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ONG che “disturbano” il potere

Noi Ong, testimoni scomodi del Mediterraneo

INTERVISTA A GIORGIA LINARDI

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di Daniela Fassini

(Avvenire,28 marzo 2023)

– In questo momento siete fermi con soccorsi in mare?

Sì, purtroppo la Sea Watch 3 è ferma a Reggio Calabria per effetto di un fermo amministrativo contro il quale abbiamo fatto ricorso. La nave comunque verrà dismessa e presto metteremo in acqua quella nuova.

– Intanto monitorate il mare dal cielo?

Con l’aereo di ricognizione Sea Bird controlliamo principalmente la rotta del Mediterraneo centrale, dalla Libia e dalla Tunisia verso l’Italia. La settimana scorsa, tra lunedì e venerdì abbiamo avvistato 24 imbarcazioni. Di queste ben 17 solo nella giornata di venerdì.

– Cosa vedete?

Negli ultimi giorni abbiamo visto tantissime barche. Sabato abbiamo assistito a un episodio di violenza della guardia costiera libica nei confronti di un gommone carico di persone e anche dell’equipaggio della nave della Ocean Viking. L’imbarcazione avrebbe soccorso il gommone, purtroppo però l’operazione è andata diversamente perché la guardia costiera libica glielo ha impedito. Lo ha fatto utilizzando peraltro una motovedetta che apparteneva alla Guardia di Finanza italiana.

– Cosa è successo?

Ci sono anche le immagini: si vede che la guardia costiera libica fa manovre pericolose intorno al gommone e spara ad altezza uomo. Noi dall’alto abbiamo visto i proiettili che si schiantavano sulla superficie dell’acqua. I primi spari al gommone e poi alla nave Ong. Abbiamo assistito a un altro caso di respingimento perché le persone sul gommone sono state riportate in Libia.

– Quando vedete i barconi in pericolo cosa fate?

Facciamo quello che ci indica il diritto internazionale: informiamo le autorità competenti della presenza di queste persone in mare oltre che di eventuali altre barche presenti in zona. Come abbiamo fatto il week end del 12 marzo con le navi mercantili che si trovavano nelle vicinanze di un barcone che è poi naufragato. (In quel caso un mercantile tentò di soccorrere l’imbarcazione con 47 persone a bordo ma a causa delle onde alte durante le operazioni la barca si capovolse: solo 17 i sopravvissuti).

– Chi informate?

Principalmente Libia, Malta e Italia, ma mentre prima dell’accordo Italia-Libia la Guardia costiera italiana coordinava ogni soccorso delle Ong, dal 2017 in poi tutto è cambiato per lasciare spazio ai respingimenti dei libici.

– Quanto dura una missione di sorvolo?

Dipende dalle condizioni meteo e dalla situazione in mare: quando si avvista un barcone in difficoltà, lo si sorvola per cercare di acquisire più elementi possibili da comunicare. Quante persone ci sono a bordo e i punti approssimativi in cui ci troviamo, in modo da fornire indicazioni aggiornate per aiutare i soccorsi.

– Un lavoro impegnativo..

Il lavoro delle Ong, per come viene raccontato, sembra politico ma è un lavoro estremamente tecnico. Quello che facciamo è essenziale anche per testimoniare quello che accade nel Mediterraneo: senza le Ong non avremmo mai saputo che i libici sparano ad altezza uomo, così come non sapremmo del naufragio del 12 marzo. L’ho detto, in questo momento siamo un testimone scomodo.

Passo dopo passo verso la militarizzazione dei cervelli

MILITARI NELLE SCUOLE E STUDENTI NELLE CASERME: SECONDO QUALE MODELLO EDUCATIVO?

di Alvaro Belardinelli

(tecnicadellascuola.it)

Scuola pubblica appaltata alle forze armate? O meglio: dopo l’ingresso massiccio delle aziende private nella vita delle scuole e dopo il dogma delle “competenze” (minimali e lavorative) più importanti delle conoscenze, la Scuola deve anche instillare nei giovani l’idea della guerra come possibile attività lavorativa?

Sembrerebbe di sì, a giudicare dal numero di interventi dei militari italiani qua e là nelle scuole, onde mostrare le “opportunità professionali” delle armi legittime (quelle dell’esercito) agli studenti delle scuole (anche in vista della ferma triennale in partenza quest’anno).

Si invitano i giovanissimi a frequentare le scuole militari per minorenni fin dai 16 anni, dopo il ginnasio o il biennio del liceo scientifico. A differenza delle altre scuole pubbliche, queste (come la Scuola militare “Teulié” di Milano) sono profumatamente finanziate, e offrono — promette il sito della Difesa — “studio, addestramento militare, tanto sport”, corsi intensivi d’inglese “con stage estivo in Inghilterra”, nonché “laboratori scientifici, biblioteche, aule di informatica, aule multimediali di lingue, palestre, saloni da ballo e diverse sale per il tempo libero”.

Promettono, insomma, di far entrare il giovane nel “salotto buono” dello Stato, dove soldi e possibilità non sono scarsi come nei dicasteri “meno importanti” (quale quello “dell’istruzione e del merito”), inculcandogli “i valori essenziali del lavoro di squadra: la cooperazione, la competizione, la capacità di agire con e per i compagni, la comprensione delle esigenze altrui”. Quasi che questi valori potessero impararsi solo in scuole di guerra, dipinte come le uniche atte a trasmettere «le virtù che rendono le persone più forti dentro: il rispetto, la lealtà, la fiducia, il rigore etico», permettendo al fanciullo «di vincere ogni sfida».

