Autore archivio: piero-murineddu

Nessun bambino nascerà quest’ anno a Betlemme

Polish_20231211_072546721

di Raniero La Valle

Con immenso dolore annunciamo che nessun bambino nascerà quest’anno a Betlemme per Natale. Intanto nessuna famiglia non censita o araba può spostarsi da Nazaret a Betlemme, perché tra questa città e Gerusalemme c’è un muro alto otto metri che non si può varcare senza un’attesa di ore attraversando check point presidiati da coloni agguerriti e dall’esercito.

A Betlemme poi, in mancanza di albergo, non si può andare a partorire in una grotta, perché c’è il rischio che essa sia allagata da pompe capaci di trasportare migliaia di metri cubi d’acqua dal mare, come si minaccia di fare nei tunnel di Gaza per uccidere quanti vi sono riparati, liberi o ostaggi che siano.

È anche un tempo non adatto per partorire, perché non si sa che futuro potrebbero avere i bambini messi alla luce, già ai primi vagiti, perché potrebbero d’improvviso spegnersi le incubatrici o dopo, perché potrebbero finire in mezzo a una strage degli innocenti, come succede a Gaza dove secondo l’organizzazione internazionale “Save the children” sono stati tolti alla vita già più di 3.257 bambini, un numero superiore a quello dei bambini uccisi in conflitti armati a livello globale in più di 20 Paesi nel corso di un intero anno; e questo rischio correrebbero anche in Israele, dove ne sono periti 29, e in Cisgiordania dove di bambini ne sono morti 33. Né si può cercare di portarli in salvo fuggendo in Egitto, perché non si può passare al valico di Rafah e l’Egitto non li vuole. E anche per gli altri bambini non si sa che futuro avranno se gli adulti maschi si uccidono a vicenda in guerre insensate, che è il primo e vero crimine del patriarcato.

In questa situazione tutte le Chiese cristiane di Gerusalemme hanno deciso che quest’anno non si celebrerà il Natale a Betlemme, sono cancellate le liturgie, fermati i pellegrinaggi, perché non ce ne sono le condizioni, c’è poco da celebrare.

Eppure i bambini “sono sacri” ha scritto Liliana Segre in una lettera alla comunità ebraica romana riunitasi a piazza del Popolo per reagire a un antisemitismo di ritorno che va di pari passo con il perdurare del genocidio di Gaza.

Ha scritto la senatrice Segre: “L’eterno ritorno della guerra mi fa sentire prigioniera di una trappola mentale senza uscita, spettatrice impotente, in pena per Israele ma anche per tutti i palestinesi innocenti, entrambi intrappolati nella catena delle violenze e dei rancori. E non ho soluzioni. E non ho più parole. Ho solo pensieri tristi. Provo angoscia per gli ostaggi e per le loro famiglie. Provo pietà per tutti i bambini, che sono sacri senza distinzione di nazionalità o di fede, che soffrono e muoiono. Che pagano perché altri non hanno saputo trovare le vie della pace”.

In effetti a pagare sono tutti, dentro e fuori la Palestina, Gaza e Israele. Anche i coloni, che se per mettersi fuori della guerra volessero andare in America non potrebbero farlo perché gli Stati Uniti hanno deciso di non dare loro i visti per quello che stanno facendo ai palestinesi insieme con l’esercito.

Il ritorno dell’antisemitismo si può sconfiggere se risulta ben chiaro che l’ “inferno” (per dirla con l’ONU) che ha preso possesso dei palestinesi e di Gaza (con il rischio di espandersi in modo incontrollato nell’area mediterranea e nel mondo) non è imputabile né al popolo ebraico come tale, né alla fede di Israele, né al messianismo del ritorno alla terra. perché, anche ad una lettura fondamentalista delle Scritture, un simile esito non è compatibile con la Torah e con i Profeti.

Se per la propria sicurezza futura il prezzo fosse lo sterminio degli altri sulla terra, nessun Dio potrebbe invocarsi nei cieli. Responsabile invece è solo lo Stato come istituzione, moloch o leviatano che sia, come il mostro preso ad esempio dalla Bibbia. Si rivela così la forza profetica del giudizio che Primo Levi nel 1984 esprimeva in una intervista a Gad Lerner in cui si diceva convinto che “il ruolo d’Israele come centro unificatore dell’ebraismo” dovesse rovesciarsi, tornare fuori d’Israele, “tornare fra noi Ebrei della Diaspora che abbiamo il compito di ricordare ai nostri amici israeliani che essere ebrei vuol dire un’altra cosa. Custodire gelosamente il filone ebraico della tolleranza”.

Se i mostri si sfidano fino a minacciare Beirut ed il Libano meridionale di fare la fine di Gaza e di Khan Yunis, nessuno può essere complice e confondersi con essi.

È questo il cambiamento profondo che si richiede allo Stato d’Israele e al suo rapporto con gli altri Ebrei e con i popoli, ed anche alla nostra concezione belluina dello Stato, se si vuole che l’antisemitismo sia cancellato in radice, e che il mondo possa trovare la pace.

