Autore archivio: piero-murineddu

Sempre più armati, aggressivi e… impauriti

Da pressenza.com

Polish_20230607_083554924

L’investimento militare mondiale ha raggiunto il suo massimo storico nell’anno 2022. Con la guerra in Ucraina, diversi Stati hanno deciso di aumentare le spese per la difesa o hanno assicurato che stanzieranno maggiori risorse per armarsi, il tutto in scenari geopolitici sempre più complessi.

“L’aumento continuo della spesa militare globale degli ultimi anni è il segnale che viviamo in un clima di crescente insicurezza. Le nazioni potenziano la forza militare in risposta al peggioramento del contesto di sicurezza, una tendenza che non prevede miglioramenti nel prossimo futuro”, afferma Nan Tian, ricercatore esperto del Programma di spesa militare e produzione di armi del SIPRI.

La spesa globale è aumentata per via dei due attori principali del conflitto in Europa dell’est. Nel rapporto del SIPRI si calcola che l’anno scorso la spesa militare della Russia sia cresciuta del 9.2%, raggiungendo i 86.4000 milioni di dollari, che equivalgono al 4.1% del suo Prodotto interno lordo (PIL) del 2022, il 34% in più di quanto previsto dal bilancio nazionale.

Dall’altra parte, i dati provenienti dall’Ucraina mostrano un record mai raggiunto prima. Nel 2022, la spesa militare del paese ha raggiunto i 44 miliardi di dollari, con un aumento del 640% rispetto al 2021: il più grande aumento della spesa militare nell’arco di un anno mai registrato dai dati del SIPRI in un singolo paese.

Gli Stati Uniti, oltre a essere la più grande economia del mondo, ottengono anche il podio delle spese militari, con cifre che sembrano difficili da eguagliare anche per chi si trova al secondo e al terzo posto.

Nel 2022, gli Stati Uniti hanno speso 877 miliardi di dollari in armamenti, quasi il 40% della spesa globale e almeno tre volte l’importo speso dalla Cina, che ne spesi 292, classificandosi seconda.

Gli aiuti finanziari che gli Stati Uniti hanno elargito nel 2022 all’Ucraina sono pari a 19,9 miliardi di dollari: l’importo più elevato versato in aiuto a un singolo paese in qualsiasi anno dalla Guerra Fredda a oggi.

Sebbene l’investimento statunitense sia stato titanico, rappresenta solo il 2,3% della spesa totale degli Stati Uniti, il che significa che Washington ha investito molto di più internamente, assicurando fondi in diversi settori militari a beneficio della propria sicurezza.

“Gli Stati Uniti hanno speso 295 miliardi di dollari per le operazioni militari e la manutenzione, 264 miliardi di dollari per gli acquisti, la ricerca e lo sviluppo e 167 miliardi di dollari per il personale militare”, si legge nel rapporto.

Dietro a Stati Uniti e Cina ci sono Russia, India e Arabia Saudita, con quest’ultima che ha registrato un aumento del 16%, sancendo nel 2022 il primo aumento della spesa militare dal 2018.

Nonostante gli Stati Uniti occupino il primo posto in classifica, sono i paesi dell’Europa centrale e occidentale ad aver contribuito maggiormente al superamento dei 2.400 miliardi di dollari di spesa militare nel mondo nel 2022.

Le spese militari sono aumentate maggiormente in Finlandia (+36%), Lituania (+27%), Svezia (+12%) e Polonia (+11%), mentre Regno Unito, Germania e Francia sono gli unici paesi europei a comparire nella classifica dei 10 maggiori finanziatori a livello mondiale.

“La spesa militare degli Stati dell’Europa centrale e occidentale ammontava a 345 miliardi di dollari nel 2022. In termini reali, la spesa di questi Paesi ha superato per la prima volta quella del 1989, anno in cui è terminata la Guerra Fredda, e risulta inoltre superiore del 30% rispetto a quella del 2013”, osserva il SIPRI.

Tra gli altri aspetti, il rapporto evidenzia il terzo anno consecutivo di calo delle spese militari in Turchia, ridotte del 26% rispetto al 2021. In Etiopia invece aumentano dell’88%, a causa della nuova offensiva lanciata dal governo nel nord del paese per contrastare il Fronte di liberazione del popolo del Tigrè.

Intanto, così è….

IMG_20230607_084643

Caro Lorenzo, fratello mio

di Mimmo Battaglia

(Avvenire di oggi, 4 giugno)

Polish_20230605_100703166
Caro don Lorenzo, fratello mio,

prima di ogni cosa permettimi questa confidenza. Potrei darti semplicemente del “don” come fanno i ragazzi oggi con noi preti quando pur vivendo con noi una complice amicizia non se la sentono tuttavia di chiamarci solo per nome; non ti nascondo che quando ero in comunità questa cosa con i miei ragazzi mi dava la sensazione di una distanza spesso imbarazzante, ed invece ti sento troppo vicino per farlo anche io con te. Potrei chiamarti “priore”, come facevano con senso di rispetto i tuoi ragazzi lassù a Barbiana, ma per quante volte mi sono immaginato accanto a loro, accanto a Michele, Francuccio, Paolo, Agostino, Mileno, Nevio e tutti gli altri, mi sentirei un intruso e quasi irrispettoso di quel privilegio che invece toccò esclusivamente a loro.

Potrei allora chiamarti “maestro”, per l’intuizione di quella tua scuola, per lo sconvolgimento che hai portato nel metodo educativo, per quelle foto rigorosamente in bianco e in nero che ti hanno immortalato per sempre in mezzo ai tuoi alunni e a quei banchi improvvisati, ma sento che è troppo riduttivo definirti così e non completamente esaustivo di quello che in realtà sei stato, della vita che hai vissuto, della profezia che hai rappresentato.

Io invece ti sento fratello, per il ministero sacerdotale che ci accomuna, certo, ma soprattutto perché nella mia vita di prete e di vescovo non c’è stato un solo momento nel quale non ti abbia citato, non mi sia fatto guidare dal tuo pensiero e non mi sia fatto sollecitare dalle tue provocazioni. E anzi oserei dire addirittura un fratello “minore”, perché andandotene via così presto sei rimasto in fondo quarantenne per sempre, e quando vedo i preti poco più che quarantenni, e avanti a loro un ministero ancora tutto da vivere, non posso non pensare a te e al fatto che a quell’età avevi dato già così tanto al mondo e alla Chiesa.

