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Ecco, questa mancava nell’ elenco già lungo delle c……

di Piero Murineddu

52enne bolzanina, dall’ anno scorso senatrice e pure, almeno all’apparenza, bonazza (come verrebbe definita passando sculettante davanti al bar a Sossu), sempreché si riesca a sopportarne la vista dell’ insieme e ancor più il fine ed elegante pensiero. Ma d’altronde fa parte di un partito chiamato “Coraggio Italia”, e difatti ci vuole coraggio, moooolto coraggio per stare al cospetto di siffatta signora. Se poi, come leggo, è autrice di un libro dal titolo “Il cuore oltre gli ostacoli” la cosa è bella che completa: coraggio più che cuore per superare il primo ostacolo alla Decenza, ovvero lei stessa.

Èia,MICHAELA BIANCOFIORE si chiama. Hai sentito la sua ultima sparata? No? E io te la riferisco subito: per quanto riguarda l’esodo biblico di persone che attraversano il Mediterraneo (quando riescono!), Sua Indecenza propone di costruire un’ isola artificiale al centro di quello ch’è diventato uno sconfinato cimitero. Per cosa? Ma logico, per rinchiuderci appunto questi passeggeri disperati che credono ancora che l’ Europa sia un continente civile. Si, la cosa sa dell’ incredibile, ma ti riporto direttamente l’ articolo, almeno non ti rimane il dubbio che il cervello di Piero sia completamente fuso.

Intanto in Sardegna coloro che bramano d’occupare una poltrona tra gli scranni del Consiglio Regionale Sardo, o addirittura diventare presidente dell’ isola o assessore, stanno affilando le armi in vista delle prossime consultazioni, probabilmente nel prossimo febbraio.

Tra questi vi è un raggruppamento in via di formazione che per ora si è dato il nome di “Grande Centro” o qualcosa di simile, che, manco a dirlo, spera di far entrare nella propria armata transfughi delusi da destra, sinistra, dall’ alto, dal basso e da qualsiasi parte provengano.

Dal mezzo si distingue nitido il vocione da bullo di un tale che, viste le sue vicissitudini giudiziarie, considero purtroppo a tutti gli effetti un Disonorevole, almeno sin quando non darà prova di sincero pentimento per tutte le mascalzonate che vi sono elencate nel suo curriculum. Siccome oggi sono generoso, riporto anche l’ articolo tratto da La Nuova Sardegna di ieri.

Per tornare all’ amazzone Michaela, vuoi vedere che questi aspiranti onorevoli sardi sono strettamente collegati al suo pensiero, e quindi probabili alleati politicamente?

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Smetto achí sinnó mi viene la nausea. Ecco l’articolo e anche il video:

https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/09/21/la-surreale-proposta-di-biancofiore-a-la7-costruiamo-unisola-per-migranti-gli-emirati-arabi-un-modello-imbarazzo-in-studio/7299870/amp/

PS
Non so se l’ articolo sia leggibile, ma questo non è affar mio

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Morire di carcere

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di Stefania Carnevale

(doppiozero.com)

Continua a cadenze inesorabili, come se fosse un fatto naturale, una legge statistica da accogliere nella sua nuda oggettività, l’ondata di suicidi nelle nostre prigioni. Tra il 1992 e il 2022 si sono tolte la vita 1655 persone e quest’anno sono già 51 i casi registrati, gli ultimi tre proprio in questi giorni. L’anno scorso è stato il più nero della nostra recente storia carceraria: 85 persone si sono uccise negli stabilimenti penitenziari. Mai negli ultimi trent’anni si era raggiunta una soglia così alta di perdite di persone che lo Stato aveva in custodia.

Il fenomeno dei suicidi, al ritmo inquietante di uno ogni pochi giorni, tocca trasversalmente tutte le categorie di detenuti: i condannati, gli appena arrestati, gli imputati che attendono una sentenza, le donne e gli uomini, i giovani e i vecchi. Le donne e i giovani, nell’ultimo anno e mezzo, sono stati particolarmente rappresentati nel macabro inventario e gli ultimi due mesi ne hanno dato drammatica riprova, con le due detenute morte quasi contemporaneamente nel carcere di Torino e i detenuti appena scomparsi a Milano, Roma e Busto Arsizio.

Il ripudio costituzionale della pena capitale e delle violenze fisiche e morali sulle persone private della libertà non riesce a impedire supplizi autoinflitti da detenuti e detenute per cui la reclusione varca il limite della tollerabilità. Vi si pone allora fine con gesti deliberati, ora impulsivi, ora meditati, ora perseguiti con disperata convinzione: impiccandosi alle grate delle finestre, al blindo, soffocandosi con il gas, lasciandosi morire di fame, inascoltati.

C’è poi un numero incalcolabile di persone che compie quotidianamente atti di autolesionismo (più di 13.000 nel solo 2021 secondo i dati del Garante nazionale), tagliandosi, cucendosi le labbra, ingoiando pile, detergenti, quel che c’è sottomano, e una quantità enorme di casi in cui i propositi suicidari vengono sventati dall’intervento della polizia penitenziaria.

Il carcere, per la nostra Costituzione, dovrebbe essere luogo di umanità, di diritti tutelati, di trattamenti rispettosi della dignità e quello della detenzione dovrebbe essere tempo di recupero sociale, di riabilitazione, di preparazione al ritorno in società. L’ambizione delle pene, compresa quella detentiva che da due secoli è il castigo per antonomasia, è infatti quella di restituire al mondo libero persone rinnovate, che non ricadano in comportamenti criminali.

Che la reclusione porti alla morte, invece che alla chance di una nuova vita rispettosa delle regole, è allora uno scandalo nei cui abissi bisogna guardare. Il carcere, immancabilmente presentato come risposta ai molti mali del mondo, dovrebbe invece diventare una grande domanda. Ciascuno di noi dovrebbe interrogarlo, questionare l’istituzione penitenziaria, che ci è di continuo offerta come soluzione ai problemi (vecchi e nuovi) che attanagliano le società organizzate: la devianza, la marginalità, il disagio psichico, quello giovanile, l’immigrazione, le dipendenze, le piccole e grandi meschinità quotidiane.