Punita l’ Ong che salva

FB_IMG_1702236077298

di Antonio Maria Mira

(Avvenire, 8/12/ 2023)

Aver ostacolato le operazioni di soccorso della cosiddetta Guardia costiera libica. Sono le motivazioni per le quali la “Humanity 1” della Ong tedesca Humanity Sos dovrà restare per venti giorni nel porto di Crotone dove è approdata con più di 200 persone soccorse e salvate in vari interventi. E pagare anche 3.300 euro di multa.

Se non fossero drammaticamente assurde, queste motivazioni delle autorità italiane potrebbero far sorridere. Sappiamo bene, dalle testimonianze degli stessi migranti e dalle denunce dell’Onu, dell’Oim e dell’Unhcr, dove finiscano le persone “salvate” dalla cosiddetta Guardia costiera libica. Nelle prigioni lager dove sono vittime di violenze, torture e ogni tipo di sopruso per estorcere loro altri soldi. Per poi farli risalire in barca e tornare a “salvarli”.

Ma questa volta il drammatico “gioco” è stato interrotto. Venerdì una motovedetta libica ha abbordato un gommone con più di cento persone. Uno speronamento più che un salvataggio, con i migranti pericolosamente in bilico, oltretutto senza giubbotti di salvataggio, con mare grosso e forte vento. Il gommone era stato segnalato da tempo e, infatti, tutto la scena è stata filmata dal piccolo aereo della “Seabird 1”.

Intanto all’orizzonte è apparsa la sagoma bianca e blu della grande “Humanity 1”, la vera salvezza per i migranti. Così a decine si sono gettati nelle acque gelide, come piccole formiche che annaspano cercando di tenersi a galla. Una scena terribile, una scelta di libertà: la nave dell’Ong, l’Italia e non i i lager libici. Meglio correre il rischio cercando vera salvezza che essere “salvati” per finire in carcere. Se non peggio.

Alcuni migranti hanno addirittura raccontato di spari dei “salvatori” libici. Eppure, secondo il provvedimento di sequestro, in base alle nuove norme sull’immigrazione del governo Meloni che regolano soprattutto gli interventi delle Ong, il comportamento di “Humanity 1” avrebbe ostacolato il soccorso e messo in pericolo le vite umane e per questo, nonostante abbia salvato tutti i migranti portandoli in un porto sicuro, è stato disposto il fermo amministrativo.

Insomma, colpevoli e sanzionati per aver salvato persone, per aver impedito l’osceno riaccompagnamento forzato in carcere dei migranti. Unico “sconto” attraccare a Crotone invece di Livorno, porto inizialmente indicato.

«Sempre salvando la vita di chi rischia di morire nel Mediterraneo: è la legge del mare, è la legge dell’umanità, per le quali non ci sono deroghe», è tornato a ripetere domenica su “Avvenire” il presidente della Cei e arcivescovo di Bologna, cardinale Matteo Maria Zuppi. E le immagini dall’alto del piccolo aereo descrivono bene chi salva e chi arresta.

Ma lo si sapeva bene anche prima. Lo sanno le nostre autorità che, invece, sanzionano le Ong quando salvano “troppe” persone, come se soccorrere avesse un limite. Salvo fino a qui, poi arrangiati. Un ragionamento crudele che diventa ancor più preoccupante con la ripresa in forza delle partenze dalla Libia. La novità dei grandi pescherecci con centinaia di migranti (8 tra ottobre e novembre con più di tremila persone), il ritorno degli insicuri gommoni e delle barche in legno stracariche. Anche ora che le condizioni meteo sono pessime.

Si parte dalla Libia e, coincidenza, la cosiddetta Guardia costiera si rimette in mare per “salvare” e fare affari. Ma se le Ong, presenti ancor di più con il mare ad alto rischio, si mettono di traverso, salvando davvero, sono le autorità italiane a punirle. Davvero assurdo e crudele. Soprattutto se avviene lo stesso giorno in cui una donna di 24 anni eritrea invece non è stata salvata in tempo ed è morta nel durissimo viaggio verso Lampedusa. Morta di freddo e di stenti. Partita col marito, lasciando il figlio alla nonna. Lui che ce l’ha fatta, assieme ad altri cento su un barcone di legno.

Perché si continua a partire, anche se si scrive meno, per cercare un futuro. E come sempre c’è chi salva e anche se assurdamente punito, tra venti giorni sarà ancora in mare a portare soccorso. Salvare coi fatti sulla prima linea dell’umanità. Ma in venti giorni quanti altri avrebbero potuto essere salvati? E quanti, invece, potrebbero morire o finire nei lager libici?

La lunga e faticosa lotta di Caterina

di Piero Murineddu

Non solo, ma prevalentemente l’uso che Caterina fa di FB é quello di esternare la sua lunga lotta contro la malattia, quasi a cercare sostegno alle sue continue e sofferte battaglie. Un combattimento portato avanti giorno e notte con grande dignità. Ho detto all’inizio non solo, perché spesso la sua attenzione é rivolta al mondo circostante, sempre più difficile da decifrare.

