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Bersani&Vannacci: vediamo come va a finire

di Piero Murineddu

E quindi il signor Roberto, incredibilmente divenuto portavoce del pensiero di parte degli italiani dopo che si era alleggerito dei tanti nastrini appuntati sul petto – sovente solo prova della limitata visione che chi le tiene bene in mostra ha della vita  e ha goduto sempre come un maia….come un riccio nel dare ordini – per aver compiuto non so quali grandi imprese militari, sentitosi offeso per essere stato definito un anno fa “testicolo umano” in un pubblico dibattito, ha pensato di far sottoporre al giudizio della Legge – spesso dura ma sempre Lex è – chi si era permesso di cotanta impudenza.

Come documenta il video seguente

il querelato signor Pier Luigi, a cui va tutta la mia stima oltre l’istintiva simpatia che suscita la persona, nel suo sensato argomentare aveva dedotto che chi dà dell’ anormale a ebrei, neri e omosessuali, oltre che fattucchiere alle femministe e così via scrivendo, in uno degli innumerevoli “bar Italia” sparsi in ogni angolo remoto del Paese – presi ad emblema dei ritrovi quotidiani dove trionfano i luoghi comuni del diffuso italico “pensare” davanti a vari bicchierozzi di birra riempiti in continuazione sin dal mattino presto – può essere a sua volta definito, chi parla così dicevo, come una componente fondamentale dell’apparato genitale maschile.

Leggo in queste ore che il signor Roberto sarebbe disposto a ritirare la querela se ricevesse le scuse dal querelato, magari in un pubblico confronto. “Scuse” per aver detto la sacrosanta verità? Mah, fáccino loro. In ogni caso la mia stima per il signor Pier Luigi rimane, a differenza dell’ex graduato.

Anzi, ascoltando la sua storia umana e politica in questo video

me la confermo, aggiungendo che se in politica ci fossero persone come lui, oggi non saremmo allo sfascio come ci ritroviamo e in molti tornerebbero alle urne molto più volentieri…forse.

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Passeggiando in città

di Piero Murineddu

Ma si, dai, di tanto in tanto è cosa buona e giusta andare a respirare l’aria mattutina della città vicina, meno inquinata degli altri giorni dove, per lavoro e altri infiniti motivi, vi ci si reca con la propria scatoletta metallica a quattro ruote, seppur arroventata per il caldo estivo sempre più insopportabile in buona parte per cause riconducibili alla colpevole imbecillità umana.

Il parcheggio, andando presto, riesco quasi sempre a trovarlo in via Rolando, sotto la scalinata dell’istituto dedicato al giurista Domenico Alberto Azuni (1749 – 1827), lo storico liceo fondato nell’anno dell’unità d’Italia,1861, dove tra gli altri hanno studiato un presidente della Repubblica di cui mi vergogno (leggi Cossiga) e un segretario (veramente degno di onore qual’era Berlinguer) di un partito al tempo in cui la sinistra agiva da Sinistra e non comodamente e ambiguamente posizionata al centro come in questi cupi tempi in cui si è permesso alle Destre fascistoidi di rialzare la nera e sempre più arrogante cresta.

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Chi scrive, nel lontano millenovecento&fruscia, ha studiato in queste stesse aule e il ricordo, fermandomi un attimino davanti, mi ha portato alla scalinata che vedo ostruita per i lavori in corso  (FOTO 1).  In quella lontana mattinata di fine lezioni, prevalendo sull’istintiva esuberanza adolescenziale, riuscii a vincere a malapena la tentazione di buttar giù l’insegnante di greco e latino, un’anziana megera che conosceva si le due lingue antiche, ma della sensibilità dei giovani che si affacciavano alla spesso dura vita di adulti non capiva un c…. Comunque sia, oggi sono ancora a piede (e cervello) libero, segno che il carcere ha fatto volentieri a meno di me e i miei figli ne sono più che felici, insieme a chi mi vuole bene.

