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Sui movimenti ecclesiali ma non solo

 

di Piero Murineddu

A volte, aderire ad un gruppo particolare o ad una associazione, diventa una cosa quasi totalizzante, che facilmente porta a rinchiudersi dentro per avere quel rassicurante senso di appartenenza e sicurezza introvabili altrimenti. Non è impossibile però, entrare inconsapevolmente in un vortice integralista, nel senso che “la verità più vera e completa ce l’abbiamo noi”, per cui si guardano tutte le altre realtà con sufficienza, se non addirittura con sospetto.

Credo che questo non sia un atteggiamento che aiuti realmente a crescere e, per dirla cristianamente, a riuscire a vedere l’azione dello Spirito ovunque, anche nelle persone e nelle realtà apparentemente “distanti”.

Qualche giorno fa Francesco ha ricevuto in udienza il gruppo ristretto che guida il movimento dei Neocatecumenali e lo stesso Kiko Arguello, pittore, che lo ha fondato negli anni 60. Naturalmente sono stati snocciolati al vecchio papa i numeri delle loro iniziative e successi in non so quanti Paesi nel mondo.

Io riporto non quanto Francesco ha detto loro in questa occasione, ma le sue parole nei loro confronti pronunciate dieci anni fa, sempre validissime e non solo per questo movimento che ama farsi le sue lunghe liturgie coi suoi canti accompagnati dal battito delle mani e gli accordi spagnoleggianti in LAm SOL FA MI creati dallo stesso Arguello…

Vedi tu se quanto dice Francesco si può applicare ad altre realtà associative, partiti politici e simili:

Vi esorto ad avere cura con amore gli uni degli altri, in particolar modo dei più deboli. Il Cammino neocatecumenale, in quanto itinerario di scoperta del proprio battesimo, è una strada esigente, lungo la quale un fratello o una sorella possono trovare delle difficoltà impreviste. In questi casi l’esercizio della pazienza e della misericordia da parte della comunità è segno di maturità nella fede. La libertà di ciascuno non deve essere forzata, e si deve rispettare anche la eventuale scelta di chi decidesse di cercare, fuori dal “Cammino”, altre forme di vita cristiana che lo aiutino a crescere nella risposta alla chiamata del Signore”

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Ricordo di Egidio Guidubaldi

QUANDO “BRACCOBALDO” COMBATTEVA L’ OTTUSITÀ DEL POTERE CON LA CULTURA

di Sergio Naitza

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Sotto il nero cespuglio increspato delle sopracciglia, che contrastava col bianco candido dei capelli, si muovevano due pozze d’acqua chiara: occhioni dolci e imploranti, l’arma segreta con la quale riusciva a convincere i più scettici della bontà delle sue mirabolanti operazioni culturali. Arrivava in redazione a piedi, sudando e sbuffando nel clergyman, trascinando la sua mole di pachiderma ferito. Ti guardava sottecchi, sollevava il mento inquisitorio e disegnava con parole forbite la nuova avventura di organizzatore di spettacolo disponendo sul tavolo carte stropicciate, fotografie unte, fotocopie illeggibili che gonfiavano il suo fedele marsupio, una borsa impiegatizia di pelle lucida. E alla fine puntava bonario l’indice, ammonendo contro qualcuno e tutti, ma si capiva che lui testardamente voleva andare fino in fondo. Dove? Al cuore delle sue sfide-utopie, progetti diventati più grandi di lui, che riassumeva in titoli meravigliosamente colti e astrusi, lunghi come un film della Wertmüller.

Vulcanico, questo era padre Egidio Guidubaldi, che per un ventennio ha smosso lo stagno paludoso della cultura in Sardegna. Quanti debiti abbiamo, e Cagliari in particolare, con questo omone paziente per spirito cristiano ma brusco nelle decisioni e nell’imperio del comando verso i suoi giovani collaboratori. Mal sopportato dal vertice della compagnia gesuita che borbottava a ogni sua scapestrata intrapresa, scacciato come una mosca molesta dai politici dispensatori di pecunia pubblica che lo associavano a un saltimbanco, Guidubaldi tirava dritto nella granitica convinzione d’essere nel giusto. E lo era anche quando, negli anni prima della morte, si era infatuato della cultura russa, viaggiava oltrecortina, aveva stretto alleanza con l’Accademia delle Scienze di Mosca, studiava un parallelismo tra Dante e Aleksandr Blok, poeta dell’Ottobre sovietico, coltivato in quattro libri, di impervia lettura e complesse teorie, ma spesso – a parere di illustri critici – ci azzeccava pure.

Allora, però, nessuno gli dava ascolto. E questo era il suo cruccio. Uscito di scena come organizzatore, in pensione dall’Università (insegnava Letteratura italiana a Sassari) impiegava il suo tempo con cocciutaggine sulla connection sovietica, che frequentava già nelle more del crollo comunista e nei vagiti della perestrojka. Sembrava, e lo era, un Don Chisciotte: i suoi mulini a vento erano l’ottusità del potere, la sua Dulcinea la cultura, e Sancio Panza i suoi fedeli spettatori.
Però Braccobaldo, così era amichevolmente soprannominato, macinava idee, dibattiti, spettacoli: andava controcorrente, non aveva paura del suo anticonformismo che gli procurò rimbrotti dai superiori. Non venne mai sospeso ma poco ci mancò quando difese a spada tratta Je vous salue Marie di Godard che rileggeva l’Immacolata in chiave moderna. Il Papa condannava il film, orde di cattolici s’accodavano al monito e lui, nientemeno, organizzava a Roma l’anteprima nazionale, facendo accorrere la polizia per sequestrare la pellicola. E due giorni dopo, a Cagliari, promuoveva in un salone dell’Hotel Mediterraneo (nessuno gli aveva concesso una sala) una serata spettacolo pro Godard.

La sua foto finì in prima pagina sull’Unione Sarda, sopra quella di Papa Wojtyla: protestò con l’incolpevole giornalista per la mancanza di rispetto che gli avrebbe procurato guai ma sotto sotto si sentiva orgoglioso della sua “marachella”.Era il 1985, l’apice della popolarità e del turbinìo organizzativo. Ma già nei dieci anni precedenti Guidubaldi aveva segnato la storia cagliaritana dello spettacolo. Iniziò col teatro guidando la messinscena “domenicale” di testi come Antonio e Cleopatra di Shakespeare, Aulularia di Plauto, affidati all’anziano regista Aldo Ancis, arruolato con pacche sulla spalla.