Te lo dico da subito. Se il mio ministero sacerdotale, prima da prete e oggi come vescovo, l’ho vissuto e lo vivo cercando di farmi ponte tra il cielo e la terra, tra il dolore degli uomini e la tenerezza misteriosa di Dio, io lo devo anche a quelle tue parole che mi hanno accompagnato sin dagli anni del seminario quando, pur non avendo ancora la maturità e l’esperienza acquisite poi dalla vita e dall’incontro con le ferite di tanti, iniziai a capire che il vangelo è questo: è la fragilità di un Dio che in Gesù di Nazareth si è impastato con la fatica degli uomini.

«A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca»: la prima volta che le lessi fu una folgorazione. Mi sono ritrovato a ripetere queste tue parole, come un mantra e una specie di rosario doloroso, ogni volta che la vita mi fatto incontrare giovani distrutti dalla droga, ragazze troppo bambine per essere mamme, e mamme con troppe lacrime a rigar loro i volti per i tanti figli strappati dalla vita. E io lì, davanti a loro, a pensare che non potevo far finta di niente, che non potevo tenere le mani in tasca, che in quelle ferite mi ci dovevo immergere.

Ora capisco cosa volevi dire quando affermavi di essere in debito nei confronti dei tuoi ragazzi: «Quello che loro credevano di stare imparando da me – ripetevi – sono io che l’ho imparato da loro. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere».

È vero, fratello mio, sono loro che mi hanno insegnato a vivere, quelli che camminano ai margini, i tanti divorati da esistenze al limite, e quelli i cui passi sono appesantiti sotto sensi di colpa grandi come macigni:

CARLO che ha due figli e che la moglie ha cacciato di casa finché non capisce che non sarà certamente l’alcol a restituirgli il lavoro che ha perso;

CONCETTA che dinanzi alla notizia di un figlio paraplegico non ha permesso al mondo di crollarle addosso e si è caricata sulle spalle anche la depressione del marito invece fragile dinanzi a tutto questo;

CIRO che ha appena diciassette anni ma quel che basta per decidere di tagliare con la famiglia e soprattutto con il padre se questi continua ad avere come famiglia un clan criminale.

Caro don Lorenzo,

è questo il seminario nel quale mi sono formato, questa la scuola alla quale cerco di andare ogni giorno, e, come diresti tu, «sono loro che hanno fatto di me quel prete che oggi sono». L’ “I care” che è stato il motto della tua vita e della tua Barbiana io l’ho sempre vissuto – ti confesso – come la sintesi più affascinante di quel vangelo alla cui causa ho votato la mia esistenza: mi riguarda, mi interessa, mi importa, mi sta a cuore. Penso che questa parola in fondo sia la sintesi del vangelo, e penso che se Gesù di Nazareth avesse saputo l’inglese l’avrebbe pronunciata anche lui dinanzi ai lebbrosi, agli storpi, ai ciechi, ai pubblicani, alle prostitute, a tutta quell’umanità dolente. Certo, non senza fatica, non senza graffi sulla pelle, e tu lo sai benissimo perché anche tu lo hai vissuto sulla tua pelle. Infatti, penso che sia proprio questo quello che volevi dire quando affermavi «non sapreste che farvene di un prete con cuore universale», addirittura aggiungendo poi in modo provocatorio «se così fosse mi spreterei subito».

Volevi dire che prendere a cuore l’altro – appunto “I care” – significa essere «combattivi, … cioè schierati perché una patetica stretta di mano inneggiando all’amore universale e avendo cura di non toccare tasti delicati e argomenti scottanti non rimedia nulla e non è nemmeno onesto». Ma, ripeto, il prezzo da pagare, spesso, è alto, e tu lo sai.

Mi piace immaginare che quando quel giorno di giugno di sei anni fa Papa Francesco è salito da te a Barbiana e si è fermato un po’ davanti alla tua tomba, pensando alla tua vita di prete, alla tua fatica ma anche al tuo coraggio pastorale, sia ritornato con la mente a quelle bellissime parole che qualche anno prima aveva scritto nell’Evangelii gaudium, e te le abbia bisbigliate sotto voce: «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita, sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze».

Questo è esattamente quello che hai fatto tu. Lassù a Barbiana hai messo al bando ogni tua sicurezza, hai portato la Chiesa per strada vivendo con quel poco più di un centinaio di persone nuovi percorsi e nuovi linguaggi, e ritrovandoti così inevitabilmente su strade «accidentate, ferite e sporche»: perché quando si sta fra gli ultimi e gli scartati, fra gli oppressi e i giovani soprattutto dimenticati, le strade sono sempre accidentate, prima o poi si finisce col ferirsi delle stesse ferite degli ultimi e le mani non puoi non sporcartele.

Caro fratello mio,

ti confido che se oggi tu fossi qui io ti affiderei i giovani di questa mia meravigliosa città, di questa mia splendida Diocesi, e ti inviterei a insegnare a noi preti, ai miei catechisti e a tutti gli educatori come fare per riscoprire che la nostra responsabilità educativa è «l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato il formare in loro il senso di legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori, cioè di senso politico»; e come si fa a «indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso».

TI chiederei anche di dirci dove trovare le parole adatte per farli sentire davvero tutti “sovrani” questi nostri giovani, come ripetevi ai tuoi ragazzi, spiegandoci però che quando affermavi che «l’obbedienza non è più una virtù» non stavi invitando Silvano, Guido, Mario e gli altri a scaricare le proprie responsabilità, a trasformare la libertà in libertinaggio, ma al contrario li sollecitavi a restituire dignità alle loro coscienze, diritto di cittadinanza alle loro idee, senso critico alle loro scelte. Perché spesso l’obbedienza non ragionata – così dicevi – «è la più subdola delle tentazioni», cosicché nessuno creda «di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto».

Di queste parole, don Lorenzo, ne abbiamo tanto bisogno proprio in una terra come questa dove purtroppo spesso i nostri giovani la loro obbedienza la danno alla cultura del malaffare, alle logiche criminali, all’esercito della camorra.

Insomma, te lo dico con chiarezza, senza giraci troppo intorno: abbiamo bisogno che tu ci aiuti a trovare le parole giuste per invitare i nostri giovani ad esercitare il diritto ma soprattutto il dovere dell’«obiezione di coscienza» dinanzi alle sirene mortali della criminalità.