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Nel tabellone dei lavori in corso (FOTO 2) viene indicato che nel tempo il liceo “classico” – che nei decenni andati si occupava prevalentemente di far tradurre le versioni delle due lingue antiche (importantissime per conoscere l’italiano) sino a sciogliere il cervello dei poveri studenti, la maggior parte dei quali “figli di papà”  (tra questi sicuramente non io, figlio di un babbo che ha triburaddu assai per tirare su la famiglia) che ereditavano lo studio avviato del paparino – è diventato, il liceo appunto, “musicale e coreutico”, un termine quest’ultimo che con l’attività corale non c’entra… un piffero, ma è riconducibile alla danza. Quindi musicale. Per quanto mi riguarda, diciamo che se fosse esistito ai miei tempi, probabilmente oggi qualcosetta in più di musica capirei. Ma così non è stato,pax et bonum e tiro innanzi coi miei tre, quattro accordi di chitarra ben ritmati.

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La ­FOTO 3 è strettamente legata alla tragica attualità delle migliaia di morti ammazzate che continuano a sommarsi nella terra che ha dato i natali al Nazareno Rivoluzionario, quel 33enne fatto fuori dal potere religioso insieme a quello degli occupanti romani e non perché il PadreMadre, per redimerci dalla nostra durezza di cuore,  aveva bisogno di sacrificare suo Figlio per placare la sua ira. Non è fuori luogo anche il riferimento alla Sardegna come colonia di chi in diversi tempi e in vari modi ha cercato di spolparla, spesso riuscendoci. No, la cosa non riguarda solo il passato.

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La FOTO 4 è un piccolo frammento della lunga facciata del complesso universitario dirimpettaio al liceo. Richiama la realtà di una Sardegna dove gli eserciti che fanno parte della Nato, col sottomesso consenso dei governanti isolani e nazionali che si susseguono, continuano a giocare a far la guerra, togliendo prepotentemente terreno coltivabile, impedendo la pesca e depositando veleni a non finire. Ma evidentemente davanti alla cosa i più fanno spallucce pensando che tali luoghi, dove si sperimentano armi e tattiche destinate a distruggere e a non costruire, in fondo permettono a molte famiglie d’arrivare alla fine del mese. Ecco, questa è la giustificazione (del loro menefreghismo se non addirittura  complicità) che danno i poteri politici, anche o sopratutto locali.

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La FOTO 5 raffigura il francobollo da 600 lire che nel 1991 fu dedicato all’Azuni. Il preside e il sindaco di allora, Bazzoni e Borghetto, evidenziarono in perfetta sintonia che “il liceo fu un punto di riferimento essenziale per la classe dirigente cittadina e regionale”. Mah! Se i risultati sono quelli che spesso vediamo, sarebbe stato meglio che quei futuri “dirigenti” avessero frequentato le… Professionali, perlomeno sarebbero stati capaci di riparare il rubinetto che gocciola e non avrebbero causato infiniti danni agli altri.

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L’ultima FOTO, la 6, in realtà pescata dalla Rete, fa vedere il punto esatto dove ieri mattina ho parcheggiato la mia automobilina, in modo del tutto regolare e senza il rischio,  ritornando dalla passeggiata, di trovarmi una multona attaccata al parabrezza con gusto sadico dai solerti tutori di non so quale ordine il cui impegno principale sembra essere quello di riempire le casse comunali.

Il mio Credo

di Michele Meschi

Credo in un solo Dio, – e ci mancherebbe pure che dovessi averne altri, tant’è la fatica. Genitore, perché “padre” poteva andare bene quando la donna era un vaso e l’altro unico seme.

Onnipotente neanche un po’: semmai paràclito, che s’affretta a non lasciarmi solo, a stare qui con me.

Garante di un’evoluzione che non ha senso e verso, che si muove per mutazioni casuali, più o meno favorevoli a se stesse,fors’anche nelle cose invisibili come in quelle visibili.

Credo in un solo Signore, Yešu bar Yosef, il Cristo Cosmico del gesuita paleontologo francese, figlio di Dio come lo sono io, solo che in lui si fece appieno l’amore di trent’anni per il tu.

