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Intanto, a Gaza…

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I “MAI PIÙ” SEMPRE PIÙ RELATIVI

Di Pier Giorgio Ardeni

In altre occasioni, per altre devastanti guerre, intellettuali, giornalisti e politici si erano mobilitati, denunciando il diritto dei popoli a esistere e rifiutando sempre l’idea che un conflitto possa risolversi con l’eliminazione fisica, lo sradicamento, l’allontanamento. In questo caso, invece, mentre ci sono state manifestazioni di piazza, il mondo della cultura e della politica è rimasto silente.

Il nuovo anno è arrivato e il mondo procede lungo i binari già presi. Sono binari morti, per lo più, vicoli ciechi dai quali non c’è uscita, se non tornando indietro. A provare a guardarlo con distacco, se mai si possa, si prova incredulità se non disdegno. Certo, come sempre c’è una superficie al di sotto della quale, si pensa, c’è il ribollìo delle passioni, delle lotte, l’eterna rabbia dei maltrattati contro gli aguzzini, degli sfruttati contro gli sfruttatori, degli infelici molti contro i felici pochi. Ma la profondità, come dice il poeta, va cercata in superficie. E noi vediamo un mondo di conflitti, di morte, di predominio, dove la violenza si accompagna all’assuefazione, una violenza che ci pare ogni volta più brutale.

Come diceva un altro poeta «la storia insegna che dalla storia non si impara nulla». Già, non abbiamo imparato nulla. Ma ciò che è più grave è che la nostra cultura non ha imparato nulla e mai come in questo tempo sta mostrando quanto sia regredita.

In queste settimane – grazie anche all’iniziativa del governo sudafricano che ha portato Israele davanti alla corte di giustizia dell’Aia – si è tornato a parlare di “genocidio”, un termine macabro che indica l’eliminazione sistematica di una popolazione. Un termine moderno che è stato usato per indicare ciò che fu fatto ai nativi americani, agli aborigeni australiani, ai “bushmen” della Namibia, agli armeni, agli ebrei in Europa (in passato, per quanto meno evoluti fossimo, non eravamo mai stati capaci di questo).

Certo, è anche questione di “modalità”: l’eliminazione di centinaia di migliaia di persone, come accadde sulle trincee europee durante la Prima guerra mondiale, a Dresda, a Hiroshima e Nagasaki, non riceve lo stesso appellativo solo perché fu più circoscritta, ma non meno brutale.

Tutti casi che trovarono “giustificazione”, al tempo. Ma oggi, in reazione ad un attacco terroristico di ampia portata – mai attacco palestinese aveva causato tante vittime – la reazione del governo di Israele è stata di quelle commisurabili a ciò che fu fatto a Dresda o a Hiroshima.

Oggi come allora, la domanda è la stessa: era davvero necessario?

Quale logica militare e quindi politica può giustificare la distruzione e la morte di decine di migliaia di civili indifesi?

Quasi più che la stessa questione – se sia o meno “genocidio” – ciò che appare agghiacciante è l’evidente tentativo di sradicare la popolazione di Gaza dal suo insediamento, eliminandola. L’aggravante, tra l’altro, è che quella popolazione, nella Striscia – «un campo di concentramento a cielo aperto» era stato chiamato prima dell’invasione israeliana – vive in condizioni relegate di oppressione da decenni.

Più di cento giorni sono trascorsi da quell’attacco di Hamas e da quando Israele ha iniziato a radere al suolo le città della Striscia. I media e il mondo dell’informazione dominante ne hanno parlato, certo, raccontando la guerra dalla parte degli assalitori, che cercavano la giusta vendetta. Non l’hanno fatto «dalla parte delle vittime», in fondo complici per aver covato l’odio e albergato gli assassini terroristi.

Partiti, governi e organizzazioni sovranazionali hanno reagito giustificando l’operato di Israele perché «attaccare Israele è antisemitismo», quindi la sua reazione è sempre legittima, quale che sia. Mai come in questa occasione Israele è stato fatto oggetto di simpatia in nome delle comuni radici, della comune «civiltà occidentale».

Una civiltà che, invece, è stata spazzata via. Silenti, se non compiacenti, sono stati gli intellettuali e il mondo della cultura, nella sua grande maggioranza. Il conformismo ha prevalso sull’onestà intellettuale, la cecità sulla verità. Nessun coraggio, nessuna indipendenza: la soluzione genocidaria è stata accettata in nome di più supremi valori. Nessuno si è premurato di spiegare perché a Israele sia concesso di incarcerare migliaia di persone, invadere e distruggere migliaia di abitazioni, costringere alla fuga milioni di palestinesi. E tutti hanno affermato che non si tratta di genocidio e, quindi, che tutto quanto sta accadendo rientra nel novero di ciò che è accettabile (come Dresda, come Hiroshima).

Dopo l’ultimo grande genocidio, quello ebreo compiuto in Europa dai nazisti non solo tedeschi, si era detto «mai più». Ma, ora è chiaro, era un «mai più» relativo. Ci sono e ci saranno sempre degli “altri” ai quali non si applica.

Il silenzio dei media e della stampa, degli intellettuali e del mondo della cultura su quanto accade a Gaza sull’estensione e l’efferatezza del massacro di civili mostrano quanto la nostra “civiltà” sia arrivata al capolinea.

Il conformismo, generato dal sonno della ragione, e l’assenza di indignazione sono il segno di quella fine. Un tempo, si diceva, i diritti dell’uomo, dell’umanità, sono valori universali. In nome della ragione – non siamo più “barbari”, siamo “civilizzati” – non saranno più accettati lo sterminio di massa e l’eliminazione fisica di persone e popoli. Ma era anche questa un’idea “universale” relativa, evidentemente, che riguardava una parte del mondo e una concezione del mondo, la nostra.

In altre occasioni, per altre devastanti guerre, intellettuali, giornalisti e politici si erano mobilitati, denunciando il diritto dei popoli a esistere e rifiutando sempre l’idea che un conflitto possa risolversi con l’eliminazione fisica, lo sradicamento, l’allontanamento.

In questo caso, invece, se forte è stata la mobilitazione di migliaia di persone che sono scese in strada per manifestare, più silente è stata la reazione del mondo della cultura e della politica. Complice, forse, quel senso di impotenza che nasce dal fatto che le parole, oggi, finiscono facilmente nel tritacarne dei media, amplificato dai “social”, che omogenizza pensieri e opinioni nella maionese che regolarmente “impazzisce”, contrapponendo drammaticamente chi è “pro” da chi è “contro”. Rendendoci sempre più incapaci di distinguere e prendere parte con coscienza. Ma anche questo, a pensarci, è un frutto del «capitalismo della conoscenza» che, così facendo, è in grado di manipolare le coscienze delle masse, svuotandole della loro carica critica.

Perché, vien da chiedersi, non vi è stata a sinistra – in Italia, in Europa – una reazione forte contro l’evidente operazione di annichilimento di una popolazione oggi in atto a Gaza?

Il filo-semitismo tedesco, proporzionale solo alla colpa accumulata per un antisemitismo atavico, obnubila la Germania. L’Europa, dall’Atlantico agli Urali, ne è succube, nel coacervo irrisolto delle sue radici cristiane. Ma le sinistre, dopo due secoli, dovevano avere assimilato il principio che non c’è emancipazione senza coesistenza di popoli e culture. La reazione della cultura e della politica dei Paesi occidentali, invece, segnano il fallimento della nostra civiltà, che non ha mai dismesso il principio della forza – che ha segnato il colonialismo, l’imperialismo – per far valere il diritto alla propria esistenza, che si afferma solo negando l’altro.

Un fallimento culturale con il quale dobbiamo fare i conti. Abiurando, rifiutando, distaccandoci. La ragione illuminista – che avevamo coltivato con senso di superiorità – ha generato il mostro della sua negazione, in una regressione senza apparente fine.

Così, nel vuoto, brancoliamo abbracciando le centinaia di migliaia di giovani delle comunità ebraiche e musulmane, dei giovani “cittadini del mondo” che di quella cultura si sono nutriti e che guardano avanti. Non lasciamoci ammorbare, reagiamo come i tanti di noi, ancora allerta, ci chiedono. Siamo ancora in grado di discernere. Oltre l’impotenza, possiamo essere in grado di alzare la voce e far sentire parole di verità.

Solinas Christian? Vediam vediamo….