E a proposito di obiezione di coscienza, tu lo sai, viviamo tempi difficili. Una guerra alle porte dell’Europa – come se non bastassero le tante altre guerre che stanno portando morte e distruzioni in tanti angoli del pianeta – ed il Mediterraneo che ormai quasi quotidianamente ci restituisce le ali spezzate di uomini, donne, bambini risucchiati dal mare sognando una vita diversa. Sognando la vita. Circondati da tutto questo orrore insegnaci, caro fratello, quanto fiato nei polmoni dobbiamo avere per far capire ai potenti che «le frontiere sono concetti superati», e per gridare a tutti, facendo in modo che il nostro grido giunga al cuore e alle orecchie di quelli che contano, quello che tu un giorno scrivesti in una lettera: «Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro lato. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri».

Permettimi, infine, un’ultima confessione. Io lo so bene che è fin troppo facile parlare dopo. Io lo so che non scomoda più di tanto e neanche sporca le mani ripetere le tue frasi a memoria o vederle riportate su qualche manifesto o su poster messi da qualche parte in bella mostra nelle stanze delle nostre parrocchie. Insomma, io lo so che se fossi stato il tuo vescovo forse ti avrei fatto soffrire anche io e forse anche io avrei sofferto. E forse, chissà, mi sarei ritrovato poi anche io un giorno ad affermare, come fece Paolo VI parlando di un tuo confratello, profeta come te, don Primo Mazzolari: «Lui aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a stargli dietro. Così ha sofferto lui e abbiamo sofferto noi. Questo è il destino dei profeti».

Mi permetto di aggiungere che lo sforzo dei profeti deve consistere anche, e direi soprattutto, nel contaminare tutta la Chiesa della loro profezia, mentre noi invece dobbiamo sforzarci e fare di tutto perché quella profezia essi non la spengano mai. Forse questo volevi dirci quando affermavi: «Chi sa volare non deve buttar via le ali per solidarietà coi pedoni, deve piuttosto insegnare a tutti il volo». Ecco, Lorenzo, fratello mio, aiutami a far volare la mia Chiesa e aiuta la Chiesa a volare.

Piessemio

Se poi a qualcuno interessa quanto scrive il signor Ernesto Galli Della Loggia riprendendo un “saggio”(bah..) di Adolfo Scotto di Luzio, si accomodi pure…(Piero)

https://www.corriere.it/cultura/23_giugno_01/don-milani-capovolto-c1c29ec4-ffe2-11ed-b45a-82caf12371f3.shtml

Esercitazioni militari in Sardegna

Comitato paritetico (*):
LE ESERCITAZIONI MILITARI IN SARDEGNA NON RISPETTANO L’AMBIENTE

(sardiniapost.it)

Alla vigilia della manifestazione degli antimilitaristi, pacifisti e indipendentisti contro le base militari in Sardegna, arriva lo stop alle esercitazioni da parte dei componenti regionali del Comitato misto paritetico per le servitù militari.

All’unanimità hanno espresso, infatti, voto contrario ai programmi di esercitazioni a fuoco presso i poligoni militari della Sardegna nel secondo semestre 2023 “motivato in gran parte dal fatto che i protocolli sottoscritti con il governo nazionale sulle servitù militari nell’isola non hanno ancora avuto piena attuazione”, si legge in una nota.

Ora i test potranno essere autorizzati solo dopo un decreto del ministro della Difesa. Il Comitato ritiene “doveroso apportare integrazioni e correttivi con la costituzione di una cabina di regia e tavoli tecnici operativi con un reale coinvolgimento dei componenti del Comitato paritetico sulle servitù militari per affrontare le questioni relative alla ‘armonizzazione’ delle esigenze della Difesa con quelle dei Cittadini che abitano i territori gravati dalle servitù militari”.

“A tal proposito il Comitato ha più volte richiesto un confronto con il presidente della Regione Sardegna sulle tematiche di propria competenza, senza mai avere la possibilità di incontrarlo – continua la nota -. I rappresentanti regionali, inoltre, si dichiarano non soddisfatti dagli annunci di piantumazione di alberi per il ripristino dei luoghi o mere compensazioni di CO2 a seguito dell’imponente ‘Noble Jump 23’ appena conclusasi nel Poligono di Capo Teulada”.

“Esercitazioni a fuoco di tale portata ‘sono in contrasto con le direttive comunitarie sul rispetto dell’ambiente in zona Sic (Sito di Interesse Comunitario dove sono presenti 21 habitat di specie vegetali e animali e in particolare di uccelli, meglio delineati nel Formulario Natura 2000) e in conflitto con le norme regionali e nazionali. Si attende, infine, la definizione del procedimento di valutazione di incidenza ambientale per il recupero dei residuati di esercitazione della penisola ‘delta’ del poligono permanente di Capo Teulada”, conclude il Comitato misto paritetico.

Polish_20230602_195231427

(*) Se hai voglia di leggere cos’è, com’è composto e come funziona questo Comitato paritetico, accomodati pure…

https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaArticolo?art.progressivo=0&art.idArticolo=322&art.versione=1&art.codiceRedazionale=010G0089&art.dataPubblicazioneGazzetta=2010-05-08&art.idGruppo=61&art.idSottoArticolo1=10&art.idSottoArticolo=1&art.flagTipoArticolo=0

Qualche considerazione sul 2 giugno

di Alessandra Algostino     (volerelaluna.it)

Polish_20230602_221433089

Con consapevole autolesionismo, provo a cercare notizie sulle celebrazioni del 2 giugno e prontamente compare una circolare del Ministero dell’Istruzione e del Merito (per inciso, leggere del “merito” rinnova la ripulsa verso l’elevazione a dogma di una logica contraria all’emancipazione della Costituzione) che ricorda ai dirigenti scolastici che «il 77° Anniversario di fondazione della Repubblica verrà celebrato, oltre che con la consueta solenne cerimonia di deposizione di corona di alloro presso l’Altare della Patria, anche con la successiva rivista militare in via dei Fori Imperiali» e invita «le istituzioni scolastiche interessate a partecipare all’evento».

Ora, può essere che sia prassi per la ricorrenza del 2 giugno invitare le scuole a una celebrazione “militarizzata”, ma, alla luce delle precedenti lettere, circolari e posizioni del Ministro, e di un aleggiante revisionismo storico, l’invito trasmette una certa inquietudine.