Il cavallo di battaglia fu il cinema: nella saletta di via Ospedale a Cagliari, dure sedie di legno cigolanti, il suo cineforum calamitò e educò al piacere del film molti giovani. Si vedeva Nashville di Altman e tanto cinema della Hollywood di sinistra (Scorsese, Rafelson, Penn), si proiettava Jesus Christ superstar per dimostrare l’apertura mentale dei cattolici (e subito dopo L’esorcista ), si scuoteva la platea con L’altra faccia dell’amore di Ken Russell e soprattutto con La montagna sacra e El topo di Jodorowsky, film carichi di violenza surreale e allora vietatissimi ai minori di 18 anni. Gli fu fatto notare che aveva censurato una sequenza in cui si vedevano dei genitali maschili e lui, lapidario: «Meglio che li tagli io, prima che li taglino a me», riferendosi al minculpop gesuitico.

Ben prima che Nanni Moretti inventasse la battuta «No, il dibattito no», Guidubaldi l’aveva messa in pratica: a fine proiezione, presidiava il centro della sala e microfono in mano dava vita alle sue elucubrazioni cine-letterarie, già annunciate dalla scheda ciclostilata consegnata alla cassa. Il pubblico scappava alla chetichella, oppure rumoreggiava insolente e lui sollevava il tono baritonale. Più di una volta fece sprangare le porte, intrappolando tutti nella sacra discussione.

La sua poliedrica attività non si fermava qui: scrisse un musical sindacal-politico, Lama star , organizzò spettacoli di ballo a Sassari con Carla Fracci, convinse il medagliato regista Orazio Costa Giovangigli, allora ottantenne, a dirigere una messinscena dell’Inferno dantesco, prima all’anfiteatro, poi al Colosseo: aveva tutto pronto, scene e bozzetti, pure articoli sul Messaggero ma la soprintendenza di Roma gli negò il permesso.

Intanto scovava nuovi spazi: una rassegna di cinema sullo sfondo del nuraghe di Barumini, una sulla piazza grande di Fertilia, montò uno schermo nel cortile del Conservatorio di Cagliari, affittava l’Astoria, votato alle luci rosse, per proiettare Pasolini creando un cortocircuito con l’abituale pubblico di sbavatori.Quando non aveva uditori, s’inventava l’evento. Un giorno disse di aver istituito il premio Mediterraneo e decise che sarebbe andato al regista greco Theo Angelopoulos. Come fare? Guidubaldi prese l’elenco telefonico di Atene, chiamò tutti i Theo Angelopoulos: prima incappò in un omonimo violinista (che stava incautamente per invitare) poi finalmente scovò il regista. «Venga a Cagliari, c’è un grande premio per lei».

Non sapeva neppure che faccia avesse, chiese al solito giornalista (stavolta esterrefatto, non perplesso né incolpevole) di indicarglielo nello sciame di turisti sbarcati all’aeroporto di Elmas. In un francese da venditore di souvenir Guidubaldi si scusò dicendo che il premio non era ancora pronto, lo portò all’anfiteatro dove, sotto il flash di un fotografo raccattato all’ultimo momento, gli mise in mano due volumi su Cagliari. Poi sul cortile sconnesso di Sant’Eulalia per la proiezione su un lenzuolo stiracchiato di Alessandro il Grande. Il piccoletto, educatissimo Angelopoulos dall’aria sempre più smarrita lo seguiva come ipnotizzato, fino a quando la notte, prima di chiudere la porta della camera d’albergo, gli chiese: «Scusi, ma lei cosa vuole da me?». Guidubaldi non disse niente, sorrise tra l’ebete e il sornione, e si congedò.

Questo era Braccobaldo, uno show continuo. Nonostante la flebite, il diabete, un infarto non chiudeva mai la sua personale fucina di cultura. Memorabile l’impegno per l’anfiteatro abbandonato all’incuria: fece irruzione durante un consiglio comunale brandendo il suo bastone contro il sindaco Ferrara, una volta con un gruppo di giovani scavalcò la cancellata e occupò simbolicamente i graniti soffocati dalle erbacce. Un’altra ancora chiese al giornalista (di nuovo perplesso) di accompagnarlo all’anfiteatro dove lui, per protesta, avrebbe dormito sotto un canalone. Era una notte di luglio. Guidubaldi sgusciò dentro, in una mano una coperta, nell’altra una pila. La figura claudicante scomparve inghiottita dal buio, insieme alla luce sempre più fioca. Sembrava il finale de L’albero degli zoccoli , col lanternino contadino che si spegne nella nebbia. La fine di un’epoca, di un modo di far cultura, di una geniale follia che vien voglia di rimpiangere.

In ricordo di Mahmoud

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Io sorridevo felice

di Mahmoud Suboh

Avevo appena compiuto un anno, me lo ricordo perché stavo facendo i miei primi passi.

Mi ricordo che tutta la famiglia mi faceva il tifo: “Che bravo, vieni, vieni altri due passi. E c’erano le braccia e gli abbracci che mi attendevano.

Io sorridevo felice, cercavo di vincere le tante coccole. Mia madre mi stringeva al suo petto e mi infilava nel suo grembo: che bello il mio angelo.

Invece i miei fratelli grandi mi facevano ruotare sopra le loro teste. Avevo paura di cadere ma ero felice. Scordavo di camminare e chiedevo di farmi nuotare ancora nel vuoto.

Era bello camminare ed io non vedevo l’ora di correre. Volevo crescere in fretta e gareggiare con i miei fratelli. Loro erano già grandi, io invece crescevo e le mie gambe si facevano forti.

Era il mese di febbraio. Fuori c’era freddo e non si poteva correre, anche perché c’era il coprifuoco. Non capivo cosa volesse dire ma non si poteva uscire di casa.

Tutta la famiglia era raffreddata. Mia madre, povera donna, doveva occuparsi di tutti, faceva respirare i miei fratelli il vapore dell’acqua. Diceva che era la cura migliore per liberarei nasi ostruiti dal moccio ed anche io lo facevo, per solidarietà con i malati ma anche perché ero grande.

Dopo un giorno anche io avevo la tosse e scottavo come un pezzo di legno ardente. Ricordo che mia madre mi teneva nel suo grembo, spalmandomi una pomata sul petto per farmi respirare. Mio padre cercava di scherzare con me: “Dai che sei grande e domani ti svegli e gareggi con il vento”.