Mi sento grato a Caterina, nativa di Sennori e residente a Castelsardo, costretta al pensionamento anticipato dopo aver svolto la professione d’insegnante a Cagliari.

Grato perché é lei che dà a me e a tanti altri l’incoraggiamento necessario per affrontare le tante difficoltà che la vita comporta, di salute principalmente.

Per quanto possibile, oggi, giorno del suo compleanno, voglio far sentire la mia sincera vicinanza a Caterina, e insieme a lei, a tutte le persone che portano quotidianamente avanti la loro lotta contro dure malattie.

FB_IMG_1701921670516

La mia dura lotta

di Caterina Ladinetti

Accucciata sulla poltrona, non dormo e riposo.

L’aria fresca e frizzante mi dà una sferzata di tenera allegria e la fronte non gronda più.

I rumori di una casa in ristrutturazione, le allegre canzoni anni 70 di un muratore interrompono il poco sonno indotto dai farmaci.

Il povero Morfeo ha raccolto l’elenco delle persone che patiscono l’insonnia, un breve cenno col capo e, malasorte, “s’inde fuide de domo mia”.

Decido di levarmi dal letto, dopo aver faticato a rintracciare testiera e pediera.

Mi dispongo a mezza luna e tento di stiracchiarmi. Tentativo fallito.

Mi riesce benissimo un crampo al piede destro e al polpaccio sinistro. Vedo le stelle, compresa quella cometa, giacché manca pochissimo al Natale.

Stendo dita e gamba e il dolore fa il bis. Mai che si accontenti di una visita rapida sto cacchio di dolore. Pretende pure il tris.

Mi spingo nei paraggi del comodino dove riposa, beato lui, il mio tripode, deputato ad accompagnarmi nei servizi.

“Biadu a isse, tettaru che fusthe ed eo appiccada” al manico che dovrebbe appropinquarmi al deambulatore, ausilio che spingo come avessi un passeggino e nel frattempo mi do involontariamente le botte alle caviglie, alle unghie dei piedi che ho ridotto ai minimi termini e agli stinchi.

Quando passeggio da sola o con mio marito, sento che mi assale la voglia di rispedire al mittente sguardi che fissano come scimmie il deambulatore o il resto dell’ambaradan.

La pelle delle mie gambe, con segni di cicatrici, ematomi, croste disseminati ad ogni latitudine e longitudine, macchie bianche da poca melanina e collezione di nei di ogni tipo, molti dei quali sono stati levati 20 anni fa.Al loro posto ho una bella ragnatela di cicatrici.

Nel 2010, dopo altri gravi problemi, all’ospedale Oncologico angeli vestiti di bianco hanno individuato un melanoma a forma di macchia di inchiostro, nero, viola e blu con margini anomali.

Il giorno successivo ero già in sala operatoria. Medicazioni e terapia varia.Marito e figlio erano sereni, ma io tremavo come una canna al vento. Paura? Chissà!

Sulla sua scia cavalcai l’onda, quella schifezza di tumore che si chiama melanoma. Tumore maligno di 3° grado, raro in Sardegna, fra i più aggressivi, assieme al tumore al pancreas per la velocità con cui si infiltra negli strati della cute e più giù.

Ora vi sono cure e la scienza fa passi da gigante. In estate e inverno protezione 50, anche in città. Controlli ogni 4 mesi dei nei. Se vi ritrovate nei o escrescenze sospette, non state a casa in silenzio per vergogna o paura. Fa nulla se non avete fatto la ceretta e avete i peli intrecciati a forma di calza a rete e i peli dell’inguine che sfiorano le ginocchia e attendono le manine sante della vostra estetista.

Mi sono affidata, sebbene disperata e titubante, alle competenze degli esperti, alle cure degli infermieri, al sostegno affettuoso di mio marito e mio figlio che mi hanno spronato e sgridato, e alla vicinanza dei miei cari genitori ormai deceduti.

Non meno importanti, ci sono la stima, l’affetto e la vicinanza di amiche, colleghi e colleghe di decenni d’insegnamento.

69739328_2373293869375024_2981977917958914048_n

Ricordo della mia energica e dolcissima zia Mialina

Polish_20231128_180939287

di Giorgia Satta

Meravigliosa mia zia Mialina, donna “moderna” in tempi in cui le donne difficilmente potevano affermare la loro personalità,senza pagare il prezzo dell’essere chiacchierate e segnate a dito, sopratutto se appartenevano a famiglie povere.

Donna ingegnosa e laboriosa, intelligente e arguta. Non era l’istruzione a farle fare quel passo in più, ma era la sua curiosità sana e saggia.

Con lei si poteva parlare di tutto,dalla politica all’attualità, sempre con un commento appropriato e finemente elaborato.

Nemica dell’ingiustizia e sempre dalla parte dei più poveri. Coglieva ogni aspetto delle cose e difficilmente sbagliava la sua valutazione.

Un carattere dolce e battagliero, amante della tradizione senza subirla negli aspetti negativi di conservazione, generosa e severa, sarda e sennorese fino al midollo, nel senso migliore di quanto questa terra può imprimere.

