Non solo, ma prevalentemente l’uso che Caterina fa di FB é quello di esternare la sua lunga lotta contro la malattia, quasi a cercare sostegno alle sue continue e sofferte battaglie. Un combattimento portato avanti giorno e notte con grande dignità. Ho detto all’inizio non solo, perché spesso la sua attenzione é rivolta al mondo circostante, sempre più difficile da decifrare.
Mi sento grato a Caterina, nativa di Sennori e residente a Castelsardo, costretta al pensionamento anticipato dopo aver svolto la professione d’insegnante a Cagliari.
Grato perché é lei che dà a me e a tanti altri l’incoraggiamento necessario per affrontare le tante difficoltà che la vita comporta, di salute principalmente.
Per quanto possibile, oggi, giorno del suo compleanno, voglio far sentire la mia sincera vicinanza a Caterina, e insieme a lei, a tutte le persone che portano quotidianamente avanti la loro lotta contro dure malattie.
La mia dura lotta
di Caterina Ladinetti
Accucciata sulla poltrona, non dormo e riposo.
L’aria fresca e frizzante mi dà una sferzata di tenera allegria e la fronte non gronda più.
I rumori di una casa in ristrutturazione, le allegre canzoni anni 70 di un muratore interrompono il poco sonno indotto dai farmaci.
Il povero Morfeo ha raccolto l’elenco delle persone che patiscono l’insonnia, un breve cenno col capo e, malasorte, “s’inde fuide de domo mia”.
Decido di levarmi dal letto, dopo aver faticato a rintracciare testiera e pediera.
Mi dispongo a mezza luna e tento di stiracchiarmi. Tentativo fallito.
Mi riesce benissimo un crampo al piede destro e al polpaccio sinistro. Vedo le stelle, compresa quella cometa, giacché manca pochissimo al Natale.
Stendo dita e gamba e il dolore fa il bis. Mai che si accontenti di una visita rapida sto cacchio di dolore. Pretende pure il tris.
Mi spingo nei paraggi del comodino dove riposa, beato lui, il mio tripode, deputato ad accompagnarmi nei servizi.
“Biadu a isse, tettaru che fusthe ed eo appiccada” al manico che dovrebbe appropinquarmi al deambulatore, ausilio che spingo come avessi un passeggino e nel frattempo mi do involontariamente le botte alle caviglie, alle unghie dei piedi che ho ridotto ai minimi termini e agli stinchi.
Quando passeggio da sola o con mio marito, sento che mi assale la voglia di rispedire al mittente sguardi che fissano come scimmie il deambulatore o il resto dell’ambaradan.
La pelle delle mie gambe, con segni di cicatrici, ematomi, croste disseminati ad ogni latitudine e longitudine, macchie bianche da poca melanina e collezione di nei di ogni tipo, molti dei quali sono stati levati 20 anni fa.Al loro posto ho una bella ragnatela di cicatrici.
Nel 2010, dopo altri gravi problemi, all’ospedale Oncologico angeli vestiti di bianco hanno individuato un melanoma a forma di macchia di inchiostro, nero, viola e blu con margini anomali.
Il giorno successivo ero già in sala operatoria. Medicazioni e terapia varia.Marito e figlio erano sereni, ma io tremavo come una canna al vento. Paura? Chissà!
Sulla sua scia cavalcai l’onda, quella schifezza di tumore che si chiama melanoma. Tumore maligno di 3° grado, raro in Sardegna, fra i più aggressivi, assieme al tumore al pancreas per la velocità con cui si infiltra negli strati della cute e più giù.
Ora vi sono cure e la scienza fa passi da gigante. In estate e inverno protezione 50, anche in città. Controlli ogni 4 mesi dei nei. Se vi ritrovate nei o escrescenze sospette, non state a casa in silenzio per vergogna o paura. Fa nulla se non avete fatto la ceretta e avete i peli intrecciati a forma di calza a rete e i peli dell’inguine che sfiorano le ginocchia e attendono le manine sante della vostra estetista.
Mi sono affidata, sebbene disperata e titubante, alle competenze degli esperti, alle cure degli infermieri, al sostegno affettuoso di mio marito e mio figlio che mi hanno spronato e sgridato, e alla vicinanza dei miei cari genitori ormai deceduti.
Non meno importanti, ci sono la stima, l’affetto e la vicinanza di amiche, colleghi e colleghe di decenni d’insegnamento.
Meravigliosa mia zia Mialina, donna “moderna” in tempi in cui le donne difficilmente potevano affermare la loro personalità,senza pagare il prezzo dell’essere chiacchierate e segnate a dito, sopratutto se appartenevano a famiglie povere.
Donna ingegnosa e laboriosa, intelligente e arguta. Non era l’istruzione a farle fare quel passo in più, ma era la sua curiosità sana e saggia.
Con lei si poteva parlare di tutto,dalla politica all’attualità, sempre con un commento appropriato e finemente elaborato.
Nemica dell’ingiustizia e sempre dalla parte dei più poveri. Coglieva ogni aspetto delle cose e difficilmente sbagliava la sua valutazione.
Un carattere dolce e battagliero, amante della tradizione senza subirla negli aspetti negativi di conservazione, generosa e severa, sarda e sennorese fino al midollo, nel senso migliore di quanto questa terra può imprimere.
Ci ha amati tanto e noi abbiamo amato lei. È stata zia in ogni senso, con cura e comprensione, una donna che ho sempre ammirato, una donna che mi ha sempre capito.
Non l’ha risparmiata il dolore, ma anche in questo é stata d’insegnamento, nell’accettarlo così come si accetta la vita, senza disperarsi mai.
Grazie, dolcissima zia, grazie per quanto hai lasciato dietro di te, donna dal cuore bellissimo.
Quante sono oggi le guerre nel mondo? Tante, troppe. D’altra parte, di guerre è costellata l’intera storia dell’umanità, dall’Europa all’Africa, dalle Americhe all’Asia.
Guerre tra Stati sovrani e guerre civili
Guerre mosse da interessi economici o da mire espansionistiche
Guerre di religione o etniche
Guerre mondiali o locali
Guerre lampo o di logoramento.Battaglie che si moltiplicano alimentando il drammatico conteggio delle vittime e il sempre florido mercato degli armamenti.
Diceva la filosofa Hannah Arenth che
“la guerra non ripristina diritti, ridefinisce poteri”.