Perché un amante è tale solo se c’è un amato, prima di tutti i secoli, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato dall’unica sostanza che è l’amore, che tutto può creare.

Per noi si squarciò il velo tra la terra e il cielo, e per opera della Ruah nacque un uomo dalla giovane Maryam, perché “parthenos” dice di un’età e non di ginecologia.

La sua condanna a morte avvenne sotto Ponzio Pilato nel modo più infamante e feroce, ché questa era la pena di chi umiliava il potere politico e religioso. E non mancò di certo per i nostri peccati o in olocausto di alcun Moloch.

Nel tempo definitivo la sua Zoe, la vita che non cessa superò per sempre il peso della carne secondo le Scritture: come è eterno, ma in qualità più che in quantità, il nostro analogo destino di pienezza.

Ora il Figlio dell’Uomo è quello di Dio, e ci attende nella gloria per sovvertire ogni giudizio nel nome della misericordia e del perdono. E il suo regno non avrà fine.

Credo nell’amore, che è Signore e dà la vita, e procede dall’amante e dall’amato, e con l’amante e l’amato è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti e lo fa ancora, se tra questi ultimi sai riconoscere quelli veri.

Credo la Chiesa, una sola, santa e meretrice, un po’ Gerusalemme e un po’ Babilonia, ma stiamo attenti su quale delle due città sarebbe abitazione migliore.

La Chiesa cattolica, cioè universale, aperta ovvero a tutte le differenze come i prati sono ricchi di ogni fiore; una Chiesa apostolica, dove chi porta avanti la buona notizia sia ciascuno di noi, sacerdote senza gerarchia.

Professo un solo battesimo, sceso e risalito tra le acque come morte ad una vita morta, rinascita al servizio dei fratelli e al dono assoluto di noi tutti.

I morti non sono mai morti e la vita del mondo che verrà dobbiamo realizzarla prima qua.

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Un viaggetto estivo molto istruttivo

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di Piero Murineddu

Cancelli in legno aperti giorno e notte, prato ben curato ricoperto unicamente da alberi e lapidi affiancate da piantine fiorite con le radici che si nutrono direttamente dal terreno, un corso d’acqua leggermente torrentizio col ponticello per attraversarlo, persone che passeggiano in stradette prive di asfalto col cane al guinzaglio, altri che fanno la loro corsetta serale, bambini che giocano spensierati, nomi di defunti cremati scritti sulla parete di una roccia ….

È quanto ho visto e mi ha colpito maggiormente nel recente viaggio in Norvegia, ospite di una famiglia conosciuta da mio figlio Giuseppe negli anni delle scuole superiori e con la quale si è conservata una grande benevolenza reciproca. No, non si pensi assolutamente che chi scrive queste righe sia un grande viaggiatore, anzi, ma di tanto in tanto, la volontà altrui bisogna pur accontentarla.

Grandi spazi in questo Paese di poco più di cinque milioni e mezzo di persone, attraversato da lunghissimi fiordi e fiumi, ricoperto d’innumerevoli laghi e prevalentemente montagnoso, con cascatelle continue che si buttano nei torrenti che costeggiano le strade.

Diversi gli aspetti positivi di questi “vichinghi”, tutt’altro che appesantiti dal caldo insopportabile patito da chi si affaccia sul Mediterraneo come noi, e forse anche per questo, la mente se la ritrovano più rilassata per pensare

I cimiteri sono luoghi di frequentazione, fanno parte della vita quotidiana delle persone. Nelle grandi città come nelle località minori con case ricoperte interamente di legno, non sono visti come luoghi sacri alla stregua delle chiese. Che poi sul significato del termine “sacro” ci sarebbe tanto da approfondire. E su questo attenti a non fraintendere. Servendomi del traduttore automatico, su un cartello leggevo chiaramente che mi trovavo nel luogo della Memoria Locale per eccellenza, e di conseguenza il RISPETTO – atteggiamento che solo le persone intelligenti sono capaci di avere senza minacce di conseguenze legali – è assolutamente dovuto.