Ci ha amati tanto e noi abbiamo amato lei. È stata zia in ogni senso, con cura e comprensione, una donna che ho sempre ammirato, una donna che mi ha sempre capito.

Non l’ha risparmiata il dolore, ma anche in questo é stata d’insegnamento, nell’accettarlo così come si accetta la vita, senza disperarsi mai.

Grazie, dolcissima zia, grazie per quanto hai lasciato dietro di te, donna dal cuore bellissimo.

Possiamo ancora crederci?

da “lavialibera.it

Quante sono oggi le guerre nel mondo? Tante, troppe. D’altra parte, di guerre è costellata l’intera storia dell’umanità, dall’Europa all’Africa, dalle Americhe all’Asia.

Guerre tra Stati sovrani e guerre civili

Guerre mosse da interessi economici o da mire espansionistiche

Guerre di religione o etniche

Guerre mondiali o locali

Guerre lampo o di logoramento.Battaglie che si moltiplicano alimentando il drammatico conteggio delle vittime e il sempre florido mercato degli armamenti.

Diceva la filosofa Hannah Arenth che

la guerra non ripristina diritti, ridefinisce poteri”.

Una realtà con cui si scontra chi, da sempre e a diverse latitudini, cerca di costruire la pace, intesa non come semplice tregua tra battaglie,

ma come

COSTRUZIONE DI UNA SOCIETÀ
FONDATA SULLA MEDIAZIONE,
SULLA DIGNITÀ DELLA PERSONE,
SUL RICONOSCIMENTO DI PARI DIRITTI UMANI.

Gli arrivi non si fermano perché non possono fermarsi !

di Piero Murineddu

La boria che caratterizza l’attuale governo – che oltre un anno fa vinse le elezioni anche grazie alla promessa che sarebbero riusciti a dare risposta alla questione riguardante l’immigrazione – continua a essere insopportabile, ma comparando i dati ufficiali degli ultimi tre anni dal primo gennaio al 5 dicembre, cioè oggi, i migranti arrivati sono stati 63062 nel 2021, 95758 nel 2022, 152882 nell’ anno corrente. Siamo a conoscenza dello scandaloso accordo tra il premier italiano e quello albanese per “custodire”, a spese nostre e in un Paese extracomunitario, i migranti in attesa del riconoscimento o meno della loro richiesta di asilo.

Polish_20231205_174359729

Dieci anni fa circa ebbe a dire in proposito Erri De Luca: “Le porte per i migranti in Italia sono chiuse solo a livello dei palazzi del potere, nei piani alti. Al piano terra le persone capiscono benissimo chi sono queste persone: nuovi cittadini, nuove energie che vengono a dare una scossa a una società vecchia e stanca. Io penso che i nipoti di coloro che sono sbarcati a Lampedusa diventeranno i nostri presidenti, e saranno orgogliosi dei loro nonni”.

Personalmente, vista la paura del diverso che sempre più sta condizionando i cittadini “del piano terra”, e constatando le scarsissime esperienze di buona accoglienza e integrazione, non sono convinto che tra la gente comune prevalga molta buona disposizione verso i poveri che vengono a crearci disturbo. La guerra fatta da certa politica a Mimmo Lucano la conosciamo, e la chiusura sta sempre più prendendo il sopravvento.

Di tanto in tanto riguardo volentieri questo bellissimo video che propongo di seguito, realizzato nel 2014 da Alessandro Gassman con parole adattate proprio di Erri De Luca su musica composta ed eseguita dal Canzoniere Grecanico Salentino. Nel clip si vede un pescatore che sistema la sua attrezzatura davanti al mare in tempesta. improvvisamente, aguzzando la vista e rimanendo incredulo, vede emergere dalle onde un gruppo di migranti che faticosamente riescono a raggiungere la riva e avviarsi a passo spedito verso un destino pieno di aspettative e ancora del tutto sconosciuto. Quando arrivare dai flutti sente le grida di una donna seriamente in difficoltà, non esita a lanciarsi in suo soccorso riuscendo a salvarla. Ripresosi dalla fatica e alzato lo sguardo, in quella donna che pian piano si allontana tenendo in mano una vecchia valigia, riconosce sua madre che a sua volta, ancora giovane, era stata costretta ad allontanarsi contro voglia dalla sua terra in cerca di una vita migliore. Ogni volta che decido di guardare queste struggenti immagini, lascio che le lacrime escano fuori liberamente, segno forse di impotenza, di delusione, di rabbia….