«L’Italia ripudia la guerra» secondo la Costituzione; la Scuola, invece, da anni sdogana la guerra stessa come possibile mestiere, redditizio e onorevole. L’Istituto Geografico Militare si presenta sul proprio sito come dotato di “enorme potenziale educativo” per «i nostri più giovani clienti, i bambini delle scuole che ogni anno vengono a visitarci nel corso di eventi a loro dedicati». Aspetto certamente vero, a parte un piccolo dettaglio: questo “potenziale educativo” non è rivolto — come esige l’articolo 4 della Dichiarazione ONU sul diritto alla pace (2016) — alla “educazione per la pace al fine di rafforzare fra tutti gli esseri umani lo spirito di tolleranza, dialogo, cooperazione e solidarietà”, ma finalizzato (perfino alle elementari) a una concezione della vita come lotta perenne contro altri esseri umani, colpevoli di credere agli stessi “valori” sotto vessilli di Stati “nemici”. “Valori” che ci hanno donato due guerre mondiali, minacciando da 80 anni la sopravvivenza della specie col terrore batteriologico, chimico, nucleare.

Cosa c’entra tutto ciò coi valori cui i docenti italiani sono da sempre (o almeno dal varo della Costituzione repubblicana) chiamati a educare i giovani?

Che c’entra con la parità di genere — sbandierata l’8 marzo da Valditara — il primitivo mito maschilista della virilità dominatrice, sotteso alla violenza bellica da almeno 5.000 anni?

Cosa c’entra l’obbedienza cieca del militare (la stessa vantata da Kappler, Priebke e Eichmann) col pensiero critico e con la riflessione etica che il docente ha il dovere di accendere nel discente?

Che ha da spartire l’aggressività (necessariamente coltivata nei militari) coi valori di civiltà insegnati nelle scuole?

Come si concilia il culto della gerarchia (necessaria alla disciplina militare) coi valori democratici che la Scuola insegna?

Qual è la coerenza tra il propagandare la disciplina militare e il pretendere che i docenti non siano “severi” con gli alunni?

E perché nell’ottobre scorso le scuole pisane sono state invitate al centro addestramento paracadutisti della brigata “Folgore” di Pisa per celebrare l’80° anniversario della battaglia di El Alamein, combattuta a fianco dell’alleato nazista, che intanto sterminava ebrei, nomadi, disabili, omosessuali, oppositori politici e “diversi” in tutta Europa?

Perché tanti Collegi dei Docenti accettano di trasferire la funzione docente a carabinieri e polizie su temi come l’educazione civica, la violenza sessuale, il bullismo, e persino l’ambientalismo?

Tutto ciò è forse un invito subliminale a familiarizzare con ideologie securitarie vecchie di almeno 100 anni, basate su forza e violenza come unici antidoti ai problemi sociali?

E con quali possibili esiti sullo sviluppo psichico dei giovani? Con quali ricadute sulla convivenza civile?

Già nel 2010 gli allora ministri della difesa La Russa e dell’istruzione Gelmini vararono un progetto per portare armi e cultura militare nelle scuole: chiamato “Allenati per la vita”, insegnava agli studenti “materie” come topografia, “armi e tiro”, “sopravvivenza in ambienti ostili”, e via guerreggiando. L’intenzione è ancora quella di preparare, come voleva il Duce, “otto milioni di baionette” (oltre ai dieci milioni d’armi clandestine brandite dalle mafie nostrane), proprio ora che siamo — non a caso — sull’orlo di una terza guerra mondiale e termonucleare?

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Gli spot sponsorizzati dalla fabbrica di strumenti di morte ” Leonardo”:

E ancora i servizi giornalistici sul centenario dell’ Aeronautica militare:

L’ intero articolo da dove ho tratto l’elenco (parziale) delle scolaresche, dalla scuola dell’ infanzia alle superiori, a cui in questi giorni verranno mostrate le “magnificenze” della vita e attività militari

https://www.osservatoriorepressione.info/cultura-militare-sempre-piu-diffusa-nelle-scuole/

E per finire…

(Piero)

Il signor Giorgia – donna, cristiana ecc – al posto di guida di un F35, così, per scherzo (costo cadauno 99 milioni di euro per F-35A e 106,7 milioni di euro per F-35B) acclamato/a da una folla d’infanti sbandierinanti a cui lui/lei risponde con baciniquabacinilátrallallero&trallallá..

PS

Prestare particolare attenzione al sorrisino compiaciuto del Guido ministro della guerra. Èia, quello arricchitosi producendo armi e che quel giorno lá prese in braccio la dolce e leggiadra donzellina – donna, cristiana ecc – per fare, anche allora, trallallero& trallallá

Uranio impoverito, una scelta criminale



di Raffaele Crocco        (atlanteguerre.it)

Solo in Italia, gli ammalati ufficiali sono 8.000. Sono veterani delle forze armate, giornalisti, operatori delle ONG. Almeno 400 di loro sono già morti, senza ottenere alcuna forma di riconoscimento.

L’hanno chiamata “sindrome dei Balcani”. Hanno negato il pericolo. Eppure, ci sono famiglie distrutte, che possono solo ricordare i loro morti. Sto parlando dell’uranio impoverito, degli effetti che i proiettili che lo contengono hanno sulle persone. Sono stati usati – senza mai menzionarli ufficialmente – nelle guerre dell’Iraq e certamente in Bosnia, Serbia e Kosovo negli anni ’90. È possibile che siano stati impiegati anche in Libia e in Siria. Insomma: l’uranio impoverito è entrato a far parte degli arsenali di quasi tutti i grandi eserciti. Le convenzioni internazionali non ne vietano l’uso. Per le Nazioni Unite, quelle munizioni, sono una “arma convenzionale”.

