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Gioventù andata

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di Piero Murineddu

L’anno è il 1984, 23 settembre. A specificare addirittura l’ ora, tra le 17, 17 e trenta, è la fervida memoria di Piero Canu, rimasto baldo giovanotto anche oggi dopo quasi quarant’ anni.

Foto di gruppo in quella che era la casa estiva delle suore vincenziane di Sorso, presso Pedras de Fogu, sulla strada per Castelsardo, rimasta in seguito abbandonata per decenni.

Era qualche giorno dopo un’esperienza comunitaria fatta a “La Madonnina”, tra San Leonardo e Cuglieri, insieme a Pietro Faedda, al tempo aiuto parroco di Giovanni Manca a Sorso. Ricordo che in quei giorni estivi trascorsi in montagna si alzava di buon mattino per sbattere uova su uova per la colazione della compagnia ancora a letto. Nelle due volte che si era fatta la vacanza in quel bellissimo posto, con noi era venuto anche zio Antonino Petretto, il factotum della parrocchia di allora. Una sera erano venuti anche i monaci del monastero benedettino di San Pietro di Sorres, che non si erano fatti scrupolo a seguire le indicazioni giocose che dava mia moglie Giovanna, in prima fila nella foto.

Ai-cichiciai-cichiciai-popof” era il canto minato, e loro, i monaci, con la nera tonaca d’ordinanza, a muovere il sederone e a ridere senza contenersi, quella espressione umana che aiuta ad allietare la vita e a renderla più leggera, nonostante i tempacci attuali.

Nella foto è presente anche la mite suor Anna, donna semplice, discreta e di pochissime parole. In alto a destra il sempre presente e sempre orante Franco Pilo, amico di una vita.

Per il resto, faccia pure chi si riconosce…

La Memoria volutamente di comodo dell’ attuale Governo

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di Marinella Salvi (il manifesto)

Ci si son messi in tanti, tranne quelli che hanno sfogliato un atlante storico o hanno un minimo di memoria del fatto che chi ha dato il là a una serie infinita di tragedie ha nome Mussolini, quello che esportava la civiltà italica a colpi di cannone.

Gli svarioni storici, politici, di senso comune addirittura, sono assiepati invece come nulla fosse nel treno storico che è partito da Trieste, binario 1 della Stazione Centrale (nata Südbahnhof per la cronaca).

Il Treno del Ricordo 2024 è promosso dal ministro per lo Sport e i Giovani Andrea Abodi e messo a disposizione da Fondazione Fs: ci sono una mostra multimediale, l’annullo filatelico e le masserizie degli esuli da uno dei magazzini del vecchio porto di Trieste.

Nato da una risoluzione della Commissione Cultura della Camera dei deputati, è realizzato dalla Presidenza del Consiglio in collaborazione con il ministeri della Cultura, dell’Istruzione e della Difesa nonché la Rai, l’Archivio Luce e Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata. Il treno girerà l’Italia per arrivare il 27 febbraio a Taranto.

Stupisce che nessuno dei tanti collaboratori abbia avuto un momento di perplessità davanti alle belle immagini di Istria e Dalmazia ritenute di provata appartenenza all’Italia essendo state romane fin da un paio di secoli prima di Cristo. Con questa logica si potevano rinverdire «ricordi» di un gran pezzo di Europa e di Nord-Africa ma forse si è pensato fosse fuori tema.

Fuori tema alla grande, invece, questo treno delle baggianate revansciste ci va quando accomuna gli esuli ai militari italiani internati nei campi di concentramento tedeschi. L’intento? La confusione massima evidentemente. I nostri militari mandati nei Balcani per occupare terre altrui che, dopo l’8 settembre 1943, in decine di migliaia si rifiutarono di servire i nazisti e preferirono l’internamento sono semmai un chiaro esempio di antifascismo e, non a caso, vengono ricordati il 27 gennaio con tutte le vittime del nazifascismo (pesa però la damnatio memoriae dei 10mila partigiani italiani morti combattendo in Jugoslavia). Ma forse mescolare foibe e Shoah aiuta a cassare pezzi di storia per dare enfasi solo a quanto fa comodo.

La presenza, nella mostra, dei militari internati ha fatto sbigottire la loro Associazione – come tutto il Forum delle associazioni antifasciste e della Resistenza – che sottolineano come il richiamo insistente all’italianità, ancora una volta, non faccia che evocare l’esproprio dell’identità di sloveni e croati perseguita dal fascismo e dall’occupazione di quelle terre nel 1941.

Ma questo treno che porta a spasso vergognose falsità di Stato è anche una provocazione che sembra smentire la flebile voce  del presidente Mattarella sulla «rinnovata amicizia tra Italia e Slovenia».

«Ricordiamo le vittime delle foibe e quanti furono costretti ad abbandonare le proprie case, ma caliamo quelle tragiche vicende nel corretto contesto storico – ha commentato l’Anei – non per favorire il proprio nazionalismo».

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Tacciano le armi !