Naturalmente segno di una sensibilità diversa, e anche la prevalenza della confessione protestante credo influisca.

Assolutamente mancanza di costruzioni ricoperte di costoso marmo ma, come detto, semplici lapidi circondate dal verde.

Che, almeno davanti alla morte, questo popolo sia riuscito a realizzare quella UGUAGLIANZA che noi ci sogniamo, impegnati ed affannati come si è solitamente ad avere più degli altri e a far risaltare la nostra molto presunta superiorità?

Si, assai illusoriamente, la vanità che non raramente accompagna i nostri giorni terreni, vorremmo che durasse per sempre, ma….

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Degli altri? E ga si n’affutti

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di Piero Murineddu

Le foto sono di ieri, ma la cosa va avanti già da diverso tempo e, recandomi quasi quotidianamente al mio “Shalom” di Tre Monti, vedo che i rifiuti abbandonati vanno sempre più aumentando. Le immagini documentano infatti solo una minima parte di quanto si trova ai margini di questa strada di penetrazione agraria molto frequentata soprattutto in estate.

La strada statale 200 per raggiungerla non è da meno e in altre stradette del circondario cittadino la situazione non è migliore.

Segno di maleducazione e assoluta privazione di senso civico? Boh, e ga ni sá. La cosa che ritengo più grave è certamente che in certuni, nel compiere simile gesto perché non visti e possibilmente nottetempo, prevalga la MANCANZA DI RISPETTO PER LA PROPRIA INTELLIGENZA. Questo si che mi preoccupa, e la mia amata nipotina di poco più di un anno e mezzo, oltremodo intelligente e attenta a quanto le succede intorno e a cui spiego il triste andazzo di troppi adultisifaperdire, condivide con me il giudizio per il loro patetico pensare e agire.

Comunque, così è. Per quanto mi riguarda bisogna che ricordi di mettere in macchina qualche bustona trasparente per riempirla e portarla all’isola ecologica di Sossu, dove Vincenzo e sempre contento di sentirsi dire GRAZIE dagli utenti.

Matteo ci ha lasciati

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di Piero Murineddu

La veste talare, a volte un tantino esibita come segno distintivo da molti preti di recente ordinazione, immaginarla indossata da Matteo è praticamente impossibile. Era grande la GIOVIALITÀ che lo ha sempre caratterizzato, e bastava questa dote sicuramente innata che agevolava chiunque ad avere con lui un rapporto all’insegna della simpatia per questo prete dai modi semplici e diretti.

Tra noi c’è stata sempre grande stima e rispetto reciproci, ma non amicizia nel senso stretto del termine, e questo forse perché condizionati entrambi da quella riservatezza che si tiene quando si ricoprono “ruoli” all’interno di un’appartenenza comune, com’è stato durante i dieci anni trascorsi a Sorso lui come vice parroco, io animatore liturgico e di altri momenti comunitari.

Di quest’aspetto parlammo con molta franchezza quando nel 2013 andai a Borutta – appena sotto il monastero di San Pietro di Sorres dov’era parroco prima del suo trasferimento a Tissi – per registrare la sua testimonianza in occasione del decesso qualche mese prima di don Giovanni Manca, insieme al quale Matteo si era fatto le ossa e affinato cervello e cuore per intraprendere al meglio il suo impegno di servizio comunitario portato avanti con coerenza fino all’ultimo dei suoi giorni.

Le parole che ci scambiammo quella volta le tengo molto care, e posso dire che in quei momenti sperimentammo vera e intima CONFIDENZA, quella rara e preziosa sensazione che ha il potere di abbattere ogni atteggiamento di difesa, probabilmente da sempre desiderata sia da me che da lui ma che in tanti anni di “collaborazione” parrocchiale non riuscimmo mai a realizzare.