Eppure, da sempre sappiamo che è pericoloso. Non perché radioattivo, come qualcuno ci tiene a specificare per dimostrare che “non ci sono pericoli. Non ha nulla a che vedere con il nucleare”. È letale, perché brucia ad una temperatura altissima, cosa che gli permette di perforare efficacemente corazze e ostacoli. Ma anche di produrre, come sempre in questi casi, microparticelle che si depositano a terra. Queste, ogni volta che tira vento, che c’è aria, in cui qualcuno smuove il terreno giocando con una palla o lavorando per seminare, si sollevano e vengono inalate dagli esseri umani. Si incistano nelle cellule, ne prendono possesso. Non possono essere espulse e danno il via, spesso, troppo spesso, a forme cancerogene letali.

È il medesimo processo dell’amianto. È quanto accade con gli inceneritori o vicino agli impianti siderurgici, come a Taranto. Lo sappiamo, si sa che è così. Sappiamo che quelle microparticelle restano nel corpo umano per decenni. Sappiamo, soprattutto, che rimarranno sul terreno per migliaia di anni.

Verranno respirate dai bambini e dalle bambine, che prima o poi giocheranno su quei terreni. Dagli uomini e dalle donne che li lavoreranno. Per questa ragione è oscena e criminale l’idea del governo inglese di fornire munizioni anticarro all’uranio impoverito a Kiev nella sua lotta contro i russi. Per questo se il presidente ucraino Zelensky accetterà quelle munizioni, dovrà e potrà essere considerato criminale quanto gli inglesi, perché inquinerà in modo irreparabile il proprio Paese, la propria gente.

Il pericolo, in questa situazione, non è – come dicono i russi – il “passo avanti verso la guerra nucleare”. Quella è la solita, cinica, propaganda. Il pericolo reale è non rendersi conto che non puoi vincere il conflitto distruggendo il futuro.

L’uranio impoverito nega il futuro agli esseri umani e alla terra. Lo sta negando a migliaia di persone che stanno morendo nell’indifferenza degli Stati che quelle munizioni hanno usato. Lo sta negando ai bambini e alle bambine che crescono dove quelle bombe sono esplose: nessuno spiega loro di stare attenti, di non giocare lì, di proteggersi. Si finge, si nega, si distoglie l’attenzione. E la guerra – sempre orrenda – rischia di diventare così un’atrocità senza tempo.

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Per sapere che cos’ è l’ uranio impoverito:

https://ilgiornaledellambiente.it/uranio-impoverito-difesa-legale/

Il viaggio avventuroso di una famiglia sennorese

 di Piero Murineddu
Una storia famigliare che dura ormai da tantissimo tempo quella di Antonio, Maria Agostina e i loro figli Maria e Giuseppe.
Le vicende vissute da ogni famiglia sono sempre uniche, irripetibili e del tutto particolari. Questa raccontata nel libro pubblicato un anno fa circa è ancora più particolare per i tanti aspetti che sicuramente buona parte degli abitanti di Sennori, paese sardo dove vivono i protagonisti, già in parte conoscono. Lo scorrere queste pagine permette di scoprirnr degli altri, a partire sopratutto da quelli che comprendono la sfera emotiva e del sentire più intimo, che ancora non si conoscono e che l’autore, con l’ apporto importante della moglie, riesce a descrivere molto bene.
Riporto dal volume:
Cara moglie, essere mamma di un figlio disabile – figuriamoci due – è un’ avventura che richiede tanto coraggio, tanta faccia tosta, è una sfida che non annoia mai. Avrai tante cose da intraprendere. Avrai da batterti per dimostrare che nella disabilità dei tuoi figli c’ è un’ intelligenza che occorre essere ascoltata. Essere mamma non è un mestiere Non è neanche un dovere. È solo un diritto fra tanti diritti. Faticherai tanto a ripeterlo. E spesso, quasi sempre, perderai. Ma non dovrai scoraggiarti. Battersi è molto più bello che vincere, viaggiare è molto più divertente che arrivare: quando sei arrivato o hai vinto, avverti un grande vuoto”.
BATTERSI È MOLTO PIÙ BELLO CHE VINCERE, scrive Antonio, per oltre quarant’ anni vigile urbano del paese, quando ancora li si vedeva girare a piedi senza fretta per le strade, tenendosi le mani dietro o giocherellando col fischietto tenuto da una catenina, presenze rassicuranti ma che forse un po’ di timore lo provocavano per la preoccupazione di essere colti in flagranza di un qualsiasi reato, seppur minimo. Come quello che negli anni giovanili ha dato l’opportunità al vigile Catta di conoscere la graziosa fanciulla che sarebbe poi diventata sua moglie, come a dire: non tutte le multe vengono per nuocere!
Parafrasando, IL VIAGGIO È MOLTO PIÙ ARRICCHENTE DELLA META, e il percorso fatto con le proprie gambe e le proprie forze comporta fatica e pure molta, ma anche le soddisfazioni e le gioie non mancano, in particolar modo dopo essere riusciti ad affrontare e superare quel tratto talmente impervio da richiedere sforzo ulteriore e denti ben serrati per non arrendersi.
Si, un volume che riempie di speranza e può aiutare altri, in qualsiasi stato di vita possano trovarsi e con possibili disabilità evidenti o meno, a ritrovare quella forza necessaria per proseguire il proprio cammino esistenziale con rinnovata fiducia.