Una realtà con cui si scontra chi, da sempre e a diverse latitudini, cerca di costruire la pace, intesa non come semplice tregua tra battaglie,
La boria che caratterizza l’attuale governo – che oltre un anno fa vinse le elezioni anche grazie alla promessa che sarebbero riusciti a dare risposta alla questione riguardante l’immigrazione – continua a essere insopportabile, ma comparando i dati ufficiali degli ultimi tre anni dal primo gennaio al 5 dicembre, cioè oggi, i migranti arrivati sono stati 63062 nel 2021, 95758 nel 2022, 152882 nell’ anno corrente. Siamo a conoscenza dello scandaloso accordo tra il premier italiano e quello albanese per “custodire”, a spese nostre e in un Paese extracomunitario, i migranti in attesa del riconoscimento o meno della loro richiesta di asilo.
Dieci anni fa circa ebbe a dire in proposito Erri De Luca: “Le porte per i migranti in Italia sono chiuse solo a livello dei palazzi del potere, nei piani alti. Al piano terra le persone capiscono benissimo chi sono queste persone: nuovi cittadini, nuove energie che vengono a dare una scossa a una società vecchia e stanca. Io penso che i nipoti di coloro che sono sbarcati a Lampedusa diventeranno i nostri presidenti, e saranno orgogliosi dei loro nonni”.
Personalmente, vista la paura del diverso che sempre più sta condizionando i cittadini “del piano terra”, e constatando le scarsissime esperienze di buona accoglienza e integrazione, non sono convinto che tra la gente comune prevalga molta buona disposizione verso i poveri che vengono a crearci disturbo. La guerra fatta da certa politica a Mimmo Lucano la conosciamo, e la chiusura sta sempre più prendendo il sopravvento.
Di tanto in tanto riguardo volentieri questo bellissimo video che propongo di seguito, realizzato nel 2014 da Alessandro Gassman con parole adattate proprio di Erri De Luca su musica composta ed eseguita dal Canzoniere Grecanico Salentino. Nel clip si vede un pescatore che sistema la sua attrezzatura davanti al mare in tempesta. improvvisamente, aguzzando la vista e rimanendo incredulo, vede emergere dalle onde un gruppo di migranti che faticosamente riescono a raggiungere la riva e avviarsi a passo spedito verso un destino pieno di aspettative e ancora del tutto sconosciuto. Quando arrivare dai flutti sente le grida di una donna seriamente in difficoltà, non esita a lanciarsi in suo soccorso riuscendo a salvarla. Ripresosi dalla fatica e alzato lo sguardo, in quella donna che pian piano si allontana tenendo in mano una vecchia valigia, riconosce sua madre che a sua volta, ancora giovane, era stata costretta ad allontanarsi contro voglia dalla sua terra in cerca di una vita migliore. Ogni volta che decido di guardare queste struggenti immagini, lascio che le lacrime escano fuori liberamente, segno forse di impotenza, di delusione, di rabbia….
Solo andata
Siamo gli innumerevoli raddoppia ogni casella di scacchiera lastrichiamo di corpi il vostro mare per camminarci sopra
Non potete contarci: se contati aumentiamo, figli dell’orizzonte che ci rovescia a sacco
Nessuna polizia può farci prepotenza più di quanto già siamo stati offesi faremo i servi, i figli che non fate le nostre vite i vostri libri di avventura
Portiamo Omero e Dante, il cieco e il pellegrino l’odore che perdeste l’uguaglianza che avete sottomesso
Da qualunque distanza arriveremo a milioni di passi noi siamo i piedi e vi reggiamo il peso spaliamo neve, pettiniamo prati
Battiamo tappeti raccogliamo il pomodoro e l’insulto noi siamo i piedi e conosciamo il suolo passo a passo
Noi siamo il rosso e il nero della terra un oltremare di sandali sfondati il polline e la polvere nel vento di stasera
Uno di noi, a nome di tutti, ha detto “non vi sbarazzerete di me va bene, muoio, ma in tre giorni risuscito e ritorno”
Recitato:
In braccio al Mediterraneo migratori di Africa e di oriente affondano nel cavo delle onde. il pacco dei semi portati da casa si sparge tra le alghe e i capelli La terraferma Italia è terrachiusa. Li lasciamo annegare per negare.
LE “SOSTANZE TOSSICHE” È SEMPRE MEGLIO SEPPELLIRLE PIÙ IN LA POSSIBILE…EJAEJAEJA
di Claudio Canal
Mi avvicina una bambina e mi indica il padre che nuota al largo. Vorrebbe parlarmi. Lo raggiungo. Mi avverte tra una bracciata e l’altra che alcune ambasciate, compresa quella italiana, sono state occupate da manifestanti. C’è agitazione nel paese. Non so chi sia e neppure lui mi conosce. Ha capito che sono straniero, italiano.
Siamo sulla splendida (allora) spiaggia di Durazzo. Un albergo per lavoratori meritevoli e una rotonda sul mare. Trentatré anni fa. L’anno dopo sarebbe crollato il regime, fantasioso impianto di socialismo reale sovietico-cinese, nazionalismo balcanico e sultanato ottomano. Sistema che ha traghettato l’Albania verso la modernità, procurando inaudita sofferenza e insolite speranze.
Tra queste la Terra Promessa, l’Italia. Terra amara. Quando la nave Vlora arriva a Bari furoreggiano in automatico il pressapochismo e il razzismo. Gli albanesi ammassati a migliaia nel vecchio campo sportivo sono oggetto del tiro del boccone per alleviarne la fame.
«Partirono per la costa del sogno/ e sprofondarono negli abissi, torbidi/ paurosi come / coscienze di mostri» (VisarZhiti).
Nel 1997, una carretta del mare fa rotta verso la Puglia. Viene speronata da una corvetta della Marina Militare italiana. Un centinaio e più di annegati. Era Venerdì Santo. È il crimine di pace che inaugura l’infinita passione e morte degli emigranti nel Mediterraneo.
Febbraio 2001, una ragazza, aiutata dal fidanzato, uccide a coltellate la madre e il fratellino. Inquirenti, giornali e TV gradiscono subito il resoconto dei due: «sono stati degli albanesi», ne fermano uno, fiaccolate sparse contro gli immigrati. Poi tutti si ricredono. Terra dolce. Gli albanesi e le albanesi si situano nella società italiana. Lavorano, si sposano, studiano, sognano, vanno in pizzeria, muoiono. Alcuni tornano in Albania. Altri vanno e vengono. Qualcuno delinque. Quasi nessun italiano ripete ancora: «è albanese, però gran lavoratore».