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di Pier Giorgio Pinna

C’è chi pone il problema della tempistica sui nuovi guai giudiziari per il presidente della Regione:

non sulla gravità delle imputazioni.

non sul silenzio di troppi media – soprattutto sardi – quando le stesse accuse per la prima volta vennero mosse anni fa;

non sulle omesse risposte di allora;

non sul fatto che quelle contestazioni non siano le uniche ma solo le ultime;

non sullo sfascio della sanità pubblica;

non sui passaporti anticovid Made in Capoterra;

non sui trasporti in tilt e la continuità territoriale a pezzi;

non sui generali (e miserevoli) fallimenti del centrodestra nel suo complesso.

In definitiva: niente, o quasi, viene rimarcato su una delle più penose giunte della storia autonomistica.

Al contrario appaiono tranquilli, anche in una situazione così allarmante, moltissimi politici e commentatori. Quelli che continuano a discutere solo di governabilità ante e post voto, di minimi accordi e di intese destinate a durare lo spazio di giorni.

E intanto quasi mai si parla di come i nodi storici di una Sardegna in agonia possano essere sciolti.

Nulla di nulla, pure da questo punto di vista, con poche eccezioni.

Non c’è da restare sorpresi, del resto. E nemmeno da meravigliarsi per la paura di cantare fuori dal coro prevalente.

È vero: alla vigilia dell’apertura delle urne è caduta l’ultima foglia di fico. Ma diciamocelo con franchezza: se fosse stato rieletto, magari a furor di popolo, che cosa avrebbe potuto fare Solinas di peggio rispetto a quello che ha già prodotto in questi cinque anni?

La Vita Piena di Arrigo Chieregatti

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di Ilaria Venturi       (bologna.repubblica.it)

“È sempre stato un viaggio verso l’ignoto, ma è stato possibile perché ci siamo incontrati e non ci siamo lasciati mai soli” ricordava Arrigo Chieregatti al suo 50° di sacerdozio.

Il prete che preferiva gli ultimi ai primi ha concluso il suo viaggio, anche se questa espressione non gli sarebbe piaciuta “perché è solo un passaggio all’altra riva del sé”, ripeteva, “dove potremmo incontrarci tutti senza differenze, là dove dio ci aspetta”.

Con lui se ne va un pezzo di storia della città e della chiesa bolognese, della sua anima conciliare, se ne va un maestro, un amico per i tanti che lo hanno conosciuto, per le centinaia di coppie che ha sposato, per i bambini battezzati diventati adulti, per chi ha accompagnato nella malattia e nel dolore, per i suoi studenti, per chi era in cerca di senso.

Arrigo Chieregatti non era solo il parroco a Pioppe di Salvaro, da 30 anni, esiliato in Appennino da una chiesa clericale che non lo capiva nel suo essere profetico. Era psicologo, monaco, pedagogista, attivista, professore universitario, era pranoterapeuta, cooperante, eremita. Un compagno di strada. Nel volume “Sulla strada della vita, ancora e sempre” che amici e parrocchiani gli hanno dedicato pochi mesi fa per i suoi 90 anni Matteo Zuppi scrive: “Se non mi lascio attrarre dal silenzio mai sarò in grado di ascoltarne la voce. Arrigo ha accettato questa sfida e l’ha vinta, come testimoniano i tanti frutti che ha donato nella sua vita”.

Il mistero, la ricerca del sacro, lì dove don Arrigo rompeva gli steccati della religione. Indicando la necessità di cambiare le rotte, l’esigenza di trasformare modi di pensare e stili di vita.

Studi classici, il seminario a Bologna, l’esperienza dei preti-operai in Francia nel 1959: comincia così il cammino di Arrigo prete. Nel 1962 monsignor Luigi Bettazzi lo vuole assistente diocesano della Fuci, successivamente Dossetti gli consiglia di prendere la strada dello studio, si laurea in Teologia a Milano, insegna Psicologia in seminario dal 1964 al 1968, poi si specializza in Psicologia religiosa a Lovanio.

Nel ’68 Arrigo condivide l’esperienza dell’abbé Pierre e delle comunità di Emmaus: far vivere i poveri con i rifiuti dei ricchi, una strada che si trasformò due anni dopo in dubbio (“mi chiedevo se era possibile e giusto”), un interrogativo che lo riportò a Bologna. Solo, dentro una chiesa che mal tollerava il suo agire “secondo la legge dell’amore e non dell’obbedienza”. Il “comunista”, quello che ospitava ex preti nella sua casa, l’originale dai lunghi capelli. Anni in cui don Arrigo lavora nei laboratori per disabili con don Saverio Aquilano, segue la direzione della rivista Jesus Caritas, organizza i viaggi in Algeria e, dunque, il deserto con Carlo Carretto, dove scrive il suo primo libro “Sulla strada” e dove impara “l’autonomia dall’autorità, la responsabilità, l’abbandono, il saper guardare il tempo che passa”.

Arrigo psicologo incontra lo psichiatra Franco Basaglia che lo volle in Veneto “perché qui sono ossessionati dal peccato”, lavora come psicoterapeuta presso l’Ausl, segue il Centro medico sociale per adulti psicotici gravi.

E ancora, dalla parte degli ultimi nel mondo. Ad Hanoi, in Vietnam, si occupa di bambini di strada, è responsabile di progetti europei di cooperazione in Cambogia e Laos, partecipa al Gruppo di Lugano, osservatorio sugli effetti della globalizzazione, con Bruno Amoroso, edita l’edizione italiana della rivista Interculture con l’associazione Dialoghi.

L’incontro con l’Oriente lo porta in India, suo il rapporto strettissimo con il benedettino Henri Le Saux, protagonista del dialogo tra Cristianesimo e Induismo, profonda è l’amicizia con il teologo e filosofo Raimon Panikkar. Una storia, la sua, che si racconta anche attraverso le amicizie con Arturo Paoli e con Bede Griffiths, altro grande interprete della sintesi tra Occidente e Oriente.

Il dialogo tra culture, l’incontro tra religioni, la meditazione: il tutto portato tra i monti dell’appennino, a Malfolle, nell’ashram della Trasfigurazione che ha fondato e guidato insieme a Luisa Bussandri.

E chi lo fermava, quel don che a Pioppe insegnava religione alla materna – ha formato schiere di educatori sulla scuola modello don Milani – portava i bambini del catechismo e i genitori in moschea, al campo nomadi, dagli ortodossi e dagli ebrei. Arrigo e i tanti viaggi dove era più che una guida, in Israele, Cina, Africa, sul monte Sinai all’alba del Duemila, a Varanasi, altra alba sul Gange, tra gli ultimi degli ultimi.

“Non sorprende – scrive il teologo Paolo Trianni – che nell’ambito di una stessa riflessione potesse citare san Tommaso e Ivan Illich”. La sua biblioteca è immensa, specchio della sua cultura. Ha scritto libri di commento ai testi sacri, letture spirituali, saggi, articoli. Indagava la dimensione del sacro attraverso i simboli, recuperava nella liturgia la potenza del rito, nei mistici e nei poeti individuava la chiave ermeneutica per leggere il mondo, predicare il Vangelo (le parabole e la loro poetica interpretazione), per capire la vita e la morte. Le sue omelie, che arrivavano ai singoli, che scardinavano alibi e comode certezze, sono raccolte in più volumi, l’ultimo s’intitola “Per amore, solo per amore”. La cifra del suo cammino e della sua fede.

Era in marcia a Sarajevo quando la città era assediata e sotto le bombe. “Smilitarizzare le culture”, scriveva. E non faceva sconti: “Non possiamo chiamarci fuori dalle decisioni dei nostri governi, non è vero che i nostri governanti hanno deciso la guerra senza di noi, sapevamo tutti che la nostra ricchezza vive sul commercio di armi, che l’Italia le produce: abbiamo mosso un dito? Non possiamo solo protestare o scandalizzarci quando bombardano. Che cosa credevamo, che tenessero lì le armi da vedere?”

“Dialoghi tra culture e popoli. Un uomo di pace – scrive la sindaca di Marzabotto Valentina Cuppi – Nei momenti più bui il conforto più potente è stato il suo, unico nella capacità di sostenere il male altrui. Ciao immenso Arrigo”. Ricorda l’amico Alessandro Alberani: “Era la sua umanità e disponibilità il segno più grande: aveva per tutti una parola di conforto”. Il sindaco Matteo Lepore esprime il cordoglio della città ai famigliari, il fratello e il nipote, e alla chiesa bolognese: “Bologna perde una persona di grande umanità e valore da cui ha imparato molto”. E frate Benito Fusco lo saluta così: “È andato nel respiro di Dio”.

Il prete “apripista”, lo ricorda Matteo Zuppi, e per questo scomodo alle coscienze di tutti, il prete che ha anticipato la chiesa in uscita di Papa Francesco, comunque già oltre. “Un realista sognatore, un chiacchierone silenzioso – lo definì Canevaro – un radicato nomade, un digiunatore buona forchetta, un burlone serio, un impaziente che sa attendere”. Capace di vivere gli opposti e di accogliere, sempre, “perché non c’è un unico modello di fede, di speranza, non c’è un unico modo di amare”.