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Appello di un gruppo di lavoratori dello spettacolo e della musica

L’ offensiva militare dello stato d’Israele contro il popolo palestinese prosegue con un sistematica e crudele ostinazione. Governi e istituzioni balbettano indecisi la loro indignazione e il loro stupore di fronte alla tragedia in corso, quasi non fossero essi stessi responsabili di ciò che sta avvenendo.

In questi giorni, tuttavia, siamo tutte e tutti testimoni di una catastrofe che è umanitaria, politica, etica, e non possiamo né vogliamo rimanere silenti di fronte a una sciagura di tali dimensioni. Stiamo assistendo ad un genocidio.

Il silenzio, l’indifferenza, il disinteresse nei confronti degli eventi in corso da parte del mondo della canzone, della musica, dello spettacolo, sono intollerabili. Abbiamo il dovere di dire basta, una volta per tutte, al genocidio del popolo palestinese.

Lo vogliamo dire nel segno della pace fra i popoli, della democrazia e dei suoi valori, della giustizia e del diritto internazionale, e lo vogliamo dire rifuggendo, senza se e senza ma, da qualsivoglia sentimento antisemita, che non ci è mai appartenuto, non ci appartiene e non ci apparterrà mai.

Siamo convinti che la pace fra Palestina e Israele sia possibile, necessaria e, oggi più che mai, urgente, per il bene del popolo palestinese, di quello israeliano, di tutti i popoli. Oggi, adesso, ora o mai più. Disconosciamo la guerra, cancro della storia, e imploriamo la pace, che è l’unica cura, l’unica soluzione possibile del conflitto in corso, di tutti i conflitti che insanguinano la comunità umana.

Non possiamo né vogliamo più rimanere inermi testimoni dell’annientamento del popolo palestinese. Dobbiamo e vogliamo tornare protagonisti del processo storico, perché è nel processo storico che insistono le nostre vite e quelle dei nostri figli, che non meritano un mondo governato dalla legge del più forte.

Tacciano, una volta per sempre, le armi, e parlino l’amore, la pietà, la compassione e la fratellanza, che sono la ragione stessa delle nostre canzoni, della musica, dei palcoscenici, dello stare insieme, dei nostri abbracci e dei nostri baci, del nostro insopprimibile desiderio di accogliere e di amare, del nostro essere partecipi dei destini del mondo. Perché il mondo non appartiene a qualcuno, il mondo è di tutti, perché tutte e tutti siamo membri di un’unica avventurosa famiglia, la Pace.

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https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/02/07/i-soldati-israeliani-esultano-per-le-distruzioni-a-gaza-i-video-analizzati-dal-nyt-che-potrebbero-rivelare-violazioni-alle-convenzioni-di-ginevra/7437144/?fbclid=IwAR0Od67FDUxmqHpBuTnhpltuRHD2TxvqbXnVBMusxqBdG7q_VUfcBbJBGE4

Sui movimenti ecclesiali ma non solo

 

di Piero Murineddu

A volte, aderire ad un gruppo particolare o ad una associazione, diventa una cosa quasi totalizzante, che facilmente porta a rinchiudersi dentro per avere quel rassicurante senso di appartenenza e sicurezza introvabili altrimenti. Non è impossibile però, entrare inconsapevolmente in un vortice integralista, nel senso che “la verità più vera e completa ce l’abbiamo noi”, per cui si guardano tutte le altre realtà con sufficienza, se non addirittura con sospetto.

Credo che questo non sia un atteggiamento che aiuti realmente a crescere e, per dirla cristianamente, a riuscire a vedere l’azione dello Spirito ovunque, anche nelle persone e nelle realtà apparentemente “distanti”.

Qualche giorno fa Francesco ha ricevuto in udienza il gruppo ristretto che guida il movimento dei Neocatecumenali e lo stesso Kiko Arguello, pittore, che lo ha fondato negli anni 60. Naturalmente sono stati snocciolati al vecchio papa i numeri delle loro iniziative e successi in non so quanti Paesi nel mondo.

Io riporto non quanto Francesco ha detto loro in questa occasione, ma le sue parole nei loro confronti pronunciate dieci anni fa, sempre validissime e non solo per questo movimento che ama farsi le sue lunghe liturgie coi suoi canti accompagnati dal battito delle mani e gli accordi spagnoleggianti in LAm SOL FA MI creati dallo stesso Arguello…

Vedi tu se quanto dice Francesco si può applicare ad altre realtà associative, partiti politici e simili:

Vi esorto ad avere cura con amore gli uni degli altri, in particolar modo dei più deboli. Il Cammino neocatecumenale, in quanto itinerario di scoperta del proprio battesimo, è una strada esigente, lungo la quale un fratello o una sorella possono trovare delle difficoltà impreviste. In questi casi l’esercizio della pazienza e della misericordia da parte della comunità è segno di maturità nella fede. La libertà di ciascuno non deve essere forzata, e si deve rispettare anche la eventuale scelta di chi decidesse di cercare, fuori dal “Cammino”, altre forme di vita cristiana che lo aiutino a crescere nella risposta alla chiamata del Signore”

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Ricordo di Egidio Guidubaldi