GRAZIE, ANTONIO

GRAZIE, MARIA AGOSTINA

GRAZIE, MARIA E GIUSEPPE CATTA

La pagina dedicata a questa famiglia sette anni fa:
Per conoscere e contattare l’associazione famiglie bambini cerebrolesi:
Potrebbe essere un'immagine raffigurante 2 persone, bambino e il seguente testo "Antonio Catta Cara moglie... cara mamma Da eggere lentamente, bandendo assolutamente la fretta, con la convinzione che, come dice bene il breve testo su riportato, molto più "divertente" viaggiare che arrivare. L'autore, insieme alla moglie Maria Agostina, decidendo di scrivere questo coinvolgente libro, è come se avessero voluto far partecipe llettore di come, attraverso quotidiana fatica e proprio GRAZIE AD ESSA, sono incamminati verso la loro piena umanità, come singoli, come coppia e come famiglia. Piero M."

I processi migratori e l’ipocrisia dell’Occidente

di Fabrizio Venafro (lafionda.org)

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La strage di Cutro, come quella recentissima sulle coste libiche, ci devono costringere a ripensare radicalmente l’atteggiamento verso i fenomeni migratori. Innanzitutto nel riconoscere, tra gli altri diritti considerati inalienabili, quello a pretendere attraverso l’emigrazione migliori condizioni di vita. E quando chi respinge è responsabile delle condizioni da cui si fugge, un diverso approccio ai fenomeni migratori è ancor più necessario.

Uno dei padri del neoliberalismo come August von Hayek distingueva tra taxis e cosmos, ossia tra una legge imposta dall’alto, dai governi, e quella che scaturisce dal dipanarsi degli eventi in un continuo adattamento spontaneo verso un’ordine che deriva dall’evoluzione delle società. Tale pensiero è alla base del rifiuto di ogni laccio o impedimento alla libertà d’impresa propugnato dai neoliberali, di qualsiasi barriera alla libertà di circolazione. Il riferimento ad Hayek è pertinente dal momento in cui la destra al governo (va detto in continuazione con i governi precedenti) si fa interprete più radicale di quel pensiero. Ma quella libertà pensata per imprenditori e merci viene negata alle persone, nella fattispecie ai migranti. Nella politica attuale il diritto di emigrare viene misconosciuto. Eppure, l’ordine spontaneo è stato riconosciuto in passato quando erano gli europei a prendere il mare per raggiungere altri continenti. Certo non vi arrivavano da profughi ma da esploratori e da conquistatori. Fu nel 1539 Francisco De Vitoria, ricorda Ferrajoli su il manifesto del 12 marzo, a proclamare il diritto ad emigrare, a sostegno della conquista del Nuovo Mondo.

Un andare troppo indietro nel tempo quello di Ferrajoli? No, perché tale diritto viene continuamente riaffermato a senso unico dall’Occidente. Quando, in una forma neocoloniale, si interviene in altri paesi per esportare la democrazia a suon di bombe, o quando si impone loro un modello di sviluppo e li si assoggetta al cappio del debito, favorendo le condizioni che costringono le moltitudini ad emigrare.

Dalla conquista coloniale, il rapporto tra nord e sud del mondo non è mutato. Il colonialismo, lungi dall’essere stato debellato, si è semplicemente perfezionato in modo da dare l’impressione che i paesi poveri siano responsabili delle loro sorti. Se non crescono è perché non si impegnano abbastanza, non accettano le ricette imposte loro dal fondo monetario internazionale, hanno governi corrotti che non facilitano la dinamica del libero mercato. In realtà, tra il colonialismo ottocentesco e il neocolonialismo attuale c’è un filo rosso che ha come sfondo l’asservimento di quei paesi con la finzione che quella servitù sia in fondo volontaria.

Il colonialismo ha fatto tabula rasa di pratiche tradizionali, ha persino distrutto modelli di gestione del rischio in occasione delle emergenze, ha rotto logiche comunitarie in nome dell’imperativo del mercato e della competizione. Ha ridotto quei paesi a dipendere dalle esportazioni per quanto riguarda la tenuta economica, grazie al sistema delle monocolture o dell’estrazione di minerali e terre rare, e dalle importazioni per quanto riguarda i beni alimentari di sussistenza. Li ha resi insomma un ingranaggio della catena del commercio internazionale, privandoli della minima autosufficienza. Quando qualche paese prova ad invertire la tendenza si vede il governo eletto democraticamente rovesciato da un colpo di stato che fa di nuovo pendere l’ago della bilancia a favore dei paesi ricchi. Persino il rovesciamento del regime di Gheddafi viene visto alla luce del suo tentativo di disancorare i paesi africani francofoni dal franco africano.

Il sud del mondo, inoltre, è quello che maggiormente risente della crisi climatica con il corollario di desertificazione, siccità, fame e povertà conseguenti. Gran parte dei migranti possono ormai essere considerati migranti climatici. I fenomeni migratori aumentano di intensità parallelamente all’aggravarsi della crisi climatica. La relazione tra l’effetto serra e l’effetto guerra è stata ben messa in evidenza da un libro di qualche anno fa di Grammenos Mastrojeni e Antonello Pasini. Nulla più della crisi climatica ci dà la contezza di vivere in un villaggio globale e del fatto che i destini dell’umanità sono comuni. E nulla più della crisi climatica riconduce alle responsabilità dei paesi ricchi.