Noi italiani siamo portatori di una memoria collettiva frastornata e conflittuale su tutti i nodi della storia degli ultimi due secoli, ma ritroviamo l’unità nazionale nel colonialismo nostrano, vero cuoco dell’immaginario collettivo.
Da Otranto a Valona ci separano 70 chilometri scarsi, vuoi che non andiamo a portargli la civiltà? Non sono più orientali gli albanesi, ma non sono ancora occidentali e noi gli spieghiamo per benino come diventarlo.
1920. Valona è occupata dalle truppe italiane e Roma potrebbe ottenere il protettorato dell’Albania intera. Invece deve ritirarsi di fronte alla rivolta armata di molti albanesi e alla sommossa provocata ad Ancona dai bersaglieri che si rifiutano di partire per l’altra sponda adriatica.
1939. Durazzo è occupata dalle truppe italiane e l’Albania tutta accorpata all’Italia fascista in modo che S.M. il Re d’Italia possa fregiarsi anche del titolo di Re d’Albania oltre che di Imperatore d’Etiopia.
1940. Sul territorio albanese parte la campagna per “spezzare le reni” alla Grecia e va subito in panne. Risolveranno la paralisi i camerati germanici. L’esercito italiano potrà finalmente essere ammesso in Grecia e, nel caso, fare stragi di civili (Domenikon). Ma questa è un’altra memoria immemore.
Quando trenta e più anni fa gli albanesi mettono piede sulla costa pugliese sono per noi extraterrestri. Da dove saltano fuori questi? Al-ba-ni-a? Una nebbia densa appanna i nostri sguardi. «In un luogo minuscolo come questo, talmente piccolo da poter disegnare la mappa su scala 1:1 sopra un pacchetto di sigarette…Nei cucchiai degli altri ci vediamo storti» (Parid Teferiçi).
Gli anni a seguire sono stati un susseguirsi di arroganza e di bei gesti, di invadenza e di fratellanza, di incomprensioni e di scambi, di occasioni perdute e di occasioni perdutissime. Qualcuno un giorno o l’altro ne farà la storia. Qualcuno un giorno o l’altro smetterà di usare la parola coloniale etnia per indicare la popolazione albanese (bosniaca, macedone, serba…).
Etnici sono sempre gli altri, in perenne attesa di essere promossi occidentali. Non sono etnici svizzeri, inglesi, danesi… italiani. Oggi sono attive quasi tremila imprese italiane in Albania, pensionati italiani vi si trasferiscono per fare la dolce vita detassata e lo scorso luglio/agosto c’è stato un boom turistico italiano. Nessuno ha bisogno di chiedersi chi è stato Fan Noli il vescovo ortodosso “rivoluzionario”, perché quello albanese sia un Islam europeo, cosa ci faceva lo scrittore Petro Marko prigioniero a Ustica, come si sono salvati dalla deportazione in Germania dopo l’8 settembre i soldati italiani in Albania, com’è che è morto a Torre Pellice Migjeni il poeta “nazionale”, perché è nata in Italia la letteratura moderna albanese, se quella del 1997 è stata una guerra civile sì o no, e quanto ancora floridi siano i miti fondativi del nazionalismo albanese e i surrogati attuali e altre domande fuori moda, scadute e inopportune.
«Tutto il mio magnifico paese ha una tale sete di tragedia! La inventa dal nulla, così come il Creatore ha inventato noi da un nulla di polvere» (Ornela Vospri).
Sarà vero questo impulso drammatico? Guarda l’Italia, Ornela, tu che la conosci bene. Il belpaese dove il sistema carcerario è un modello di civiltà che tutto il pianeta ci invidia così tanto che abbiamo inventato anche una specie di subcarcere pomposamente definito CPR-Centri di Permanenza per i Rimpatri. Ti piace? A noi sì, perché siamo maestri nel mascherare la tragedia con l’opera buffa.
I CPR sono carcerazione allo stato solido, puro recinto di animali umani. Hanno la consistenza giuridica che aveva un tempo l’accalappiacani: era il più forte. Li scarichiamo a voi i cipierre, infatti contengono merci tossiche, immigrati senza il foglietto col timbro giusto in tasca, così come riversiamo residuati inquinanti nei “paesi in via di sviluppo”. Il presidente socialista del tuo paese esulta in spensierata combutta con la nostra presidente. Eja Eja!
Albania refugium peccatorum e amen? Vi potrebbero bastare i 3500 dell’Esercito di Liberazione Nazionale dell’Iran, conosciuto anche come Mojahedin-e Khalq o MEK. È sfarzoso assai il mega villaggio Ashraf che li ospita e quale intreccio di alleanze, diplomazie, intrighi e finanziamenti lo sostenga non si sa. L’estetica dei filmati è nordcoreana. Che ci fa a pochi km da Tirana? Che ci farà un penitenziario per emigranti afroasiatici che hanno già espiato tutte le penitenze possibili?
Insomma Albania, no fischi per fiaschi, al largo da questa penisola querula che spaccia fandonie e vede solo il suo vedere.
E quindi, il generale “scrittore” è il nuovo capo di Stato maggiore delle forze operative terrestri dell’Esercito. Cazz…. Cioè, almeno credo di capire, quello che, standosene comodamente al riparo, ordina ai soldatini di fare pum pum col fucilone, lanciare le granatone, fare avanzare i carrarmatoni sfornati dalla Leonardo Spa etc etc.
E questo dopo che in agosto, a seguito della sua fatica letterariasifaperdire pubblicata in proprio, era stato destituito dal ruolo di comandante dell’Istituto geografico militare, che figuriamoci se so cos’ è.
Sicuramente, maperóperóperó, lo stipendio già grosso s’ ingrosserà ulteriormente, figuriamoci. Non son persone che si accontentano facilmente i “nostri” capi militari, in questo similissimi ai nostri carissimi parlamentari e governanti sopratutto.
Leggo che subito dopo aver preso possesso della nuova poltrona, il Medagliato esperto di come bisogna comportarsi con l’ infinita marmaglia che ci circonda (froci, puzzoni elemosinanti e vagabondi vari…) si è preso un mese di ferie ( o licenza?). Per motivi familiari, dic’Esso. Molto verosimilmente, almeno secondo me, deve consultare chi di finanza ne capisce per sapere il modo più conveniente per investire la massa di euroni guadagnati con la vendita del suo vademecum su quanto dicevo.