QUANDO “BRACCOBALDO” COMBATTEVA L’ OTTUSITÀ DEL POTERE CON LA CULTURA

di Sergio Naitza

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Sotto il nero cespuglio increspato delle sopracciglia, che contrastava col bianco candido dei capelli, si muovevano due pozze d’acqua chiara: occhioni dolci e imploranti, l’arma segreta con la quale riusciva a convincere i più scettici della bontà delle sue mirabolanti operazioni culturali. Arrivava in redazione a piedi, sudando e sbuffando nel clergyman, trascinando la sua mole di pachiderma ferito. Ti guardava sottecchi, sollevava il mento inquisitorio e disegnava con parole forbite la nuova avventura di organizzatore di spettacolo disponendo sul tavolo carte stropicciate, fotografie unte, fotocopie illeggibili che gonfiavano il suo fedele marsupio, una borsa impiegatizia di pelle lucida. E alla fine puntava bonario l’indice, ammonendo contro qualcuno e tutti, ma si capiva che lui testardamente voleva andare fino in fondo. Dove? Al cuore delle sue sfide-utopie, progetti diventati più grandi di lui, che riassumeva in titoli meravigliosamente colti e astrusi, lunghi come un film della Wertmüller.

Vulcanico, questo era padre Egidio Guidubaldi, che per un ventennio ha smosso lo stagno paludoso della cultura in Sardegna. Quanti debiti abbiamo, e Cagliari in particolare, con questo omone paziente per spirito cristiano ma brusco nelle decisioni e nell’imperio del comando verso i suoi giovani collaboratori. Mal sopportato dal vertice della compagnia gesuita che borbottava a ogni sua scapestrata intrapresa, scacciato come una mosca molesta dai politici dispensatori di pecunia pubblica che lo associavano a un saltimbanco, Guidubaldi tirava dritto nella granitica convinzione d’essere nel giusto. E lo era anche quando, negli anni prima della morte, si era infatuato della cultura russa, viaggiava oltrecortina, aveva stretto alleanza con l’Accademia delle Scienze di Mosca, studiava un parallelismo tra Dante e Aleksandr Blok, poeta dell’Ottobre sovietico, coltivato in quattro libri, di impervia lettura e complesse teorie, ma spesso – a parere di illustri critici – ci azzeccava pure.

Allora, però, nessuno gli dava ascolto. E questo era il suo cruccio. Uscito di scena come organizzatore, in pensione dall’Università (insegnava Letteratura italiana a Sassari) impiegava il suo tempo con cocciutaggine sulla connection sovietica, che frequentava già nelle more del crollo comunista e nei vagiti della perestrojka. Sembrava, e lo era, un Don Chisciotte: i suoi mulini a vento erano l’ottusità del potere, la sua Dulcinea la cultura, e Sancio Panza i suoi fedeli spettatori.
Però Braccobaldo, così era amichevolmente soprannominato, macinava idee, dibattiti, spettacoli: andava controcorrente, non aveva paura del suo anticonformismo che gli procurò rimbrotti dai superiori. Non venne mai sospeso ma poco ci mancò quando difese a spada tratta Je vous salue Marie di Godard che rileggeva l’Immacolata in chiave moderna. Il Papa condannava il film, orde di cattolici s’accodavano al monito e lui, nientemeno, organizzava a Roma l’anteprima nazionale, facendo accorrere la polizia per sequestrare la pellicola. E due giorni dopo, a Cagliari, promuoveva in un salone dell’Hotel Mediterraneo (nessuno gli aveva concesso una sala) una serata spettacolo pro Godard.

La sua foto finì in prima pagina sull’Unione Sarda, sopra quella di Papa Wojtyla: protestò con l’incolpevole giornalista per la mancanza di rispetto che gli avrebbe procurato guai ma sotto sotto si sentiva orgoglioso della sua “marachella”.Era il 1985, l’apice della popolarità e del turbinìo organizzativo. Ma già nei dieci anni precedenti Guidubaldi aveva segnato la storia cagliaritana dello spettacolo. Iniziò col teatro guidando la messinscena “domenicale” di testi come Antonio e Cleopatra di Shakespeare, Aulularia di Plauto, affidati all’anziano regista Aldo Ancis, arruolato con pacche sulla spalla.

Il cavallo di battaglia fu il cinema: nella saletta di via Ospedale a Cagliari, dure sedie di legno cigolanti, il suo cineforum calamitò e educò al piacere del film molti giovani. Si vedeva Nashville di Altman e tanto cinema della Hollywood di sinistra (Scorsese, Rafelson, Penn), si proiettava Jesus Christ superstar per dimostrare l’apertura mentale dei cattolici (e subito dopo L’esorcista ), si scuoteva la platea con L’altra faccia dell’amore di Ken Russell e soprattutto con La montagna sacra e El topo di Jodorowsky, film carichi di violenza surreale e allora vietatissimi ai minori di 18 anni. Gli fu fatto notare che aveva censurato una sequenza in cui si vedevano dei genitali maschili e lui, lapidario: «Meglio che li tagli io, prima che li taglino a me», riferendosi al minculpop gesuitico.