Condividere, era il suo invito costante, per portare a ridere chi piange, per non lasciare solo o indietro nessuno, per giocare con la vita, “come fa Dio con noi, perché questo significa amare”. E per accettare di “essere conquistati dalla verità”, per inseguire bellezza e visioni. Nell’incontro con l’altro. Senza insegnare, don Arrigo Chieregatti ha insegnato e indicato a tanti una strada. Da percorrere, “se vuoi, se vorrai” sussurrava. Con quel sorriso, dolcissimo, che mancherà.

Il “doveroso” bisogno d’incontrare e confrontarsi con l’ altro

Un’ intervista con la videocamera posizionata male ma con parole di grande saggezza 

 

Non stiamo ricordando, non siamo vigili

di Tomaso Montanari

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Il potere delle immagini. Vedere centinaia di camicie nere schierarsi a Roma, la destra tesa nel saluto nazifascista, ha provocato reazioni più diffuse e intense che non leggere le parole di Meloni o Lollobrigida sulla sostituzione etnica. Almeno, ora è più difficile negare che l’Italia abbia un problema col fascismo: è come se un ex alcolista fosse fotografato attaccato a una bottiglia di Bourbon. Le reazioni del Governo e della maggioranza a trazione di matrice fascista fanno parte della fotografia.

UN MINISTRO DELL’ INTERNO che dice che è controproducente applicare la legge.
UN PRESIDENTE DEL SENATO che, da buon azzeccagarbugli, si arrampica sulle contraddizioni della Cassazione per escludere che il saluto fascista sia un reato. UNA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO che non rinnega la targa che mise nel teatro dell’attuale “folla oceanica”: una targa nella quale si autodefinisce “camerata”.

Nella cecità generale, sono paradossalmente i fascisti a parlare chiaro: sempre più chiaro. Pochi giorni fa, il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera ha gridato in Parlamento che al suo partito è particolarmente cara la frase con cui si chiude il Manifesto futurista (1909): «Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!». È un testo-incubatore del pensiero fascista. Poche righe sopra si legge: «Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna». Quindi, ha terminato il suo intervento citando una canzone della Compagnia dell’Anello che adatta Tomorrow belongs to me, la canzone che in Cabaret canta un membro della Gioventù Hitleriana: un testo di matrice nazista, con passaggi palesemente antisemiti e allusioni al fascismo, che è l’inno del Fronte della Gioventù.

In tutto questo, c’è un silenzio che fa veramente male: quello del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il quale nel suo discorso di fine anno al Paese non ha pronunciato neanche una volta la parola “fascismo”, o la parola “antifascismo”.

Dobbiamo essere consapevoli che stiamo tradendo il mandato di Primo Levi e della sua generazione: non stiamo ricordando, non siamo vigili. Perché il punto non dovrebbe essere discutere se una singola manifestazione di fascismo sia reato o non lo sia, ma ricordare con chiarezza perché una opinione, quella sola opinione, sia stata spogliata dalla Costituzione della libertà di essere espressa. Perché,,per usare le parole di Franco Antonicelli,il fascismo è, sempre e comunque,

– TERRORISMO
– IGNORANZA
– INCIVILTÀ
– ANTICRISTIANESIMO
– ANTIRISORGIMENTO
– BIECO APPARATO POLIZIESCO DELLE FORZE CONSERVATRICI,

E lo è sia quando è esaltato dalle braccia tese ad Acca Larentia, sia quando è difeso dagli equilibrismi verbali di deputati e ministri.

Di una cosa, soprattutto, dobbiamo essere consapevoli: il disegno, a suo modo lucido, dei fascisti è riscrivere, di fatto abbattere, la Costituzione antifascista del 1948.

Quando ci troveremo a discutere del “premierato”, deve essere chiaro che la matrice “culturale” di questo ritorno ai pieni poteri dell’esecutivo senza alcun bilanciamento sta in quelle braccia tese ad Acca Larentia.

Se il domani apparterrà davvero a loro, sappiamo già come sarà quel domani.

…e a proposito…

 

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Stupidi (e pericolosi!) razzisti perché ci si crede superiori? No, tutto il contrario

di Alberto Maggi

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Si trovano nella Bibbia le radici profonde del razzismo, pianta venefica che intossica gli uomini generando persone che, chiuse nel proprio angusto confine mentale, si sentono minacciate da tutto ciò che è più ampio, diverso. Costoro ritengono di essere superiori nei confronti di chi non appartiene al loro mondo, alla loro cultura, mentre in realtà sono razzisti proprio perché intimamente si sentono inferiori e per questo odiano l’altro, come espresso brillantemente in un aforisma da André Gide: “Meno è intelligente il bianco, più gli sembra che sia stupido il negro”.

Le origini del razzismo si trovano nelle primissime pagine della Sacra Scrittura, nel Libro della Genesi, dove si narra di Noè e dei suoi tre figli Sem, Cam, e Iafet, e della loro discendenza che si sparpagliò per la terra, dividendosi in aree geografiche ben distinte. Di questi tre figli, due, Sem e Iafet furono benedetti dal padre, mentre il terzo, Cam, fu maledetto. L’autore sacro racconta che Noè, piantata una vigna, bevve il vino, si ubriacò e si spogliò, restando completamente nudo nella sua tenda. Cam, vista la nudità del genitore andò a raccontarlo ai suoi fratelli, che si premurarono di ricoprire il loro padre. Quando Noè smaltì la sbornia, saputo quanto Cam aveva fatto, irritato, ne maledì il figlio, Canaan, rendendolo per sempre schiavo dei suoi fratelli: “Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli” (Gen 9,18-27).

È evidente che l’autore non intendeva redarre una cronaca degli avvenimenti, né riportare un fatto storico, ma presentare in luce negativa i legittimi abitanti della terra di Canaan, che gli israeliti avevano occupato, sentendosi in questo legittimati dal volere divino.

Eppure da questa fragile narrazione nacque la giustificazione della schiavitù e della segregazione razziale, dell’apartheid, tenacemente difesa proprio da confessioni cristiane di matrice evangelica riformata, per le quali tutto quel che è scritto nella Bibbia è indiscutibilmente Parola di Dio, e come tale eterna e immutabile. Ma senza una scala di gerarchia del valore dei testi sacri, e senza la distinzione tra quel che è l’intento teologico dell’autore, i generi letterari e l’ambiente culturale nel quale si è espresso, si rischia di attribuire a Dio ogni efferatezza compiuta dagli uomini.

Sicché per secoli si è creduto che la Sacra Scrittura giustificasse la superiorità di alcune popolazioni sulle altre, per questo ritenute inferiori, e ciò fu sostenuto fino la fine degli anni ’80 in Sud Africa, per giustificare l’apartheid, che venne finalmente smantellata non tanto grazie ai politici ma ai teologi che hanno alla fine compreso la mancanza di un qualsiasi appiglio nei sacri testi.

La Chiesa riformata olandese, la principale confessione sudafricana, arrivò a comprendere che la Bibbia non è un manuale politico, e pertanto non se ne possono dedurre modelli politici. E la segregazione razziale, fondata sui testi sacri, da credo indiscutibile si rivelò essere un’eresia teologica. Ma ormai il danno era stato fatto.

Ci si può chiedere come sia stato possibile tutto questo, come si sia potuto usare la Parola di Dio per causare sofferenza anziché alleviarla, uccidere anziché comunicare vita. La storia delle chiese è costellata da crimini perpetrati in nome di Dio, della sua volontà espressa nella Bibbia, basta solo pensare alle migliaia di donne torturate e bruciate perché considerate streghe, poiché era scritto: “Non lascerai vivere colei che pratica la magia” (Es 22,17). Se si inorridisce nel veder come in passato si siano fatte soffrire tante persone in nome della presunta volontà di Dio, c’è da chiedersi se forse anche oggi, nella Chiesa, non s’impongano pesi impossibili da portare “perché c’è scritto nella Bibbia”.

La Sacra scrittura non va solo letta, ma interpretata, altrimenti la Parola, anziché trasmettere vita, rischia di comunicare solo morte “perché la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita” (2 Cor 3,6). Per questo Gesù ai suoi discepoli non si è limitato a leggere i testi sacri, così come erano, ma li interpretava (“E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui”, Lc 24,27).