Per questo, trattare i fenomeni a compartimenti stagni risulta una misura anodina ed ipocrita. La guerra agli scafisti non impedisce i fenomeni migratori generati dallo sfruttamento operato ai danni di quelle terre. La clandestinità è frutto di leggi tese a fare delle frontiere occidentali una rete che filtra unicamente le risorse umane utili a far funzionare l’economia dei paesi ricchi. Il resto risulta un carico residuale che va respinto. Checché se ne dica, la strage di Cutro è figlia di quest’ottica prettamente razzista. Quando poi si stigmatizza il comportamento dei migranti come irresponsabile, così come si stigmatizza la povertà come un’onta e una vergogna di cui sono responsabili suoi protagonisti, il cerchio è completo. Siamo in presenza di quella logica neoliberale che interpreta la vita come lotta e competizione e chi non riesce non è degno di considerazione ma merita disprezzo.

Siamo a quello spirito del capitalismo descritto da Weber per cui chi riesce fa sicuramente parte degli eletti, mentre gli altri sono annoverabili nel cerchio dei dannati, quindi non degni della minima considerazione sotto il profilo umano. Solo che il cerchio dei dannati è più vasto di quanto si creda e si va allargando sempre più. E quando coloro che si credono eletti si ritroveranno dall’altra parte, forse sarà troppo tardi per una soluzione pacifica, occorrerà scegliere tra catastrofe o rivoluzione.

Sulla speranza di chi è costretto a emigrare

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(viedifuga.org)

È quello di Erri De Luca un poema epico che racconta la traversata del Mediterraneo di un gruppo di persone in fuga dal loro Paese. Il suo tipico linguaggio ruvido evoca strazianti scorci del viaggio, uno dei molti, in cui morte, paura, dolore, pazienza, silenzio e speranza si amalgamano e si fondono alle acque del mare. La concretezza delle immagini coglie impreparato il lettore che viene istantaneamente catapultato sulla scena. Poco più avanti, sembra quasi di percepire il mare “a carezzare i piedi” bruciati e consumati dal deserto. Un nodo alla gola e il viaggio inizia. Come in molti racconti di sbarcati vivi, in uno stralcio dal “Racconto di uno” si legge:

“Non c’è spazio di stendersi, appoggiati di spalla piove senza riparo, stringiamo la lana dei mantelli.

Notte di pazienza, il mare viaggia verso di noi, all’alba l’orizzonte affonda nella tasca delle onde.

Nel mucchio nostro con le donne in mezzo un bambino muore in braccio alla madre.

Sia la migliore sorte, una fine da grembo, lo calano alle onde, un canto a bassa voce.

Il mare avvolge in un rotolo di schiuma la foglia caduta dall’albero degli uomini.“

Una scena archetipo che mostra tutta l’assurdità e la tragedia umana che si ripete ad ogni viaggio.A seguire, la ribellione contro i trafficanti, la perdita della rotta e il prepararsi alla morte in mezzo al mare ritornando con la mente al Paese natìo, per poi essere alla fine tratti in salvo. La speranza si fa strada tra i cadaveri per ridare vigore ai vivi e i bambini riprendono a giocare sulla terraferma, in Italia. Ed è proprio qui, di nuovo con i piedi per terra, che quell’Uno narratore ribadisce senza esitazione a noi italiani, a noi europei, a noi occidentali: “Potete respingere, non riportare indietro, è cenere dispersa la partenza, noi siamo solo andata“.

“Solo Andata” è poi diventato un videoclip, diretto da Alessandro Gassmann, nato dalla collaborazione tra Erri De Luca e il gruppo di musica popolare pugliese, il Canzoniere Grecanico Salentino, che ha musicato alcune parti dell’opera. Il video ha vinto il premio Arte e Diritti Umani 2014 di Amnesty International.

SOLO ANDATA

Testo di Erri De Luca
Musica di D. Durante e M. Durante

Siamo gli innumerevoli, raddoppia ogni casella di scacchiera
lastrichiamo di corpi il vostro mare per camminarci sopra.

Non potete contarci, se contati aumentiamo figli dell’orizzonte che ci rovescia a sacco.

Nessuna polizia può farci prepotenza più di quanto già siamo stati offesi.

Faremo i servi, i figli che non fate,
le nostre vite saranno i vostri libri di avventura.

Portiamo Omero e Dante, il cieco e il pellegrino, l’odore che perdeste, l’uguaglianza che avete sottomesso.

Da qualunque distanza arriveremo a milioni di passi, noi siamo i piedi e vi reggiamo il peso.

Spaliamo neve, pettiniamo prati,
battiamo tappeti, raccogliamo il pomodoro e l’insulto.

Noi siamo i piedi e conosciamo il suolo passo a passo noi siamo il rosso e il nero della terra,

Un oltremare di sandali sfondati,
il polline e la polvere nel vento di stasera.

Uno di noi, a nome di tutti, ha detto: “Non vi sbarazzerete di me.
Va bene, muoio, ma in tre giorni resuscito e ritorno”.

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Ennesimo caso d’ intolleranza verso un disabile

di Lelio Bizzarri*

Moglie e marito vanno in vacanza in un albergo a 4 stelle con il loro figlio 24enne, affetto dalla sindrome di Norrie, la quale comporta cecità e deficit cognitivi.