Che i luoghi di detenzione siano i meno adatti ad assolvere compiti di riabilitazione sociale è stato chiaro sin dalla loro nascita e durante tutto il loro esuberante sviluppo. Il carcere fiorisce come strumento di punizione tra la fine del settecento e i primi decenni dell’ottocento, proprio per superare i supplizi corporali che per secoli erano stati lo strumento principale per sanzionare i comportamenti criminali. Da luogo di attesa e puro contenimento divenne tempo da sfruttare per ottenere un’educazione al lavoro e favorire ripensamenti sulle proprie scelte di vita.

Ma – da subito – il penitenziario ha rivelato le sue falle, dimostrando che segregazione, separazione, incapacitazione, non sortiscono quasi mai gli esiti sperati. Già a metà ottocento erano chiari i frutti avvelenati dell’istituzione carceraria: suicidi, impazzimenti, incrementi dei tassi di recidiva. Eppure, nonostante l’evidenza di questi smacchi, che sono andati ripetendosi e cronicizzandosi, si tende ancora a riporre nelle prigioni un’enorme fiducia.

Il successo del carcere si deve alla sua apparente capacità di soddisfare tutti gli scopi che le pene perseguono: retribuire, ossia ripagare chi ha violato le regole della nostra convivenza civile; dissuadere gli altri dal trasgredirle a loro volta, per il timore di patire la detenzione; rieducare i condannati, grazie a trattamenti individualizzati che preparino al rientro in società.

Tutti e tre gli obiettivi fanno leva sul dolore, sulla pena appunto, che è patimento e afflizione legittima. La sofferenza dei colpevoli ci appaga, perché placa il nostro senso di giustizia, la sofferenza disincentiva i comportamenti criminali, la sofferenza cura, purifica, guarisce il deviante che grazie alle privazioni comprenderà il male commesso e cambierà strada. Più intenso sarà l’affanno, più la risposta penale darà i suoi risultati di rivalsa, deterrenza, rieducazione.

Eppure, che pene esemplari disincentivino i consociati dalla commissione di reati non è mai stato dimostrato. Gli studi sui tassi di criminalità negli Stati dove è prevista la pena di morte provano anzi il contrario e non è difficile verificare che anche nel nostro paese gli aumenti di pena per questo o quel reato non ne abbiano provocato evidenti flessioni. D’altro canto, che il soffrire riabiliti il reo è una convinzione a sua volta fallace. In carcere cova una sofferenza esasperata e rabbiosa, non quella salutare che ci figuriamo nelle nostre fantasie sulla detenzione.

Qualche detenuto molto predisposto forse ogni tanto sperimenta la forza purificatrice del dolore. Ma di regola ci si tormenta sulle piccole e grandi difficoltà quotidiane e non sul male commesso. Telefonare a casa, avere i soldi per le sigarette, rivedere un figlio, togliere un dente che duole tremendamente dopo un’attesa di anni.

Per comprendere la serietà della questione, bisognerebbe aver visto, ascoltato, annusato la vita in carcere. Non solo per gli ambienti angusti, scuri, sovente sovraffollati, non di rado degradati, non solo per il freddo glaciale in inverno, il caldo impossibile d’estate, le grate alle finestre che dopo pochi anni rovinano la vista, le docce condivise con decine di persone, spesso senz’acqua calda, i forti limiti a quello che si può mangiare, cucinare, acquistare e non solo per le angherie quotidiane, praticate e subite, le convivenze moleste, quelle pericolose, quelle deleterie.

Ma anche per la separazione, lo stigma, la solitudine, oggi molto più bruciante rispetto a qualche decennio fa, quando non eravamo immersi in un groviglio di comunicazioni ininterrotte e connessioni sempre attive. E ancora la sessualità negata, la genitorialità impedita, lo sfilacciarsi delle relazioni con i familiari, la perdita di autonomia, la mancanza di orizzonte, il deteriorarsi della salute, fisica e mentale, che naturalmente ne consegue.

Tutto questo accade nonostante gli innegabili sforzi, l’encomiabile impegno, la maestria nell’ottenere qualcosa avendo quasi nulla tra le mani che dimostrano quotidianamente direttori, educatori, personale di polizia. E capita sebbene gli sforzi, l’impegno e persino la creatività vengano profusi nell’istituzione penitenziaria da secoli, con risultati ben lontani dall’essere appaganti. Sono gli operatori del carcere, quelli in trincea a cui si chiede l’impossibile con scarsissimi mezzi, ad essere i più feriti da una situazione così tragica.

Chiunque lavori in un istituto penale si trova a dover fare i conti con l’ombra incombente della disperazione che può tracimare da un momento all’altro in un gesto estremo. È un’angoscia quotidiana con cui si deve imparare a convivere, sebbene sia quanto di più lontano dal senso costituzionale della pena.

È capitato anche a me, più volte, quando pochi anni fa mi sono trovata a svolgere il difficile compito di Garante dei diritti delle persone detenute. A pochi mesi dalla nomina un giovane, straniero, arrestato da poche ore, si è suicidato nel carcere della mia città. Quando sono arrivata il corpo era ancora nella cella, dove non sono riuscita ad entrare. Qualche tempo dopo ho incrociato lo sguardo scosso di un poliziotto, che aveva appena impedito ad una persona d’impiccarsi, tirandola giù all’ultimo momento. Diceva di star bene, di non aver bisogno di sostegno, mentre i suoi occhi scombinati dicevano l’opposto. Dopo qualche mese ancora, lo sguardo stanco e afflitto della direttrice del carcere fissava insieme al mio la stanza della terapia intensiva dove attaccato alle macchine stava un detenuto quasi riuscito nel suo intento.