Ben prima che Nanni Moretti inventasse la battuta «No, il dibattito no», Guidubaldi l’aveva messa in pratica: a fine proiezione, presidiava il centro della sala e microfono in mano dava vita alle sue elucubrazioni cine-letterarie, già annunciate dalla scheda ciclostilata consegnata alla cassa. Il pubblico scappava alla chetichella, oppure rumoreggiava insolente e lui sollevava il tono baritonale. Più di una volta fece sprangare le porte, intrappolando tutti nella sacra discussione.

La sua poliedrica attività non si fermava qui: scrisse un musical sindacal-politico, Lama star , organizzò spettacoli di ballo a Sassari con Carla Fracci, convinse il medagliato regista Orazio Costa Giovangigli, allora ottantenne, a dirigere una messinscena dell’Inferno dantesco, prima all’anfiteatro, poi al Colosseo: aveva tutto pronto, scene e bozzetti, pure articoli sul Messaggero ma la soprintendenza di Roma gli negò il permesso.

Intanto scovava nuovi spazi: una rassegna di cinema sullo sfondo del nuraghe di Barumini, una sulla piazza grande di Fertilia, montò uno schermo nel cortile del Conservatorio di Cagliari, affittava l’Astoria, votato alle luci rosse, per proiettare Pasolini creando un cortocircuito con l’abituale pubblico di sbavatori.Quando non aveva uditori, s’inventava l’evento. Un giorno disse di aver istituito il premio Mediterraneo e decise che sarebbe andato al regista greco Theo Angelopoulos. Come fare? Guidubaldi prese l’elenco telefonico di Atene, chiamò tutti i Theo Angelopoulos: prima incappò in un omonimo violinista (che stava incautamente per invitare) poi finalmente scovò il regista. «Venga a Cagliari, c’è un grande premio per lei».

Non sapeva neppure che faccia avesse, chiese al solito giornalista (stavolta esterrefatto, non perplesso né incolpevole) di indicarglielo nello sciame di turisti sbarcati all’aeroporto di Elmas. In un francese da venditore di souvenir Guidubaldi si scusò dicendo che il premio non era ancora pronto, lo portò all’anfiteatro dove, sotto il flash di un fotografo raccattato all’ultimo momento, gli mise in mano due volumi su Cagliari. Poi sul cortile sconnesso di Sant’Eulalia per la proiezione su un lenzuolo stiracchiato di Alessandro il Grande. Il piccoletto, educatissimo Angelopoulos dall’aria sempre più smarrita lo seguiva come ipnotizzato, fino a quando la notte, prima di chiudere la porta della camera d’albergo, gli chiese: «Scusi, ma lei cosa vuole da me?». Guidubaldi non disse niente, sorrise tra l’ebete e il sornione, e si congedò.

Questo era Braccobaldo, uno show continuo. Nonostante la flebite, il diabete, un infarto non chiudeva mai la sua personale fucina di cultura. Memorabile l’impegno per l’anfiteatro abbandonato all’incuria: fece irruzione durante un consiglio comunale brandendo il suo bastone contro il sindaco Ferrara, una volta con un gruppo di giovani scavalcò la cancellata e occupò simbolicamente i graniti soffocati dalle erbacce. Un’altra ancora chiese al giornalista (di nuovo perplesso) di accompagnarlo all’anfiteatro dove lui, per protesta, avrebbe dormito sotto un canalone. Era una notte di luglio. Guidubaldi sgusciò dentro, in una mano una coperta, nell’altra una pila. La figura claudicante scomparve inghiottita dal buio, insieme alla luce sempre più fioca. Sembrava il finale de L’albero degli zoccoli , col lanternino contadino che si spegne nella nebbia. La fine di un’epoca, di un modo di far cultura, di una geniale follia che vien voglia di rimpiangere.

In ricordo di Mahmoud

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Io sorridevo felice

di Mahmoud Suboh

Avevo appena compiuto un anno, me lo ricordo perché stavo facendo i miei primi passi.

Mi ricordo che tutta la famiglia mi faceva il tifo: “Che bravo, vieni, vieni altri due passi. E c’erano le braccia e gli abbracci che mi attendevano.

Io sorridevo felice, cercavo di vincere le tante coccole. Mia madre mi stringeva al suo petto e mi infilava nel suo grembo: che bello il mio angelo.

Invece i miei fratelli grandi mi facevano ruotare sopra le loro teste. Avevo paura di cadere ma ero felice. Scordavo di camminare e chiedevo di farmi nuotare ancora nel vuoto.

Era bello camminare ed io non vedevo l’ora di correre. Volevo crescere in fretta e gareggiare con i miei fratelli. Loro erano già grandi, io invece crescevo e le mie gambe si facevano forti.

Era il mese di febbraio. Fuori c’era freddo e non si poteva correre, anche perché c’era il coprifuoco. Non capivo cosa volesse dire ma non si poteva uscire di casa.

Tutta la famiglia era raffreddata. Mia madre, povera donna, doveva occuparsi di tutti, faceva respirare i miei fratelli il vapore dell’acqua. Diceva che era la cura migliore per liberarei nasi ostruiti dal moccio ed anche io lo facevo, per solidarietà con i malati ma anche perché ero grande.