Invero, peraltro, l’inadeguatezza della celebrazione appare anche a prescindere dal colore dell’attuale Governo: perché celebrare la nascita della Repubblica con un omaggio all’altare della Patria (o con la parata militare), e non, ad esempio, con una cerimonia proprio nella e per la scuola, «organo vitale della democrazia», espressione di «uguaglianza civica», fondamentale nel permettere a ciascuna persona «di avere la sua parte di sole e di dignità» (Calamandrei)?

L’essenza della Repubblica è nella sua Costituzione (il 2 giugno 1946 insieme al referendum istituzionale monarchia/repubblica vengono eletti i membri dell’Assemblea Costituente), ovvero nei suoi principi (uguaglianza, solidarietà, diritti, pace), nel suo progetto di trasformazione della società.

La Repubblica non si risolve in un territorio presidiato da confini da difendere in armi (mentre scrivo, penso alla sorveglianza delle frontiere contro i migranti), ma è un luogo, una comunità, dove costruire la democrazia conflittuale e sociale disegnata nella Costituzione, una democrazia proiettata in una comunità internazionale di pace e giustizia.

Se pur pensiamo alla Patria, è la stessa Corte costituzionale a ragionare del «dovere di difesa della Patria, ben suscettibile di adempimento attraverso la prestazione di adeguati comportamenti di IMPEGNO SOCIALE NON ARMATO» (Corte cost., sentenza n. 164 del 1985): una posizione alla quale il giudice costituzionale giunge recependo le lotte per l’obiezione di coscienza (a ricordarci che i diritti, e la Costituzione, vivono nella storia e nei conflitti).

La Patria, da difendere, è «comunità di diritti e di doveri», una comunità «più ampia e comprensiva di quella fondata sul criterio della cittadinanza in senso stretto», che «accoglie e accomuna tutti coloro che, quasi come in una seconda cittadinanza, ricevono diritti e restituiscono doveri, secondo quanto risulta dall’art. 2 della Costituzione là dove, parlando di diritti inviolabili dell’uomo e richiedendo l’adempimento dei corrispettivi doveri di solidarietà, prescinde del tutto, per l’appunto, dal legame stretto di cittadinanza» (Corte cost., sentenza n. 172 del 1999).

Ecco, ammesso e non concesso, che il 2 giugno si voglia parlare di Patria, è questo il concetto da richiamare. La distanza rispetto a quanto si legge, da ultimo, nel testo del videomessaggio di Giorgia Meloni, per il convegno “Nazione e Patria. Idee ritrovate” (30 maggio 2023), è siderale. Nelle parole del(la) Presidente del Consiglio si sente la morsa di una nuova egemonia culturale che, sotto le insegne del “Dio, Patria e famiglia”, mira a un populismo identitario, che converge nel tributo al Capo.

La fascinazione della destra per l’idea di una Nazione insieme omologante ed escludente, inscritta nella dicotomia amico-nemico, si incontra con la freddezza di un neoliberismo competitivo che resta dogma indiscutibile e lo mistifica: costituisce una sorta di disciplinamento, consolatorio a fronte delle diseguaglianze e anestetizzante rispetto al conflitto sociale. È una narrazione antitetica rispetto a quella della Costituzione, che, non a caso, si accompagna a operazioni di revisionismo storico.

L’impulso, a questo punto, avvolta nei tempi oscuri che attraversiamo, è scrivere, nel giorno della sua celebrazione, di quanto minaccia la Repubblica:

– invio delle armi e mancate azioni per una soluzione diplomatica) in luogo della pace come mezzo e come fine (art. 11 Costituzione);

– dell’autonoma differenziata che si appresta ad affossare quanto resta dello Stato sociale e di una promessa di emancipazione uguale per tutti (art. 3, comma 2, Costituzione);

– del “presidenzialismo”, minaccia ancora nebulosa ma chiara nella volontà di sancire il potere del Capo proseguendo a grandi passi nella deriva autoritaria;

– della repressione del dissenso;

– della distruzione dei diritti dei lavoratori;

– della colpevolizzazione della povertà;

– dello svuotamento del diritto di asilo e della disumanizzazione delle persone che migrano…

Con tristezza, e con rabbia, penso alle «speranze di allora» (Calvino, Cantacronache, Oltre il ponte) e al disincanto di oggi nel vederle abbandonate, neutralizzate, negate, magari derise.

Non voglio però limitarmi a demistificare il presente e redigere un cahier de doléances ma, con i piedi saldamente sulla terra, nella consapevolezza della dialettica della storia, dei suoi corsi e ricorsi, scrivere delle “speranze di oggi”. Non è facile. Certo, la nube nera dilaga ovunque (dalle nostrane elezioni amministrative alle votazioni in Grecia, Spagna e Turchia, per restare alle ultime), le diseguaglianze crescono, le democrazie scivolano verso l’autocrazia, l’olocausto nucleare incombe ignorato, la devastazione ambientale prosegue in un mondo governato dalla logica del profitto appiattito sul presente.

Poi penso ai lavoratori della Gkn, alle lotte dei riders e dei braccianti agricoli, agli attivisti di Extinction Rebellion e Fridays for Future, alla disobbedienza civile dei ragazzi di Ultima Generazione, alle occupazioni delle scuole contro il merito e l’alternanza, alle tende degli studenti per il diritto all’istruzione e alla casa, ai tanti tentativi di convergenza dei movimenti che attraversano il paese (da ultimo, la campagna “Ci vuole un reddito”), a chi soccorre i migranti alle frontiere, alle mille associazioni che animano la società: frammenti di quella Resistenza dalla quale è nata la Repubblica. Ecco, un modo per festeggiare la Repubblica: ricordare le lotte di tutti coloro che la democrazia conflittuale e sociale praticano, e parteciparvi.

Polish_20230602_205542816

Due giugno, festa della Repubblica che ripudia la guerra

Polish_20230602_103755733

di Ermete Ferraro, presidente MIR, Movimento Internazionale Riconciliazione

Nella ricorrenza della Festa della Repubblica che all’art. 11 della sua Costituzione dichiara solennemente di “ripudiare la guerra”, il Movimento Internazionale della Riconciliazione ribadisce l’importanza di questo principio fondamentale, troppo spesso oscurato da scelte che non ne rispettano la sostanza, in nome del “sacro dovere” della difesa (art. 52), che non s’identifica affatto con quella armata e militare.