Tu che dici, parte li devolverà in beneficenza? Chissà chissà che, al CONTRARIO dell’ idea che noi maligni ci siamo fatti di lui, il signor Roberto dimostri un cuore grande così e abbia una sensibilità particolare verso tutte le innumerevoli povertà che ci circondano, arrivando addirittura a commuoversi pensando a chi non riesce a tirare avanti in questo mondaccio, ad iniziare da quei negracci brutti, sporchi e anche cattivoni che vengono a disturbare la nostra poco beata tranquillità.
Intanto è sott’ inchiesta “formale”, a quanto pare dovuta per il fatto che si sia premuto assai assai le meningi nel mettere nero su bianco i suoi alti pensieri su tutti quelli che non gli garbano e farci conoscere la sua nobile visione del mondo.
Vediamvediamvediamo e aspettiamo la prossima puntata.
Ci sono persone che dedicano tutta la propria esistenza al bene del prossimo, anche a rischio della propria stessa vita. Alberto Manzi, più noto come “maestro Manzi”, appartiene a questa categoria.
L’anno precedente alla sua nascita, il ministro della scuola Giovanni Gentile aveva attuato la riforma che aveva portato, fra le altre cose, al potenziamento della formazione e della selezione delle nuove classi dirigenti. Il ragazzo, figlio di un tramviere e di una casalinga, aveva due grandi vocazioni: il mare e l’insegnamento. E fu così che riuscì a diplomarsi sia all’istituto nautico sia alle magistrali (che all’epoca, per i maschi erano gratuite). Raggiunta la maggiore età, suo malgrado dovette combattere nella Seconda guerra mondiale. Faceva parte del corpo dei sommergibilisti della marina militare. L’esperienza bellica vissuta con angoscia e la perdita di diversi commilitoni gli aprì gli occhi: il mare non sarebbe stata la sua strada.
Anche all’università Manzi conseguì una doppia specializzazione: da un lato la laurea in biologia, poi quella in filosofia e pedagogia. Ciascuna a suo modo, queste discipline ebbero un ruolo fondamentale nella sua vita. Se è vero che studiò e si formò sotto il fascismo, è anche vero che Alberto Manzi fu un uomo del dopoguerra, della ricostruzione.
Refrattario alla coercizione e critico dell’autorità costituita, nel 1946 finì come prima esperienza ad insegnare nel carcere minorile Aristide Gabelli di Roma. La sua “classe” era formata da ben novantaquattro ragazzi fra i nove e i diciassette anni d’età. Che crimini potevano mai aver commesso quei bambini, quei ragazzini? Ma la guerra era finita da poco lasciando dietro di sé una moltitudine di orfani che spesso finivano nelle maglie della criminalità organizzata per sopravvivere o per sbarcare il lunario.
Da questa breve esperienza, durata circa un anno, nascerà La Tradotta, il primo giornale realizzato in carcere, e Storia di un gruppo di castori, uno dei primi esperimenti teatrali realizzati in un istituto di rieducazione. La trama parla per l’appunto di un gruppo di castori che lottano per la propria libertà. Un racconto nato lì per lì per catturare l’attenzione dei ragazzi e che essi stessi avevano contribuito a sviluppare. Qualche tempo dopo la moglie di Manzi, Ida, leggerà una rielaborazione del testo e lo convincerà a partecipare ad un concorso di letteratura per ragazzi. Fu così che Grogh, storia di un castoro si aggiudicò il Premio Collodi per le opere inedite nel 1948. Il successo sarà letteralmente internazionale, dal momento che verrà tradotto in ben ventotto lingue. Costituì anche il primo passo verso l’avvicinamento alla radio. Nel 1953 la Rai ne ricavò una riduzione radiofonica.
Nell’estate del 1955 Manzi ricevette un incarico in linea con la sua laurea in biologia: un progetto di ricerca in Amazzonia per conto dell’università di Ginevra. Lì doveva studiare un tipo particolare di formiche, ma quel viaggio cambierà la sua vita per sempre. Manzi entrò infatti in contatto con la popolazione locale, e questo incontro rinfocolò la sua profonda sensibilità nei confronti degli oppressi. Cominciò dunque a volte da solo, a volte con l’aiuto di alcuni studenti universitari e col supporto dei missionari salesiani ad alfabetizzare gli indios (o comuneros). Questi, vivevano un’esistenza misera, molti venivano sfruttati nelle piantagioni di caucciù, dove ogni tentativo di protesta veniva represso duramente dalla classe padronale.
Ritroveremo queste tematiche nei suoi racconti sudamericani: La luna nelle baracche (1974), El loco (1979) e E venne il sabato, pubblicato postumo nel 2014, l’opera più matura, che racconta della presa di coscienza corale dello sfruttamento della popolazione amerindia di un piccolo villaggio nella foresta.
Durante i suoi viaggi Manzi collaborò con alcune riviste come inviato, realizzando reportage sulla popolazione locale e sui suoi usi e costumi. Negli anni successivi al Concilio Vaticano II, infatti, l’attenzione alle missioni umanitarie nei Paesi del Terzo Mondo crebbe e il maestro romano colse la palla al balzo per far conoscere queste realtà.
Il pensiero di Manzi ruotava attorno all’idea di libertà, che si poteva raggiungere grazie allo studio e alla consapevolezza che ne derivava. Ma le autorità latinoamericane non sempre apprezzavano questa filosofia, anzi, via via diversi Paesi gli negarono il visto d’entrata. Finché non venne addirittura arrestato e torturato.
Non si sa molto altro su questo tragico episodio, che il maestro conservò con discrezione. Ma nonostante tutto, Manzi non si arrese e continuò i suoi viaggi di alfabetizzazione in clandestinità fino al 1984 durante le pause estive dalla scuola.
Il suo lavoro in America Latina seguì anche vie più istituzionali: nel 1987 il presidente argentino Raul Alfonsin lo invitò a tenere un corso di formazione di sessanta ore ai docenti universitari per l’elaborazione di un piano nazionale di scolarizzazione. Grazie a questo lavoro, il Paese riceverà nel 1989 il riconoscimento dell’ONU per il miglior programma d’alfabetizzazione del Sud America. Manzi non era nuovo a questo genere di onorificenze: infatti nel 1965 aveva già ricevuto un premio Unesco per la lotta all’analfabetismo. Ma questo è un altro capitolo della sua ricca vicenda, che ci riporta nuovamente in Italia.
Nel 1960 Manzi venne coinvolto in un progetto che lo rese celebre e che, visto dai giorni nostri, potremmo definire il primo “esperimento di didattica a distanza”. Il direttore didattico della scuola romana Fratelli Bandiera, in cui insegnava dal 1954, lo mandò alla Rai per un provino per prendere parte a Non è mai troppo tardi. Si trattava di una trasmissione televisiva nata da un’idea del direttore generale della Pubblica Istruzione, Nazareno Padellaro, il cui obiettivo era quello d’insegnare a leggere e a scrivere agli adulti non alfabetizzati.