Gesù insegna che la Scrittura va interpretata con il medesimo Spirito che l’ha ispirata: l’amore incondizionato del Creatore per le sue creature (Lc 6,35). Quando ciò non avviene il testo resta come nascosto (“quel medesimo velo rimane, non rimosso, quando si legge l’Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato”, 2 Cor 3,14). Il Cristo è pertanto la chiave di spiegazione della Scrittura, e il criterio interpretativo offerto da Gesù è che tutto quel che concorre al bene, alla libertà, alla felicità dell’uomo viene da Dio, quel che limita o si oppone al bene dell’uomo in nessuna maniera ha origine divina.

Per questo, con Gesù non trova alcuna giustificazione

il razzismo,
la segregazione,
l’esclusione,
le chiusure.

Anche al suo tempo c’era lo slogan “prima noi!”, sbandierato da quelli che presumevano essere un popolo preferito, ma Gesù risponde con un “tutti insieme” (Mt 15,27). L’amore del Padre non si riversa sugli aventi diritto, i privilegiati, ma su chi ha bisogno, pagani compresi. E Gesù ha rischiato il linciaggio per testimoniare questo amore quando, nella sinagoga di Nazaret, ha ricordato come in occasione di una grande carestia l’azione del Signore non si rivolse al popolo eletto, ma sui pagani, perché lui guarda chi ha più bisogno e non chi vanta più diritti (Lc 4,25-27).

Gesù ha dato la sua vita per gli “uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione” (Ap 5,9; 7,9). Il vangelo è un messaggio universale per tutta l’umanità. Quel che divide, separa, emargina non viene mai da Dio, perché come scrive Paolo, “Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti” (Col 3,10; Gal 3,28).

Questo amore universale fece fatica a essere compreso dai seguaci di Gesù; pensavano anch’essi di essere una casta eletta (“si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo”, At 11,47), e a malincuore dovettero costatare che “anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita!” (At 11,18). Anche l’ostinato Pietro, che resisteva tenacemente all’invito del Signore di accogliere i pagani, arroccandosi sulla separazione razziale (“Voi sapete che a un giudeo non è lecito aver contatti e recarsi da stranieri”), accolse finalmente Cornelio, centurione romano, con queste liberanti parole: “ma Dio mi ha mostrato che non si deve chiamare profano o impuro nessun uomo” (At 10,28). Pietro pensava di dover convertire i pagani, ma è stato un pagano che ha convertito lui, facendogli comprendere la buona notizia del suo Signore.

Pertanto, l’unica razza presente nei vangeli è quella delle vipere, serpenti velenosi, immagine delle pie persone, degli “scribi e farisei ipocriti” tanto devoti con Dio quanto disinteressati al bene degli uomini, ai quali va il severo rimprovero del Signore: “Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della geènna?” (Mt 23,33).

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Segni di fascismo risorgente

di Raniero La Valle

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È stato fuorviante il dibattito protrattosi per giorni e giorni sul fascismo della signora Meloni. Esso non consiste nel beneplacito al saluto romano, ma nella cultura fascista che la determina nella sua azione di governo. Se ne possono fare solo alcuni esempi.

Il primo è quello di riferirsi sempre all’Italia come alla “Nazione”, per marcare un’identità, non per vezzo di linguaggio. Ma l’Italia, secondo la Costituzione, è una Repubblica, non è un Nazione, ed è la Repubblica, cioè il diritto, non sono le viscere, a fare il cittadino. Altrimenti si fa lo Stato etnico, e se arrivano altri si grida alla sostituzione etnica, si sogna il blocco navale, si chiudono i porti oppure, arrivati, li si imprigiona, li si segrega e li si deporta, fuori dalla vista, fuori dai confini, in Albania o in Tunisia, magari a pagamento. È quanto accade con lo Stato di Israele, che la discriminazione etnica l’ha messa addirittura in una legge di rango costituzionale che definisce Israele come lo “Stato nazione del popolo ebraico”, e solo a questo, “esclusivamente” riserva “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale”, che vuol dire negare agli altri la partecipazione alla sovranità, i diritti politici e perfino, come pretende il generale Effi Eitam, leader del partito religioso, il porto d’armi; e questo è il fascismo che porta al genocidio, come oggi a Gaza e che i palestinesi li vuole mandare nel deserto, in Egitto, in Congo, o tenerli in prigioni a cielo aperto (lo “Stato” palestinese della soluzione a due Stati, raccomandata, ma solo ora, da Biden).

Altra prova di fascismo è l’orgogliosa reiterata rivendicazione di un potere non “ricattabile”. Ma “ricattare” vuol dire minacciare un male per ottenere un bene: la democrazia è che un potere può essere tolto se non obbedisce al bene comune, e la minaccia di togliere potere al potere la fanno i Parlamenti nelle Repubbliche parlamentari e gli elettorati quando sono chiamati a votare. Il fascismo è che il Parlamento non può togliere la fiducia ai governi, gli elettorati non possono votare per uno o più lustri, e il potere è inamovibile; l’elezione diretta di un presidente del consiglio (la madre, per la Meloni, di tutte le riforme) lo rende non “ricattabile”: non può infirmarne il potere né un Parlamento, né un Presidente della Repubblica né, fin quando il potere non lo chiami alle urne, l’elettorato: e questo è fascismo. È stato quando il Gran Consiglio del fascismo ha “ricattato” Mussolini a piazza Venezia, che il Duce è stato ficcato dal re in un’ambulanza.

Altra prova di fascismo è la passione della guerra e l’entusiasmo per le armi. E quando la guerra non la si può fare in proprio, la si fa fare agli altri, senza far loro mancare le armi, perché quelle non finiscano mai, lasciando invece che finiscano i soldati, che è il regalo che stiamo facendo all’Ucraina, al suo autogenocidio (e il Partito Democratico si astiene).

Ci sarebbero tante altre cose proprie del fascismo: la subalternità ai potenti Alleati, il corporativismo, il classismo fiscale, l’invenzione del nemico, la propaganda. Non il folklore dei vecchi riti. Di questo dovremmo accorgerci.

Numero chiuso per il sovraffollamento delle carceri

di Riccardo De Vito

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Il 31 dicembre 2023 le persone detenute presenti nelle carceri italiane hanno toccato quota 60.166. La capienza regolamentare degli istituti di pena prevede un massimo di 51.179 ospiti, ma quella effettiva si aggira attorno ai 48.000 posti. Le carceri italiane, dunque, tornano a esplodere.

Il sovraffollamento è un buco nero che ingoia tutto, a partire dalle vite dei detenuti: 84 suicidi nel 2022, 68 nel 2023. Nel carcere straripante di presenze, ogni prospettiva di umanità della pena e di rispetto dei diritti soggettivi delle persone ristrette rischia di essere uccisa in culla, per non parlare delle concrete possibilità di reinserimento sociale delle condannate e dei condannati. Sotto quest’ultimo profilo, le cifre sono spietate: nel carcere italiano, in media, è presente un educatore ogni 75 detenuti, con il picco negativo (ma non isolato) raggiunto dalla Casa Circondariale romana di Regina Coeli, dove nel 2022 gli educatori effettivi erano 3 a fronte di 1002 detenuti; a lavorare è solo il 29% della popolazione ristretta, mentre poco più del 6% è coinvolto in progetti di formazione professionale. Anche gli sforzi più apprezzabili (ve ne sono di quasi eroici) di gestire al meglio gli spazi a disposizione e le risorse esistenti sono frustrati dalla durezza della situazione.

Il carcere sovraffollato è un luogo violento, nel quali i soggetti più vulnerabili sono in costante pericolo. Crescono gli episodi di insofferenza, di autolesionismo, di auto ed etero aggressività dei detenuti ed aumenta, in parallelo, il rischio di risposte altrettanto violente da parte dell’istituzione. Il presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (d’ora in poi: CPT), Alan Mitchell, ha rimarcato che «il sovraffollamento carcerario mina ogni tentativo di dare un significato pratico al divieto di tortura e di altre forme di maltrattamenti».

Far entrare nel carcere sovraffollato la persona condannata significa inserirla in un incubatore di odio; lasciarla in quel contesto per tutto il tempo della pena, secondo un malinteso e purtroppo egemone concetto di “certezza della pena”, vuol dire restituire alla società un recidivo quasi certo. È utile, per descrivere la realtà penitenziaria sovraffollata, conservare quel «chiodo fisso di chiamare le cose per quelle che sono» di cui ci parla il protagonista di Sunset Limited, il coraggioso romanzo di Cormac McCarthy: la prigione torna a essere una galera; le camere detentive, celle; i detenuti, camosci ingabbiati.