Dopo un giorno anche io avevo la tosse e scottavo come un pezzo di legno ardente. Ricordo che mia madre mi teneva nel suo grembo, spalmandomi una pomata sul petto per farmi respirare. Mio padre cercava di scherzare con me: “Dai che sei grande e domani ti svegli e gareggi con il vento”.

Io stavo male. Scottavo e la tosse sempre più noiosa non mi faceva dormire nonostante il grembo dei miei.Volevo fare due passi ma non riuscivo a vedere la stanza e cadevo come una foglia spinta dal vento.

– Marito mio, non mi piace. Il bambino sta male bisogna chiamare il dottore…

– C’è ancora il coprifuoco e non si può uscire di casa. Non permetteranno neanche all’ambulanza di passare. Domani se non dovesse migliorare, andrò a chiamare il medico, a costo di perdere la pelle.

Mio padre era uscito di nascosto a chiamare il dottore. Io mi sentivo di fuoco e sognavo di giocare sulla neve. Il dottore avevo detto, ed io capivo il senso anche se avevo la febbre alta: “È grave, bisogna portarlo subito in ospedale”.

All’ambulanza era vietato passare. C’era il coprifuoco e non bisognava ammalarsi in quei giorni. I miei genitori mi portarono, stretto al petto di mia madre a proteggermi dal freddo.

– Alt…alt…dove pensate di andare?

Mio padre supplicava e mia madre singhiozzava: “Per amore di Dio, per amore del cielo, nostro figlio sta male, fateci passare, ha bisogno dell’ospedale”.

Loro ridevano e respingevano indietro a calci e pugni mio padre che aveva osato uscire di casa. Due ore di discussione. Calci e pugni e minaccia di prigione. Mia madre piangeva e trascinava via mio padre.

– È finita! Maledetti israeliani! Maledetta occupazione! Maledetti, maledetti criminali, avete ucciso il mio bambino!

Io sentivo freddo, ero diventato un pezzo di ghiaccio. Non mi colava più il naso e non avevo più la tosse.Appena a casa mia madre mi avvolse in un lenzuolo bianco. Sembravo un fagotto nel suo grembo come quando avevo la febbre e mi lamentavo dal freddo.

Tutti piangevano. I miei fratelli strillavano soffocati dalla tosse.

– Alzati, cammina, cammina…non puoi andartene…

Dicono che ero diventato un angelo, ma io volevo rimanere con loro, volevo crescere, volevo gareggiare contro il vento, volevo dormire la notte nel grembo di mia madre, volevo essere portato dai miei fratelli, su a girare nello spazio a sfiorare le stelle.

Le loro lacrime erano calde e i loro lamenti mi facevano male. Perdonatemi il dolore che vi ho provocato.

Don Milani nelle parole di Francesco

Dal discorso per il centenario della nascita

22 gennaio 2024

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L’evento centrale della vita di don Milani è la sua conversione, non dimentichiamolo. Essa permette di comprendere appieno la sua persona, dapprima nella sua ricerca inquieta e poi, dopo la completa adesione a Cristo, nella sua piena realizzazione. Il suo “sì” a Dio lo prende, lo trasforma e lo spinge a comunicarlo agli altri.

Di fronte alla salma di un giovane sacerdote, Lorenzo dice al suo padre spirituale, don Raffaele Bensi, una parola decisiva: “ Io prenderò il suo posto”. È la risposta alla vocazione ad essere cristiano e insieme sacerdote, tanto che Adele Corradi, l’insegnante che gli è stata accanto, afferma: «Egli non ricordava nessun momento da credente in cui non pensasse di essere prete. Gli pareva che la decisione di essere prete fosse contemporanea alla conversione».

La conversione è il cuore di tutta l’esperienza umana e spirituale di don Milani che lo fa credente, prete innamorato della Chiesa, fedele servitore del Vangelo nei poveri.

Don Lorenzo ha vissuto fino in fondo le Beatitudini evangeliche della povertà e dell’umiltà, lasciando i suoi privilegi borghesi, la sua ricchezza, le sue comodità, la sua cultura elitaria per farsi povero fra i poveri. E da questa scelta non si è mai sentito sminuito, perché sapeva che quella era la sua missione, Barbiana era il suo posto, tanto che, appena arrivato, acquistò lì la sua tomba.

Don Bensi, quando lo andò a trovare già gravemente ammalato e lo vide nella stanza che serviva da scuola, circondato dai suoi ragazzi, rimase colpito e scrisse: «Erano lì tutti in silenzio e lui era uno di loro, non diverso, non migliore. Capii allora, più che in qualunque altro momento, il prezzo della sua vocazione, l’abisso del suo amore per quelli che aveva scelto e che lo avevano accettato.Fu per me, e rimane, l’immagine più eroica del cristiano e del sacerdote».

«Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia» ( Mt 5,6). Don Milani ha sperimentato anche questa beatitudine con la sua gente e i suoi allievi. La scuola è stato l’ambiente in cui operare per un fine grande, uno scopo che andava oltre: restituire la dignità agli ultimi, il rispetto, la titolarità di diritti e cittadinanza, ma soprattutto il riconoscimento della figliolanza di Dio, che tutti ci comprende.