Chi avesse dubbi sulla certezza della pena, intesa come sicura sofferenza dei carcerati, può star tranquillo: nei nostri istituti detentivi si pena molto. Ma maneggiare la sofferenza altrui, dosare il dolore legittimo affinché nuoccia, sì, ma senza esagerare, è operazione difficilissima se non impossibile. I suicidi e gli atti di autolesionismo ne sono la tragica dimostrazione.

Chi studia il sistema penale e le sue evoluzioni sa che l’umanità delle pene, il rispetto dei diritti degli imputati e dei condannati sono tra i portati più preziosi del progresso dei nostri ordinamenti, mentre la benevolenza nel punire, la mitezza dei castighi, l’incentivo ai buoni comportamenti (ben più che l’accanimento su quelli cattivi) hanno effetti benefici sulla sicurezza collettiva. È controintuitivo, forse disturbante, ma la storia delle sanzioni penali, l’osservazione empirica, le raccolte di dati, le sperimentazioni condotte in tanti paesi lo hanno dimostrato.

Le «pene» (al plurale, per la nostra Costituzione) non si esauriscono nel carcere, che non è soluzione ottimale ma un male (forse) necessario per un numero limitatissimo di casi, quelli più gravi. Per tutti gli altri, ci sono diversi modi per punire, altre vie per segnare una discontinuità dal passato criminale, per restringere la libertà, per controllare gli autori di reato o gli imputati ritenuti pericolosi: misure alternative, pene sostitutive, vincoli diversi dalla custodia in carcere.

Sono strumenti punitivi o cautelari che hanno meno controindicazioni, meno costi sociali, umani, economici e tuttavia vengono guardati con costante diffidenza, perché l’amara medicina del carcere esercita la sua malia. Bisognerebbe invece diffidare quando, come in questi giorni, quella soluzione viene offerta, ancora una volta, come rimedio elettivo e universale. Occorrerebbe chiedersi con quali effetti, con quali costi, con quali controindicazioni, con quali comprovati benefici.

Dialoghi sulla pace a Roma

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(santegidio.org)

Si è svolto mercoledì 20 settembre a Roma il confronto tra Maurizio Landini e Andrea Riccardi su

“L’Italia ripudia la guerra”

 

Ad aprire il dialogo sul tema della pace Landini, il segretario della Cgil:

“Le guerre peggiorano sempre, in modo drammatico, le condizioni di vita di un paese. Occorre fare di tutto per arrivare ad un cessate il fuoco. Si può dire che finora il Vaticano è stato l’unico soggetto a mobilitarsi per la pace. La guerra in Ucraina è all’origine di tanti problemi economici che viviamo e incide anche sul cambiamento climatico”.

Di fronte ad una “spinta al riarmo in tutto il mondo”, Landini ha affermato che “non è un’utopia pensare di bandire la guerra come strumento di regolazione dei conti tra gli Stati”. Ha parlato di “crisi della democrazia” in Europa: “Siamo di fronte ad una complessità di problemi. Invece di parlare solo del fenomeno dell’immigrazione, come si sta facendo in questi giorni, preoccupiamoci piuttosto della forte emorragia di giovani italiani che ogni anno partono per lavorare all’estero”. E, con una battuta: “Il problema non è chiudere i porti ma gli aeroporti”.

Andrea Riccardi ha affermato la necessità di “ricreare, nella società, un mondo di corpi intermedi che sta sparendo e che invece è fondamentale per garantire la pace. L’articolo 11 della Costituzione, che parla del “ripudio” della guerra era espressione di una cultura di pace maturata durante la seconda guerra mondiale e messa da parte dopo il 1989, quando ha prevalso l’idea provvidenziale del mercato. Non abbiamo lavorato come si doveva sulla cultura che si era espressa con la caduta del Muro di Berlino. Tanti giovani sono cresciuti negli ultimi decenni con la cultura dell’io e non quella del noi”.

Riccardi è poi passato a descrivere nei dettagli la grande sofferenza del popolo ucraino a 19 mesi dall’inizio del conflitto, “una guerra che viene pagata soprattutto dai poveri”. Occorre quindi “ritessere una cultura di pace, ciò che si sta facendo dopo la manifestazione del 5 novembre scorso in tanti modi diversi. C’è una domanda della gente, lo abbiamo visto a Berlino nell’Incontro internazionale promosso da Sant’Egidio che aveva come titolo ‘L’audacia della pace’. Ci vuole audacia se si vuole fermare la guerra, un’audacia che è fatta di sogno e, al tempo stesso, di realismo del negoziato. In realtà, sta crescendo anche l’idea di una soluzione diplomatica: in questi giorni si riparla con sempre più insistenza di piani di pace: della Cina, della stessa Ucraina, della missione del cardinale di Zuppi e di altri tentativi.
Ma occorre che anche l’Europa giochi il suo ruolo e soprattutto che riacquistino voce i ‘senza potere’ di cui parlava Vaclav Havel: oggi, in tanti, vogliono riavere potere sul mondo e chiedono pace”.

*Dialogo completo:

https://www.youtube.com/live/3zFXrUquppw?si=_OF9oM0K5qVy820L

Onore alla memoria di Rosario Livatino

QUEL 21 SETTEMBRE DEL 1990 FU UN TRISTISSIMO GIORNO, E NON SOLO PER LA FAMIGLIA DEL GIUDICE LIVATINO, MA ANCHE PER COLORO CHE NONOSTANTE TUTTO CONTINUANO A CREDERE NELLA GIUSTIZIA (Piero)

da ” avvocatisenzafrontiere.it”

Venne vigliaccamente trucidato giù nel vallone, braccato come un animale ferito, dai sicari della «massomafia», contro la quale il giudice aveva diretto sagacemente la sua azione, attraverso mirate indagini patrimoniali, scoperchiando una vera e propria Tangentopoli, su cui prima per decenni la Procura di Agrigento aveva chiuso entrambi gli occhi.