Se questo è lo stato delle cose, occorre chiedersi cosa fare per cambiarlo. Cambiarlo oggi, nell’immediato, se vogliamo offrire risposte non simboliche e propagandistiche alla esigenze di sicurezza e senso all’unica e ragionevole funzione della pena detentiva: reinserire in società persone responsabili.

Nella politica governativa, così come nell’opinione pubblica diffusa e in quella specializzata “progressista”, suscita consensi la soluzione più semplice: costruire nuove carceri. In quest’ottica, il 6 novembre 2023, il Comitato interministeriale sull’edilizia carceraria ha disposto la ripartizione di 166 milioni di euro per ristrutturare, ampliare e, soprattutto, costruire nuove carceri.

Per più di un motivo, si tratta di una soluzione ingannevole.

PRIMO. Calcoli e statistiche alla mano, i nuovi istituti saranno pronti soltanto tra dieci anni e potranno assorbire una quota estremamente ridotta del sovraffollamento (il nuovo carcere di San Vito al Tagliamento – progetto da 40 milioni di euro sui complessivi 166 da ripartire – prevede una capienza di 300 posti).

SECONDO. In assenza di personale educativo e di risorse organizzative e materiali, le nuove carceri amplieranno il profilo meramente custodiale della detenzione, riducendo o elidendo ulteriormente il profilo del trattamento finalizzato al reinserimento e, dunque, moltiplicando i problemi del carcere.

TERZO. In un mondo in cui la pena assolve anche una funzione di controllo e incapacitazione dei marginali – non codificata ma reale –, accrescere il numero dei posti a disposizione significa accrescere anche il numero di coloro che andranno a occuparli. Se aumentano le prigioni, prima o poi verranno riempite. Non a caso, il Manuale sulle strategie per ridurre il sovraffollamento penitenziario, adottato nel 2013 dall’Ufficio delle Nazioni Unite sulla droga e il crimine, è lapidario sul punto: «Oggi è ampiamente accettato che l’aumento della capacità carceraria non costituisce, di per sé, una strategia sostenibile per combattere il sovraffollamento carcerario»; a lungo termine, «l’incremento dell’edilizia penitenziaria può persino portare a un aumento dei tassi di detenzione», mentre a breve «il sollievo offerto dalle nuove costruzioni può ritardare la discussione sulle cause del sovraffollamento».

L’unica risposta adeguata sarebbe quella in grado di agire, a monte, sulle cause del sovraffollamento, per lo più note: l’investimento politico nel diritto e nella giustizia penali quali strumenti di consenso; l’illusoria metamorfosi del carcere in surrogato dello stato sociale; i conseguenti rigorismi punitivi (pene più lunghe, minor accesso alle misure alternative).

Si tratta di una prospettiva non realistica e nell’attuale contesto politico e culturale, persino le sacrosante strategie miranti ad aumentare il catalogo delle pene e delle misure alternative al carcere risulta fallimentare. La recente riforma Cartabia (decreto legisltivo n. 150/2022) fornisce un esempio chiarificatore. Dal 30 dicembre 2022 i giudici che condannano possono sostituire le pene detentive brevi – fino a quattro anni di reclusione – con le pene sostitutive dei lavori di pubblica utilità, della detenzione domiciliare e della semilibertà (oltre che, fino a un anno di reclusione, con la sola pena pecuniaria). Nel lasso di tempo tra il 30 dicembre 2022 e la metà di novembre 2023 sono state applicate circa 1.500 pene sostitutive. I numeri delle presenze in carcere, tuttavia, sono aumentati ugualmente: al 31 dicembre 2022 erano 56.196, oggi, come detto, sono 60.166. Un balzo in avanti di quasi quattromila unità, che esprime una sola cosa: a quadri culturali immutati, incrementare le offerte di alternative al carcere produce l’effetto di ampliare il controllo sociale penale senza sfoltire la popolazione carceraria.

Nel dibattito più approfondito sulla questione penitenziaria, per fortuna, torna ad affacciarsi con una certa continuità una soluzione ulteriore al problema del sovraffollamento: il numero chiuso nelle carceri. A dirla così sembra un’idea bizzarra, pura eresia: è concepibile che lo Stato metta un tetto massimo al numero di detenuti che può ospitare nelle patrie galere? Non si garantirebbe, in tal modo, una sorta di impunità a chi, legittimamente condannato, dovesse risultare eccedente rispetto al limite?

Ad analizzare meglio i termini del problema, ci si accorge che l’idea è tutt’altro che bislacca. Ci si trova di fronte, invece, a un’importante rivoluzione copernicana; necessaria, se si vuole riportare il carcere al livello delle promesse costituzionali. Per spiegarla non esistono parole migliori di quelle Massimo Zanchin, detenuto: «Invece di pensare di costruire nuove carceri, chissà dove, chissà quando, abbiamo qui e ora la possibilità di ricostruire nuove vite».

Il carcere, come è stato osservato, è rimasta l’unica istituzione pubblica di welfare a non poter contingentare gli accessi. Si dà ormai per scontato, infatti, che istituzioni fondamentali della Repubblica – università e ospedali in prima battuta – prevedano il numero chiuso. La Corte costituzionale (sentenza n. 383/1998), nel dare il via libera al numero chiuso universitario e nel riflettere sul rapporto tra organizzazione dell’insegnamento e diritto ad accedervi, pose l’accento sui seguenti profili: «Organizzazione e diritti sono aspetti speculari della stessa materia, l’una e gli altri implicandosi e condizionandosi reciprocamente.

Non c’è organizzazione che, direttamente o almeno indirettamente, non sia finalizzata a diritti, così come non c’è diritto a prestazione che non condizioni l’organizzazione». Per promuovere al meglio i diritti costituzionali della persona alla formazione culturale e alla scelta libera e consapevole delle professioni, dunque, la Consulta sancì la legittimità di una limitazione degli accessi all’organizzazione universitaria, purché basata su scelte di legge chiare e condivise. Di lì a poco, la legge n. 264 del 1999 tradusse in disposizioni normative questi principi, istituendo le prime facoltà a numero chiuso.

Si può criticare o assecondare questa impostazione, ma non suscita scandalo. Vale lo stesso, come anticipato, per gli ospedali: esistono classi di priorità e liste di attesa per le prestazioni ambulatoriali e per i ricoveri. La tutela adeguata della salute come diritto fondamentale di tutti gli individui e come interesse della collettività (art. 32 Costituzione) ha imposto di censire le risorse e, conseguentemente, limitare e scaglionare gli accessi in base all’urgenza e alla tendenza all’aggravamento delle patologie.

Gli stessi principi dovrebbero essere utilizzati per tutelare la dignità delle persone ristrette e promuovere il finalismo rieducativo delle pena. Lo raccomanda il CPT nel suo rapporto sulle attività svolte nel 2021, caldeggiando l’adozione da parte degli Stati membri di un numero massimo di detenuti da accogliere in ogni istituto penitenziario. Nessuno scandalo, nessuna fantascienza. Semmai, un meccanismo pratico ed efficace per garantire il rispetto degli standard relativi allo spazio abitativo minimo offerto a ciascuno detenuto – per il CPT, 6 metri quadri in celle singole e quattro in celle condivise, esclusi gli annessi sanitari – e tutelare l’efficacia dei percorsi risocializzanti.

Analizziamone da vicino il funzionamento: la legge dovrebbe stabilire un limite di capienza invalicabile per ogni istituto, calcolato non soltanto sugli spazi detentivi, ma anche sulla reale offerta educativa e di assistenza socio-sanitaria, sui numeri del personale e su altri fattori determinanti; entro tale limite massimo, poi, dovrebbe essere stabilito chi debba entrare in carcere con priorità – i responsabili dei reati più gravi e di reale offensività sociale – e chi, invece, in attesa che i numeri scendano sotto il limite, possa iniziare a scontare la pena in altre modalità (ad esempio, detenzione domiciliare).

Anche la Corte costituzionale, sia pure nell’ambito di una pronuncia di inammissibilità che rimetteva la palla in mano al legislatore, aveva riconosciuto la necessità di «un rimedio estremo, il quale, quando non sia altrimenti possibile mediante le ordinarie misure dell’ordinamento penitenziario, permetta una fuoriuscita del detenuto dal circuito carcerario, eventualmente correlata all’applicazione nei suoi confronti di misure sanzionatorie e di controllo non carcerarie (sentenza n. 279 del 2013).