Io stavo male. Scottavo e la tosse sempre più noiosa non mi faceva dormire nonostante il grembo dei miei.Volevo fare due passi ma non riuscivo a vedere la stanza e cadevo come una foglia spinta dal vento.

– Marito mio, non mi piace. Il bambino sta male bisogna chiamare il dottore…

– C’è ancora il coprifuoco e non si può uscire di casa. Non permetteranno neanche all’ambulanza di passare. Domani se non dovesse migliorare, andrò a chiamare il medico, a costo di perdere la pelle.

Mio padre era uscito di nascosto a chiamare il dottore. Io mi sentivo di fuoco e sognavo di giocare sulla neve. Il dottore avevo detto, ed io capivo il senso anche se avevo la febbre alta: “È grave, bisogna portarlo subito in ospedale”.

All’ambulanza era vietato passare. C’era il coprifuoco e non bisognava ammalarsi in quei giorni. I miei genitori mi portarono, stretto al petto di mia madre a proteggermi dal freddo.

– Alt…alt…dove pensate di andare?

Mio padre supplicava e mia madre singhiozzava: “Per amore di Dio, per amore del cielo, nostro figlio sta male, fateci passare, ha bisogno dell’ospedale”.

Loro ridevano e respingevano indietro a calci e pugni mio padre che aveva osato uscire di casa. Due ore di discussione. Calci e pugni e minaccia di prigione. Mia madre piangeva e trascinava via mio padre.

– È finita! Maledetti israeliani! Maledetta occupazione! Maledetti, maledetti criminali, avete ucciso il mio bambino!

Io sentivo freddo, ero diventato un pezzo di ghiaccio. Non mi colava più il naso e non avevo più la tosse.Appena a casa mia madre mi avvolse in un lenzuolo bianco. Sembravo un fagotto nel suo grembo come quando avevo la febbre e mi lamentavo dal freddo.

Tutti piangevano. I miei fratelli strillavano soffocati dalla tosse.

– Alzati, cammina, cammina…non puoi andartene…

Dicono che ero diventato un angelo, ma io volevo rimanere con loro, volevo crescere, volevo gareggiare contro il vento, volevo dormire la notte nel grembo di mia madre, volevo essere portato dai miei fratelli, su a girare nello spazio a sfiorare le stelle.

Le loro lacrime erano calde e i loro lamenti mi facevano male. Perdonatemi il dolore che vi ho provocato.

Don Milani nelle parole di Francesco

Dal discorso per il centenario della nascita

22 gennaio 2024

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L’evento centrale della vita di don Milani è la sua conversione, non dimentichiamolo. Essa permette di comprendere appieno la sua persona, dapprima nella sua ricerca inquieta e poi, dopo la completa adesione a Cristo, nella sua piena realizzazione. Il suo “sì” a Dio lo prende, lo trasforma e lo spinge a comunicarlo agli altri.

Di fronte alla salma di un giovane sacerdote, Lorenzo dice al suo padre spirituale, don Raffaele Bensi, una parola decisiva: “ Io prenderò il suo posto”. È la risposta alla vocazione ad essere cristiano e insieme sacerdote, tanto che Adele Corradi, l’insegnante che gli è stata accanto, afferma: «Egli non ricordava nessun momento da credente in cui non pensasse di essere prete. Gli pareva che la decisione di essere prete fosse contemporanea alla conversione».

La conversione è il cuore di tutta l’esperienza umana e spirituale di don Milani che lo fa credente, prete innamorato della Chiesa, fedele servitore del Vangelo nei poveri.

Don Lorenzo ha vissuto fino in fondo le Beatitudini evangeliche della povertà e dell’umiltà, lasciando i suoi privilegi borghesi, la sua ricchezza, le sue comodità, la sua cultura elitaria per farsi povero fra i poveri. E da questa scelta non si è mai sentito sminuito, perché sapeva che quella era la sua missione, Barbiana era il suo posto, tanto che, appena arrivato, acquistò lì la sua tomba.

Don Bensi, quando lo andò a trovare già gravemente ammalato e lo vide nella stanza che serviva da scuola, circondato dai suoi ragazzi, rimase colpito e scrisse: «Erano lì tutti in silenzio e lui era uno di loro, non diverso, non migliore. Capii allora, più che in qualunque altro momento, il prezzo della sua vocazione, l’abisso del suo amore per quelli che aveva scelto e che lo avevano accettato.Fu per me, e rimane, l’immagine più eroica del cristiano e del sacerdote».

«Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia» ( Mt 5,6). Don Milani ha sperimentato anche questa beatitudine con la sua gente e i suoi allievi. La scuola è stato l’ambiente in cui operare per un fine grande, uno scopo che andava oltre: restituire la dignità agli ultimi, il rispetto, la titolarità di diritti e cittadinanza, ma soprattutto il riconoscimento della figliolanza di Dio, che tutti ci comprende.

«Noi –dice ai preti in Esperienze Pastorali – abbiamo per unica ragione di vita, quella di contentare il Signore e di mostrargli d’aver capito che ogni anima è un universo di dignità infinita».

Don Milani è stato testimone e interprete della trasformazione sociale ed economica, del cambiamento d’epoca in cui l’industrializzazione si affermava sul mondo rurale, quando i contadini e i loro figli dovevano andare a fare gli operai, una condizione che li confinava ancora di più ai margini.

Con mente illuminata e cuore aperto don Lorenzo comprende che anche la scuola pubblica in quel contesto era discriminante per i suoi ragazzi, perché mortificava ed escludeva chi partiva svantaggiato e contribuiva nel tempo a radicare le disuguaglianze. Non era un luogo di promozione sociale, ma di selezione, e non era funzionale all’evangelizzazione, perché l’ingiustizia allontanava i poveri dalla Parola, dal Vangelo, allontanava contadini e operai dalla fede e dalla Chiesa.

Allora si interroga su come la Chiesa possa essere significativa e incidere con il suo messaggio perché i poveri non rimangano sempre più indietro. E con saggezza e amore trova la risposta nell’educazione, attraverso il suo modello di scuola, cioè mettere la conoscenza a servizio di quelli che sono gli ultimi per gli altri, i primi per il Vangelo e per lui.