Come riportato dai media, ai genitoriragazzo è stato detto: “Alcuni ospiti si sono lamentati di suo figlio a cena, vi va se vi sistemo in una saletta un po’ in disparte?”. I genitori aggiungono che la saletta era separata anche visivamente dal resto del ristorante da una porta a vetri decorata, effetto “vedo non vedo”.

Offesi e amareggiati, si sono rifiutati di assecondare la richiesta, sentendosi così costretti a saltare la cena e a ripartire l’indomani nell’impossibilità di viversi una vacanza come tale in un clima così pregiudizievole. La mamma ci tiene ad evidenziare che il figlio non aveva assunto comportamenti che avessero potuto infastidire gli altri ospiti. Diversamente l’intolleranza di questi ultimi non sarebbe stata comunque giustificabile. Tuttavia, la precisazione ci fa capire come si possa reagire alla sola presenza, con un senso di disagio tale da indurre a muovere la richiesta, “garbatamente” arrogante, di allontanarlo persino dalla vista.

Chi si è sentito legittimato a farla parte da assiomi che ritiene indiscutibili e che ha veicolato implicitamente: “vostro figlio è obiettivamente un fastidio”, “questo non è posto per vostro figlio”, “nessun altro, oltre voi, vorrebbe stare insieme a vostro figlio”.

Proprio quest’ultimo messaggio angoscia più di tutto. La quasi totalità dei genitori di figli con handicap grave convive costantemente con il pensiero oscuro di come sarà la vita di questi ultimi dopo che loro non ci saranno più: il cosiddetto “Dopo di Noi”.

È un pensiero così preminente che i più investono ingenti risorse per garantire loro una buona qualità della vita anche in loro assenza: comportamenti di rifiuto così sfacciati attualizzano lo spettro dell’emarginazione e fanno esplodere un senso di angosciosa prostrazione. Ciò detto non per sminuire la gravità del fatto in sé, ma a beneficio di chi potrebbe chiedersi come mai un fatto isolato possa aver prodotto tanto dolore.

Nel testo “Le Microaggressioni – La natura invisibile della discriminazione” gli autori sostengono che le persone di etnia diversa da quella caucasica, Lgbtq+, le donne e le persone con disabilità subiscono quotidianamente micro insulti (allusioni a caratteristiche negative della categoria), micro assalti (insulti espliciti), nonché micro invalidazioni (allusioni al non avere pieno diritto a stare in un contesto sociale o a manifestare le proprie caratteristiche). Nel volume si sostiene che le micro aggressioni possono indurre ansia e depressione, avere ricadute a livello socio-economico e sulla salute, fino a esporre al rischio di subire violenze: la delegittimazione a stare in società induce a creare luoghi speciali i quali spesso si trasformano in microsistemi chiusi, abbandonati a loro stessi, dove i diritti di utenti e operatori sono sospesi.

Reagire alle micro aggressioni è estremamente complicato a causa del loro carattere implicito. Per non cadere nel paradosso tra il subirle e il reagire scompostamente è necessario svelare i messaggi impliciti e restituire agli autori la consapevolezza della loro gravità. Comprensibilmente il dolore porta le vittime a ritrarsi, tuttavia è fondamentale mantenere l’equilibrio emotivo per calcare a testa alta la scena sociale e guardare negli occhi chi pretende di cancellare da essa chiunque si discosti dal feticcio bianco-etero-abile.

Nella relazione IO-TU è possibile metterli di fronte alla vergogna che nel loro intimo sanno di provare (dato che delegano ad altri il compito di agire i loro pregiudizi) e alla ruminazione rabbiosa che si attorciglia attorno all’impossibilità di essere loro stessi all’altezza dell’ideale perfezionista. Frustrazione che evidentemente non li abbandona mai… neanche in vacanza.

*psicologo e psicoterapeuta

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Nell’ intervista che segue, tra i diversi aspetti riguardante la disabilità, Lelio Bizzarri parla del rapporto tra handicap e sessualità

Ho imparato ad accogliere dopo essere stato accolto

di Tommaso Bogliacino

Da quando ne ho sentito parlare — avevo circa 20 anni ed ero in seminario — mi ha sempre affascinato in Charles de Foucauld, francese doc, la tonalità di esploratore. In tale luce di ricercatore fu facile per me cogliere ed essere attratto dal suo ‘fuori-riga’, sempre notevolmente fuori dagli schemi abituali di buon cattolico, di monaco, di prete, di sottolineatura dell’umano semplice prima che ‘conte’ o ‘soldato’ o addirittura ‘francese’, prima che ‘prete’ o ‘religioso’.

La mia storia inizia con la guerra, la seconda guerra mondiale, in un paese delle Langhe, terra da confine del mondo. Più isolata ancora l’alta Langa, terra d’identità locale difesa a denti stretti, e però così bagnata di povertà in tutti gli aspetti da lasciar campo libero a sogni di vera umanità fraterna, a cammini di esplorazione, di ‘uscire dal seminato’ per conoscere, esplorare e incontrare gli altri.

Nei miei primi cinque anni di vita, le Langhe sono state terra di partigiani in guerra per la libertà. Ho visto, ho sentito, ho respirato e registrato, come si fa da bambini, inutili violenze, morti, sangue versato, lacrime e pianti tra persone che a Natale (il Bambino Gesù… il Gesù di chi?) erano capaci di scambiarsi auguri, di darsi la mano, e il giorno dopo di nuovo pronti ad ammazzarsi.

Per quale dono, per quale grazia, non so esattamente, ma in me da quel periodo è cresciuto il rifiuto totale della guerra e delle armi, perché strumenti di ‘inutili stragi”, di divisioni mortali, mentre si è fatti per la vita, per la gioiosa fraternità.