Poiché il M.I.R. è un “movimento a base spirituale composto da persone impegnate nella nonviolenza attiva, intesa come stile di vita, come mezzo di riconciliazione nella verità e di conversione personale, come mezzo di trasformazione sociale, politica ed economica”, mentre concordiamo col messaggio del manifesto ufficiale per la Festa della Repubblica (“L’Italia siamo noi. Italiani, un patrimonio di valori”), ci teniamo però a chiarire che i valori in cui crediamo, come la maggioranza degli Italiani, sono

LA PACE

LA SOLIDARIETÀ

LA GIUSTIZIA SOCIALE E AMBIENTALE

Non crediamo quindi che una parata militare interpreti la volontà popolare né tanto meno l’impegno di chi da decenni si batte per una difesa alternativa – civile, disarmata e nonviolenta – e per far rispettare il diritto universale di obiettare alla guerra ed al complesso militare-industriale, che al tempo stesso ne è manifestazione più evidente, ma anche causa e movente.

Ecco perché, insieme ad altre organizzazioni che condividono la scelta della nonviolenza, chiediamo al Governo italiano di

RATIFICARE il trattato per la messa delle armi nucleari e di
NON ALIMENTARE LA CULTURA DI GUERRA e la diffusione dei valori militari, infiltrandosi nelle scuole e nelle università, ma piuttosto di dar voce agli Italiani che custodiscono quel “patrimonio di valori”, civili etici e religiosi, contrassegnati da uno spirito di DIALOGO, di ACCOGLIENZA, di EQUITÀ, di CONVERSIONE ECOLOGICA e di RIFIUTO DELLA VIOLENZA.

CONTINUEREMO AD OPPORCI
a scelte antitetiche allo spirito costituzionale, in quanto alimentano la guerra come risoluzione delle controversie internazionali, e chiediamo al nostro governo ed all’Unione Europea di PERCORRERE LE VIE DELLA MEDIAZIONE DIPLOMATICA e di offrire sostegno e protezione agli obiettori e disertori russi, ucraini e bielorussi, che hanno coraggiosamente detto no alla guerra ed alla logica dell’obbedienza cieca, che – per dirla con don Milani, – “non è più una virtù, ma la peggiore delle tentazioni”. È tempo di “svuotare gli arsenali” (Pertini) e, di fronte ai disastri ambientali causati da questo negativo modello di sviluppo, di spalare anziché di sparare.

La dedizione “nuziale” del priore Milani verso la sconosciuta terra dei poveri

Polish_20230601_055814979

di Stefano Sodaro

Il 18 gennaio scorso sono voluto andare a Barbiana, dove non ero mai stato.Pioveva, pioveva fortissimo. Il taxi era incerto se proseguire inerpicandosi sulla strada di montagna per nulla invitante.

Ricorrevano i 15 anni dalla morte di Michele Gesualdi e, per questo, si sarebbe celebrata l’Eucarestia nella chiesa lassù, proprio a Barbiana, su quell’altare dove tante volte aveva “detto Messa” – come s’usava proferire prima del Concilio – il Priore, lui, don Lorenzo.

Pioveva talmente forte che non mi fu possibile scendere anche solo pochi metri, lungo la riva che s’ingrossava di fango, per raggiungere il cimitero e fermarmi, almeno qualche minuto, davanti alla tomba di quel prete, di quell’uomo. (….)

Sono giorni, questi trascorsi, in cui tutto è stato travolto dall’acqua in Emilia Romagna, con decine di morti. Morti di alluvione, di straripamento di fiumi e ruscelli, morti per un fango improvvisamente divenuto omicida.

Mi riferirono a Barbiana che pioveva anche il 7 dicembre 1954, quando – in condizione proibitive inimmaginabili (altro che viaggio in taxi…) – don Lorenzo aveva raggiunto quelle tre case con una chiesa, a bordo di un camion.

Il rimedio contro l’affogamento nell’incolpevole ignoranza dell’abbandono rurale era esattamente quell’uomo in veste talare, quello strano chierico, che non assomigliava a nessun altro. Avrebbe portato non semplicemente speranza, bensì un vero e proprio progetto educativo.

Sua madre e suo padre erano di appartenenza israelita, convertitisi al cattolicesimo solo per sfuggire alle persecuzioni nazifasciste.
La mamma di don Lorenzo, Alice Weiss Belà, era triestina. E non era credente. Almeno così confidò, in una famosa, e rarissima, intervista, al giornalista frate cappuccino Nazareno Fabbretti.

Esistono due importanti volumi di Stefania Di Pasquale – che parteciperà ad un incontro appositamente organizzato dal nostro settimanale insieme all’Associazione Culturale “Casa Alta” in programma sabato 1° luglio al Monastero di Bose – sulla figura della madre di don Milani.
Ed il 1° agosto 2023 ricorreranno pure i 45 anni dalla morte di Alice

Priore Lorenzo aveva avuto teneri amori giovanili – così come la mamma – e che tuttavia, se ci si può esprimere in questo modo (non sono convinto che sia del tutto appropriato, ma “per via analogica”, non trovo altro possibile riferimento), aveva optato per un’altra forma di legame matrimoniale, anzi, meglio: di dedizione matrimoniale, nuziale. Quella verso la sconosciuta terra di poveri dov’era stato mandato in esilio dal suo vescovo, il pur illuminato Cardinale Dalla Costa di Firenze, che però ebbe come vescovo coadiutore, dal luglio 1954, Ermenegildo Florit.

Lo confesso: pensieri intimamente matrimoniali, propriamente matrimoniali, espressioni pressoché impronunciabili per doveroso pudore, mi hanno raggiunto la mente quel 18 gennaio scorso all’ora di pranzo. Forse perché l’Eucarestia ha effettivamente caratteristiche, e contenuto, di banchetto nuziale. O forse perché, semplicemente, pensavo a come ci si possa innamorare di storie, volti, bisogni, desideri, attese, necessità concrete, entusiasmi, progetti.