Manzi superò il provino e divenne il “maestro d’Italia”. Il suo fu un successo planetario: riprodotto come un format in ben settantadue Paesi, in Italia andava in onda prima di cena. Il maestro disegnava a carboncino su grandi fogli bianchi delle scenette da cui partivano poi le sue lezioni. Inoltre utilizzava anche una lavagna luminosa, all’epoca un’attrezzatura avvenieristica di grande impatto. Il successo fu travolgente, e più di un milione di persone conseguì la licenza elementare seguendo le lezioni del maestro Manzi. L’Italia degli anni del dopoguerra portava ancora su di sé un pesante fardello di analfabetismo che nonostante la martellante propaganda nemmeno il fascismo era riuscito a debellare.
Manzi continuò a percepire lo stipendio d’insegnante statale, e un “rimborso-camicie” dalla Rai (le sue si sporcavano col carboncino). La trasmissione continuò fino al 1968, poi venne sospesa perché la scuola pubblica era ormai un’istituzione avviata.
Manzi morì nel 1997 a Pitigliano, in provincia di Grosseto, dove, rimasto vedovo, si era trasferito con la seconda moglie e la loro figlia, e dove aveva svolto anche l’incarico di sindaco. Dietro l’aspetto di quieto maestro piccolo borghese, ci lascia un’eredità morale da vero ribelle: «La rivoluzione è una perpetua sfida alle incrostazioni dell’abitudine, all’insolenza dell’autorità incontestata, alla compiacente idealizzazione di sé e dei miti imposti dai mezzi di informazione. Per questo la rivoluzione deve essere un evento normale, un continuo rinnovamento, un continuo riflettere e fare, discutere e fare. Gli altri, sono io».
Quel giorno, passandoci davanti, tra i manifesti funebri mi era parso di riconoscere un viso familiare. Bloccata l’auto e sceso, con sorpresa e con tristezza ho conferma che si tratta proprio di Gavino Delogu .
Il suo decesso aveva colpito molti a Sorso, e non solo quelli che lo conoscevano soprattutto per la sua attività di tastierista portata avanti insieme ad una coppia di amici, coi quali aveva avuto occasione d’ allietare molte feste di matrimonio ed altre diverse occasioni in cui esibiva allegramente la sua confidenza con le note musicali.
Ci si vedeva molto di rado con Gavino. Capitava specialmente durante il tragitto in treno al ritorno da Sassari. Uno degli ultimi incontri era stato meno frettoloso dei precedenti. Si era parlato soprattutto di musica, la passione che entrambi abbiamo trasmesso ai nostri rispettivi figli. Mi aveva detto con giusto e per niente mascherato orgoglio dei bei momenti trascorsi in casa a suonare con la moglie Timea e la figlia Olga, mentre la mamma Antonia Luisa ascoltava compiaciuta quel piacevole terzetto intento a curare il più possibile, attraverso la grande arte delle note scritte sul pentagramma, la propria sintonia familiare.
Insieme al mio abbraccio di vicinanza alla famiglia, spero che il tempo stia contribuendo a rimarginare la ferita provocata dalla dolorosa e improvvisa separazione.
Oggi, ricorrendo l’anniversario del suo decesso avvenuto il 4 dicembre 1997, ho sentito quasi doveroso dare un piccolo contributo per ricordare e onorare la memoria di Alberto Manzi, che personalmente, per il grande contributo dato alla promozione della Cultura e non solo a quella nazionale, ritengo essere un Eroe. In questa definizione, da parte mia nessun riferimento ai riconoscimenti per l’essersi distinto durante il conflitto mondiale, oppure, come si usa in questi tempi dove il significato delle parole spesso viene stravolto, per essere rimasto vittima di un casualissimo incidente stradale durante una delle moderne e armatissime “missioni di pace” in terre altrui. Meglio chiarirlo per non rischiare di essere frainteso.
Uomo da sempre impegnato nel far progredire la partecipazione alla vita Civile, ed é questo che ritengo vero Eroismo. Anche l’America Latina trasse beneficio dalla sua presenza, cosa che naturalmente ha dato fastidio ai dittatori di turno, quei criminali messi sulla poltrona del comando dal non raro arrogante Potere nord americano. Figuriamoci se uno come Manzi non avrebbe dato fastidio a chi ha sempre impedito che i popoli prendessero coscienza, e la sua vicinanza alla Teologia della Liberazione confermava la sua “pericolosità “. La Cultura, l’arma da sempre più temuta in assoluto da chi vuole tutt’altro che il Bene altrui. Del concetto e dell’esperienza in America del sud parla lo stesso Manzi nell’ultima intervista, riportata in fondo a questa pagina, in cui, oltre farci sapere che per le sue trasmissioni in tivù veniva ripagata con duemila lire piu il rimborso per farsi ripulire le camice sporche sempre di nero dei gessetti, ci dice anche che in occasione dell’omicidio di Kennedy gli fu detto di non parlarne, altrimenti chi ascoltava…..Ecco, puntualmente lui alla sera ne parlò, e proprio per farne discutere. Un tipettino coi cosiddetti Alberto.
Noi anzianotti conosciamo quest’uomo come il “maestro Manzi” per la sua scuola televisiva “Non é mai troppo tardi”, forse meno per ‘Educare a pensare”, cosa che sarebbe URGENTISSIMA da fare in questi attuali tempi di …Pochezza Pensante. Ma se si ha la pazienza di leggere l’articolo che segue di Eleonora Cortopassi, che ringrazio, lo si scoprirá anche in altre vesti.
Ecco una significativa lettera che nel 1976 scrisse ai suoi alunni di V elementare….e a tutti noi.
Voi siete parte di me, ed io di voi
Cari ragazzi, abbiamo camminato insieme per cinque anni.Per cinque anni abbiamo cercato di godere la vita, e per goderla abbiamo cercato di conoscerla, di scoprirne alcuni segreti. Abbiamo cercato di capire questo nostro magnifico e stranissimo mondo non solo vedendone i lati migliori, ma infilando le dita nelle sue piaghe, infilandole fino in fondo perché volevamo capire se era possibile fare qualcosa, insieme, per sanare le piaghe e rendere il mondo migliore.