Ero a conoscenza dei suoi problemi cardiaci e poco tempo fa sono venuto a sapere che la sua salute si era ulteriormente aggravata per altri problemi. A darmene notizia è stato l’amico Giuseppe, in passato prete anche lui, che insieme ad altri suoi compagni di studi, tutt’ora preti “in pensione”, compreso il quasi novantenne Pietro Meloni, già vescovo di rara sensibilità umana, son soliti trovarsi per andare a far visita a loro confratelli spesso messi ai margini anche delle attenzioni diocesane e che non raramente patiscono la solitudine dopo una vita dedicata agli altri. Se ce ne fosse bisogno, prova che i preti non si differenziano dagli altri esseri umani.

A Matteo ormai allettato, Giuseppe aveva dato i miei saluti e quelli di mia moglie Giovanna. Con la sua flebile voce aveva manifestato la gioia per questo nostro pensare a lui nel momento di grande fragilità che stava vivendo. Ci eravamo ripromessi di andare a trovarlo personalmente. Purtroppo gli eventi non ce l’hanno consentito.

Si, in queste ore abbiamo perso una persona particolarmente cara, a me come per molti altri.

* Matteo sugli anni trascorsi a Sorso

La mobilità umana, l’ultima Rivoluzione

di Mauro Armanino

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Uno spettro si aggira nel mondo e non è quello annunciato da Karl Marx e Friedrich Engels nel loro Manifesto. Non si tratta né del comunismo né del proletariato ad esso ideologicamente legato che avrebbe conquistato definitivamente il potere.

Lo “spettro” che attraversa il mondo odierno non è altro che la mobilità umana. Migranti, rifugiati, sfollati, turisti, operatori economici e culturali solcano lo spazio conosciuto e non ci sono ambiti, zone o luoghi che ne siano immuni. Ad ognuno, peraltro, la sua mobilità e va da sé che queste non siano coincidenti. Quelle considerate “pericolose” sono quelle rappresentate in particolare da migranti e rifugiati.

Questi ultimi, da soli, in compagnia e soprattutto con pochi mezzi a disposizione riescono, spesso a loro insaputa, a creare varchi nei sistemi di controllo, nelle geografie, nelle politiche di contenimento. Operano cioè una destabilizzazione della realtà costruita dai potenti a loro immagine e somiglianza nel perpetuare l’attuale segregazione del mondo.

“Io sono la guerra”, singhiozzava una signora esule dalla Repubblica Democratica del Congo dopo aver subito violenze nel corpo e nello spirito. Mohammed invece mostra con delicatezza alcune immagini registrate sul telefono che raccontano di gratuite violenze nel suo Paese di origine, la Somalia. Lui e la signora sono allo stesso tempo il messaggio, l’esilio e la sofferenza scolpita sui volti. Ciò trasforma la loro vita, qui a Niamey, in Niger, in una drammatica metafora del nostro tempo.

Sono loro che confiscano le frontiere, aggirano i muri, si feriscono sui fili spinati, scompaiono nei deserti e affogano nei mari. Con paziente fermezza intessono anni prima di raggiungere quanto il destino non aveva contemplato per loro. Appaiono, in questo fragile momento storico, sconosciuti protagonisti dell’unica rivoluzione in atto nel pianeta. Non figurano pertanto casuali i tentativi, destinati al fallimento, di bloccare, fermare, dirottare, negoziare o delocalizzare la destinazione del loro viaggio. Sanno che, come in ogni rivoluzione degna di questo nome, avranno incomprensioni, sofferenze e martiri.

Ciò che portano al mondo è troppo prezioso per essere abbandonato lungo la strada. Sanno che ci si può consolare della perdita del passato ma non di quella del futuro.

Nigeria: “Abbiamo fame!”

da Nigrizia

Come molti analisti prevedevano, le manifestazioni antigovernative iniziate ieri in Nigeria sono sfociate in disordini che hanno provocato numerose vittime. Si è parlato di 3, poi di 7, infine – secondo quanto riportato dal quotidiano People’s Gazette – di 11 uccisi dall’intervento della polizia. I morti sarebbero invece 14 secondo il Daily Trust.