Al momento del battesimo, non risulta che i coniugi Milani abbiano scelto – come pure avrebbero potuto per legge canonica – Chiesa rituale diversa da quella latina. Non divennero, cioè, cattolici di rito orientale. Ma di certo, non foss’altro che per la frequentazione di Giorgio La Pira o per motivi di studio in seminario, Lorenzo conobbe le cristianità d’Oriente. Chissà che ne pensava. Chissà se sapeva – certamente sì – degli sposati preti in quelle Chiese.

Personalmente non ho notizie od evidenze al riguardo, ma non sono uno studioso esperto delle vicende milaniane e lascio dunque ben volentieri ogni spazio di possibili integrazioni e puntualizzazioni a chi ne sappia ben di più.

La Chiesa Italiana appena adesso, a cent’anni dalla nascita e a più di quarantacinque dalla morte, cerca di riconciliarsi con la memoria viva del Priore di Barbiana.

L’essere prete di don Lorenzo era tutt’uno con il suo essere uomo. Era, insomma, un prete laico, per quanto in colletto bianco e veste nera lunga fino ai piedi e mai smessa.

La sua passione pedagogica ci interroga e ci inquieta. Le sofferenze di ragazze e ragazzi ancora segnati dalle conseguenze del lockdown avrebbero bisogno di intercettare, di incontrare, una competenza pari a quella del Priore di Barbiana.

La morte, la devastazione, il tormento, la disperazione, che in questi giorni corrono per la pianura padana in Emila Romagna, diventino offerta eucaristica nelle mani, però, non necessariamente di un prete, bensì di ognuna ed ognuno di noi, anche di nessuna fede. Offerta eucaristica laicissima.

Don Milani appartiene a tutti. E la sua testimonianza, prima ancora che ecclesiale ed evangelica, è civica, sociale, politica, nel senso più bello e più alto.(…)

No, presidente !

NO, PRESIDENTE MATTARELLA, NON È LA PARATA MILITARE CHE RAPPRESENTA LA FESTA CIVILE DEL 2 GIUGNO !

(Movimento Nonviolento)

Celebriamo la Festa della Repubblica perché ci riconosciamo nei principi fondamentali della Costituzione: lavoro, diritti, uguaglianza e dignità sociale, cultura, ricerca, tutela dell’ambiente, ripudio della guerra.

Noi cittadini, civili e disarmati per definizione, abbiamo il compito di difenderla, lo dice la Costituzione stessa, che ci affida questo “sacro dovere” (articolo 52).

Il 2 giugno festeggiamo la Repubblica democratica, cioè la cosa pubblica governata dalla sovranità popolare.

No, Presidente Mattarella, non è la parata militare che rappresenta questa Festa civile. Non sono le divise e i mezzi militari che sfileranno ai Fori Imperiali. Non sono le armi che mandate nei teatri di guerra.

Lei, Presidente Mattarella, pochi giorni fa ha sostato davanti alla tomba di don Lorenzo Milani che in piena coerenza costituzionale diceva:

“le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”.

Noi vogliamo portare la nostra aggiunta nonviolenta affinchè la Repubblica faccia propria la Difesa civile non armata e nonviolenta, sintesi tra gli articoli 11 e 52 della nostra Carta antifascista.

Per tutto questo noi celebreremo in modo civile e disarmato il 2 giugno.

Saremo in alcune piazze italiane a sostegno delle nostre Campagne “Un’altra difesa è possibile” e “Obiezione alla guerra” per chiedere meno spese per le armi e più investimenti per la salute, la scuola, il lavoro, l’ambiente, per il riconoscimento del diritto umano universale all’obiezione di coscienza.

Polish_20230531_064418162

Fabbricazione a pieno regime di armi…fino alla vittoria

FB_IMG_1685745469134

di Domenico Gallo (volerelaluna.it)

Dopo il Consiglio Europeo del 23 marzo, che si è posto l’obiettivo di fornire all’Ucraina «entro i prossimi dodici mesi, un milione di munizioni di artiglieria nell’ambito di uno sforzo congiunto», adesso la Commissione ha formulato la proposta di un atto legislativo, indicato con l’acronimo di Asap (Act to Support Ammunition Production).

Secondo il commissario europeo Thierry Breton, si tratta di un piano «mirato a sostenere direttamente, con i fondi UE, lo sviluppo dell’industria della difesa, per l’Ucraina e per la nostra sicurezza». Una produzione, di straordinaria necessità e urgenza, che deve essere velocizzata al punto da consentire deroghe alla legislazione ordinaria perché le fabbriche di armi e munizioni possano funzionare giorno e notte, sette giorni su sette, entrando in «modalità economia di guerra».

In pratica, per sostenere le imprese della difesa nella produzione di munizioni e missili destinati all’Ucraina, il provvedimento in questione preveda la possibilità di disapplicare le norme in materia ambientale, di tutela della salute umana e della sicurezza sul luogo di lavoro. Per il finanziamento di questa missione bellica, l’Asap permette agli Stati membri di utilizzare il Fondo di coesione, il Fondo sociale europeo e il Pnrr.

In verità il Trattato sull’Unione Europea esclude che, in materia di politica estera e di sicurezza comune si possano adottare atti legislativi, ed esclude la competenza della Corte di Giustizia dell’Unione, trattandosi di un settore di collaborazione intergovernativa, in cui le eventuali decisioni possono essere adottate solo dal Consiglio europeo e dal Consiglio, che deliberano all’unanimità (art. 21 TUE).

Il Fondo Europeo di coesione, il Fondo sociale europeo e i fondi stanziati per il Pnrr sono destinati a finalità sociali per incrementare il benessere dei popoli europei, non possono essere distratti per la guerra o, nella migliore delle ipotesi, per incrementare i profitti dell’industria bellica. Senonché, come dicono i francesi: À la guerre comme à la guerre! Quando siamo coinvolti in una guerra, non si può andare troppo per il sottile, bisogna stringersi a Corte.

Le regole del diritto sono le prime ad essere calpestate, i diritti sociali possono, anzi debbono essere sacrificati alle esigenze della produzione bellica, non ci si può preoccupare di tutelare l’ambiente o la salute dei lavoratori: più cannoni e meno diritti. E non si può neanche protestare senza il rischio di essere linciati come antinazionali.

Il Parlamento Europeo ha condiviso l’esigenza di fare presto (As soon as possible) e ha votato il 9 maggio per adottare, con procedure d’urgenza, l’atto legislativo (inammissibile secondo il TUE), con 518 voti a favore, 59 contrari e 31 astenuti. Secondo le cronache, fra gli italiani hanno votato contro solo i deputati del Movimento 5 stelle e l’on. Massimiliano Smeriglio del PD, in dissenso dal suo Gruppo.