Al piccolo gregge di Barbiana, alla sua gente, don Lorenzo consegna tutta la propria vita, che prima ha consegnato a Cristo. Il motto “I Care” non è un generico “mi importa”, ma un accorato “m’importa di voi”, una dichiarazione esplicita d’amore per la sua piccola comunità; e nello stesso tempo è il messaggio che ha consegnato ai suoi scolari, e che diventa un insegnamento universale. Ci invita a non rimanere indifferenti, a interpretare la realtà, a identificare i nuovi poveri e le nuove povertà; ci invita anche ad avvicinarci a tutti gli esclusi e prenderli a cuore. Ogni cristiano dovrebbe fare in questo la sua parte.

Penso che l’esperienza di don Milani si possa rileggere con le parole che Giovanni Paolo II ha utilizzato per descrivere la figura del martire: «Egli sa di avere trovato nell’incontro con Gesù Cristo la verità sulla sua vita e niente e nessuno potrà strappargli questa certezza. Né la sofferenza né la morte violenta lo potranno fare recedere dall’adesione alla verità che ha scoperto nell’incontro con Cristo».

Gratitudine a don Lorenzo, prete inquieto e inquietante, fedele al Signore e alla sua Chiesa. Ringraziamo per la testimonianza che ci ha lasciato come impegnativa eredità.

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Quelle emozioni vissute con gli anziani

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di Giovanna Stella

Sicilia, anno 2007. Un centinaio circa di attempati sussinchi, due pullman strapieni, bagagli a non finire, dolci tipici di Sossu, vino e moscato di quello buono, tanta voglia di divertirsi, tante barzellette in prevalenza quelle un tantino zozzette, e canti e risate a non finire.Tutti alla scoperta di bellezze da ammirare e prelibatezze da gustare.

Bellissime giornate estive in quel settembre e bella compagnia per vivere 10 giorni all’ insegna della spensieratezza, attraversando templi, città, monumenti, paesaggi suggestivi, distese di fichi d’India, arancetti, le bellezza di Taormina, passeggiare ai piedi del vulcano, immergersi nel parco fluviale dell’Alcantara…

E poi ancora, tante, tantissime emozioni. All’inizio del viaggio un po’ di timore per non riuscire a gestire quel popolo in trasferta lo ebbi, ma ben presto, man mano che le ore e i giorni trascorrevano, mi rendevo conto che insieme si possono superare i disagi che qualsiasi viaggio comportano.

Quell’anno mi è capitato di accompagnare il gruppone da sola, riuscendo a sopravvivere e a gioire tanto.

Il giorno della foto, credo il penultimo, dopo il continuo girovagare, stremati ma felici, cercavamo una scalinata che potesse contenerci tutti per immortalare quel momento così bello.

Inevitabilmente, piú di qualcuno oggi non c’è più, ma li tengo ben impressi nel ricordo. Con chi è rimasto, quando capita di vedersi ci salutiamo con molto piacere da parte di entrambi, e la domanda che spesso mi sento fare è “ma di giti cussi beddhi no ni femmu più?

La mia risposta non può essere che un sorriso e un abbraccio, calorosi e pieni d’affetto.

Autostima non solo per migliorare se stessi, ma l’intero mondo circostante

Quando si è avuta una vita difficile come la mia….

di Antonio Catta

La tendenza da parte dei genitori ad isolarsi nel proprio dolore e molto forte, a volte, la presenza di un figlio disabile può mettere in discussione l’equilibrio familiare e conseguentemente quello sociale; la comunità si difenderà emarginando il nucleo familiare che a sua volta identificherà nell’handicap la causa di tutti i problemi e sarà la famiglia a scaricare sul figlio disabile le proprie frustrazioni e il senso di impotenza. Se nei genitori prevale l’amarezza e la sfiducia, la gestione delle tappe evolutive non potrà essere adeguata, verrà meno la maturazione e preparazione alla vita del figlio, poiché i genitori saranno incapaci di immaginare un futuro e un senso per la sua vita. Abbiamo imparato che l’autostima è l’arma più efficace che i genitori dei figli disabili devono necessariamente sviluppare.

Per quanto riguarda la mia persona posso dire in tutta sincerità che non so recitare, mi mostro sempre per quello che sono, con l’umore che ho: se sono contento mi mostro contento, se sono arrabbiato mi mostro arrabbiato, senza preoccuparmi di come possono reagire gli altri. Quando si è avuta una vita difficile come la mia, non ci si preoccupa di come reagiscono. Ho sempre creduto nelle mie forze e sempre creduto di farcela. Molte volte ho fallito. Sono caduto, mi sono rialzato, sono caduto ancora e nuovamente mi sono rialzato, ricominciando dal punto dove ero caduto. Dalla nascita di Maria è stato così, e lo sarà fino alla fine dei miei giorni. Se un individuo pensa che non ce la farà, non ce la farà mai. Anche se è intelligentissimo, anche se ha mille talenti. Per farcela occorre avere fiducia in sé stessi.

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Alcune considerazioni

di Piero Murineddu

Quanto su riportato è una paginetta del volume “Cara moglie, cara mamma” che Antonio Catta, vigile in pensione di Sennori, cittadina sarda che si affaccia sul golfo dell’ Asinara, due anni fa circa scrisse col validissimo contributo della moglie Maria Agostina Ruiu. Nella pubblicazione si ripercorrono la varie tappe, principalmente emotive, che hanno toccato la nascita, l’accettazione e la crescita dei loro due figli disabili Maria e Giuseppe.

In fondo indico la pagina che lo scorso settembre dedicai al lavoro letterario di Antonio e alla sua  famiglia, straordinaria seppur nell’ ordinarietà della loro vita quotidiana.

Come scrivevo allora, personalmente considero questo libro – il cui autore è uno dei soci fondatori oltre 30 anni fa di ABC Sardegna Associazione Bambini Cerebrolesi (www.abcsardegna.org) – da tenere sempre a portata di mano senza assolutamente aver fretta di arrivare all’ ultima pagina per poterlo risistemare nello scaffale. Probabilmente per volerne continuare la lettura solo in quei particolari momenti in cui si ha bisogno di soffermarsi sui tanti passaggi e concetti che vi si trovano dentro e che descrivono si la vita di un piccolo nucleo familiare, ma in fondo per riflettere su come personalmente ci poniamo davanti alla nostra personale esistenza e alle scelte continue che essa comporta per poterci considerare delle Persone Autentiche, libere dalle tante maschere che spesso i contatti sociali costringono ad indossare.