“Giudice ragazzino”. Così l’aveva ingenerosamente battezzato l’ex Presidente della Repubblica, Cossiga, sempre pronto a scendere in campo quando le indagini della magistratura giungevano a toccare il cosiddetto «quarto livello», cioè quello dell’intreccio, tra mafia, politica, affari, massonaria, servizi segreti.

Questa è la storia dell’assassinio rimasto “senza movente” del magistrato ROSARIO LIVATINO che «giovane» lo era davvero. Due settimane più tardi se non lo avessero eliminato avrebbe compiuto 38 anni.

L’allarmante esternazione proveniente della più alta carica dello Stato non era certo un complimento.

“Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno? …

Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta”. Parola di Cossiga.

Parole offensive, ingiustificate, sprezzanti.

Come altrettanto offensive e sprezzanti saranno quelle poi pronunciate dallo stesso Cossiga contro il Procuratore di Palmi, Agostino Cordova, che “ragazzino” non era, ma aveva avuto anche lui il torto di indagare sui santuari delle massomafie.

Affermazioni volte ad intimidire, delegittimare e scavare intorno a quei magistrati scomodi, a quegli uomini delle istituzioni che non piegano la testa, una trincea sempre più incolmabile di isolamento, solitudine e discredito.

Rosario Livatino era un servitore fedele, silenzioso e infaticabile della giustizia, un vero uomo delle istituzioni di cui tutti gli italiani sono fieri e sarebbero felici se gli altri magistrati ne seguissero l’esempio. Alle pubbliche dichiarazioni preferiva il quotidiano scrupoloso impegno, senza risparmare la propria vita, spesso lavorando sino a notte fonda, con spirito di abnegazione.

Un magistrato che interpretava le sue alte funzioni istituzionali in senso autenticamente nobile e con vero spirito di missione. Generoso di cuore e ferventemente religioso si prodigava come lui stesso affermava con orgoglio per “dare alla legge un’anima“.

Si, perché la giustizia che tutti ben conosciamo un’anima spesso sembra averla perduta, o addirittura non l’ha mai avuta.

Questo doveva essere secondo Livatino il primario compito del giudice: dare un volto umano all’astratto comando della legge.

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Accanimento NON terapeutico contro Mimmo Lucano

Dall’ arringa di Giuliano Pisapia e Andrea Daqua del 20 settembre 2023

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PISAPIA:

La vostra sentenza sarà importante perché specialmente in questo periodo in cui la situazione dei migranti è particolarmente difficile e complicata, avere tante Riace aiuterebbe a risolvere tanti problemi e a evitare situazioni che un Paese come il nostro non dovrebbe vedere da lontano ma essere capace di affrontare (…)

Quando la politica entra nelle aule di giustizia, la giustizia scappa inorridita dalla finestra. Per me è qualcosa di insuperabile: un conto è la giustizia e un conto è la politica.

Ci sono tutti i presupposti per l’assoluzione di Mimmo che in tutta la sua vita ha sempre fatto quello che serviva agli altri e non quello che serviva a sé stesso.

Come si fa a dire che ha fatto quello che ha fatto per motivi politici? Manca il dolo e manca la consapevolezza e la volontà di un vantaggio economico. Risulta dalla lettura di tutti gli atti processuali che Lucano non aveva un soldo sul proprio conto corrente.

DAQUA:

È una sentenza ingiusta ed errata per tutti i capi di imputazione. Voi avete la possibilità di correggere un macroscopico errore. ll processo è nato da un’indagine unidirezionale perché ha silenziato qualsiasi elemento che risultava in contrasto con l’impianto accusatorio per come era stato preconfezionato da quelle ispezioni. Abbiamo il legittimo sospetto che il processo sia stato viziato sin dall’inizio. Vi è stato lo stravolgimento dei fatti e un uso distorto delle intercettazioni da parte del Tribunale di Locri che commette il gravissimo errore di perdere la sua terzietà e che, per condannare Lucano per il reato di peculato, su una conversazione chiave ha utilizzato una trascrizione della guardia di finanza dove c’è una frase inesistente attribuita all’ex sindaco di Riace. Trascrizione smentita dal perito nominato dal Tribunale che, a questo punto avrebbe potuto acquisire direttamente l’informativa di reato senza fare nemmeno l’istruttoria.

Vietato salvare vite

di Domenico Gallo *

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Non v’è dubbio che quest’anno sia in atto un massiccio incremento del flusso dei profughi che sbarcano sulle coste italiane, come dimostrano le vicende di Lampedusa dove in sole 24 ore sono sbarcati oltre cinquemila profughi, un numero superiore alla popolazione dell’isola. Al punto che Giorgia Meloni ha sentito il bisogno di trascinare a Lampedusa la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, per ottenere assicurazioni improbabili dall’Unione Europea e lanciare proclami tanto minacciosi quanto velleitari.

Quello che è rimasto in ombra è che, in queste circostanze straordinarie, si è sviluppato un enorme sforzo di solidarietà che ha visto coinvolti nelle operazioni di soccorso e di prima accoglienza forze dell’ordine, associazioni di volontariato, privati cittadini e diocesi di Agrigento.

Paradossalmente, lo straordinario senso di umanità che guida l’impegno degli uomini e delle donne delle forze dell’ordine e del volontariato, man mano che si sale ai livelli più alti della politica diventa sempre più rarefatto fino a rovesciarsi nel suo contrario.

I freddi dati statistici del Ministero elencano il numero degli sbarcati ma non raccontano nulla del dramma che si consuma fra le acque del Mediterraneo centrale, lungo quella che viene considerata la rotta migratoria più pericolosa del mondo. Se cresce il flusso dei profughi, cresce anche il numero di quelli che non ce la fanno. Ma i sommersi non esistono per lo Stato italiano e non vengono stimati.

Le stime le forniscono le Agenzie dell’Onu, come l’Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) e l’Unhcr, e ci dicono che, dall’inizio dell’anno, sono 2.300, le persone morte nel tentativo di attraversare il Mediterraneo con mezzi di fortuna.