Per effetto della procedura d’urgenza, il Parlamento Europeo voterà sul disegno di legge durante la prossima sessione, che si terrà dal 31 maggio al 1° giugno a Bruxelles. Questo voto del Parlamento europeo sarà l’ulteriore certificazione che l’Unione Europea e tutti i suoi paesi membri sono coinvolti a pieno titolo nella guerra e sono pienamente impegnati ad alimentarla e a proseguirla, “fino alla vittoria finale”, come pretende Zelensky.

In un documento pubblicato dal New York Times del 16 maggio, firmato da 15 esperti – analisti, docenti, ex diplomatici, ex consiglieri per la sicurezza nazionale e soprattutto ex militari di grado elevato – viene rivolto un pressante appello al Presidente degli Stati Uniti e al Congresso perché si ponga fine al più presto alla guerra con la diplomazia.

I firmatari denunciano «il disastro assoluto della guerra russo-ucraina», con «centinaia di migliaia di persone uccise o ferite, milioni di sfollati, incalcolabili distruzioni dell’ambiente e dell’economia» e il rischio di «devastazioni esponenzialmente più grandi dal momento che le potenze si avvicinano a una guerra aperta». Ricordano l’osservazione di John F. Kennedy, 60 anni fa: «Le potenze nucleari devono evitare un confronto che dia all’avversario la scelta fra ritirarsi umiliato o usare le armi nucleari. Sarebbe il fallimento della nostra politica e la morte collettiva».

Della saggezza di Kennedy non è trapelato nulla nella zucca dei leaders politici europei. Per costoro la guerra non è un disastro assoluto, che bisogna fermare al più presto. La pretesa di realizzare la pace attraverso la vittoria punta proprio a quello che Kennedy voleva evitare, cioè mettere l’avversario dinanzi alla scelta di ritirarsi umiliato o di usare le armi nucleari.

Se oggi ci troviamo di fronte a un’urgenza indifferibile, questa non è velocizzare la produzione delle bombe. Come sostengono i firmatari dell’appello americano, l’impegno genuino deve essere quello a «un immediato cessate il fuoco e negoziati senza precondizioni squalificanti e proibitive. Provocazioni deliberate hanno portato alla guerra Russia-Ucraina. Allo stesso modo, una deliberata diplomazia può porvi fine».

Razzismo in sette punti

di Alessandro Ghebreigziabiher

FB_IMG_1685745821567

Nel mio piccolo vorrei fare un po’ d’ordine su un argomento che mi tocca personalmente da sempre, ma che ritengo ancora oggi frainteso quanto ineludibile in un paese come il nostro e non solo.

Sto parlando del razzismo.Ho imparato a conoscerlo letteralmente sulla mia pelle fin dalla nascita.

Sono nato in questo paese alla fine degli anni ’60 e basti pensare che sono stato l’unico alunno con la carnagione più scura del solito dell’intero istituto di riferimento per tutto il percorso di studi dall’asilo fino quasi all’università compresa.

Rammento quel giorno alle superiori quando sentii uno dei miei professori affermare – non ricordo il motivo – che nel nostro liceo vi erano circa 600 studenti.
Ebbene, la prima cosa che ho pensato è che voleva dire che i “bianchi” erano 599…

Questa è stata la norma nel mio quartiere, quando giocavo in strada o nei campetti dell’oratorio. O quando andavo al mare, dove le cose si complicavano perché inevitabilmente diventavo ulteriormente scuro.

Non starò qui ad annoiare con la quantità esorbitante di episodi di intolleranza e discriminazione subiti. In parte sono diventati nutrimento per racconti, romanzi o spettacoli teatrali e mi va bene così, perché scrivere o recitare a mio avviso serve anche a questo, a trasformare la sofferenza in qualcosa di diverso, che magari riesca a far sorridere, riflettere o solo generare condivisione.

Tutto ciò, assieme al tempo speso negli anni a documentarmi e confrontarmi sui punti di vista e soprattutto le esperienze altrui, è premessa fondamentale per ciò che sto per dire, con la speranza che mi garantisca un seppur minimo grado di autorevolezza.

1

Primo, il razzismo è molto più di quel che di solito viene dai più additato o identificato come tale, il che spesso si quantifica soltanto in una miope e pericolosa riduzione del reale problema a monte. In altre parole, la questione è infinitamente più complessa di così.

Si prenda quale emblematico esempio l’ennesimo episodio diventato virale a seguito di una partita di calcio, con il giocatore preso di mira dai tifosi, e la conseguente condanna del mondo dello sport e delle nazioni interessate, della stampa di settore e non, e perfino di importanti istituzioni. È una scena già vista: la discussione dura qualche giorno, le varie star e i coprotagonisti dello spettacolo che deve comunque andare avanti dichiarano la loro solidarietà alla vittima degli insulti, e vai con altri spot e magliette con le scritte “no racism” a tranquillizzare tutti. Se poi si riesce anche a individuare i responsabili e a bandirli dallo stadio, l’obiettivo è perfettamente raggiunto: i cattivi sono stati puniti e i buoni possono tornare al gioco della vita.

Ovviamente, tale fragile cerotto dura fino alla prossima interruzione dell’incontro da un altro calciatore che non ce la fa più ad accettare l’aggressione verbale di turno.

2

Da cui, punto secondo: il razzismo non nasce in uno stadio di calcio, vi arriva dall’esterno. Perché le persone che offendono i giocatori avversari a causa del colore della pelle, sono le stesse che alla fine dalla partita se ne tornano a casa. Vanno a scuola o hanno un lavoro, hanno una famiglia, degli amici, un vita quotidiana come tutti noi e accanto a noi. Le incontriamo sui mezzi pubblici, in ufficio, nel traffico, come vicini di casa o in qualsiasi altra veste. Alcuni magari fanno parte delle nostre conoscenze e neanche lo sappiamo. E lo stesso vale, generalizzando, per tutti coloro che si distinguono per comportamenti simili in qualsiasi altro ambito che non sia la partita della domenica, sia nel mondo reale che quello digitale, dove ormai viviamo una seconda vita.