A Lagos, Abuja, Mina, Kano, Katsina e altre decine di località in tutto il paese, milioni di nigeriani sono scesi in piazza dopo che diversi mesi di vani colloqui tra il governo e i sindacati non hanno offerto alcuna soluzione alla grave crisi economica che affligge il paese. La peggiore crisi dell’ultima generazione, aggravata da un’inflazione annuale al 34,19%, il livello più alto in quasi tre decenni.

“Abbiamo fame”, uno degli slogan gridati dalla folla.

Banwo Olagokun, attivista che fa parte del movimento TakeItBack, uno dei gruppi che ha indetto 10 giorni di protesta, ha dichiarato: «Stiamo protestando perché il tasso di inflazione ci ha impedito di provvedere alle cose più basilari per la vita: cibo, acqua, vestiti, cure mediche».

Alcune delle richieste più radicali del movimento includono l’abolizione della Costituzione del 1999, il permesso ai nigeriani che vivono all’estero di votare e il rilascio dal carcere del leader separatista del biafra Nnamdi Kanu.

Il coordinatore nazionale del movimento, Juwon Sanyaolu, 31 anni, afferma che il movimento ha in parte tratto ispirazione dai recenti eventi avvenuti in Kenya, dove le manifestazioni avviate dai giovani della Generazione Z hanno costretto il presidente William Ruto ad annullare il controverso piano di aumento delle tasse e a sciogliere il governo.

Spinte dallo slogan EndBadGovernance (finiamola con il cattivo governo), catalizzatore dell’azione di massa a livello nazionale è stato quindi il continuo aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, seguito tra l’altro ai molteplici cambiamenti politici introdotti dal presidente Bola Ahmed Tinubu, al potere dal maggio 2023, e in particolare la rimozione del sussidio popolare per il carburante.

Tutto questo, secondo i media nigeriani, ha portato alla penuria e alla fame milioni di persone, facendo regredire il numero di famiglie della classe media, aggravando la disoccupazione giovanile che si è infine mobilitata, coinvolgendo milioni di persone nelle proteste.

Il governo ha imposto intanto il coprifuoco in varie regioni del paese e forze di sicurezza e camion blindati sono stati dispiegati in molte città.

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2 agosto 1940: memoria di un genocidio

Il 2 agosto in tutta Europa si ricorda uno dei meno noti tra gli stermini di massa del Novecento: 80 anni fa tremila rom furono soffocati in una sola notte

Il 2 agosto del 1944 un gruppo di soldati e ausiliari delle SS circondò le baracche che nel campo di Auschwitz ospitavano le persone rom e sinti. Dopo aver vinto una breve resistenza, le guardie sospinsero quasi 3 mila persone, quasi tutti donne, anziani e bambini – gli uomini erano stati allontanati qualche settimana prima per evitare problemi – fino alla camera a gas numero 5 del campo, dove li fecero entrare, nudi, a forza di spinte, calci e pugni. Entro la mattina successiva erano stati tutti uccisi e i resti carbonizzati dei loro corpi sepolti in fretta nelle fosse comuni scavate intorno ai forni crematori del campo.

Nella loro lingua, i rom chiamano gli anni dello sterminio Porajmos, o Porrajmos, che significa “la distruzione”, oppure Samudaripen, che significa “tutti morti”. Non sapremo mai quanti furono i rom a essere uccisi: di sicuro furono centinaia di migliaia, più di un milione secondo le stime più ampie, circa 250 mila secondo quelle più conservative. Le persone rom furono uccise dal regime nazista con la complicità dei suoi alleati, tra cui spiccava l’Italia fascista che iniziò le sue persecuzioni anni prima che Adolf Hitler arrivasse al potere.

Anche se non ebbe precedenti nella sua brutalità, il Porajmos non fu improvviso e inaspettato, come non lo fu la Shoah. Come gli ebrei, anche i rom erano da secoli percepiti come una sorta di corpo “estraneo” e “diverso” dal resto degli europei, additati cinicamente dai leader politici e religiosi come causa dei mali delle comunità nelle quali si trovavano a passare (nel 2000 la Chiesa Cattolica chiese ufficialmente perdono per aver appoggiato le persecuzioni dei rom).