L’incremento delle persone scomparse in mare non è solo frutto dell’incremento del flusso, ma anche di una deliberata politica di omissione di soccorso da parte dell’Italia e dell’Unione Europea, che hanno smantellato le missioni di ricerca e soccorso che agivano nel Mediterraneo. In particolare Frontex nel 2019 ha ritirato tutti gli assetti navali per evitare il rischio di “salvare” i profughi in alto mare.

Ma non è bastato il ritiro delle missioni ufficiali degli Stati. L’Italia si è distinta per l’ostracismo praticato alle navi delle Ong impegnate nel soccorso. Non potendo cancellare i principi del diritto internazionale, stratificati in una serie di Convenzioni internazionali che impongono il soccorso in mare e prevalgono su ogni eventuale disciplina nazionale difforme, è stata predisposta una serie di lacci e lacciuoli, per lo più di carattere amministrativo, per fermare le navi in porto e ridurne l’operatività.

Con il decreto legge 2 gennaio 2023 n. 1 (convertito con la legge 24 febbraio 2023 n. 15) il Governo ha impiantato una serie di cavilli e mezzucci per ostacolare al massimo l’attività di soccorso, disponendo che una volta effettuato un soccorso la nave deve immediatamente recarsi nel porto assegnato per lo sbarco (evitando di compiere ulteriore attività di ricerca e soccorso) e prevedendo, oltre ad altre sanzioni, il fermo amministrativo di due mesi della nave indisciplinata. In questo modo, vietando i salvataggi multipli e assegnando un porto di sbarco lontanissimo, si ottiene lo straordinario risultato di limitare la presenza delle navi di soccorso nelle aree di ricerca e salvataggio e di far salire il tasso degli annegati.

Per le navi battenti bandiera italiana, la legge ha previsto un ostacolo ulteriore. Il comma 2 bis del decreto legge citato dispone, infatti, che «la nave che effettua in via sistematica attività di ricerca e soccorso in mare opera in conformità alle certificazioni e ai documenti rilasciati dalle competenti autorità dello Stato di bandiera».

Nei registri navali, peraltro, non esiste la categoria della nave «che effettua in via sistematica attività di ricerca e soccorso in mare», tale essendo solo l’assetto navale della Guardia Costiera o di altri Corpi simili. Probabilmente questa disposizione è stato l’escamotage che ha consentito di notificare alla nave “Mare Jonio” della Ong Mediterranea un incredibile provvedimento con il quale «si ordina alla società armatrice […] la rimozione, prima della partenza, delle attrezzature e degli equipaggiamenti per lo svolgimento del servizio di salvataggio». In caso contrario si preannunciano denunce per violazione dell’art. 650 del codice penale.

«È la prima volta» – ha osservato il giornalista Mauro Seminara – «scritto nero su bianco, che un simile ordine, navigare ma senza salvare vite, viene impartito a una nave e al suo equipaggio, probabilmente non solo nella storia della marineria italiana, ma in tutto il mondo. Nessuna autorità si sarebbe mai sognata di spingersi a questo dichiarandolo in termini formali, ed emettendo un’ordinanza firmata da un comandante della Capitaneria di Porto».

Naturalmente si tratta di un ordine illegittimo che sarà demolito dai tribunali, ma quello che colpisce è la “banalità del male”. Notificare un divieto di soccorso non scalfirà minimamente i flussi di immigrati/rifugiati che sbarcano sulle nostre coste ma, prima o poi, i fantasmi delle mamme e dei bimbi annegati usciranno dal mare e verranno a chiederci conto della nostra disumanità.

* DOMENICO GALLO, magistrato, è stato presidente di sezione della Corte di cassazione. Da sempre impegnato nel mondo dell’associazionismo e del movimento per la pace, è stato senatore della Repubblica per una legislatura ed è componente del comitato esecutivo del Coordinamento per la democrazia costituzionale.

Riguardo agli immigrati, obiettivo primo di questo governo sembrerebbe volerli criminalizzare

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A cura di Annalisa Girardi (fanpage.it)

Trattenere e rimpatriare: è questa la ricetta che Giorgia Meloni vuole portare avanti per gestire i flussi migratori verso il nostro Paese. E infatti il Consiglio dei ministri, attraverso un emendamento al decreto Sud, ha annunciato la costruzione di nuovi Centri per il rimpatrio – i cosiddetti Cpr – in appalto alla Difesa, in cui chi entra irregolarmente in Italia potrà essere tenuto fino a 18 mesi.

Un piano, quello del governo, che sta ricevendo le critiche da parte dell’opposizione e di tante associazioni e organizzazioni che si occupano dei diritti delle persone migranti. Le condizioni di vita all’interno dei Cpr sono state infatti ampiamente documentate negli ultimi anni:

– terribili condizioni igieniche

– episodi di violenza per il
mantenimento dell’ordine

– massiccio uso di psicofarmaci
per sedare le persone detenute
all’interno

– assenza di sostegno psicologico
e di assistenza giuridica.

Le persone vengono detenute in questi luoghi senza sapere dove finiranno e che cosa ne sarà di loro. In queste situazioni, purtroppo, non mancano episodi di autolesionismo e suicidi.

E ora il governo vuole allungare i tempi massimi di permanenza all’interno di un Cpr. “Al momento i termini massimi di trattenimento sono di 90 giorni, più 45 per le persone che arrivano da Paesi che hanno accordi di rimpatrio con l’Italia. E proprio questo è il discrimine”, Lorenzo Figoni, socio di Asgi (l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) sottolineando come l’assenza di accordi con i Paesi di origine renda molto spesso impossibile rimpatriare le persone migranti. Rendendo, di fatto, ulteriormente inefficaci i Cpr.

I numeri degli ultimi anni lo hanno ampiamente dimostrato. In una relazione del giugno 2022 della Corte dei Conti si legge che tra il 2018 e il 2021 sono stati emessi 107.368 provvedimenti di espulsione, ma solo 21.366 persone sono effettivamente rientrate nel loro Paese, con rimpatrio volontario o forzato.