Solo andata

Siamo gli innumerevoli
raddoppia ogni casella di scacchiera
lastrichiamo di corpi il vostro mare
per camminarci sopra

Non potete contarci:
se contati aumentiamo,
figli dell’orizzonte
che ci rovescia a sacco

Nessuna polizia può farci prepotenza
più di quanto già siamo stati offesi
faremo i servi, i figli che non fate
le nostre vite i vostri libri di avventura

Portiamo Omero e Dante,
il cieco e il pellegrino
l’odore che perdeste
l’uguaglianza che avete sottomesso

Da qualunque distanza
arriveremo a milioni di passi
noi siamo i piedi e vi reggiamo il peso
spaliamo neve, pettiniamo prati

Battiamo tappeti
raccogliamo il pomodoro e l’insulto
noi siamo i piedi
e conosciamo il suolo passo a passo

Noi siamo il rosso e il nero della terra
un oltremare di sandali sfondati
il polline e la polvere
nel vento di stasera

Uno di noi, a nome di tutti,
ha detto “non vi sbarazzerete di me
va bene, muoio, ma in tre giorni
risuscito e ritorno”

Recitato:

In braccio al Mediterraneo
migratori di Africa e di oriente
affondano nel cavo delle onde.
il pacco dei semi portati da casa
si sparge tra le alghe e i capelli
La terraferma Italia è terrachiusa.
Li lasciamo annegare per negare.

https://www.criticaletteraria.org/2015/09/solo-andata-erri-de-luca-feltrinelli.html?m=1

 

CPR in Albania

LE “SOSTANZE TOSSICHE” È SEMPRE MEGLIO SEPPELLIRLE PIÙ IN LA POSSIBILE…EJAEJAEJA

di Claudio Canal

Polish_20231205_093526559

Mi avvicina una bambina e mi indica il padre che nuota al largo. Vorrebbe parlarmi. Lo raggiungo. Mi avverte tra una bracciata e l’altra che alcune ambasciate, compresa quella italiana, sono state occupate da manifestanti. C’è agitazione nel paese. Non so chi sia e neppure lui mi conosce. Ha capito che sono straniero, italiano.

Siamo sulla splendida (allora) spiaggia di Durazzo. Un albergo per lavoratori meritevoli e una rotonda sul mare. Trentatré anni fa. L’anno dopo sarebbe crollato il regime, fantasioso impianto di socialismo reale sovietico-cinese, nazionalismo balcanico e sultanato ottomano. Sistema che ha traghettato l’Albania verso la modernità, procurando inaudita sofferenza e insolite speranze.

Tra queste la Terra Promessa, l’Italia. Terra amara. Quando la nave Vlora arriva a Bari furoreggiano in automatico il pressapochismo e il razzismo. Gli albanesi ammassati a migliaia nel vecchio campo sportivo sono oggetto del tiro del boccone per alleviarne la fame.

«Partirono per la costa del sogno/ e sprofondarono negli abissi, torbidi/ paurosi come / coscienze di mostri» (VisarZhiti).

Nel 1997, una carretta del mare fa rotta verso la Puglia. Viene speronata da una corvetta della Marina Militare italiana. Un centinaio e più di annegati. Era Venerdì Santo. È il crimine di pace che inaugura l’infinita passione e morte degli emigranti nel Mediterraneo.

Febbraio 2001, una ragazza, aiutata dal fidanzato, uccide a coltellate la madre e il fratellino. Inquirenti, giornali e TV gradiscono subito il resoconto dei due: «sono stati degli albanesi», ne fermano uno, fiaccolate sparse contro gli immigrati. Poi tutti si ricredono. Terra dolce. Gli albanesi e le albanesi si situano nella società italiana. Lavorano, si sposano, studiano, sognano, vanno in pizzeria, muoiono. Alcuni tornano in Albania. Altri vanno e vengono. Qualcuno delinque. Quasi nessun italiano ripete ancora: «è albanese, però gran lavoratore».

Noi italiani siamo portatori di una memoria collettiva frastornata e conflittuale su tutti i nodi della storia degli ultimi due secoli, ma ritroviamo l’unità nazionale nel colonialismo nostrano, vero cuoco dell’immaginario collettivo.

Da Otranto a Valona ci separano 70 chilometri scarsi, vuoi che non andiamo a portargli la civiltà? Non sono più orientali gli albanesi, ma non sono ancora occidentali e noi gli spieghiamo per benino come diventarlo.

1920. Valona è occupata dalle truppe italiane e Roma potrebbe ottenere il protettorato dell’Albania intera. Invece deve ritirarsi di fronte alla rivolta armata di molti albanesi e alla sommossa provocata ad Ancona dai bersaglieri che si rifiutano di partire per l’altra sponda adriatica.

1939. Durazzo è occupata dalle truppe italiane e l’Albania tutta accorpata all’Italia fascista in modo che S.M. il Re d’Italia possa fregiarsi anche del titolo di Re d’Albania oltre che di Imperatore d’Etiopia.

1940. Sul territorio albanese parte la campagna per “spezzare le reni” alla Grecia e va subito in panne. Risolveranno la paralisi i camerati germanici. L’esercito italiano potrà finalmente essere ammesso in Grecia e, nel caso, fare stragi di civili (Domenikon). Ma questa è un’altra memoria immemore.

Quando trenta e più anni fa gli albanesi mettono piede sulla costa pugliese sono per noi extraterrestri. Da dove saltano fuori questi? Al-ba-ni-a? Una nebbia densa appanna i nostri sguardi. «In un luogo minuscolo come questo, talmente piccolo da poter disegnare la mappa su scala 1:1 sopra un pacchetto di sigarette…Nei cucchiai degli altri ci vediamo storti» (Parid Teferiçi).