Essere se stessi, coi normalissimi limiti e con eventuali pregi, avere la libertà di poter guardare l’altro negli occhi senza dover abbassare o distogliere lo sguardo, chiunque esso sia e qualunque ruolo ricopra nella società, non avere la forzatura di fingere quel che non si è per sentirsi accettati….

Per arrivare a questo, necessariamente occorre avere una buona dose di autostima, non sempre innata ma frutto di un lavoro personale e spesso faticoso. È quanto ci dice Antonio nelle sue parole, e non potrebbe essere altrimenti, impegnato com’ è stato insieme alla moglie ad aiutare a crescere due figli “diversi”, grazie ai quali si sono arricchiti e continuano ad arricchirsi di quel tesoro preziosissimo e impagabile che è la Piena Umanità.

Su “Cara moglie, cara mamma” e alcuni diversi obiettivi nello scrivere

 

Il Governo italiano appoggia i repressori. Un esempio….

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di Giorgio Bongiovanni

L’Italia, nel 2024, mostra un volto nuovo di sé.Il nostro paese, infatti, si sta trasformando nel Sudamerica degli anni ’40 e ’50 che dava rifugio a gerarchi nazisti in fuga dopo la sconfitta del Terzo Reich nella Guerra Mondiale.

Come ADOLF EICHMANNA, uno dei principali esecutori dell’Olocausto, poi rapito dal Mossad e giustiziato in Israele, ERICH PRIEBKE(ex comandante delle SS), KLAUS BARBIE (comandante della Gestapo) o l'”angelo della morte” JOSEF MENGELE.

Da almeno un decennio l’Italia ospita criminali di guerra fascisti sudamericani. Si tratta di repressori di diversa nazionalità, argentini, cileni, uruguaiani. Ovviamente non sono migliaia come i tedeschi del Reich scappati oltreoceano grazie all’aiuto del Vaticano ma hanno le mani macchiate di sangue tanto quanto le loro.

Sono ex ufficiali dell’esercito e della marina o addirittura ex cappellani a servizio della dittatura. In Italia sono arrivati grazie al loro doppio passaporto fuggendo dalla giustizia dei loro paesi d’origine che vorrebbero processarli per crimini di lesa umanità.

Al momento sono quattro i repressori sudamericani accusati, a vario titolo, di omicidi e torture: CARLOS LUIS MALATTO (ex tenente colonnello argentino e responsabile operativo del Reggimento di Fanteria di Montagna di San Juan), JORGE NESTOR TROCCOLI (ex ufficiale dell’intelligence del Corpo dei fucilieri navali della Marina uruguayana), DANIEL OSCAR CHERRUTI (agente operativo del SIDE, la Segreteria dell’intelligence di Stato argentina) e don FRANCO REVERBERI (ex cappellano del centro clandestino di tortura “Casa Departamental” di Mendoza).

Quest’ultimo, ha ricevuto un bel regalo dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. Il Guardasigilli, infatti, ha bocciato il mandato di estradizione richiesta dalla Repubblica Argentina.

L’anziano sacerdote della diocesi di Parma è ricercato in Argentina dal 2011 con l’accusa di crimini contro l’umanità, tra i quali l’omicidio nel 1976 del 20enne peronista Josè Guillermo Beron, tuttora disperso, e di aver assistito alle sessioni di tortura cui erano sottoposti i prigionieri del centro clandestino di detenzione “Casa Departamental” dove svolgeva la funzione di cappellano negli anni della dittatura militare iniziata nel 1976.

Nel 2011, quando la procura federale emise una convocazione propedeutica all’arresto, Reverberi era già fuggito a Sorbolo (il suo paese d’origine vicino Parma). Da quel momento è iniziato l’estenuante lavoro delle autorità argentine per farsi consegnare il sacerdote.

La prima richiesta di estradizione – rafforzata anche da un mandato di rintraccio dell’Interpol – si impantanò prima in Corte d’Appello a Bologna nel 2013 e poi in Cassazione nel 2014. La seconda richiesta di estradizione del 2020, dopo una prima battuta d’arresto in Corte d’Appello nel marzo 2021, ebbe esito in Cassazione nel giugno 2022, quando i giudici ermellini annullarono la sentenza con rinvio. Di nuovo in Corte d’Appello, questa volta i giudici bolognesi hanno dato il via libera all’estradizione nel luglio dell’anno scorso. I legali di Reverberi hanno presentato ricorso che però hanno perso ad ottobre scorso in Cassazione.

A questo punto Carlo Nordio aveva 45 giorni per confermare, o meno, la decisione dei Supremi giudici e firmare l’estradizione. Ma ecco l’amara sorpresa: Nordio rigetta la richiesta. E così il sacerdote che assisteva alle torture di detenuti politici impugnando la Bibbia resta in Italia. Troppo rischioso per la sua salute, secondo il ministro, affrontare tutto l’iter di estradizione, a partire dal viaggio intercontinentale in Argentina. La valutazione del Guardasigilli, però, è superata dalla perizia stilata da un collegio medico-legale e depositata in Corte d’Appello nella quale si era accertato che “le attuali condizioni di salute di don Franco Reverberi sono compatibili con il trasferimento in Argentina”.

I giudici bolognesi che hanno disposto il via libera all’estradizione lo hanno fatto proprio sul presupposto di questa perizia e gli ermellini hanno avvalorato queste valutazioni. È chiara dunque la decisione politica del ministro dietro alla sua firma. La mossa del Guardasigilli è la cartina tornasole della natura di questo governo: avverso ai giudici e amico dei fascisti.

Il governo Meloni da oltre un anno conduce infatti una guerra contro la toga, demolendo gli strumenti in possesso all’autorità inquirente e giudicante. Demolizioni che si aggiungono alla delegittimazione di quegli addetti ai lavori che compiono il loro dovere seguendo il codice. Al contempo, l’esecutivo, non ha nascosto, a partire dal presidente del Senato Ignazio La Russa, simpatie e nostalgie per il Duce e per quanti provengono dalla galassia fascista e neofascista. In questo senso, la decisione di salvare Reverberi dall’estradizione potrebbe essere un gesto di cortesia del ministro, e quindi del governo, al neo insediato presidente argentino Javier Milei il quale, già da quando era in campagna elettorale, non ha nascosto inquietanti sentimenti di rappacificazione con i repressori fascisti della dittatura. Molti dei loro figli, infatti, oggi ricoprono cariche di punta nelle forze armate. È il caso, per citarne uno, del generale di brigata Carlos Presti, figlio del genocida Roque Carlos Albert Presti, che Milei ha messo a capo dell’esercito.