«Noi –dice ai preti in Esperienze Pastorali – abbiamo per unica ragione di vita, quella di contentare il Signore e di mostrargli d’aver capito che ogni anima è un universo di dignità infinita».

Don Milani è stato testimone e interprete della trasformazione sociale ed economica, del cambiamento d’epoca in cui l’industrializzazione si affermava sul mondo rurale, quando i contadini e i loro figli dovevano andare a fare gli operai, una condizione che li confinava ancora di più ai margini.

Con mente illuminata e cuore aperto don Lorenzo comprende che anche la scuola pubblica in quel contesto era discriminante per i suoi ragazzi, perché mortificava ed escludeva chi partiva svantaggiato e contribuiva nel tempo a radicare le disuguaglianze. Non era un luogo di promozione sociale, ma di selezione, e non era funzionale all’evangelizzazione, perché l’ingiustizia allontanava i poveri dalla Parola, dal Vangelo, allontanava contadini e operai dalla fede e dalla Chiesa.

Allora si interroga su come la Chiesa possa essere significativa e incidere con il suo messaggio perché i poveri non rimangano sempre più indietro. E con saggezza e amore trova la risposta nell’educazione, attraverso il suo modello di scuola, cioè mettere la conoscenza a servizio di quelli che sono gli ultimi per gli altri, i primi per il Vangelo e per lui.

Al piccolo gregge di Barbiana, alla sua gente, don Lorenzo consegna tutta la propria vita, che prima ha consegnato a Cristo. Il motto “I Care” non è un generico “mi importa”, ma un accorato “m’importa di voi”, una dichiarazione esplicita d’amore per la sua piccola comunità; e nello stesso tempo è il messaggio che ha consegnato ai suoi scolari, e che diventa un insegnamento universale. Ci invita a non rimanere indifferenti, a interpretare la realtà, a identificare i nuovi poveri e le nuove povertà; ci invita anche ad avvicinarci a tutti gli esclusi e prenderli a cuore. Ogni cristiano dovrebbe fare in questo la sua parte.

Penso che l’esperienza di don Milani si possa rileggere con le parole che Giovanni Paolo II ha utilizzato per descrivere la figura del martire: «Egli sa di avere trovato nell’incontro con Gesù Cristo la verità sulla sua vita e niente e nessuno potrà strappargli questa certezza. Né la sofferenza né la morte violenta lo potranno fare recedere dall’adesione alla verità che ha scoperto nell’incontro con Cristo».

Gratitudine a don Lorenzo, prete inquieto e inquietante, fedele al Signore e alla sua Chiesa. Ringraziamo per la testimonianza che ci ha lasciato come impegnativa eredità.

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Quelle emozioni vissute con gli anziani

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di Giovanna Stella

Sicilia, anno 2007. Un centinaio circa di attempati sussinchi, due pullman strapieni, bagagli a non finire, dolci tipici di Sossu, vino e moscato di quello buono, tanta voglia di divertirsi, tante barzellette in prevalenza quelle un tantino zozzette, e canti e risate a non finire.Tutti alla scoperta di bellezze da ammirare e prelibatezze da gustare.

Bellissime giornate estive in quel settembre e bella compagnia per vivere 10 giorni all’ insegna della spensieratezza, attraversando templi, città, monumenti, paesaggi suggestivi, distese di fichi d’India, arancetti, le bellezza di Taormina, passeggiare ai piedi del vulcano, immergersi nel parco fluviale dell’Alcantara…

E poi ancora, tante, tantissime emozioni. All’inizio del viaggio un po’ di timore per non riuscire a gestire quel popolo in trasferta lo ebbi, ma ben presto, man mano che le ore e i giorni trascorrevano, mi rendevo conto che insieme si possono superare i disagi che qualsiasi viaggio comportano.

Quell’anno mi è capitato di accompagnare il gruppone da sola, riuscendo a sopravvivere e a gioire tanto.

Il giorno della foto, credo il penultimo, dopo il continuo girovagare, stremati ma felici, cercavamo una scalinata che potesse contenerci tutti per immortalare quel momento così bello.

Inevitabilmente, piú di qualcuno oggi non c’è più, ma li tengo ben impressi nel ricordo. Con chi è rimasto, quando capita di vedersi ci salutiamo con molto piacere da parte di entrambi, e la domanda che spesso mi sento fare è “ma di giti cussi beddhi no ni femmu più?

La mia risposta non può essere che un sorriso e un abbraccio, calorosi e pieni d’affetto.