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Mentre gli ebrei erano accusati di essere avidi usurai, i rom erano considerati truffatori, ladri e briganti: persone poco raccomandabili a causa del loro stile di vita vagabondo e irregolare. Diversi governanti del Medioevo e dell’età moderna cercarono di farli sparire, vietandogli per esempio di sposarsi tra di loro, con l’idea che costringendo le loro donne a sposare “buoni cristiani” si sarebbe arrivati a una naturale estinzione del gruppo. Oppure sottraendo loro i figli e assegnandoli ad altre famiglie, una pratica che ha avuto un curioso contraltare nella frequente accusa ai rom di rubare i bambini (anche alle famiglie ebree furono sotrattati per secoli i bambini e, nonostate questo, furono spesso accusati di essere loro a rubare i bambini dei “cristiani”).

Nell’Ottocento l’ostilità nei confronti dei rom venne in qualche modo temperata, almeno tra i ceti istruiti, grazie al fascino subìto dagli intellettuali romantici per le figure ai margini della società (così Victor Hugo poté rendere la gitana Esmeralda protagonista del romanzo Notre Dame e Giuseppe Verdi poteva assegnare ai rom, che chiama “zingari”, un ruolo tutto sommato positivo nella sua opera Il Trovatore). Ma alla fine del secolo, e poi sempre più nel corso dei primi anni del Novecento, il nazionalismo espasperato e la diffusione sempre più capillare del razzismo parascientifico segnarono l’inizio del periodo più difficile nella storia del popolo rom.

Persecuzioni e discriminazioni si diffusero in tutta Europa, anche nei paesi democratici, ma furono i regimi fascisti a portarle a un nuovo livello. Nelle Leggi di Norimberga del 1935, con cui il regime nazista stabiliva la persecuzione degli ebrei, i rom venivano privati della loro cittadinanza e del diritto di voto. Le deportazioni nei campi di concentramento cominciarono poco dopo, mentre con l’invasione dell’Europa Orientale alle squadre della morte delle SS (i cosiddetti “Einsatzgruppen”) fu dato l’ordine di radunare e assassinare, oltre agli ebrei e ai membri del Partito Comunista, anche tutti i rom che incontravano sulla loro strada.

Nel 1942 il capo delle SS Heinrich Himmler diede l’ordine di spostare tutti i rom dai campi di concentramento e dai ghetti ai campi di sterminio e di risolvere con il genocidio la Zigeunerfrage, il “problema degli zingari”. A soffrire di più furono i rom che abitavano nella penisola balcanica. Quasi centomila, secondo alcune stime, furono uccisi nella sola Jugoslavia dai nazisti o dal locale governo collaborazionista. Altre decine di migliaia furono uccise, lasciate morire di fame o deportate in Germania dai governi di Ungheria e Romania e dai funzionari nazisti che amministravano Cecoslovacchia e Polonia, mentre le squadre della morte SS uccidevano decine di migliaia di rom durante l’avanzata delle truppe naziste nelle immense steppe dell’Unione Sovietica.

Anche l’Italia fece la sua parte nella persecuzione dei rom, e la fece ancora prima dell’avvento al potere di Adolf Hitler. Già nel 1926 una circolare del ministero dell’Interno, di cui era titolare lo stesso Benito Mussolini, parlava della necessità di «epurare il territorio nazionale dalla presenza di zingari», accusati di essere individui criminali e asociali per «loro stessa natura». A partire dal 1938 le persecuzioni divennero sistematiche e si intensificarono ulteriormente dopo l’invasione della Jugoslavia, nel 1940, quando numerosi rom cercarono scampo in Italia dalle persecuzioni compiute dai nazionalisti sloveni e croati.