Abbiamo cercato di vivere insieme nel modo più felice possibile. È vero che non sempre è stato così, ma ci abbiamo messo tutta la nostra buona volontà. E in fondo in fondo siamo stati felici. Abbiamo vissuto insieme cinque anni sereni (anche quando borbottavamo) e per cinque anni ci siamo sentiti sangue dello stesso sangue.
Ora dobbiamo salutarci. Io devo salutarvi.
Spero che abbiate capito quel che ho cercato sempre di farvi comprendere:
NON RINUNCIATE MAI, per nessun motivo, sotto qualsiasi pressione, AD ESSERE VOI STESSI. Siate sempre padroni del vostro senso critico, e niente potrà farvi sottomettere. Vi auguro che nessuno mai possa plagiarvi o addomesticare come vorrebbe.
Ora le nostre strade si dividono. Io riprendo il mio consueto viottolo pieno di gioie e di tante mortificazioni, di parole e di fatti, un viottolo che sembra identico e non lo è mai. Voi proseguite e la vostra strada è ampia, immensa, luminosa. E’ vero che mi dispiace non essere con voi, brontolando, imprecando; ma solo perché vorrei essere al vostro fianco per darvi una mano al momento necessario. D’altra parte voi non ne avete bisogno. Siete capaci di camminare da soli a testa alta,
PERCHE’ NESSUNO DI VOI E’ INCAPACE DI FARLO.
Ricordatevi che mai nessuno potrà bloccarvi se voi non lo volete, nessuno potrà mai distruggervi,
SE VOI NON LO VOLETE.
Perciò avanti serenamente, allegramente, con quel macinino del vostro cervello SEMPRE in funzione; con l’affetto verso tutte le cose e gli animali e le genti che è gia in voi e che deve sempre rimanere in voi; con onestà, onestà, onestà, e ancora onesta, perché questa è la cosa che manca oggi nel mondo e voi dovete ridarla; e intelligenza, e ancora intelligenza e sempre intelligenza, il che significa prepararsi, il che significa riuscire sempre a comprendere, il che significa riuscire ad amare, e… amore, amore.
Se vi posso dare un comando, eccolo: questo io voglio. Realizzate tutto ciò, ed io sarò sempre in voi, con voi.
E ricordatevi: io rimango qui, al solito posto. Ma se qualcuno, qualcosa vorrà distruggere la vostra libertà, la vostra generosità, la vostra intelligenza, io sono qui, pronto a lottare con voi, pronto a riprendere il cammino insieme, perché voi siete parte di me, e io di voi.
Il vostro maestro Alberto
Un grande contributo per innalzare gli umili
di Eleonora Cortopassi
Alberto Manzi nacque a Roma il 3 novembre del 1924 da Ettore, di professione tranviere, e da Maria, casalinga.
Si iscrisse dapprima all’istituto magistrale (allora gratuito per i maschi), e poi studiò all’istituto nautico, col sogno di diventare capitano di lungo corso. Nel 1942, a guerra in corso, il giovane Manzi si arruolò in Marina come sommergibilista. Nel 1943 Manzi aderì al battaglione d’assalto «San Marco», appartenente all’VIII Armata inglese.
Nel 1944 a soli vent’anni Manzi ebbe una bambina (Alda) dalla ragazza che frequentava, Ida Renzi, anche lei di professione insegnante, e che sposò ufficialmente nel 1946. Alberto e Ida ebbero poi altri figli, Massimo, Roberta e Flavia.
Alberto da piccolo col padre Ettore
Manzi a guerra in corso si iscrisse alla facoltà di Scienze Naturali, si laureò in Biologia all’Università della Sapienza di Roma e poi in Pedagogia. Divenne poi il direttore della Scuola Sperimentale dell’Istituto di Pedagogia della facoltà di Magistero dell’Università della Sapienza.
Fu così che iniziò a lavorare nell’ambito scolastico forte dei suoi studi: la sua prima esperienza fu all’Istituto romano di rieducazione e pena «Aristide Gabelli». Il posto era stato rifiutato da altri quattro colleghi prima di lui, ma Manzi colse al volo l’opportunità e pubblicò anche il primo giornale degli Istituti di Pena, La Tradotta.
Il lavoro di Manzi coi ragazzi dietro le sbarre attirò l’attenzione del Movimento di collaborazione civile di Giuliana Benzoni, fondato alla fine del 1945 che aveva l’obiettivo di rieducare (o educare) i più giovani alla democrazia dopo il Ventennio.
Nel 1954 Manzi lasciò l’Università e iniziò a lavorare come insegnante nelle scuole: il suo primo incarico fu alla scuola elementare «Fratelli Bandiera» di Roma dove iniziò a svolgere ricerche di pedagogia scolastica (ricerche che non abbandonò mai più).
Quello stesso anno fu inviato dall’Università di Ginevra in Amazzonia per effettuare degli esperimenti scientifici (interessandosi in particolare dei nativi). Da quel momento in poi si recherà in Sud America periodicamente ogni anno fino al 1977.
Gli anni successivi alla guerra videro Manzi dedicarsi anche alla scrittura oltre che alla ricerca e all’insegnamento: con Grogh storia di un castoro vinse il Premio «Carlo Collodi» nel 1948 (il testo fu poi pubblicato da Bompiani nel 1950 e adattato in versione radiofonica dalla Rai tre anni dopo in quello che divenne una versione di enorme successo distribuito in svariati Paesi). Era stato proprio il Movimento della Benzoni a fondare il Premio «Collodi» nel 1948 per promuovere la letteratura per i bambini e i ragazzi.
Andando a ritirare il «Collodi» a Milano Manzi conobbe Domenico Volpi, il nuovo direttore della rivista per ragazzi Il Vittorioso, fondata nel 1937, che lo invitò a collaborare con la rivista, una collaborazione che fu proficua che si sarebbe protratta per buona parte degli anni Cinquanta.
Con Il Vecchio Orso nel 1952 vinse il premio «Il Maestro» indetto dalla Radio italiana per la trasmissione «La Radio per le scuole». Orzowei però è stata l’opera forse di maggior successo di Manzi, che vinse il Premio «Christian Andersen» e poi fu edito da Vallecchi e Bompiani e tradotto in ben 32 lingue.
Lavorando con i ragazzi e i bambini più «difficili» e bisognosi prima, e poi maturando le proprie esperienze di educatore e pedagogo in Amazzonia e poi nelle classi delle scuole rurali poi come insegnante Manzi iniziò a comprenderela necessità e anche le possibilità dell’educazione da impartire alle classi sociali più umili.