Inconsciamente, credo, portavo dentro un’esplorazione dell’uomo al di là o prima delle divisioni, delle lotte, una ricerca di fede dentro, ma anche oltre il catechismo insegnato dall’anziana Carolina, oltre i vespri cantati della domenica, obbligatori per tradizione, quando noi bravi giocatori di ‘pallone elastico’ dovevamo interrompere la partita per lasciar spazio al “guadagnarci il Paradiso”.

E poi fu tempo di seminario, tempo di radicalità sognata più che vissuta, di ‘viaggi’ oltre il ridottissimo spazio quotidiano, di sognare un tipo di prete che salva un’infinità di gente, che fa risuonare ‘prediche travolgenti’, ma anche confessioni infinite e facile fraternità con tutti.

Allora mi venne incontro, mediante la visita e la testimonianza di René Voillaume e Carlo Carretto, il nostro personaggio eccezionale nella sua ‘piccolezza’, fr. Charles de Foucauld, affascinante per il tono di ‘radicalità’ nel seguire Gesù di Nazareth, il tono di ‘novità’ in cui avvertivo, anche se molto ancora
nella nebbia, il fascino d’una vita religiosa diversa dai ‘soliti frati’ chiusi nei conventi o dagli affaccendati preti presi nel ‘salvare’ giovani e meno giovani dall’inferno..

Ordinato ad Alba prete diocesano, viceparroco con prevalente attività pastorale fra i giovani, credo che fu proprio questa ricerca — erano gli anni ‘68 — del primato di Dio e della persona umana, a spingermi verso la fraternità di Spello, a fare una settimana di ritiro in modo non tradizionale e con nuove prospettive.

Li ho trovato un clima, dei fratelli, che mi hanno fatto scoprire meglio Charles de Foucauld, mi hanno testimoniato il primato di Gesù Cristo sulla Chiesa, della persona umana sui suoi titoli o ruoli, il primato dell’amore-carità sulla religione. A Spello, nell’incontro con tanti giovani nei vari eremi, nell’ascoltarli e nel dire loro la mia esperienza, stavo imparando quanto vissuto da Charles: “ha fatto della religione un amore” (come Huvelin dice di lui).

Ripercorrendo gli anni passati in varie fraternità e luoghi diversi, posso dire che la nota di fondo è l’accoglienza. Sempre e dovunque sono stato accolto e ho cercato d’imparare l’accoglienza.

In Tanzania, a Chalinze, piccolo villaggio poverissimo, capanne sparse qua e là, di terra, anche il tetto di terra; polenta e ‘mlenda’ (salsa di erbe secche ridotte in polvere che, cotta nell’acqua, diventa ‘collante’) e a volte fagioli (se ce ne sono)… grande povertà.

Una mattina, come spesso facevo, passo a visitare, salutare, portare qualche medicina. Arrivo a una capanna, una donna (già ci conoscevamo) è seduta stancamente sulla kigoda; mi saluta, m’invita (Karibu, Karibu sana) a sedermi su un’altra kigoda già pronta. Incominciano i saluti, lunghi, pazienti. A un certo punto dei saluti lei mi dice: Mgeni amekuja (Un ospite è arrivato). Credo di indovinare. In effetti, lei si alza lentamente, va dentro, prende il suo bimbo, partorito durante la notte, ritorna, bimbo in braccio, e dolcemente pone fra le mie braccia l’ospite. Messaggio chiaro, altro che lezione di catechismo! Un bimbo che nasce è ospite anche della mamma, la mamma è ospite nella sua casa, la sua casa è ospite nel cosmo, perché il cosmo non è né mio, né tuo, il cosmo sono io, il cosmo è ogni altro, il cosmo è in Dio. Nel cosmo ciò che più conta è l’accoglienza reciproca.

Accoglienza, ospitalità, fraternità: i tre piedi della kigoda su cui ‘riposa’ ogni vero umano, su cui riposa Dio. Tre piedi da tenere ben saldi, senza orgoglio, senza vantarsi, semplicemente metterli in pratica. È accertato che negli ultimi anni Charles si firmava con il solo nome, senza titoli, neanche quello di fratello. La cosa ha un significato ben profondo: il valore della persona oltre ogni titolo, senza appartenenze, neanche di religione.

Forse è in questa linea che da 4-5 anni ho smesso anch’io di firmarmi fratel Tommaso, bensì semplicemente Tommaso o, in particolare da circa un anno, semplicemente Tom.

Il contrappunto di questa sinfonia di vita: vedere l’altro, sentire ogni altro come ‘terra sacra’ davanti a cui togliersi i sandali e così imparare ad amare. L’altro mi ha sempre fatto capire il mistero del vivere, che è dono di accoglienza reciproca, di ospitalità senza limiti, di fraternità desiderata e cercata in un artigianato di pace.

Un detto antico: «Ho cercato me stesso, non mi sono trovato; ho cercato Dio, non ho potuto riconoscerlo direttamente; ho cercato l’altro, ho riconosciuto la sacralità e mistero del suo volto, della sua vita.. Ho trovato tutti e tre: me stesso, Dio e appunto gli altri». E ciò che cerchiamo di vivere oggi alla Fraternità-Eremo Betania.