Gli anni a seguire sono stati un susseguirsi di arroganza e di bei gesti, di invadenza e di fratellanza, di incomprensioni e di scambi, di occasioni perdute e di occasioni perdutissime. Qualcuno un giorno o l’altro ne farà la storia. Qualcuno un giorno o l’altro smetterà di usare la parola coloniale etnia per indicare la popolazione albanese (bosniaca, macedone, serba…).

Etnici sono sempre gli altri, in perenne attesa di essere promossi occidentali. Non sono etnici svizzeri, inglesi, danesi… italiani. Oggi sono attive quasi tremila imprese italiane in Albania, pensionati italiani vi si trasferiscono per fare la dolce vita detassata e lo scorso luglio/agosto c’è stato un boom turistico italiano. Nessuno ha bisogno di chiedersi chi è stato Fan Noli il vescovo ortodosso “rivoluzionario”, perché quello albanese sia un Islam europeo, cosa ci faceva lo scrittore Petro Marko prigioniero a Ustica, come si sono salvati dalla deportazione in Germania dopo l’8 settembre i soldati italiani in Albania, com’è che è morto a Torre Pellice Migjeni il poeta “nazionale”, perché è nata in Italia la letteratura moderna albanese, se quella del 1997 è stata una guerra civile sì o no, e quanto ancora floridi siano i miti fondativi del nazionalismo albanese e i surrogati attuali e altre domande fuori moda, scadute e inopportune.

«Tutto il mio magnifico paese ha una tale sete di tragedia! La inventa dal nulla, così come il Creatore ha inventato noi da un nulla di polvere» (Ornela Vospri).

Sarà vero questo impulso drammatico? Guarda l’Italia, Ornela, tu che la conosci bene. Il belpaese dove il sistema carcerario è un modello di civiltà che tutto il pianeta ci invidia così tanto che abbiamo inventato anche una specie di subcarcere pomposamente definito CPR-Centri di Permanenza per i Rimpatri. Ti piace? A noi sì, perché siamo maestri nel mascherare la tragedia con l’opera buffa.

I CPR sono carcerazione allo stato solido, puro recinto di animali umani. Hanno la consistenza giuridica che aveva un tempo l’accalappiacani: era il più forte. Li scarichiamo a voi i cipierre, infatti contengono merci tossiche, immigrati senza il foglietto col timbro giusto in tasca, così come riversiamo residuati inquinanti nei “paesi in via di sviluppo”. Il presidente socialista del tuo paese esulta in spensierata combutta con la nostra presidente. Eja Eja!

Albania refugium peccatorum e amen? Vi potrebbero bastare i 3500 dell’Esercito di Liberazione Nazionale dell’Iran, conosciuto anche come Mojahedin-e Khalq o MEK. È sfarzoso assai il mega villaggio Ashraf che li ospita e quale intreccio di alleanze, diplomazie, intrighi e finanziamenti lo sostenga non si sa. L’estetica dei filmati è nordcoreana. Che ci fa a pochi km da Tirana? Che ci farà un penitenziario per emigranti afroasiatici che hanno già espiato tutte le penitenze possibili?

Insomma Albania, no fischi per fiaschi, al largo da questa penisola querula che spaccia fandonie e vede solo il suo vedere.

E il signor general “scrittore” che fa?

di Piero Murineddu

E quindi, il generale “scrittore” è il nuovo capo di Stato maggiore delle forze operative terrestri dell’Esercito. Cazz…. Cioè, almeno credo di capire, quello che, standosene comodamente al riparo, ordina ai soldatini di fare pum pum col fucilone, lanciare le granatone, fare avanzare i carrarmatoni sfornati dalla Leonardo Spa etc etc.

E questo dopo che in agosto, a seguito della sua fatica letterariasifaperdire pubblicata in proprio, era stato destituito dal ruolo di comandante dell’Istituto geografico militare, che figuriamoci se so cos’ è.

Sicuramente, maperóperóperó, lo stipendio già grosso s’ ingrosserà ulteriormente, figuriamoci. Non son persone che si accontentano facilmente i “nostri” capi militari, in questo similissimi ai nostri carissimi parlamentari e governanti sopratutto.

Leggo che subito dopo aver preso possesso della nuova poltrona, il Medagliato esperto di come bisogna comportarsi con l’ infinita marmaglia che ci circonda (froci, puzzoni elemosinanti e vagabondi vari…) si è preso un mese di ferie ( o licenza?). Per motivi familiari, dic’Esso. Molto verosimilmente, almeno secondo me, deve consultare chi di finanza ne capisce per sapere il modo più conveniente per investire la massa di euroni guadagnati con la vendita del suo vademecum su quanto dicevo.

Tu che dici, parte li devolverà in beneficenza? Chissà chissà che, al CONTRARIO dell’ idea che noi maligni ci siamo fatti di lui, il signor Roberto dimostri un cuore grande così e abbia una sensibilità particolare verso tutte le innumerevoli povertà che ci circondano, arrivando addirittura a commuoversi pensando a chi non riesce a tirare avanti in questo mondaccio, ad iniziare da quei negracci brutti, sporchi e anche cattivoni che vengono a disturbare la nostra poco beata tranquillità.