Gli effetti vantaggiosi del numero chiuso, debitamente calibrato, sono numerosi e prevalgono sulle criticità. In primo luogo, il principio di extrema ratio del carcere assumerebbe una sua misura chiara e univoca, tale da indurre cautela nell’applicazione delle misure cautelari e nel dosaggio della pena. I detenuti che devono fare ingresso in carcere con priorità, poi, si troverebbero a fruire appieno di tutte le risorse messe a disposizione dall’amministrazione penitenziaria, con la concreta speranza di potersi davvero preparare a un reingresso in società senza recidive e ad abbandonare in maniera definitiva tutto il circuito della giustizia penale. Inoltre, lo Stato sarebbe costretto a investire su tutte quelle misure di controllo penale non penitenziario che, nel breve periodo, dovrebbero escludere l’impunità di coloro che sono in lista di attesa e, alla lunga, potrebbero diventare il motore di una penalità non più incentrata sul moloch della prigione. Insomma, come ha scritto Stefano Anastasia, riprendendo le parole di un celebre direttore di San Vittore, conviene ed è «importante fare in modo che le carceri possano dire di no».

Contro il fascismo, sempre!

di Gastone Cottino

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Alla soglia dei miei cent’anni, un gruppo di ragazzi e ragazze mi ha chiesto un incontro ponendomi una domanda inquietante, che riassume il problema di oggi: «Tu hai partecipato alla Resistenza e alle tappe successive della Repubblica. La tua generazione e quelle immediatamente successive hanno avuto dei valori chiari a cui guardare e delle persone di riferimento. Noi a chi e a cosa facciamo riferimento?».

È una domanda giusta, profondamente giusta, che rimanda alla necessità di ritrovare il filo e il senso di una storia. Una storia che i giovani non conoscono, o conoscono poco, perché negli ultimi decenni è stata stravolta e dispersa. Di un tratto di questa storia io sono stato, volente o nolente, per ragioni di nascita, partecipe (non dico protagonista perché non voglio ingigantire il mio ruolo). E avendo alle spalle quasi un secolo, tra l’altro neppure breve, sento la responsabilità di provare a dare una risposta a questa sollecitazione.

Sono passati 80 anni dal 25 luglio 1943, quando Benito Mussolini venne sfiduciato ed estromesso dal Governo, e gli eredi del fascismo sono tornati alla guida del Paese.

L’insediamento di Meloni alla presidenza del Consiglio e di La Russa alla seconda carica dello Stato non è un semplice cambio di maggioranza (un’alternanza, come si dice) ma un fatto devastante, uno strappo grave, la maggior lacerazione della storia repubblicana.

È stato angosciante anche il cammino che ha portato a questo esito: soprattutto gli ultimi mesi in cui, quasi fatalmente, ci si avvicinava. C’erano segnali univoci e non c’era dubbio che quello sarebbe stato l’approdo. Ma l’effetto è stato ugualmente devastante perché, persino in termini di immagine e di movenze, personaggi come La Russa evocano le figure dei peggiori gerarchi del Ventennio. Alla Starace, per intenderci. Di quei gerarchi che erano il segno tangibile, giornaliero del pugno di ferro che il regime aveva imposto al Paese. Mi risuona nella mente e nelle orecchie lo slogan di quegli anni bui: “All’armi, siam fascisti!”. Un’espressione che mi fa venire qualche brivido, perché ancora sento, dentro di me, quelle parole e quel canto. Di quando mi affacciavo, ragazzo, in via Garibaldi, a Torino, richiamato dalle squadracce fasciste che sfilavano con in testa Piero Brandimarte (pluriassassino e incendiario della Camera del lavoro) e percuotevano chi, incautamente, non si era subito levato il cappello. Un’espressione e un comportamento rievocati oggi dalle bravate squadristiche di Casa Pound, di Forza nuova e dei vari gruppi eversivi che agiscono impunemente e che noi abbiamo tardato a denunciare.

Siamo, dunque, di nuovo in un regime? E in che senso si può parlare di fascismo? Più che di un regime in atto si deve parlare dell’incombenza del fascismo. Cioè siamo in un cammino, in una deriva sapientemente amministrata. In una rete che si sta tacitamente estendendo, che parte dai simboli, dalle date e arriva all’inserimento di uomini fidati in posizioni nevralgiche nella scuola, nella magistratura e via seguitando. È una rete che si sta costruendo pezzo per pezzo e a cui – questo è il fatto che più mi colpisce – gli italiani sono totalmente insensibili, non si rendono conto di quel che li aspetta.

C’è chi dice che non si possono fare paragoni tra il fascismo di ieri e quello di oggi perché sono fenomeni tra loro molto diversi. È il solito falso problema e posso ben dirlo io che il fascismo del ventennio l’ho vissuto. Certo i due fascismi non si presentano allo stesso modo, perché, almeno per il momento, non c’è un regime che limiti, ad esempio, la libertà di stampa. Ma ciò accade anche perché è diverso il contesto e forse di limiti di quel tipo non c’è bisogno. Oggi, infatti, il sistema dei mass media, controllato dal potere economico, è quanto di più insidioso ci sia e spesso sostituisce la propaganda del ventennio, quando, ricordiamolo, non c’era la televisione con la sua enorme capacità di influenza. Sappiamo benissimo quanto l’informazione è stata ed è tradita dai giornalisti embedded con notizie manipolate (o addirittura false) ma anche con silenzi e omissioni. Pensiamo alla guerra in Iraq e all’invenzione delle armi chimiche di distruzione di massa pronte per l’uso da parte di Saddam Hussein o all’apartheid cancellato della Palestina. E pensiamo a come è stata ed è deformata la guerra ucraina, di cui vengono presentate solo la drammatica invasione russa e le evidenti colpe di Putin mentre vengono ignorati il nazionalismo e il bellicismo di Zelensky (trasformato in una star internazionale), gli antecedenti della guerra, la presenza in Ucraina di milizie di dichiarata derivazione nazista e, soprattutto, non si dice che la guerra poteva essere evitata e che la pace è ancora oggi possibile se la si vuole raggiungere. Così, l’indottrinamento attraverso i mass media, che ti fanno perdere la capacità di giudizio e la libertà di valutazione, rende in parte superflua la stessa propaganda diretta.

Ma torniamo alle identità e alle differenze tra il regime fascista e la situazione odierna.

È chiaro che non ci sono sovrapposizioni automatiche. Ci sono, però, evidenti equipollenze. E, poi, anche il fascismo storicamente esistito tra gli anni venti e quaranta del secolo scorso non è mai stato uguale a se stesso. Non in Italia, non in Europa e non nel mondo. In Italia la violenza squadrista delle origini, l’assassinio politico, l’olio di ricino si sono alternati con un’azione di governo apparentemente in doppiopetto. Quanto all’Europa c’è stato il nazismo in Germania, il fascismo di Salazar in Portogallo, il fascismo di Franco in Spagna, e ci sono stati il fascismo di Horthy in Ungheria e la galassia fascista della Finlandia e della Polonia, fino, in tempi più recenti, ai colonnelli greci. E in Francia il fascismo di Pétain non è stato lo stesso dell’Italia o della Spagna anche se gli ingredienti erano molto simili. Poi ci sono i più recenti fascismi dell’America latina.

Sono tutti movimenti con un fondo autoritario, molto spesso duramente repressivo, ma variamente modulato. Insomma, un caleidoscopio di manifestazioni che hanno, peraltro, una identità comune: l’instaurazione, in modo variamente autoritario, di quello che Gramsci chiamava un regime reazionario di massa. Ebbene questo riferimento è lo stesso della destra oggi al governo. Lo si vede nei personaggi, in quel che dicono, nella volontà di cambiare radicalmente la Costituzione, nel clima che si sta instaurando. Un clima in cui tu non sei obbligato a tacere, ma taci perché non hai più conoscenza, non capisci più le cose, non le afferri, non hai più il senso della storia. E allo stesso tempo sei indottrinato. Poi, certo, ci sono differenze. Ma insistere sul fatto che il fascismo di oggi non è quello di ieri è un modo capzioso per distrarci. Aggiungo: il fascismo di oggi non è ancora il fascismo di ieri, ma se non è adeguatamente contrastato non è affatto sicuro che non sia quella la prossima tappa. Del resto, se si vuole riprodurre nel nostro Paese il regime polacco o quello ungherese, come pure è stato detto, che cosa si fa?

C’è chi, anche a sinistra e in particolare nel Partito democratico, dice che queste posizioni sono esagerate, che è sbagliato gridare “al lupo, al lupo!”, che gli antifascisti irriducibili sono arroccati su vecchi pregiudizi, che Giorgia Meloni non può essere ricollegata al fascismo perché nel ventennio non era ancora nata e che, comunque, ha fatto significative autocritiche e si sta dimostrando capace e responsabile.

Non è così!