Insomma rimpatriare chi entra irregolarmente in Italia non è semplicissimo, anzi. Alla luce di questi dati il piano del governo sembrerebbe più quello di trattenere nei Cpr i migranti e guadagnare del tempo, non avendo effettivamente una soluzione a portata di mano per poterli espellere dal territorio.

“Questo succede dal 1998 ad oggi, i tempi di trattenimento cambiano sempre, di governo in governo. Il massimo è già stato di 18 mesi in passato, anche se in realtà il tasso di rimpatri è sempre stato più o meno lo stesso. Le persone rimpatriate sono sempre meno del 50% di quelle che passano per i Cpr. Quindi il trattenimento fino a 18 mesi non significa altro che mettere una persona in un centro di detenzione amministrativa per un anno e mezzo della sua vita, con tutte le ricadute sul piano fisico e psichico che questo comporta”, spiega Figoni. E poi aggiunge:

“Si parla di centri in cui le criticità sono fortissime, non viene effettivamente garantito il diritto alla salute. La quotidianità dei Cpr è preoccupante, tenere una persona per un anno e mezzo in quelle condizioni non avrà altra conseguenza se non quella delle ripercussioni sul piano fisico e psichico, arricchendo solo quelle società e multinazionali che gestiscono questi centri”.

I Cpr sono generalmente gestiti da enti privati, perlopiù da multinazionali che spesso operano in settori che non hanno nulla a che vedere con l‘accoglienza.

“I Cpr non sono la soluzione, sono il problema – ribadisce Figoni – Il fatto che non sia una soluzione lo dimostrano le condizioni di questi centri, che non sono cambiate negli ultimi 25 anni”.

Il piano del governo è quello di costruire nuovi Cpr in zone precise, isolate dalla collettività e facilmente sorvegliabili, il che non farà che acuire il processo di ghettizzazione delle persone che vi finiscono all’interno. Nel comunicato di Palazzo Chigi si precisa:

Si prevede l’approvazione, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della difesa, di un piano per la costruzione, da parte del Genio militare, di ulteriori C.p.r., da realizzare in zone scarsamente popolate e facilmente sorvegliabili.

“Il Cpr di Palazzo San Gervasio si trova in campagna, lontano da tutto e da tutti”, cita Figoni come esempio. Spiegando che al termine del limite massimo di permanenza gli “ospiti” vengono semplicemente rilasciati nel territorio circostante: “Una volta che le persone – come normalmente accade per più della metà – non vengono rimpatriate, vengono rilasciate sul territorio e si trovano totalmente sperdute senza avere poi una presa in carico degna da parte del sistema. Tutto questo dopo aver passato un anno e mezzo della loro vita in un Cpr. Le conseguenze che avrà questa norma saranno molto pesanti, ed è preoccupante”.

In realtà chi viene rilasciato finisce spesso per essere ricondotto nel centro dopo qualche tempo. “Le persone vengono rilasciate con un “foglio di via” secondo cui dovrebbero allontanarsi dal territorio in sette giorni. Quello che spesso accade è che ci si ritrovi a fare più giri del Cpr. È un circolo vizioso, le persone vengono ripescate dalla polizia sul territorio e rimandate all’interno dei Cpr. Il termine di un anno e mezzo in questo senso rischia anche di essere relativo”, sottolinea Figoni.

Precisando che sono pratiche legittimate dalla stessa normativa europea, per cui difficilmente contrastabili: “Il trattenimento è previsto dalla normativa europea e si sta andando sempre più in quella direzione. Anche a livello europeo si vogliono aprire più hotspot e incrementare l’utilizzo della detenzione”.

Insomma, i Cpr sembrano destinati a essere sempre più diffusi, nonostante le numerose denunce e i dati che dimostrano come questi non siano una soluzione. Il progetto di costruire un Cpr per ogni Regione, comunque, non è nuovo: “Aveva tentato di farlo già Marco Minniti quando era ministro dell’Interno e questo è stato praticamente riproposto in ogni governo dopo”, ricorda Figoni. Per poi concludere:

“I Cpr contribuiranno solo a criminalizzare ulteriormente l’immigrazione, nutrendo una propaganda fatta sulla pelle delle persone”.

L’ Appello per il reato di Solidarietà

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di Luigi Ferrajoli* (il manifesto)

C’è una nuova figura penalistica creata in questi anni dalla demagogia populista: quella dei reati di solidarietà. Le persone che salvano migranti in mare, coloro che danno lavoro a un clandestino, oppure una casa in locazione dove poter vivere umanamente, sono i nuovi delinquenti creati dalla legislazione d’emergenza.

È un capovolgimento della logica del vecchio populismo penale: non più gli inasprimenti di pena, inutili e tuttavia giuridicamente legittimi, nei confronti di reati di sussistenza provocati dalla povertà e tuttavia pur sempre illeciti. Il nuovo populismo penalizza comportamenti virtuosi con misure insensate, quando non esse stesse illegittime, come la chiusura dei porti, l’omissione di soccorso e i respingimenti collettivi.

L’imputato simbolo di questa nuova figura penalistica è Mimmo Lucano, contro il quale riprende il giudizio d’appello contro la condanna in primo grado, il 30 settembre 2021, a 13 anni e due mesi di reclusione.

Le colpe imputategli, come è noto, consistono nel fatto che Lucano, come sindaco di Riace

– ha ridato vita a questo piccolo
comune

– ha costruito un frantoio pubblico
e una scuola

– ha trasformato due orrende
discariche in un teatro all’aperto,
in un giardino di giochi per
bambini e in una serie di piccole
fattorie e, soprattutto,

– ha realizzato – questa la colpa più grave – un modello di integrazione e di accoglienza di centinaia di migranti.

Questo incredibile processo è molto più di un processo alla solidarietà. Con esso si è voluto processare, fino all’assurda condanna a oltre 13 anni di reclusione, non soltanto l’accoglienza e l’umana solidarietà, ma più in generale una politica e un’azione amministrativa informate ai valori costituzionali dell’uguaglianza e della dignità delle persone e, proprio per questo, stigmatizzate come false e non credibili.