Intanto è sott’ inchiesta “formale”, a quanto pare dovuta per il fatto che si sia premuto assai assai le meningi nel mettere nero su bianco i suoi alti pensieri su tutti quelli che non gli garbano e farci conoscere la sua nobile visione del mondo.

Vediamvediamvediamo e aspettiamo la prossima puntata.

Polish_20231204_200250672

Il maestro d’ Italia

FB_IMG_1701723074244

di Martina Tommasi (storicang.it)

Ci sono persone che dedicano tutta la propria esistenza al bene del prossimo, anche a rischio della propria stessa vita. Alberto Manzi, più noto come “maestro Manzi”, appartiene a questa categoria.

L’anno precedente alla sua nascita, il ministro della scuola Giovanni Gentile aveva attuato la riforma che aveva portato, fra le altre cose, al potenziamento della formazione e della selezione delle nuove classi dirigenti. Il ragazzo, figlio di un tramviere e di una casalinga, aveva due grandi vocazioni: il mare e l’insegnamento. E fu così che riuscì a diplomarsi sia all’istituto nautico sia alle magistrali (che all’epoca, per i maschi erano gratuite). Raggiunta la maggiore età, suo malgrado dovette combattere nella Seconda guerra mondiale. Faceva parte del corpo dei sommergibilisti della marina militare. L’esperienza bellica vissuta con angoscia e la perdita di diversi commilitoni gli aprì gli occhi: il mare non sarebbe stata la sua strada.

Anche all’università Manzi conseguì una doppia specializzazione: da un lato la laurea in biologia, poi quella in filosofia e pedagogia. Ciascuna a suo modo, queste discipline ebbero un ruolo fondamentale nella sua vita. Se è vero che studiò e si formò sotto il fascismo, è anche vero che Alberto Manzi fu un uomo del dopoguerra, della ricostruzione.

Refrattario alla coercizione e critico dell’autorità costituita, nel 1946 finì come prima esperienza ad insegnare nel carcere minorile Aristide Gabelli di Roma. La sua “classe” era formata da ben novantaquattro ragazzi fra i nove e i diciassette anni d’età. Che crimini potevano mai aver commesso quei bambini, quei ragazzini? Ma la guerra era finita da poco lasciando dietro di sé una moltitudine di orfani che spesso finivano nelle maglie della criminalità organizzata per sopravvivere o per sbarcare il lunario.

Da questa breve esperienza, durata circa un anno, nascerà La Tradotta, il primo giornale realizzato in carcere, e Storia di un gruppo di castori, uno dei primi esperimenti teatrali realizzati in un istituto di rieducazione. La trama parla per l’appunto di un gruppo di castori che lottano per la propria libertà. Un racconto nato lì per lì per catturare l’attenzione dei ragazzi e che essi stessi avevano contribuito a sviluppare. Qualche tempo dopo la moglie di Manzi, Ida, leggerà una rielaborazione del testo e lo convincerà a partecipare ad un concorso di letteratura per ragazzi. Fu così che Grogh, storia di un castoro si aggiudicò il Premio Collodi per le opere inedite nel 1948. Il successo sarà letteralmente internazionale, dal momento che verrà tradotto in ben ventotto lingue. Costituì anche il primo passo verso l’avvicinamento alla radio. Nel 1953 la Rai ne ricavò una riduzione radiofonica.

Nell’estate del 1955 Manzi ricevette un incarico in linea con la sua laurea in biologia: un progetto di ricerca in Amazzonia per conto dell’università di Ginevra. Lì doveva studiare un tipo particolare di formiche, ma quel viaggio cambierà la sua vita per sempre. Manzi entrò infatti in contatto con la popolazione locale, e questo incontro rinfocolò la sua profonda sensibilità nei confronti degli oppressi. Cominciò dunque a volte da solo, a volte con l’aiuto di alcuni studenti universitari e col supporto dei missionari salesiani ad alfabetizzare gli indios (o comuneros). Questi, vivevano un’esistenza misera, molti venivano sfruttati nelle piantagioni di caucciù, dove ogni tentativo di protesta veniva represso duramente dalla classe padronale.

Ritroveremo queste tematiche nei suoi racconti sudamericani: La luna nelle baracche (1974), El loco (1979) e E venne il sabato, pubblicato postumo nel 2014, l’opera più matura, che racconta della presa di coscienza corale dello sfruttamento della popolazione amerindia di un piccolo villaggio nella foresta.

Durante i suoi viaggi Manzi collaborò con alcune riviste come inviato, realizzando reportage sulla popolazione locale e sui suoi usi e costumi. Negli anni successivi al Concilio Vaticano II, infatti, l’attenzione alle missioni umanitarie nei Paesi del Terzo Mondo crebbe e il maestro romano colse la palla al balzo per far conoscere queste realtà.