Ad ogni modo, il ministro Nordio dovrà rispondere della sua decisione a tutti quei familiari di ex detenuti politici torturati sotto lo sguardo dell’allora cappellano Franco Reverberi che ancora attendono giustizia. E dovrà dirci se la certezza della pena vale per gli aguzzini fascisti o solo per i ladri di polli.

* da antimafiaduemila.com

 

Intanto il il generalone “scrittore” che fa?

 

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…e quest’ altra notizia per farci stare tranquilli davanti ai cattivi, che sono naturalmente sempre gli altri…

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Intanto, a Gaza…

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I “MAI PIÙ” SEMPRE PIÙ RELATIVI

Di Pier Giorgio Ardeni

In altre occasioni, per altre devastanti guerre, intellettuali, giornalisti e politici si erano mobilitati, denunciando il diritto dei popoli a esistere e rifiutando sempre l’idea che un conflitto possa risolversi con l’eliminazione fisica, lo sradicamento, l’allontanamento. In questo caso, invece, mentre ci sono state manifestazioni di piazza, il mondo della cultura e della politica è rimasto silente.

Il nuovo anno è arrivato e il mondo procede lungo i binari già presi. Sono binari morti, per lo più, vicoli ciechi dai quali non c’è uscita, se non tornando indietro. A provare a guardarlo con distacco, se mai si possa, si prova incredulità se non disdegno. Certo, come sempre c’è una superficie al di sotto della quale, si pensa, c’è il ribollìo delle passioni, delle lotte, l’eterna rabbia dei maltrattati contro gli aguzzini, degli sfruttati contro gli sfruttatori, degli infelici molti contro i felici pochi. Ma la profondità, come dice il poeta, va cercata in superficie. E noi vediamo un mondo di conflitti, di morte, di predominio, dove la violenza si accompagna all’assuefazione, una violenza che ci pare ogni volta più brutale.

Come diceva un altro poeta «la storia insegna che dalla storia non si impara nulla». Già, non abbiamo imparato nulla. Ma ciò che è più grave è che la nostra cultura non ha imparato nulla e mai come in questo tempo sta mostrando quanto sia regredita.

In queste settimane – grazie anche all’iniziativa del governo sudafricano che ha portato Israele davanti alla corte di giustizia dell’Aia – si è tornato a parlare di “genocidio”, un termine macabro che indica l’eliminazione sistematica di una popolazione. Un termine moderno che è stato usato per indicare ciò che fu fatto ai nativi americani, agli aborigeni australiani, ai “bushmen” della Namibia, agli armeni, agli ebrei in Europa (in passato, per quanto meno evoluti fossimo, non eravamo mai stati capaci di questo).

Certo, è anche questione di “modalità”: l’eliminazione di centinaia di migliaia di persone, come accadde sulle trincee europee durante la Prima guerra mondiale, a Dresda, a Hiroshima e Nagasaki, non riceve lo stesso appellativo solo perché fu più circoscritta, ma non meno brutale.

Tutti casi che trovarono “giustificazione”, al tempo. Ma oggi, in reazione ad un attacco terroristico di ampia portata – mai attacco palestinese aveva causato tante vittime – la reazione del governo di Israele è stata di quelle commisurabili a ciò che fu fatto a Dresda o a Hiroshima.

Oggi come allora, la domanda è la stessa: era davvero necessario?

Quale logica militare e quindi politica può giustificare la distruzione e la morte di decine di migliaia di civili indifesi?

Quasi più che la stessa questione – se sia o meno “genocidio” – ciò che appare agghiacciante è l’evidente tentativo di sradicare la popolazione di Gaza dal suo insediamento, eliminandola. L’aggravante, tra l’altro, è che quella popolazione, nella Striscia – «un campo di concentramento a cielo aperto» era stato chiamato prima dell’invasione israeliana – vive in condizioni relegate di oppressione da decenni.

Più di cento giorni sono trascorsi da quell’attacco di Hamas e da quando Israele ha iniziato a radere al suolo le città della Striscia. I media e il mondo dell’informazione dominante ne hanno parlato, certo, raccontando la guerra dalla parte degli assalitori, che cercavano la giusta vendetta. Non l’hanno fatto «dalla parte delle vittime», in fondo complici per aver covato l’odio e albergato gli assassini terroristi.

Partiti, governi e organizzazioni sovranazionali hanno reagito giustificando l’operato di Israele perché «attaccare Israele è antisemitismo», quindi la sua reazione è sempre legittima, quale che sia. Mai come in questa occasione Israele è stato fatto oggetto di simpatia in nome delle comuni radici, della comune «civiltà occidentale».

Una civiltà che, invece, è stata spazzata via. Silenti, se non compiacenti, sono stati gli intellettuali e il mondo della cultura, nella sua grande maggioranza. Il conformismo ha prevalso sull’onestà intellettuale, la cecità sulla verità. Nessun coraggio, nessuna indipendenza: la soluzione genocidaria è stata accettata in nome di più supremi valori. Nessuno si è premurato di spiegare perché a Israele sia concesso di incarcerare migliaia di persone, invadere e distruggere migliaia di abitazioni, costringere alla fuga milioni di palestinesi. E tutti hanno affermato che non si tratta di genocidio e, quindi, che tutto quanto sta accadendo rientra nel novero di ciò che è accettabile (come Dresda, come Hiroshima).

Dopo l’ultimo grande genocidio, quello ebreo compiuto in Europa dai nazisti non solo tedeschi, si era detto «mai più». Ma, ora è chiaro, era un «mai più» relativo. Ci sono e ci saranno sempre degli “altri” ai quali non si applica.

Il silenzio dei media e della stampa, degli intellettuali e del mondo della cultura su quanto accade a Gaza sull’estensione e l’efferatezza del massacro di civili mostrano quanto la nostra “civiltà” sia arrivata al capolinea.

Il conformismo, generato dal sonno della ragione, e l’assenza di indignazione sono il segno di quella fine. Un tempo, si diceva, i diritti dell’uomo, dell’umanità, sono valori universali. In nome della ragione – non siamo più “barbari”, siamo “civilizzati” – non saranno più accettati lo sterminio di massa e l’eliminazione fisica di persone e popoli. Ma era anche questa un’idea “universale” relativa, evidentemente, che riguardava una parte del mondo e una concezione del mondo, la nostra.