C’è una frase rivelatrice nella motivazione della condanna, che si aggiunge alla massa di insulti in essa contenuti contro l’imputato: la mancanza di prove dell’indebito arricchimento di Lucano seguito alla sua politica di accoglienza, scrivono i giudici, dipende dalla «sua furbizia, travestita da falsa innocenza» e attestata dalla sua casa, «volutamente lasciata in umili condizioni per mascherare in modo più convincente l’attività illecita posta in essere».

Qui non siamo in presenza soltanto di una petizione di principio, che è il tratto caratteristico di ogni processo inquisitorio: assunto come postulato l’ipotesi accusatoria, è credibile tutto e solo ciò che la conferma, mentre è frutto di inganni preordinati o di simulazioni tutto ciò che la smentisce.

Non ci troviamo soltanto di fronte a un tipico caso di quello che Cesare Beccaria stigmatizzò come «processo of­fensivo» nel quale, egli scrisse, «il giudi­ce diviene ne­mico del reo» e «non cerca la veri­tà del fatto, ma cerca nel pri­gioniero il delitto». Qui s’intende screditare come impensabili e non credibili le virtù civili e morali dell’ospitalità, del disinteresse e della generosità.

È lo stesso pregiudizio che è alle spalle delle norme che penalizzano coloro che salvano i migranti in mare. Non è pensabile che essi dedichino tempo e denaro soltanto per generosità, che non abbiano degli sporchi interessi, che non siano in qualche modo collusi con quanti organizzano le fughe di questi disperati dai loro paesi. Perché l’egoismo, l’imbroglio è la regola. Perché c’è sempre un secondo scopo.

È insomma necessario diffamare e screditare l’accoglienza di Riace, perché Riace ha mostrato che è possibile un’alternativa alle politiche crudeli e disumane messe in atto dai nostri governi e dalle nostre amministrazioni. Giacché il modello Riace, per il solo fatto di essere stato praticato con successo, è un severo atto d’accusa contro quelle politiche.

Chiunque si sia recato a Riace è in grado di testimoniarlo. E i giudici per primi, prima di giudicare, dovrebbero conoscere: dovrebbero andare a Riace e vedere, con i loro occhi, ciò che nel suo comune Lucano è stato capace di fare.

Dalla pronuncia della sentenza di secondo grado in questo incredibile processo dipende ovviamente la libertà di Lucano. Ma certamente non dipende da essa la sua reputazione, essendo Lucano diventato un simbolo indiscusso, a livello internazionale, non solo delle buone politiche di accoglienza ma anche della buona amministrazione. Ne dipendono invece la reputazione e la credibilità della nostra giustizia.

Al di là degli aspetti giuridici dell’infondatezza delle imputazioni mosse a Lucano – primo tra tutti la mancanza del dolo, attestata dalle intercettazioni riportate nella stessa sentenza di condanna che ci dicono tutte della convinzione di Lucano di aver sempre agito a fin di bene – si misurerà, da ciò che i giudici decideranno, la loro volontà o meno di unirsi a quest’opera nazionale di diseducazione civile e morale, consistente nella diffusione dell’idea che il bene e la virtù non sono credibili né possibili, ma sono solo delle ipocrite simulazioni, e che la disumanità delle istituzioni è giusta e inevitabile e possiamo tutti continuare a tollerarla, o meglio a sostenerla e a praticarla, con la dovuta indifferenza.

* Luigi Ferrajoli, fiorentino oggi 83enne. Giurista ed ex magistrato, filosofo del diritto. Ha partecipato a molte battaglie civili, scrivendo articoli su giornali e riviste, tenendo conferenze e partecipando a dibattiti e convegni. Sempre impegnato attivamente in difesa delle garanzie penali e processuali. Ha partecipato a numerose sessioni del “Tribunale permanente dei popoli (TPP).Partecipò attivamente alla fondazione di Magistratura Democratica.

L’ intera umanità ha bisogno dell’ apporto di ciascuno

Tutt’ altro che sostituibili

di Piero Murineddu

Conoscevo il testo che segue di Michel Quoist e ricordo quando in gioventù mi capitava spesso di leggere quanto scriveva questo prete francese, deceduto nel 1997.

Già da allora mi aveva colpito questa storia che, a differenza di quanto solitamente si pensa e si dice, cioè che ciascuno di noi può essere utile ma facilmente sostituibile, al contrario il particolare apporto che possiamo dare individualmente per una qualsiasi causa, col modo e spirito che caratterizza ognuno di noi, non può darlo nessun altro. Nessuno!

Questa consapevolezza ci dovrebbe responsabilizzare, farci superare la comodità del “se non lo faccio io ci penserà qualcun altro”.

L’ ottica di fede mi porta a pensare al passaggio nel Vangelo dove si legge che  “quando avrete fatto…. consideratevi servi inutili”.

Di primo acchito tale affermazione sembrerebbe sminuire il valore che abbiamo come esseri liberi e pensanti, capaci di prendere decisioni.

Credo di aver capito il senso di “servo inutile”, solo apparentemente mortificante, ma leggere quanto scrive Ermes Ronchi mi solleva e m’illumina ulteriormente.
Dice infatti questo prete appartenente ai “Servi di Maria” , Ordine dentro il quale si son formate ottimissime persone, di pensiero e di fede “concreta” (Maggi, Turoldo…):

“Mai nel Vangelo è detto inutile il servizio, anzi è il nome nuovo della civiltà. Servi inutili non perché non servono a niente, ma, secondo la radice della parola, perché non cercano il proprio utile, non avanzano rivendicazioni o pretese. Loro gioia è servire la vita.Servo è il nome che Gesù sceglie per sé; come lui sarò anch’io, perché questo è l’unico modo per creare una storia diversa, che umanizza, che libera, che pianta alberi di vita nel deserto e nel mare.Inutili anche perché la forza che fa germogliare il seme non viene dalle mani del seminatore; l’energia che converte non sta nel predicatore, ma nella Parola. Noi siamo i flauti, ma il soffio è tuo, Signore”

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L’ umanità intera ha bisogno di te

di Michel Quoist

Se la nota dicesse: non è una nota che fa la musica, non ci sarebbero le sinfonie.