Il pensiero di Manzi ruotava attorno all’idea di libertà, che si poteva raggiungere grazie allo studio e alla consapevolezza che ne derivava. Ma le autorità latinoamericane non sempre apprezzavano questa filosofia, anzi, via via diversi Paesi gli negarono il visto d’entrata. Finché non venne addirittura arrestato e torturato.

Non si sa molto altro su questo tragico episodio, che il maestro conservò con discrezione. Ma nonostante tutto, Manzi non si arrese e continuò i suoi viaggi di alfabetizzazione in clandestinità fino al 1984 durante le pause estive dalla scuola.

Il suo lavoro in America Latina seguì anche vie più istituzionali: nel 1987 il presidente argentino Raul Alfonsin lo invitò a tenere un corso di formazione di sessanta ore ai docenti universitari per l’elaborazione di un piano nazionale di scolarizzazione. Grazie a questo lavoro, il Paese riceverà nel 1989 il riconoscimento dell’ONU per il miglior programma d’alfabetizzazione del Sud America. Manzi non era nuovo a questo genere di onorificenze: infatti nel 1965 aveva già ricevuto un premio Unesco per la lotta all’analfabetismo. Ma questo è un altro capitolo della sua ricca vicenda, che ci riporta nuovamente in Italia.

Nel 1960 Manzi venne coinvolto in un progetto che lo rese celebre e che, visto dai giorni nostri, potremmo definire il primo “esperimento di didattica a distanza”. Il direttore didattico della scuola romana Fratelli Bandiera, in cui insegnava dal 1954, lo mandò alla Rai per un provino per prendere parte a Non è mai troppo tardi. Si trattava di una trasmissione televisiva nata da un’idea del direttore generale della Pubblica Istruzione, Nazareno Padellaro, il cui obiettivo era quello d’insegnare a leggere e a scrivere agli adulti non alfabetizzati.

Manzi superò il provino e divenne il “maestro d’Italia”. Il suo fu un successo planetario: riprodotto come un format in ben settantadue Paesi, in Italia andava in onda prima di cena. Il maestro disegnava a carboncino su grandi fogli bianchi delle scenette da cui partivano poi le sue lezioni. Inoltre utilizzava anche una lavagna luminosa, all’epoca un’attrezzatura avvenieristica di grande impatto. Il successo fu travolgente, e più di un milione di persone conseguì la licenza elementare seguendo le lezioni del maestro Manzi. L’Italia degli anni del dopoguerra portava ancora su di sé un pesante fardello di analfabetismo che nonostante la martellante propaganda nemmeno il fascismo era riuscito a debellare.

Manzi continuò a percepire lo stipendio d’insegnante statale, e un “rimborso-camicie” dalla Rai (le sue si sporcavano col carboncino). La trasmissione continuò fino al 1968, poi venne sospesa perché la scuola pubblica era ormai un’istituzione avviata.

Manzi morì nel 1997 a Pitigliano, in provincia di Grosseto, dove, rimasto vedovo, si era trasferito con la seconda moglie e la loro figlia, e dove aveva svolto anche l’incarico di sindaco. Dietro l’aspetto di quieto maestro piccolo borghese, ci lascia un’eredità morale da vero ribelle: «La rivoluzione è una perpetua sfida alle incrostazioni dell’abitudine, all’insolenza dell’autorità incontestata, alla compiacente idealizzazione di sé e dei miti imposti dai mezzi di informazione. Per questo la rivoluzione deve essere un evento normale, un continuo rinnovamento, un continuo riflettere e fare, discutere e fare. Gli altri, sono io».

Il ” Non é mai troppo tardi” del maestro Manzi e molto altro ancora

Gavino, una vita di passione per la musica

Polish_20231202_231109806

di Piero Murineddu

Quel giorno, passandoci davanti, tra i manifesti funebri mi era parso di riconoscere un viso familiare. Bloccata l’auto e sceso, con sorpresa e con tristezza ho conferma che si tratta proprio di Gavino Delogu .

Il suo decesso aveva colpito molti a Sorso, e non solo quelli che lo conoscevano soprattutto per la sua attività di tastierista portata avanti insieme ad una coppia di amici, coi quali aveva avuto occasione d’ allietare molte feste di matrimonio ed altre diverse occasioni in cui esibiva allegramente la sua confidenza con le note musicali.

Ci si vedeva molto di rado con Gavino. Capitava specialmente durante il tragitto in treno al ritorno da Sassari. Uno degli ultimi incontri era stato meno frettoloso dei precedenti. Si era parlato soprattutto di musica, la passione che entrambi abbiamo trasmesso ai nostri rispettivi figli. Mi aveva detto con giusto e per niente mascherato orgoglio dei bei momenti trascorsi in casa a suonare con la moglie Timea e la figlia Olga, mentre la mamma Antonia Luisa ascoltava compiaciuta quel piacevole terzetto intento a curare il più possibile, attraverso la grande arte delle note scritte sul pentagramma, la propria sintonia familiare.

Insieme al mio abbraccio di vicinanza alla famiglia, spero che il tempo stia contribuendo a rimarginare la ferita provocata dalla dolorosa e improvvisa separazione.