In altre occasioni, per altre devastanti guerre, intellettuali, giornalisti e politici si erano mobilitati, denunciando il diritto dei popoli a esistere e rifiutando sempre l’idea che un conflitto possa risolversi con l’eliminazione fisica, lo sradicamento, l’allontanamento.

In questo caso, invece, se forte è stata la mobilitazione di migliaia di persone che sono scese in strada per manifestare, più silente è stata la reazione del mondo della cultura e della politica. Complice, forse, quel senso di impotenza che nasce dal fatto che le parole, oggi, finiscono facilmente nel tritacarne dei media, amplificato dai “social”, che omogenizza pensieri e opinioni nella maionese che regolarmente “impazzisce”, contrapponendo drammaticamente chi è “pro” da chi è “contro”. Rendendoci sempre più incapaci di distinguere e prendere parte con coscienza. Ma anche questo, a pensarci, è un frutto del «capitalismo della conoscenza» che, così facendo, è in grado di manipolare le coscienze delle masse, svuotandole della loro carica critica.

Perché, vien da chiedersi, non vi è stata a sinistra – in Italia, in Europa – una reazione forte contro l’evidente operazione di annichilimento di una popolazione oggi in atto a Gaza?

Il filo-semitismo tedesco, proporzionale solo alla colpa accumulata per un antisemitismo atavico, obnubila la Germania. L’Europa, dall’Atlantico agli Urali, ne è succube, nel coacervo irrisolto delle sue radici cristiane. Ma le sinistre, dopo due secoli, dovevano avere assimilato il principio che non c’è emancipazione senza coesistenza di popoli e culture. La reazione della cultura e della politica dei Paesi occidentali, invece, segnano il fallimento della nostra civiltà, che non ha mai dismesso il principio della forza – che ha segnato il colonialismo, l’imperialismo – per far valere il diritto alla propria esistenza, che si afferma solo negando l’altro.

Un fallimento culturale con il quale dobbiamo fare i conti. Abiurando, rifiutando, distaccandoci. La ragione illuminista – che avevamo coltivato con senso di superiorità – ha generato il mostro della sua negazione, in una regressione senza apparente fine.

Così, nel vuoto, brancoliamo abbracciando le centinaia di migliaia di giovani delle comunità ebraiche e musulmane, dei giovani “cittadini del mondo” che di quella cultura si sono nutriti e che guardano avanti. Non lasciamoci ammorbare, reagiamo come i tanti di noi, ancora allerta, ci chiedono. Siamo ancora in grado di discernere. Oltre l’impotenza, possiamo essere in grado di alzare la voce e far sentire parole di verità.

Solinas Christian? Vediam vediamo….

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di Pier Giorgio Pinna

C’è chi pone il problema della tempistica sui nuovi guai giudiziari per il presidente della Regione:

non sulla gravità delle imputazioni.

non sul silenzio di troppi media – soprattutto sardi – quando le stesse accuse per la prima volta vennero mosse anni fa;

non sulle omesse risposte di allora;

non sul fatto che quelle contestazioni non siano le uniche ma solo le ultime;

non sullo sfascio della sanità pubblica;

non sui passaporti anticovid Made in Capoterra;

non sui trasporti in tilt e la continuità territoriale a pezzi;

non sui generali (e miserevoli) fallimenti del centrodestra nel suo complesso.

In definitiva: niente, o quasi, viene rimarcato su una delle più penose giunte della storia autonomistica.

Al contrario appaiono tranquilli, anche in una situazione così allarmante, moltissimi politici e commentatori. Quelli che continuano a discutere solo di governabilità ante e post voto, di minimi accordi e di intese destinate a durare lo spazio di giorni.

E intanto quasi mai si parla di come i nodi storici di una Sardegna in agonia possano essere sciolti.

Nulla di nulla, pure da questo punto di vista, con poche eccezioni.

Non c’è da restare sorpresi, del resto. E nemmeno da meravigliarsi per la paura di cantare fuori dal coro prevalente.

È vero: alla vigilia dell’apertura delle urne è caduta l’ultima foglia di fico. Ma diciamocelo con franchezza: se fosse stato rieletto, magari a furor di popolo, che cosa avrebbe potuto fare Solinas di peggio rispetto a quello che ha già prodotto in questi cinque anni?

La Vita Piena di Arrigo Chieregatti

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di Ilaria Venturi       (bologna.repubblica.it)

“È sempre stato un viaggio verso l’ignoto, ma è stato possibile perché ci siamo incontrati e non ci siamo lasciati mai soli” ricordava Arrigo Chieregatti al suo 50° di sacerdozio.

Il prete che preferiva gli ultimi ai primi ha concluso il suo viaggio, anche se questa espressione non gli sarebbe piaciuta “perché è solo un passaggio all’altra riva del sé”, ripeteva, “dove potremmo incontrarci tutti senza differenze, là dove dio ci aspetta”.

Con lui se ne va un pezzo di storia della città e della chiesa bolognese, della sua anima conciliare, se ne va un maestro, un amico per i tanti che lo hanno conosciuto, per le centinaia di coppie che ha sposato, per i bambini battezzati diventati adulti, per chi ha accompagnato nella malattia e nel dolore, per i suoi studenti, per chi era in cerca di senso.

Arrigo Chieregatti non era solo il parroco a Pioppe di Salvaro, da 30 anni, esiliato in Appennino da una chiesa clericale che non lo capiva nel suo essere profetico. Era psicologo, monaco, pedagogista, attivista, professore universitario, era pranoterapeuta, cooperante, eremita. Un compagno di strada. Nel volume “Sulla strada della vita, ancora e sempre” che amici e parrocchiani gli hanno dedicato pochi mesi fa per i suoi 90 anni Matteo Zuppi scrive: “Se non mi lascio attrarre dal silenzio mai sarò in grado di ascoltarne la voce. Arrigo ha accettato questa sfida e l’ha vinta, come testimoniano i tanti frutti che ha donato nella sua vita”.

Il mistero, la ricerca del sacro, lì dove don Arrigo rompeva gli steccati della religione. Indicando la necessità di cambiare le rotte, l’esigenza di trasformare modi di pensare e stili di vita.

