prima 113 e poi 88 migranti in altre due operazioni di soccorso.

Le autorità italiane le hanno assegnato alla nave il porto di sbarco di Ancona. Dato che la città “dista 1.450 chilometri dalla posizione attuale della Ocean Viking, abbiamo chiesto alle autorità marittime italiane di concedere un porto sicuro più vicino”, ha scritto l’ong in un comunicato. Ma le autorità hanno concesso all’organizzazione di attraccare a Catania solo per fare scendere i casi più gravi, 23 persone bisognose di assistenza medica, e poi hanno imposto all’organizzazione di riprendere la navigazione verso Ancona, sulla costa adriatica.

Il ministro dell’interno italiano Matteo Piantedosi, parlando della situazione nel Mediterraneo, ha ribadito che questi episodi sarebbero la prova che “l’immigrazione irregolare va fermata alla partenza”. Il ministro ha comunque rivendicato una contrazione negli arrivi per il sesto mese consecutivo: “Segno che qualcosa sta funzionando”. Il 17 marzo la presidente del consiglio italiana Giorgia Meloni, insieme con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, è andata in Egitto per siglare diversi accordi bilaterali e sostenere un accordo da 7,4 miliardi di euro da parte dell’Unione europea con l’Egitto per la cooperazione economica e in materia migratoria.

Ma per i critici del governo Meloni e le organizzazioni che si occupano dei diritti umani gli arrivi di questi giorni e il caos nei soccorsi nel Mediterraneo mostrano che i numerosi accordi che il governo ha fatto con governi instabili o autoritari come quello con la Libia e la Tunisia nel 2023 hanno effetti limitati sul numero degli arrivi, ma hanno un costo enorme in termini di violazioni dei diritti umani nei paesi di transito e lungo le rotte.