Autostima non solo per migliorare se stessi, ma l’intero mondo circostante

Quando si è avuta una vita difficile come la mia….

di Antonio Catta

La tendenza da parte dei genitori ad isolarsi nel proprio dolore e molto forte, a volte, la presenza di un figlio disabile può mettere in discussione l’equilibrio familiare e conseguentemente quello sociale; la comunità si difenderà emarginando il nucleo familiare che a sua volta identificherà nell’handicap la causa di tutti i problemi e sarà la famiglia a scaricare sul figlio disabile le proprie frustrazioni e il senso di impotenza. Se nei genitori prevale l’amarezza e la sfiducia, la gestione delle tappe evolutive non potrà essere adeguata, verrà meno la maturazione e preparazione alla vita del figlio, poiché i genitori saranno incapaci di immaginare un futuro e un senso per la sua vita. Abbiamo imparato che l’autostima è l’arma più efficace che i genitori dei figli disabili devono necessariamente sviluppare.

Per quanto riguarda la mia persona posso dire in tutta sincerità che non so recitare, mi mostro sempre per quello che sono, con l’umore che ho: se sono contento mi mostro contento, se sono arrabbiato mi mostro arrabbiato, senza preoccuparmi di come possono reagire gli altri. Quando si è avuta una vita difficile come la mia, non ci si preoccupa di come reagiscono. Ho sempre creduto nelle mie forze e sempre creduto di farcela. Molte volte ho fallito. Sono caduto, mi sono rialzato, sono caduto ancora e nuovamente mi sono rialzato, ricominciando dal punto dove ero caduto. Dalla nascita di Maria è stato così, e lo sarà fino alla fine dei miei giorni. Se un individuo pensa che non ce la farà, non ce la farà mai. Anche se è intelligentissimo, anche se ha mille talenti. Per farcela occorre avere fiducia in sé stessi.

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Alcune considerazioni

di Piero Murineddu

Quanto su riportato è una paginetta del volume “Cara moglie, cara mamma” che Antonio Catta, vigile in pensione di Sennori, cittadina sarda che si affaccia sul golfo dell’ Asinara, due anni fa circa scrisse col validissimo contributo della moglie Maria Agostina Ruiu. Nella pubblicazione si ripercorrono la varie tappe, principalmente emotive, che hanno toccato la nascita, l’accettazione e la crescita dei loro due figli disabili Maria e Giuseppe.

In fondo indico la pagina che lo scorso settembre dedicai al lavoro letterario di Antonio e alla sua  famiglia, straordinaria seppur nell’ ordinarietà della loro vita quotidiana.

Come scrivevo allora, personalmente considero questo libro – il cui autore è uno dei soci fondatori oltre 30 anni fa di ABC Sardegna Associazione Bambini Cerebrolesi (www.abcsardegna.org) – da tenere sempre a portata di mano senza assolutamente aver fretta di arrivare all’ ultima pagina per poterlo risistemare nello scaffale. Probabilmente per volerne continuare la lettura solo in quei particolari momenti in cui si ha bisogno di soffermarsi sui tanti passaggi e concetti che vi si trovano dentro e che descrivono si la vita di un piccolo nucleo familiare, ma in fondo per riflettere su come personalmente ci poniamo davanti alla nostra personale esistenza e alle scelte continue che essa comporta per poterci considerare delle Persone Autentiche, libere dalle tante maschere che spesso i contatti sociali costringono ad indossare.

Essere se stessi, coi normalissimi limiti e con eventuali pregi, avere la libertà di poter guardare l’altro negli occhi senza dover abbassare o distogliere lo sguardo, chiunque esso sia e qualunque ruolo ricopra nella società, non avere la forzatura di fingere quel che non si è per sentirsi accettati….

Per arrivare a questo, necessariamente occorre avere una buona dose di autostima, non sempre innata ma frutto di un lavoro personale e spesso faticoso. È quanto ci dice Antonio nelle sue parole, e non potrebbe essere altrimenti, impegnato com’ è stato insieme alla moglie ad aiutare a crescere due figli “diversi”, grazie ai quali si sono arricchiti e continuano ad arricchirsi di quel tesoro preziosissimo e impagabile che è la Piena Umanità.

Su “Cara moglie, cara mamma” e alcuni diversi obiettivi nello scrivere

 

Il Governo italiano appoggia i repressori. Un esempio….

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di Giorgio Bongiovanni

L’Italia, nel 2024, mostra un volto nuovo di sé.Il nostro paese, infatti, si sta trasformando nel Sudamerica degli anni ’40 e ’50 che dava rifugio a gerarchi nazisti in fuga dopo la sconfitta del Terzo Reich nella Guerra Mondiale.

Come ADOLF EICHMANNA, uno dei principali esecutori dell’Olocausto, poi rapito dal Mossad e giustiziato in Israele, ERICH PRIEBKE(ex comandante delle SS), KLAUS BARBIE (comandante della Gestapo) o l'”angelo della morte” JOSEF MENGELE.

Da almeno un decennio l’Italia ospita criminali di guerra fascisti sudamericani. Si tratta di repressori di diversa nazionalità, argentini, cileni, uruguaiani. Ovviamente non sono migliaia come i tedeschi del Reich scappati oltreoceano grazie all’aiuto del Vaticano ma hanno le mani macchiate di sangue tanto quanto le loro.

Sono ex ufficiali dell’esercito e della marina o addirittura ex cappellani a servizio della dittatura. In Italia sono arrivati grazie al loro doppio passaporto fuggendo dalla giustizia dei loro paesi d’origine che vorrebbero processarli per crimini di lesa umanità.