Lo so, non c’è prima l’altro e poi io e Dio. So ancora che non c’è prima l’adorazione eucaristica e poi i poveri e poi io…non c’è prima l’altro e poi io. C’è sempre un misterioso legame di unità, di circolazione da uno all’altro, come nella Trinità. So che la preghiera, se non mi porta a vivere l’unico comandamento dell’Amore, non vale niente; se celebrare l’eucarestia non mi manda a vivere l’eucarestia nel quotidiano, consacrato come l’ostia dalla fame d’amore dei sofferenti, dei violentati, di tutti, è carne senza Spirito.

Sono lontano dalla spiritualità, dalle tracce di Charles de Foucauld? Rendo grazie allo Spirito, alle Fraternità di Gesù e del Vangelo e ad altre, ai tanti poveri incontrati nei vari luoghi che mi hanno aiutato e anche ora mi aiutano a chiedermi non cosa farebbe Charles, ma “Cosa farebbe Gesù al mio posto, proprio in questo momento, in questa situazione”?

E allora, come faceva il beato Charles, ritorno a cercare nel Vangelo, che mi fa incontrare Gesù Cristo, ad adorarlo con meraviglia di bambino nell’Eucarestia, a respirarlo nello Spirito che aleggia ovunque, contemplando le stelle nella notte e le prime luci dell’Aurora, e desidero impegnarmi ad accoglierlo e ‘toccarLo’ – Fratello, Amico, Salvatore, Signore – nei poveri, in ogni altro ospite nel Cosmo.

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Testo tratto da ” Il coraggio di esplorare

Per contattare Tommaso:

EREMO BETANIA
Via Pralongo, 60
25080 Pratello di Padenghe sul Garda (Brescia)
030 9900674
info@eremobetania.it

https://www.eremobetania.it/

Ma nonostante…

di Norma Rangeri (il manifesto)

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Le donne AFGHANE, perseguitate dai talebani, inseguite da violenza e povertà, costrette a salire sui barconi, annegate con i loro figli nelle acque di Crotone.

Le donne IRANIANE, in lotta per le libertà più elementari e per la vita stessa, martirizzate fino alla morte.

Le donne UCRAINE in fuga con i figli o rimaste a sopravvivere sotto le bombe di Putin.

A tutte loro ieri il presidente Mattarella ha dedicato questo 8 marzo 2023, chiamando simbolicamente a rappresentarle, la studentessa iraniana, Pegah Tashakkori, e la giurista afghana Frozan Nawabi, diplomatica, candidata al premio Nobel nel 2014, accolte nel nostro paese.

Una cerimonia sobria, con lo sguardo rivolto al mondo, a «quelle aree del pianeta dove alle donne non sono riconosciuti i diritti fondamentali», vittime di una sequenza di orrori, elencati da Mattarella:

– Mutilazioni genitali
– violenze sessuali
– matrimoni combinati
– spose bambine
– discriminazioni
– divieti
– imposizioni assurde e umilianti
– impedimenti allo studio,
al lavoro alla carriera,
al voto, alla partecipazione
politica.

Dove invece, come nella nostra parte di mondo, le libertà democratiche sono assicurate, il fronte avanzato del femminismo lavora ogni giorno e scende in piazza (ieri in 38 città), per colmare ritardi culturali, arretramenti sociali, violenze omicide che negano di fatto quei diritti costituzionali di uguaglianza e libertà, pur formalmente riconosciuti.

Su queste frontiere purtroppo il nostro paese è, in Europa, in fondo a tutte le classifiche. Ko Un arretramento pesante nonostante le importanti novità politiche che, negli ultimi mesi, hanno riguardato la politica nazionale con la prima volta di una donna a Palazzo Chigi, con l’inedito di una donna segretaria del principale partito di opposizione. Due indubbie novità, ma assai diverse nel loro specifico significato. Perché l’ormai famosa citazione di un saggio della femminista americana Lisa Levenstein («Non ci hanno visto arrivare»), si riferisce, come ha spiegato la stessa Levenstein, alla forza di un movimento, quello femminista, capace, come nel caso di Elly Schlein, di spingerla alla guida di un partito. Mentre nulla ha a che vedere con una donna che arriva al comando di un partito, e di un governo, con meccanismi maschili conformi e culture antifemministe.

Nonostante la conquista di ruoli politici così importanti, compresi quelli dei massimi gradi raggiunti in alcune magistrature come la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione, o nelle istituzioni culturali, basta abbassare la visuale per ritrovarci nelle sofferenze quotidiane delle donne senza lavoro, senza pensione, senza reddito, senza riconoscimento sociale, prigioniere di un patriarcato che le priva di ogni autonomia, relegandole in gabbie di moderna schiavitù.

Tuttavia resta fortissima la consapevolezza della propria differenza, nel corpo e nella mente, resta inestirpabile la “Coscienza di sfruttata”, come recitava un libro pietra miliare del neofemminismo. E non c’è regime politico o sistema economico che possa cancellarla.

Problemi riguardo al femminismo? E perché?

di Dale Spender

Il femminismo non ha combattuto guerre.

Non ha ucciso oppositori.

Non ha attrezzato campi di sterminio, affamato nemici, praticato crudeltà.

Le battaglie del femminismo sono state

per l’istruzione,

per il voto,

per migliori condizioni di lavoro,

per la sicurezza sulle strade,

per la cura dei bambini,

per il benessere sociale,

per i centri di intervento contro lo stupro,

per i rifugi delle donne,

per le riforme legali….

Se qualcuno dice: “Oh, io non sono femminista.”, io chiedo: “Perché, qual è il tuo problema?”

 

(*) Suggerita da Rita Clemente

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