Se la parola dicesse: non è una parola che può fare una pagina, non ci sarebbero libri.

Se la pietra dicesse: non è una pietra che può alzare un muro, non ci sarebbero case.

Se la goccia d’acqua dicesse: non è una goccia d’acqua che può fare un fiume, non ci sarebbe l’oceano.

Se il chicco di grano dicesse: non è un chicco di grano che può seminare un campo, non ci sarebbe la messe.

Se l’uomo dicesse: non è un gesto d’amore che può salvare l’umanità, non ci sarebbero mai né giustizia, né dignità, né felicità sulla terra degli uomini.

Come la sinfonia ha bisogno di ogni nota
Come il libro ha bisogno di ogni parola
Come la casa ha bisogno di ogni pietra
Come l’oceano ha bisogno di ogni goccia d’acqua

Come la messe ha bisogno di ogni chicco
l’umanità intera ha bisogno di te,
qui dove sei, unico, e perciò insostituibile.

La malattia più grande? Noi!

Premessina

di Piero Muribeddu

Curiosando nel sito di babbo Scanzi, ilversodellorso.it, scopro che quello che presumo essere mio coetaneo il mio coetaneo, oltre ad avere scritto un paio di libri, suonicchia pure la chitarra senza averla studiata e componicchia pure, anche se prevalentemente canta cose altrui, registrandosi aggiungendo tastiera e basso. E giustappunto perché siamo in prossimità di cambio di stagione, mi ascolto e propongo alla fine di questa pagina d’ ascoltare, la sua “Autunno”, che male non è. Anzi, non è per niente male. Ascoltala e giudica tu…

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LA MALATTIA PIÙ GRANDE? NOI!

di Luciano Scanzi

Scrivere mi riesce sempre più difficile. Un po’ perché va così e un po’ perché non riesco a individuare un punto, un argomento da affrontare, un bersaglio, una polemica, un’accusa da lanciare. Non perché non ce ne siano, ma per l’esatto opposto: ce ne sono troppe.

Un po’ come avere mille malattie, tutte gravi, e non provare più a curarne nessuna, tanto non servirebbe a niente.

Scrivere per me è un po’ come fare musica, come fare un solo di chitarra. Con la tastiera del pc sono più bravo, ma se non riesco a mettere a fuoco i pensieri, la melodia, i tempi, le scale giuste, anche le parole, come le note, non suoneranno mai come dovrebbero.

L’ultima malattia scoperta, per esempio, fra le mille e una a cui arrendersi, è quel “DIFENDERE DIO”. E che le dici a una che ha la faccia di lanciarsi in una crociata simile, magari con la pretesa di renderla efficace e perfino credibile? Come se anche lei, come i Blues Brothers, fosse in missione divina, come se Dio avesse bisogno di un avvocato.

E poi difenderlo da chi, da cosa?

Dagli incapaci come i suoi?

Dai bugiardi come lei?

Da chi lo offende gettando nella merda – torra! E usa modini più  delicati, come feci, escrementi…Ma..no, no, hai ragione: merda rende molto di più ( Piero) – migliaia di famiglie e portando la forbice sociale oltre i limiti della geometria, come sta facendo il suo governo senza provarne nemmeno vergogna?

Dagli egoismi aberranti di certi suoi sodali di pensiero come Orban, o da certi fascisti di merda che con il suo beneplacito, più o meno evidente, stanno riemergendo sempre più dalle fogne dove si erano rintanati?

Difenderlo da chi, quindi?

Da chi esalta la famiglia tradizionale a patto che a formarla siano gli altri, oppure a condizione di poterne provare fino a trovare quella giusta, com’è usanza dalle parti del suo partito e di quelli limitrofi?

È legittimo, per carità, ognuno si giochi la sua vita come vuole, però non rompa i c…… al prossimo.

Se un dio ci fosse davvero – “dei” vari ce ne sono a bizzeffe, Lucia’. Di un Dio PadreMadre ce n’è uno/ una, come aveva assicurato Quelgiovanottolá (Piero) – visto anche il suo caratterino, al solo sentire cazzate del genere, dovrebbe scagliare roncole rotanti infuocate fino a incenerire tutto.Io lo farei – si, gli “dei” forse, ma non quel PadreMadre che dicevo (Piero) -.

Credevo che S****** fosse imbattibile nella questua di consensi presso il proprio elettorato, col suo cullare presepi, brandire crocefissi come fossero salamelle alla sagra del cinghiale, baciare rosari, e tutto naturalmente bene in favore di telecamera per raccattare voti, ma questa fenomena lo sta surclassando.

Lo batte, certo, perché lei è più preparata, ha studiato. Vedrete che quando chiude con la politica potrà darsi al teatro con risultati entusiasmanti, o almeno alla pubblicità di qualche detersivo.

Guardate le sue espressioni, quel suo ammiccare in camera, fate attenzione all’uso della voce, alle pause che nemmeno Celentano, ai toni dal sussurrato al crescendo fino all’invettiva più violenta.
E pure in più lingue, e qui S****** – uffhhh, e baaasta con costui! (Piero) – non può proprio competere.

È brava, avrà di sicuro un team che l’allena e la prepara talmente bene acciocché primeggi con agio in questo abominevole, squallido e miserabile sport del buttare la palla nell’alto dei cieli ogni volta che è in difficoltà.

Ma lei sa bene a chi si rivolge, quale sia il suo elettorato, e sa che funzionerà.E si torna sempre lì, alla malattia più grande, la Madre di tutte le altre: noi – ah, su questo perfettamente ragione hai, come son d’ accordo sul resto (Piero) – .