Al momento sono quattro i repressori sudamericani accusati, a vario titolo, di omicidi e torture: CARLOS LUIS MALATTO (ex tenente colonnello argentino e responsabile operativo del Reggimento di Fanteria di Montagna di San Juan), JORGE NESTOR TROCCOLI (ex ufficiale dell’intelligence del Corpo dei fucilieri navali della Marina uruguayana), DANIEL OSCAR CHERRUTI (agente operativo del SIDE, la Segreteria dell’intelligence di Stato argentina) e don FRANCO REVERBERI (ex cappellano del centro clandestino di tortura “Casa Departamental” di Mendoza).

Quest’ultimo, ha ricevuto un bel regalo dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. Il Guardasigilli, infatti, ha bocciato il mandato di estradizione richiesta dalla Repubblica Argentina.

L’anziano sacerdote della diocesi di Parma è ricercato in Argentina dal 2011 con l’accusa di crimini contro l’umanità, tra i quali l’omicidio nel 1976 del 20enne peronista Josè Guillermo Beron, tuttora disperso, e di aver assistito alle sessioni di tortura cui erano sottoposti i prigionieri del centro clandestino di detenzione “Casa Departamental” dove svolgeva la funzione di cappellano negli anni della dittatura militare iniziata nel 1976.

Nel 2011, quando la procura federale emise una convocazione propedeutica all’arresto, Reverberi era già fuggito a Sorbolo (il suo paese d’origine vicino Parma). Da quel momento è iniziato l’estenuante lavoro delle autorità argentine per farsi consegnare il sacerdote.

La prima richiesta di estradizione – rafforzata anche da un mandato di rintraccio dell’Interpol – si impantanò prima in Corte d’Appello a Bologna nel 2013 e poi in Cassazione nel 2014. La seconda richiesta di estradizione del 2020, dopo una prima battuta d’arresto in Corte d’Appello nel marzo 2021, ebbe esito in Cassazione nel giugno 2022, quando i giudici ermellini annullarono la sentenza con rinvio. Di nuovo in Corte d’Appello, questa volta i giudici bolognesi hanno dato il via libera all’estradizione nel luglio dell’anno scorso. I legali di Reverberi hanno presentato ricorso che però hanno perso ad ottobre scorso in Cassazione.

A questo punto Carlo Nordio aveva 45 giorni per confermare, o meno, la decisione dei Supremi giudici e firmare l’estradizione. Ma ecco l’amara sorpresa: Nordio rigetta la richiesta. E così il sacerdote che assisteva alle torture di detenuti politici impugnando la Bibbia resta in Italia. Troppo rischioso per la sua salute, secondo il ministro, affrontare tutto l’iter di estradizione, a partire dal viaggio intercontinentale in Argentina. La valutazione del Guardasigilli, però, è superata dalla perizia stilata da un collegio medico-legale e depositata in Corte d’Appello nella quale si era accertato che “le attuali condizioni di salute di don Franco Reverberi sono compatibili con il trasferimento in Argentina”.

I giudici bolognesi che hanno disposto il via libera all’estradizione lo hanno fatto proprio sul presupposto di questa perizia e gli ermellini hanno avvalorato queste valutazioni. È chiara dunque la decisione politica del ministro dietro alla sua firma. La mossa del Guardasigilli è la cartina tornasole della natura di questo governo: avverso ai giudici e amico dei fascisti.

Il governo Meloni da oltre un anno conduce infatti una guerra contro la toga, demolendo gli strumenti in possesso all’autorità inquirente e giudicante. Demolizioni che si aggiungono alla delegittimazione di quegli addetti ai lavori che compiono il loro dovere seguendo il codice. Al contempo, l’esecutivo, non ha nascosto, a partire dal presidente del Senato Ignazio La Russa, simpatie e nostalgie per il Duce e per quanti provengono dalla galassia fascista e neofascista. In questo senso, la decisione di salvare Reverberi dall’estradizione potrebbe essere un gesto di cortesia del ministro, e quindi del governo, al neo insediato presidente argentino Javier Milei il quale, già da quando era in campagna elettorale, non ha nascosto inquietanti sentimenti di rappacificazione con i repressori fascisti della dittatura. Molti dei loro figli, infatti, oggi ricoprono cariche di punta nelle forze armate. È il caso, per citarne uno, del generale di brigata Carlos Presti, figlio del genocida Roque Carlos Albert Presti, che Milei ha messo a capo dell’esercito.

Ad ogni modo, il ministro Nordio dovrà rispondere della sua decisione a tutti quei familiari di ex detenuti politici torturati sotto lo sguardo dell’allora cappellano Franco Reverberi che ancora attendono giustizia. E dovrà dirci se la certezza della pena vale per gli aguzzini fascisti o solo per i ladri di polli.

* da antimafiaduemila.com

 

Intanto il il generalone “scrittore” che fa?

 

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…e quest’ altra notizia per farci stare tranquilli davanti ai cattivi, che sono naturalmente sempre gli altri…

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