Anzitutto Meloni non è spuntata dal nulla. Al contrario, è nata e cresciuta nel vivaio del Movimento sociale. È stata dichiaratamente e orgogliosamente fascista, ha avuto come punto di riferimento Giorgio Almirante (fondatore del Movimento sociale dopo essere stato redattore della rivista antisemita e razzista La difesa della razza e esponente di rilievo della Repubblica di Salò), si è collocata a destra di Gianfranco Fini e dei cosiddetti fascisti in doppiopetto. Alcuni dei suoi amici e collaboratori sono stati dei picchiatori. E, quanto al dato generazionale, va casomai sottolineato che avere aderito al fascismo dopo la Liberazione è più grave dell’averlo fatto durante il ventennio. Perché nel dopoguerra si sapeva tutto sugli orrori del fascismo, sulle leggi razziali, sulle deportazioni e chi aderiva alla forza politica che ne faceva l’apologia e ne invocava il ritorno non può chiamarsene fuori.

Ciò rende anche del tutto inadeguato dire: «Io la Meloni la giudico da quello che fa». Certo, si dovrà fare attenzione alle sue scelte e ai suoi comportamenti ma intanto la sua biografia e la sua cultura sono ben note e impongono di valutarla per quel che è. Né vanno sopravalutate le sue prese di distanza dalle leggi razziali e dall’antisemitismo. È stata, infatti, un’autocritica limitata, insufficiente e, soprattutto, obbligata ché oggi una mancata presa di distanza da quegli aspetti del fascismo sarebbe del tutto impresentabile. Ma l’insufficienza è data dal contesto, a partire dal permanere dei simboli, che hanno un significato profondo. Tu fai l’autocritica e nel frattempo hai nel simbolo del tuo partito la fiamma trasmigrata dallo stemma del Movimento sociale italiano, diretta ed esplicita continuazione del fascismo.

Attenzione a non cadere nel tranello. Anche gli ebrei, i superstiti di quella mostruosità, rischiano di cadere in questa terribile trappola. La spregiudicatezza dei neofascisti e la nostra ingenuità può portare addirittura alla loro partecipazione alle manifestazioni del 25 aprile. Ciò non sarebbe un riconoscimento ma un oltraggio, un elemento che depotenzia subdolamente tutto ciò che è rappresentativo della nostra storia e della rinascita del nostro Paese.

Certo oggi, con l’arrivo al governo, prevale, a fronte della violenza (parte integrante del fascismo storico) il doppiopetto. Ma anche qui occorre essere chiari. Per il momento Meloni non ha bisogno di Casa Pound: per il momento, ripeto. E del resto – come ho già ricordato – anche il fascismo storico, dopo il primo orribile scatenarsi di violenze, giocò su due tavoli. Né si può dimenticare che negli scorsi decenni ampi settori della galassia fascista hanno continuato a coltivare il culto della violenza e, in alcuni casi, a praticarla addirittura in versione stragista, in significativa collaborazione con apparati dello Stato: basti ricordare Freda e Ventura, la strage di piazza Fontana, Ordine nuovo, gli attentati ai treni e via seguitando. E ci sono anche tanti altri recenti episodi, a cominciare dall’assalto alla sede della Cgil a Roma del 9 ottobre 2021 guidata da esponenti di Forza Nuova.

In ogni caso, se la pratica della violenza è passata in secondo piano, restano evidenti la violenza culturale e il culto della forza. Nella cultura politica di questa destra è la forza la legittimazione del successo. È giusto, in altri termini, che i più forti vincano, da un punto di vista genetico, da un punto di vista sociale, da un punto di vista comportamentale: basti ricordare la visione della scuola del ministro dell’istruzione e del merito Giuseppe Valditara. È questo, del resto, un tratto comune delle destre radicali a livello planetario e non solo in Italia: Trump e Bolsonaro, nella loro protervia e volgarità, insegnano.

A differenza che negli anni trenta e nei primi anni quaranta del secolo scorso noi sappiamo tutto. Conosciamo sia la storia che l’attualità del fascismo. Sappiamo tutto della Resistenza. E i barconi, e la disperazione dei sopravvissuti che piangono quelli che sono annegati li vediamo ogni giorno in televisione. È tutto dispiegato, eppure non c’è quel soprassalto di empatia che ti fa schierare con le vittime di questa gigantesca ingiustizia. La tragedia, oggi, è l’accettazione passiva che cresce anche se non c’è un velo di ignoranza da strappare. E non so se parlare di indifferenza o di servitù volontaria.

Mi chiedo: dove sono le magliette a strisce del luglio ’60 e i camalli? Dove sono le tute blu di piazza del Duomo dopo piazza Fontana? Dov’è l’eterogenea marea di Milano del 25 aprile 1994 contro Berlusconi? Dove sono finiti i 3 milioni convocati dalla Cgil il 23 marzo 2002 al Circo Massimo a Roma, vero e potente contrappeso al berlusconismo? Dove sono finiti? La soglia della tollerabilità è stata ampiamente superata ma non si innesca alcuna scintilla di rivolta.

Si torna così alla domanda di quei ragazzi e di quelle ragazze che ho citato all’inizio. Che fare? E con quali riferimenti? Le reazioni al fascismo sono state in questi ultimi anni inconsistenti e quasi sempre giocate sulla difensiva. A volte – per esempio di fronte alle violenze di Forza Nuova o di Casa Pound – si sono limitate a proteste di maniera e a comunicati stampa che lasciano il tempo che trovano. Superfluo dire che l’antifascismo dei comunicati stampa è destinato al fallimento e a non contare nulla. Io credo che il punto di partenza, il primo riferimento per voi giovani stia in un prezioso monito di quella grande figura che fu Nuto Revelli. Nuto diceva, in quel leitmotiv che fu suo costante assillo: capire e non arrendersi. Capire ciò che siamo stati e ciò che dobbiamo essere; capire e non arrendersi: mai. Ci sono, in quel monito, due aspetti strettamente connessi: la necessità di conoscere e, per questo, di studiare e la connessa necessità di impegnarsi.

Non dobbiamo, non possiamo essere concilianti come sono, purtroppo i vertici della Repubblica, che sembrano inseguire una impossibile neutralità. Chi è stato per tutta la vita insieme a chi fucilava i partigiani o ha tessuto l’elogio del fascismo e della Repubblica di Salò non può pretendere di partecipare alle celebrazioni e di portare corone ai monumenti ai caduti che, anzi, in quel modo oltraggia. Non si può accettare una simile doppiezza. Bisogna dirlo e non cadere nell’imboscata di mettere insieme, per un malinteso senso di unità, gli opposti.

Bisogna pretendere che i fascisti stiano lontani dalla Resistenza e dire che se ci saranno loro alle celebrazioni ufficiali non ci saremo noi. Solo così si potrà rompere la barriera di narcosi, di anestesia dei sentimenti che è stata costruita in questi anni. Perché le persone – i giovani ma anche i meno giovani – hanno bisogno di chiarezza. Ché altrimenti sono naturali l’incomprensione, l’indifferenza, l’allontanamento. Aggiungo che non basta guardare al passato. Bisogna guardare anche al presente. Un antifascismo vero deve estendere il suo impegno a realizzare una società opposta a quella che il nuovo fascismo – in continuità con il vecchio – ci propone: una società in cui si persegua la partecipazione e non il culto del capo, in cui si metta al centro il pubblico e non gli interessi privati, che concentri i suoi sforzi sulla salute e sull’istruzione, che persegua l’uguaglianza e condizioni di vita accettabili per tutti e tutte «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» (come vuole l’articolo 3 della Costituzione). Una società aperta e solidale capace di accogliere e di respingere le politiche contro i migranti, che sono la frontiera razziale del nuovo millennio.

Non è mai troppo tardi per reagire. Non possiamo aspettare ancora. Per chi appartiene a quelle classi del ‘23, ‘24, ‘25, ’26 che nella Resistenza credettero non soltanto di riscattarsi e di ritrovare la dignità di cittadino, ma di contribuire a costruire un mondo nuovo, quello di oggi è uno spettacolo veramente amaro e rivoltante. Dà la sensazione a noi pochi superstiti, ormai alle soglie del commiato, di lasciare il nostro Paese in una condizione di decadimento politico e sociale, di un fallimento: che, non a caso, si accompagna alla reazione padronale, al ristabilimento di quel capitalismo selvaggio che la pandemia sembrava dover accantonare per sempre, con la caduta dell’ultra liberismo e dei falsi ideali che esso porta con sé.