Il maestro constatava la difficilissima situazione dell’educazione in Italia dopo la guerra e il Ventennio, e notava che non solo mancavano spesso e volentieri le attrezzature necessarie alla didattica, ma le scuole per i figli dei contadini mancavano perfino degli obiettivi primari per qualsiasi istituto scolastico elementare, ossia insegnare a leggere e scrivere.
Manzi nel programma RAI Educare a pensare
Le esperienze di educatore e pedagogo di Manzi «culminarono» nella trasmissione RAI che lo ha reso celebre, Non è mai troppo tardi, che fu in onda dal 1960 al 1968.
Dal 1954 la RAI aveva inaugurato le proprie trasmissioni televisive e quel nuovo e straordinario apparecchio divenne anche un potentissimo mezzo di educazione, una volta superato lo «shock» iniziale.
Manzi non era nuovo alla collaborazione con i mezzi radio televisivi: già nel 1950, quando lavorava al «Gabelli», aveva collaborato alla trasmissione radio Il vostro racconto. Lavorò al primo capitolo di una striscia di racconti che si chiamava Il tesoro di Zi’ Cesareo.
Non è mai troppo tardi si inseriva nell’ambito del programmi di Telescuola, un ciclo di programmi promossi dalla professoressa Maria Grazia Puglisi (che già aveva lavorato all’EIAR come annunciatrice a partire dall’entrata in guerra dell’Italia nel 1940) del Ministero della Pubblica Istruzione che a partire dal 1958 si era posto l’obiettivo di far arrivare l’istruzione anche ai residenti nelle zone rurali e quindi più difficilmente «raggiungibili» dalla scuola.
Nel 1960 Manzi fu inviato dal proprio direttore scolastico a fare un provino in RAI: si stava cercando un maestro per condurre un nuovo programma televisivo per insegnare a leggere e scrivere agli analfabeti adulti.
Durante gli otto anni di Non è mai troppo tardi, Manzi continuò a percepire il proprio regolare stipendio di insegnante; la RAI gli corrispondeva soltanto un «rimborso camicia» perché continuamente, coi gessetti, le camicie si sporcavano e bisognava cambiarle spesso.
Manzi di sè diceva che «Non insegnavo alla gente a leggere e scrivere: invogliavo la gente a leggere e scrivere».
Per via della scarsissima diffusione degli apparecchi televisivi nell’Italia degli anni Sessanta Non è mai troppo tardi si appoggiava a oltre duemila PAT(Punto d’Ascolto Televisivo) diffusi su tutto il territorio italiano. Era previsto che in ogni PAT ogni puntata fosse seguita da un maestro che, dopo la fine di ogni trasmissione, avrebbe provveduto a lavorare coi propri allievi (che non erano affatto solo dei bambini) sull’argomento proposto da Manzi in ogni puntata.
Non è mai troppo tardi è ricordato come uno dei maggiori e più importanti esperimenti educativi per adulti di ogni tempo, tanto che è stato premiato dall’UNESCOper il suo altissimo valore morale ed educativo ed è stato riprodotto anche in altre zone del mondo, inclusa l’America Latina frequentata dallo stesso Manzi ogni anno fino al 1984.
Dopo Non è mai troppo tardi Manzi continuò a scrivere, viaggiare, insegnare, spendersi per l’educazione, la divulgazione, la letteratura per ragazzi. Collaborò ancora col Ministero per l’Istruzione italiano e con la RAI negli anni successivi realizzando varie trasmissioni, sempre per promuovere l’educazione e «invogliare» allo studio e alla cultura. Il 1987 sarà il suo ultimo anno di insegnamento alla scuola elementare.
Eccetto i viaggi, le collaborazioni e le pubblicazioni, Manzi lavorò sempre presso la «sua» scuola elementare di Roma, la «Fratelli Bandiera», e tornò alla ribalta nel 1981 quando si rifiutò di applicare il metodo delle «schede di valutazione» previsto dalla riforma scolastica al posto della precedente tradizionale pagella; Manzi disse che non poteva bollare un ragazzo (che magari se lo sarebbe portato dietro per anni) con un giudizio arbitrario. Questa «disobbedienza» gli costò un anno di sospensione dall’insegnamento (e quindi anche dello stipendio). Dopo, Manzi fu persuaso a tornare all’insegnamento e a emettere un giudizio che però ottenne che fosse uguale per tutti gli alunni, «Fa quello che può, quello che non può non fa».
Nb
Il video che segue é introdotto dalla dicitura:
“Tv buona maestra”
Si, quella fatta da lui, e non certamente quell’attuale. (Piero)
Venni a conoscenza della morte di Adriano Stagnaro il 4 ottobre 2011. Era stata una scoperta casuale, e seppur a distanza di tempo, piansi per la sua scomparsa.Non lo conoscevo personalmente Adriano. Tempo addietro avevo scoperto il suo sito, dove con meticolosità aggiornava sull’evoluzione della malattia che giorno dopo giorno lo stava consumando. SLA, sclerosi laterale amiotrofica. Descriveva in modo particolareggiato le sue giornate, le uscite con gli amici,le terapie, la perdita graduale della sensibilità del suo corpo. Grande appassionato di sport e di vita all’aria aperta prima che la malattia lo colpisse.
Leggendo tra le pagine, avevo scoperto che una poesia del poeta indiano Tagore, “Rendimi libero“, era diventata per lui aiuto e motivazione per non arrendersi mai. Era il testo, seppur con qualche adattamento, che diverso tempo prima avevo messo in musica. Decisi di farne un filmato e di dedicarglielo, cosa che Adriano apprezzò molto e che custodiva in una pagina dello strumento di comunicazione che gli offriva internet, col quale son certo aiutava tanti altri ad affrontare le avversità della vita con quella misteriosa forza qual’é il Coraggio di sperare contro ogni speranza.
Registrata parecchi anni fa davanti ad una fotocamera, mi rendo conto che un tantino meno affrettata sarebbe stata meglio. La riascolto col pensiero fisso sullo sguardo dell’amico purtroppo mai incontrato e su quello di tutte le persone che in questo momento sono impedite da malattie che giorno dopo giorno rubano la loro libertà.
In seguito avevo saputo che anche una mia conterranea che pativa la stessa malattia, orafa a Sassari, nel 2017 aveva concluso il suo faticoso cammino terreno. Come Adriano, il moderno mezzo informatico le permetteva di liberarsi dalla prigionia in cui la costringeva la grave patologia.
Insieme alla presentazione che Adriano faceva di se stesso nel suo sito ormai inattivo, riporto anche il particolarissimo “Te Deum” di Susanna.