Anche se alcuni italiani, compresi alcuni funzionari pubblici, si comportarono nobilmente e cercarono di mettere in salvo più persone che potevano, le istituzioni approvarono e portarono avanti una persecuzione sistematica. Polizia e ministero dell’Interno non parlavano più di intenzioni future (“epurare il territorio”), ma ordinavano nel dettaglio come comportarsi immediatamente nei confronti della “razza” indesiderata. In un famoso documento inviato l’11 settembre del 1940 a tutti i questori e prefetti, il capo della polizia italiana ordinava di deportare immediatamente tutti i rom in località isolate e di sottoporli a sorveglianza speciale.

Il modello da seguire era quello dei campi di concentramento nazisti. Alcuni di questi campi probabilmente esistevano già da tempo, come il campo di Perdasdefogus in Sardegna, che sembra fosse attivo fin dal 1938. Su questo tema purtroppo la ricerca storica è ancora molto lacunosa e i campi di concentramento, i loro nomi, il numero di persone che vi erano detenute e le condizioni di vita al loro interno sono conosciute, ancora oggi, soprattutto per le testimonianze di chi ci è passato, più che per l’analisi accurata dei documenti dell’epoca. Sappiamo che furono creati almeno cinque campi di concentramento, mentre probabilmente prefetti e questori ne crearono molti altri, più piccoli e di fortuna, di cui non sono rimaste tracce o quasi. Dalle lettere e i racconti dei testimoni sappiamo che in alcuni campi le condizioni erano tutto sommato sopportabili, mentre in altri si moriva di fame o malattia.

Quando nel 1943 il regime fascista cadde, la maggior parte dei rom rinchiusi nel Centro e nel Sud del paese riuscì a sfuggire, ma per le migliaia tenuti prigionieri a Nord, come quelli detenuti nel campo di Greis vicino a Bolzano, la situazione si fece ancora peggiore. C’era poco cibo, nessuna disponibilità di cure mediche e il costante rischio di essere consegnati ai tedeschi. Sappiamo che la Repubblica di Salò, lo stato fantoccio nazista che aveva sostituito il regime fascista, consegnò o non si oppose al rastrellamento e all’invio in Germania di numerosi rom, anche se probabilmente non sapremo mai quanti esattamente. Alcuni di quelli che riuscirono a sopravvivere alle persecuzioni divennero partigiani. Dei dieci “martiri di Vicenza”, un gruppo di partigiani fucilati nel 1944, ben quattro erano di origine rom (i loro nomi erano Walter Catter, Lino Festini, Renato Mastini e Silvio Paina).

Dopo la fine della guerra, il destino che aveva tenuto uniti nelle persecuzioni ebrei e rom tornò a separarli. L’orrore dell’Olocausto rese politicamente intoccabile qualsiasi plateale accenno all’antisemitismo e rese impensabile l’introduzione di nuove forme di discriminazione legale nei confronti degli ebrei (da allora, anche quando l’antisemitismo è tornato a infiltrarsi nella vita politica, lo ha fatto in forme e modi in genere subdoli e meno visibili); per i rom invece le cose andarono diversamente. Il Porajmos, o Porrajmos,numericamente meno consistente della Shoah e meno studiato, rimane ancora oggi un evento sconosciuto a milioni di europei, mentre le discriminazioni, anche legali, nei confronti dei rom non sparirono mai completamente.

Nei regimi comunisti, per esempio, nonostante la promessa di eguaglianza tra tutti i cittadini, gran parte dei governi mantenne politiche segregazioniste e discriminatorie nei confronti dei rom, che rimasero per decenni soggetti a periodiche ondate di violenza, obbligati a frequentare scuole e ambienti diversi dal resto della popolazione.

Con l’allargamento a est dell’Unione Europea nei primi anni Duemila, migliaia di rom di nazionalità rumena e bulgara hanno potuto iniziare a viaggiare per l’Europa e moltissimi hanno scelto di abbandonare quei paesi dove vivevano da secoli sottoposti ad abusi e violenze. Spesso, però, il loro arrivo nell’Europa Occidente è stato accompagnato dalla rinascita di quegli stessi sentimenti da cui cercavano di fuggire, come si può toccare con mano ancora oggi in Italia come in gran parte del resto dell’Unione Europea.