Ecco, io non posso accettarlo! Ci sono, nonostante tutto, segnali di resistenza e di riscossa. Segnali, non a caso, provenienti dalla classe operaia in lotta contro le delocalizzazioni e le chiusure delle fabbriche e dal mondo variegato dell’associazionismo. Sono, però, in genere manifestazioni in ordine sparso, che potranno avere un risultato se si riuscirà a coagulare e a mobilitare i giovani. Il cammino è lungo, però la bussola c’è. Ed è nel recupero della memoria, dell’intransigenza e del rigore di Gobetti e di Gramsci, nell’esempio e nell’enorme lascito etico e politico – non è retorica ricordarlo – dei nostri compagni caduti, feriti, deportati, nell’insegnamento di chi ci ha guidato al ritrovamento di noi stessi.

Io sono pronto a metterci la faccia, le energie sono quello che sono, ma la faccia sono disposto a metterla, non ho paura di espormi, in nessun modo. Ma ora, ragazzi e ragazze, tocca a voi. Non arrendetevi mai!

(*) Dall’intervento svolto il 19 settembre 2021 nella tavola rotonda “Allarmi son fascisti”. Trascrizione di Livio Pipino

Intanto, in questi giorni di gennaio 2024…

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Sempre grati a Petronio

 

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di Piero Murineddu

La notizia, in quel mattino dei primi giorni dell’ anno, non mi giunse inaspettata, anche se la speranza di una sua ripresa,seppure ridotta ad una flebilissima fiammella dopo diverso tempo di ricovero in Rianimazione, continuava ad esserci, nei suoi familiari e nei tanti che gli volevano bene.

Ancora più vivo, vivissimo, il ricordo di questa bellissima e purtroppo rarissima persona, una di quelle che fattivamente ha contribuito a migliorare questa Terra, sempre più povera d’umanità ed oggi più che mai sul baratro di un non ritorno, a causa della criminale imbecillità di chi é troppo vicino ai bottoni del comando mondiale.

Conoscendo Petronio, sarei certo del suo pensiero in proposito.

Perennemente alla ricerca e alla  realizzazione del Bene Petronio. Sono molteplici le sfaccettature di questa grande opportunità qual’è l’operare per il Bene, ma purtroppo il più delle volte viene sprecata, per egoistiche chiusure e per paure infondate del “diverso”, alimentate (molto spiegabilmente!) da chi ben conosciamo, in questi tempi di rigurgiti simil razzisti e di respingimento rabbioso.

Oltre che altre pagine dedicate al caro Petronio in questo stesso blog – digitarne il nome vicino al quadratino verde con la lente – scrissi anche della sua esperienza associativa giovanile tra gli “Esploratori”.

Indimenticato e indimenticabile Petronio

Riprendo il “Decalogo” che ne indicava il comportamento e gli obiettivi, facendo seguire ciascun punto da una mia lettura del tutto personale….

 

Legge degli Esploratori

1.L’esploratore pone il suo onore nel meritare la fiducia

Siamo concreti ed obiettivi: la fiducia degli altri non può esserci a priori, ma è indispensabile guadagnarsela. Come? Non esibendo ruffianamente belle parole e commoventi propositi per farsi belli (tentazione sempre in agguato per tutti), ma unicamente sforzandosi nella personale trasparenza di vita e nella fatica di passare dalle parole ai fatti, che come sappiamo, sono quelli che contano,

2. L’esploratore è leale

Cosa rimane in una qualsiasi persona se non mostra lealtà? A maggior ragione, chiaramente, se la sua posizione sociale influisce nella vita altrui, di una collettività.

3. L’esploratore è sempre pronto a servire il prossimo

Il servire più che essere serviti dovrebbe esser posto come obiettivo principale delle nostre giornate e in qualsiasi àmbito ci troviamo, in quello privato come in quello pubblico. Ma diciamocelo chiaramente: non siamo delle animucce pie e belline, e sappiamo che la tendenza é completamente opposta. Rimane però la possibilità, volta per volta, di porvi rimedio. La condizione per farlo é che siamo capaci di prenderne coscienza.

4. L’esploratore è amico di tutti e fratello di ogni altro esploratore

Si può essere amico di tutti? mmmmmmm… Forse di una ristrettissima cerchia, normalmente all’insegna del “do ut des”, e guai infrangere questa regola, pena la rottura di amicizie decennali e ancor di più. Ohia, amico di tutti….. Mah! Almeno si cerchi di vedere questi altri “tutti” come compagni di un viaggio comune, dove all’occorrenza, non si chiudano gli occhi davanti al bisogno di chi é “affaticato”.

5. L’esploratore è cortese e cavalleresco

Cortesia. Certo! Ma non proprio quegli atteggiamenti glaciali e staccati che stanno diventando le quotidiane relazioni sociali. Cavalleresco? Boh…..

6.L’esploratore vede Dio nella natura, protegge le piante e gli animali

Chi pratica il Rispetto per il mondo circostante, natura e persone soprattutto, ha rispetto per sé stesso, e di questo il Buon Dio, che ne siamo consapevoli o meno, sicuramente gioisce.

7. L’esploratore ubbidisce agli ordini

Di una certa ubbidienza come “subdola e comoda tentazione” ha parlato tal Lorenzo Milani. Per chi volesse saperne di più, vada a conoscere cosa diceva in proposito quel grande uomo, prete mandato in esilio perché aiutava le persone a pensare. Sono più che certo che Petronio ubbidiva principalmente alla sua coscienza, e se certe leggi o disposizioni prescrivevano cose da lui non condivise, trovava il modo per…. ovviare.

8.L’esploratore sorride e canta anche nelle difficoltà

Sforzarsi quindi di non lasciarsi vincere dalla tristezza, il più delle volte oggettivamente motivata. Se vi riusciamo, incoraggiamo altri a fare altrettanto e forse campiamo qualche annetto in più. E anche…in buona salute, al contrario di chi pensa unicamente a farsi i fattazzi propri.

9. L’esploratore è laborioso ed economo

Laborioso non vuol dire ammazzarsi di fatica, fisica o mentale che sia, ma sforzarsi di essere “creativi”. Anche nelle piccole cose quotidiane. Se poi non cediamo alla tentazione di circondarci (per forza e per moda!) di qualsiasi ultimo ritrovato e valorizzare ciò che già abbiamo, beh, ci guadagniamo in intelligenza e, chissà, i soldi che non diamo alle multinazionali per ingrassarsi sempre più, li destiniamo a chi si trova nel bisogno.

10. L’esploratore è puro di pensieri, di parole e opere

“Purezza” di pensieri, una condizione mentale che, chissà,  potrebbe farci permanere in uno stato di felicità,  rarissima e forse sconosciuta condizione per gli umani. Forse gli animali ne conoscono meglio il sapore. A noi rimane almeno la possibilitá di avere pensieri “buoni” e di tradurli nella pratica quotidiana di essere benevoli con gli altri. Così facendo, chissà che……

 

Che poi, pensandoci, questi valori acquisiti nell’età giovanile alla benedetta “scuola” di Ambrogino – il “don” che non era prete – Petronio, grazie alla sua coerenza, in seguito non ha fatto altro che trasmetterli a sua volta, sia nel suo lavoro di docente nelle scuole professionali sassaresi, sia organizzando manifestazioni sportive, col sostegno tra gli altri dell’onnipresente sposa Gavina, anch’essa figura indimenticabile, e sia ancora fondando ed animando il CCRSS, centro culturale e sportivo ancora in attività a Sorso, molto probabilmente la realtà associativa più longeva della nostra cittadina sarda.

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Per tutto questo e molto altro ancora, non potrò fare mai a meno di  sentirmi onorato di aver goduto della preziosissima amicizia del caro Petronio….

 

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La nonviolenza comporta una profonda conversione

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Dalla redazione del TGR Rai di Trento

Ucraina da una parte, Medio Oriente, Israele e Gaza dall’altra. Un ritorno alla guerra, conosciuta da Giuseppe Morotti negli anni ’80, quando scelse di condividere la sua vita con le comunità cristiane caldee durante la guerra tra Iraq e Iran. Un’esperienza che lo segnò profondamente e si riflette oggi nel suo libro “Gesù non era uno scemo”.

Titolo provocatorio, parole dette da don Tonino Bello, vescovo della Pace, profeta degli ultimi.

Nel volume, le vite straordinarie di chi ha detto NO alla violenza: da Gandhi ad Aldo Capitini, da Josef Mayr Nusser a Alexander Langer, dai cristiani della Rosa Bianca alle testimonianze dei sufi e degli indiani del Nord America.

Dice l’ autore: “La nonviolenza comporta una profonda conversione, fino a porgere l’altra guancia, vedere se stessi nell’avversario.La vera pace si ottiene attraverso un com-promesso, una promessa fatta insieme, preparata da un dialogo che deve essere sostenuto da tutti”.

Giuseppe Morotti: generosi, si, ma ancor prima contemplativi