Per chi lo desidera, legato all’ argomento un bellissimo film visto nei giorni scorsi e tratto da una storia vera:
Mi preparo alla morte, amando la vita fino all’ultimo secondo
di Adriano Stagnaro
Ci sono malattie talmente terribili e devastanti che, istintivamente, siamo portati a pensare che non possano colpirci, che siano destinate agli “altri”.
Poi, un giorno, ci accorgiamo con terrore di essere diventati noi stessi “gli altri” di qualcuno.
Mi chiamo Adriano Stagnaro, sono nato il 29 settembre del 1970 ed ho la SLA. Anzi, forse sarebbe più corretto dire che ho una qualche forma di Malattia del Motoneurone, di cui la SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica) è la variante più nota e diffusa.Malattia irreversibile, incurabile e letale.
La SLA è una malattia bastarda, che non si limita a distruggere le cellule nervose che trasmettono gli impulsi motori ai muscoli volontari, portando il corpo ad una progressiva paralisi. La SLA, morso dopo morso, si mangia tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta: prima inghiotte il tuo futuro, poi comincia a sbocconcellarsi il tuo presente. L’appetito della SLA si rivolge preferenzialmente ai progetti, ai sogni, alle speranze, alle passioni. E’ una malattia prepotente ed egoista: non sopporta di essere messa in secondo piano, ma vuole a tutti costi diventare il tuo Pensiero Unico.
Il Pensiero Unico, piano piano, come un cuculo nel nido altrui, fa strage di tutti i tuoi interessi. A questo punto, nella tua vita, resti solo tu e la malattia, non riesci più a vedere altro, non esiste più altro. E’ come essere già morti, da vivi. Ma la SLA non ha fatto i conti con me.
Il Sito delle Anime Fiammeggianti nasce con lo scopo di fungere da baluardo di tutto ciò che mi appassiona, di tutto ciò per cui vale la pena combattere.È il fortino di quella vita interiore che nessuna malattia, per quanto subdola e spietata, riuscirà mai a strapparmi.
Un anziano sacerdote, don Albino, un giorno mi disse:
“Se nessuno berrà alla fonte della tua anima, la sorgente diverrà pantano e non servirà più a niente”.
E’ per questo che ho deciso di condividere con voi le passioni della mia vita, attraverso il sito “Anime fiammeggianti”. Voglio raccontarvi di come io mi preparo alla morte, amando la vita fino all’ultimo secondo. E di come si possa continuare ad amare Dio e ad aver fede in Lui anche dopo che la nostra vita ci è stata strappata dal Male.
Vedete, io non ho alcuna paura della morte, perché credo nella vita eterna. E’ ciò che verrà prima della morte che mi spaventa. La morte sarà un’amica che verrà ad invitarmi a fare un giro. Io uscirò dal mio corpo e andrò con lei, finalmente libero.
Te Deum laudamus per ogni nuovo giorno strappato alla Sla
di Susanna Campus
Cari amici, questo è il Te Deum di una malata di Sla. Sapete, quando ci si ammala, si guarda la vita con un’ottica diversa, ed è quello che è accaduto a me. Prima vivevo “distratta” dagli impegni quotidiani che riempiono le nostre giornate. Oggi, invece, ancorata al mio letto, sono costretta a guardare tutto dando un peso “diverso” (e io dico: più profondo) a ogni cosa che mi circonda. Quest’anno è stato un susseguirsi di buone e cattive notizie, eppure – se proprio devo dire con una sola parola quello che è il mio stato d’animo – quella parola è “grazie”. Sono ancora qui fra voi.
Dovete sapere che per comunicare utilizzo un sintetizzatore vocale, che nei primi mesi del 2013, dopo anni di onorato servizio, si è rotto lasciandomi senza voce. Provate a immedesimarvi. Da un giorno all’altro non potete più non solo parlare (io quello non lo faccio più da tempo), ma proprio comunicare con gli altri. Così ho dovuto ricominciare a “parlare” col cartello (cioè a “dettare” con lo sguardo le lettere raffigurate su un pannello che poi vanno a formare il mio pensiero). Non solo. Essendosi rotto il computer ho dovuto smetterla di navigare con gli occhi su internet. Una vera sciagura per una impicciona come me, cui piace moltissimo sbirciare negli affaracci altrui. E non potevo più nemmeno scrivere. su un giornale online e rispondere alle email degli amici. Così quella santa donna di mia sorella Immacolata ha fatto da computer, interpretando il movimento delle mie pupille, trascrivendo i miei pensieri, rincuorandomi quando mi deprimevo perché non capiva. Una fatica bestiale!
Poi la Sla (come fa ormai da diciassette anni a questa parte) ha ricominciato a perseguitarmi. Con i primi di luglio ho iniziato a respirare male e, quando ho fatto il cambio cannula e la broncoscopia, i medici hanno visto che la mia trachea era in procinto di rottura. Quando ho visto i volti dei miei rianimatori sbiancare ho capito che la situazione si era fatta grave. La Sla voleva ancora una volta “impedirmi di vivere” e a settembre, quando hanno dovuto ricoverarmi perché avevo un foro nella trachea, ci è quasi riuscita. Sono messa così male che non si è trovato un medico disposto a operarmi. Ora sono qui solo grazie al dottor Demetrio Vidili (che io chiamo affettuosamente “babbo”) che ha “messo una pezza” sostituendomi la cannula. Che dire? Fino ad ora sono qui anche se mi piange il cuore a pensare che, a causa di tutti questi intoppi, non sono potuta andare a Cagliari a incontrare quel gigante di papa Francesco.
Vivere in bilico, ogni giorno dover lottare non solo contro la malattia ma anche contro la tentazione di mollare tutto, non è facile. Ma, sarà che sono un tipo caparbio, sarà che sono circondata da una famiglia meravigliosa e da un’infinità di amici che mi sostengono, anche queste prove possono essere superate. La gratitudine che nasce dall’aver strappato “ancora un giorno” alla Sla è il sentimento che caratterizza la mia quotidianità. Non so, ma mi pare che questo mi aiuti anche a vedere le cose secondo una nuova prospettiva: tutto diventa importante se capisci che ti è stato donato.
Certo, la mia vita, e quella di tanti malati di Sla, non è più un’autostrada; assomiglia di più a una stradina di montagna, tortuosa e a tornanti, ma si addice bene al mio spirito da scalatrice che non s’arrende alle prime difficoltà. E poi, sapete, la strada che conduce alla vetta è ricca ogni giorno di sorprese che bisogna imparare a cogliere.