3

Terzo, in questa parte del mondo il razzismo ci viene insegnato da secoli fin da bambini e oramai è come una sorta di congenita malattia autoimmune, la quale senza che ce ne rendiamo conto aggredisce la parte sana del nostro grado di umanità. Nessuno si dovrebbe permettere di sentirsi escluso, perché nemmeno il sottoscritto, nonostante o forse soprattutto dopo quanto detto, ci si sente.

Il razzismo è parte di ognuno di noi, a questo punto della storia.
A prescindere dalla nostra volontà, influisce in ogni singolo istante sul nostro modo di vedere, percepire e sentire il mondo e le persone che ci sono attorno. Per usare un’ulteriore metafora, è come un errore di sistema che è stato da noi stessi inserito nei programmi che determinano la nostra convivenza.

Tuttavia, preferisco quella dell’epidemia innata, perché mi aiuta a rendere meglio l’idea dell’errore che stiamo compiendo quando finiamo per limitare la nostra indignazione soltanto al mero episodio che attira l’attenzione dei media, come le aggressioni verbali o anche quelle fisiche con un esito tragico.

Non vorrei essere frainteso, si tratta di episodi gravi che non vanno tollerati e devono essere prontamente stigmatizzati, ma dobbiamo aver chiaro che sono solo i sintomi della malattia di cui sopra. Per usare il Covid come esempio, sarebbe come intervenire solo sulla febbre o il raffreddore senza preoccuparsi del virus.

4

Di conseguenza, quarto punto: il virus del razzismo è ovunque e va aggredito alla radice. E la radice è nelle nostre leggi e nelle nostre istituzioni. Nella nostra Storia e nella nostra cultura. È nel modo con il quale ci raccontiamo a vicenda le cose del mondo e in ciò che insegniamo quotidianamente ai più piccoli e non. A essere razzista è l’impalcatura stessa della nostra intera società, a ogni livello, dal più grande al più piccolo.

5

Quinto, non vi è altra via per sperare di guarire da un male che ammettere di esserne affetti. In caso contrario, non c’è alcuna speranza. Solo così si riesce a riconoscerlo per ciò che è e a scoprire dove si annida e più che mai in quale punto e istante ha avuto origine.

6

Sesto: per tutti i motivi fin qui esposti, non si può in alcun modo tirarsene fuori dicendo “io non sono razzista”, magari perché uno non ha mai detto la famosa “parola con la enne”, perché ha tanti “amici neri”, perché cita Martin Luther King, perché gli piacciono i film con Morgan Freeman o perché ha il poster di Lukaku in camera. Il “non razzista” non è altro che un complice dell’epidemia sopra citata.

7

Settimo e ultimo: se si vuole davvero cambiare per il meglio se stessi e il mondo in cui viviamo, l’unica strada è essere antirazzisti. Ciò necessita piena consapevolezza di quanto premesso e comporta un’azione quotidiana e concreta nel combattere il razzismo fuori e dentro di sé.

Mi dispiace, ma non credo ci siano alternative.

Ma Guarda un po’ questo prete come si permette…


Polish_20230529_052725436

MA COME, OLTRE AD ESSERE ERETICO SI PERMETTE ANCHE DI….

di Piero Murineddu

Credo che questa sia la terza volta che ripropongo nel mio profilo FB quanto il frate servita anconetano oggi 77enne Alberto pubblicò ben otto anni fa, e se i “Ricordi” di FB me lo ripresenteranno negli anni a venire in questo giorno di fine maggio, penso che continuerò a farlo, sempreché la vista che ogni tanto mi tradisce me lo permetterà.

In questa occasione però mi sento quasi in dovere di fare in proposito qualche considerazione, dal momento che sta diventando consuetudine che quando l’ amico frate “si permette” nel suo profilo FB di pubblicare qualche breve battuta riguardante l’attuale politica governativa che secondo certuni esulerebbe dal suo stato di “religioso”, viene apertamente attaccato e richiamato all’ “ordine”, in quanto appunto le questioni politiche, per il ruolo che ricopre non sarebbero di sua competenza, naturalmente dato più che i concetti espressi vanno chiaramente contro il modo di vedere di questi censori del pensiero altrui. Apprezzato, (quando lo è!) se si limita a spiegare le sacre scritture e a celebrare riti che richiamano l’Aldilà, ma guaaaai occuparsi dell’aldiquà, seppur con brevi battute.

Evidente segnaccio del tempo corrente, sia a livello nazionale e ancora peggio mondiale. In un certo modo mi richiama quanto accade al vecchio e sempre più acciaccato Francesco: benevolmente citato e preso in considerazione fino a quando si limita a ‘fare il papa’ (non so cosa vorrebbe dire, ma tant’è…); se invece appena appena accenna alla necessità sempre più urgente (e realistica!) di cercare soluzioni diplomatiche ai conflitti mettendo da parte le armi, beh, allora….

Insomma, la politica, le cose che riguardano la vita concreta e il conseguente e doveroso giudizio da parte di un essere pensante, non è campo di cui si devono occupare preti, suore, frati e pii praticanti dei raduni ‘spirituali’.

E poi e poi e poi, il prete deve contribuire a creare unità e non provocare divisione. Ma come! Ma se è stato proprio il Maestro ad essere Divisivo e a sbugiardare coraggiosamente i sepolcri imbiancati! La carità, si dice. La Carità è ben, ben, ben Altro.

Se, al contrario, come succede dalle mie parti, la figura religiosa, parroci o frati che siano, va a braccetto con la politichetta locale di turno e si limita ad alimentare la spesso sterile devozione popolare continuando a far credere che quel piedino impresso nella roccia è realmente l’ orma lasciata dalla Vergine Santissima ( la ‘madonnina’) apparsa (apparsa?) non so quando e che bisogna esserle grati perché avrebbe convinto quei cattivoni bombardieri di quei tempi di guerra là a sganciare i loro micidiali confetti altrove e non qui, ecco, allora il ‘titolato’ a fare da intermediario tra il Cielo e la Terra adempie bene al suo compito ed è benvoluto, apprezzato e, in un modo o nell’ altro, ricompensato.

Ma …forse mi sono allontanato da quanto volevo dire a proposito degli attacchi al frate anconetano. Ah, ecco: Albe’, mandali a c….., che tra l’ altro è cosa molto salutare, e quando il corpo funziona bene anche il cervello ne trae beneficio assai.

Buona settimana e così sia.