Studi classici, il seminario a Bologna, l’esperienza dei preti-operai in Francia nel 1959: comincia così il cammino di Arrigo prete. Nel 1962 monsignor Luigi Bettazzi lo vuole assistente diocesano della Fuci, successivamente Dossetti gli consiglia di prendere la strada dello studio, si laurea in Teologia a Milano, insegna Psicologia in seminario dal 1964 al 1968, poi si specializza in Psicologia religiosa a Lovanio.

Nel ’68 Arrigo condivide l’esperienza dell’abbé Pierre e delle comunità di Emmaus: far vivere i poveri con i rifiuti dei ricchi, una strada che si trasformò due anni dopo in dubbio (“mi chiedevo se era possibile e giusto”), un interrogativo che lo riportò a Bologna. Solo, dentro una chiesa che mal tollerava il suo agire “secondo la legge dell’amore e non dell’obbedienza”. Il “comunista”, quello che ospitava ex preti nella sua casa, l’originale dai lunghi capelli. Anni in cui don Arrigo lavora nei laboratori per disabili con don Saverio Aquilano, segue la direzione della rivista Jesus Caritas, organizza i viaggi in Algeria e, dunque, il deserto con Carlo Carretto, dove scrive il suo primo libro “Sulla strada” e dove impara “l’autonomia dall’autorità, la responsabilità, l’abbandono, il saper guardare il tempo che passa”.

Arrigo psicologo incontra lo psichiatra Franco Basaglia che lo volle in Veneto “perché qui sono ossessionati dal peccato”, lavora come psicoterapeuta presso l’Ausl, segue il Centro medico sociale per adulti psicotici gravi.

E ancora, dalla parte degli ultimi nel mondo. Ad Hanoi, in Vietnam, si occupa di bambini di strada, è responsabile di progetti europei di cooperazione in Cambogia e Laos, partecipa al Gruppo di Lugano, osservatorio sugli effetti della globalizzazione, con Bruno Amoroso, edita l’edizione italiana della rivista Interculture con l’associazione Dialoghi.

L’incontro con l’Oriente lo porta in India, suo il rapporto strettissimo con il benedettino Henri Le Saux, protagonista del dialogo tra Cristianesimo e Induismo, profonda è l’amicizia con il teologo e filosofo Raimon Panikkar. Una storia, la sua, che si racconta anche attraverso le amicizie con Arturo Paoli e con Bede Griffiths, altro grande interprete della sintesi tra Occidente e Oriente.

Il dialogo tra culture, l’incontro tra religioni, la meditazione: il tutto portato tra i monti dell’appennino, a Malfolle, nell’ashram della Trasfigurazione che ha fondato e guidato insieme a Luisa Bussandri.

E chi lo fermava, quel don che a Pioppe insegnava religione alla materna – ha formato schiere di educatori sulla scuola modello don Milani – portava i bambini del catechismo e i genitori in moschea, al campo nomadi, dagli ortodossi e dagli ebrei. Arrigo e i tanti viaggi dove era più che una guida, in Israele, Cina, Africa, sul monte Sinai all’alba del Duemila, a Varanasi, altra alba sul Gange, tra gli ultimi degli ultimi.

“Non sorprende – scrive il teologo Paolo Trianni – che nell’ambito di una stessa riflessione potesse citare san Tommaso e Ivan Illich”. La sua biblioteca è immensa, specchio della sua cultura. Ha scritto libri di commento ai testi sacri, letture spirituali, saggi, articoli. Indagava la dimensione del sacro attraverso i simboli, recuperava nella liturgia la potenza del rito, nei mistici e nei poeti individuava la chiave ermeneutica per leggere il mondo, predicare il Vangelo (le parabole e la loro poetica interpretazione), per capire la vita e la morte. Le sue omelie, che arrivavano ai singoli, che scardinavano alibi e comode certezze, sono raccolte in più volumi, l’ultimo s’intitola “Per amore, solo per amore”. La cifra del suo cammino e della sua fede.

Era in marcia a Sarajevo quando la città era assediata e sotto le bombe. “Smilitarizzare le culture”, scriveva. E non faceva sconti: “Non possiamo chiamarci fuori dalle decisioni dei nostri governi, non è vero che i nostri governanti hanno deciso la guerra senza di noi, sapevamo tutti che la nostra ricchezza vive sul commercio di armi, che l’Italia le produce: abbiamo mosso un dito? Non possiamo solo protestare o scandalizzarci quando bombardano. Che cosa credevamo, che tenessero lì le armi da vedere?”

“Dialoghi tra culture e popoli. Un uomo di pace – scrive la sindaca di Marzabotto Valentina Cuppi – Nei momenti più bui il conforto più potente è stato il suo, unico nella capacità di sostenere il male altrui. Ciao immenso Arrigo”. Ricorda l’amico Alessandro Alberani: “Era la sua umanità e disponibilità il segno più grande: aveva per tutti una parola di conforto”. Il sindaco Matteo Lepore esprime il cordoglio della città ai famigliari, il fratello e il nipote, e alla chiesa bolognese: “Bologna perde una persona di grande umanità e valore da cui ha imparato molto”. E frate Benito Fusco lo saluta così: “È andato nel respiro di Dio”.

Il prete “apripista”, lo ricorda Matteo Zuppi, e per questo scomodo alle coscienze di tutti, il prete che ha anticipato la chiesa in uscita di Papa Francesco, comunque già oltre. “Un realista sognatore, un chiacchierone silenzioso – lo definì Canevaro – un radicato nomade, un digiunatore buona forchetta, un burlone serio, un impaziente che sa attendere”. Capace di vivere gli opposti e di accogliere, sempre, “perché non c’è un unico modello di fede, di speranza, non c’è un unico modo di amare”.

Condividere, era il suo invito costante, per portare a ridere chi piange, per non lasciare solo o indietro nessuno, per giocare con la vita, “come fa Dio con noi, perché questo significa amare”. E per accettare di “essere conquistati dalla verità”, per inseguire bellezza e visioni. Nell’incontro con l’altro. Senza insegnare, don Arrigo Chieregatti ha insegnato e indicato a tanti una strada. Da percorrere, “se vuoi, se vorrai” sussurrava. Con quel sorriso, dolcissimo, che mancherà.

Il “doveroso” bisogno d’incontrare e confrontarsi con l’ altro

Un’ intervista con la videocamera posizionata male ma con parole di grande saggezza