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ANDEDDI A FAVV’AMMAZZA’, ovvero Pietosa Arroganza Clericale

Invito a scorrere con attenzione questa conversazione telefonica. Per renderla leggibile, cliccarci sopra.

 

mani

 

         

        ANDEDDI A FAVV’AMMAZZA’

 

di Piero Murineddu

 

Prima di arrivare a Cagliari, Giuseppe Mani è stato capo di tutti i cappellani militari, con diritto ai gradi di Generale. Per nove anni ha retto la Chiesa del capoluogo sardo, e in seguito è stato anche presidente della Conferenza Episcopale dell’isola.  Evidentemente, questo vecchio vescovo ormai in pensione, è un tipetto poco diplomatico e molto diretto. Diciamo al limite dell’istintivo. Se dessimo retta alla fondatezza degli influssi zodiacali, essendo il Nostro venuto alla luce il 21 giugno, ha fatto appena in tempo a superare l’irrequietezza dei Gemelli per abbracciare l’irascibilità del Cancro, ma lo scetticismo verso queste influenze delle stelle nella vita individuale è ammissibile. Ma poi, se si vuole assolutamente leggere l’oroscopo prima di mettere il naso fuori casa, chi se ne impipa:ognuno è libero di agire come meglio gli aggrada, di vivere secondo raziocinio o di consultare gli astri.

Tra gli episodi che hanno caratterizzato la  permanenza  dell’Illustrissimo Reverendo in Sardegna, precisamente nel 2007, dopo aver disposto il trasferimento del parroco di Sant’Eulalia di allora, in un incontro coi parrocchiani contrariati della decisione, affermò piccato: “Non vorrei che pensaste che voi amate la Chiesa e il Vescovo la odia, che voi siete intelligenti e io un cretino che fa le scelte. Levatevelo di testa, questo nella Chiesa non vige; questa non è Chiesa, questa è baracca!” Le cronache raccontano che andò via accompagnato dai fischi.  Un uomo abituato a dare ordini dunque, e gli ordini, perdinci, guai a discuterli, e non solo in ambito militare. E’ possibile che il caratterinonientemale  abbia sempre accompagnato l’  “uomo di Dio”, e si sa, con l’avanzare dell’età certi aspetti della persona si accentuano. Dunque, interpellato per telefono dal giovane giornalista impertinente, il vecchio prete ha perso la (poca) pazienza e ha mandato lui, i colleghi e il proprietario del giornale a “morì ammazzati” (nel posto dove vivo io si dice più modestamente a fass’ammazzà), non facendo mancare l’invito finale d’ordinanza di lodare Gesù Cristo. E va bè,che sarà mai…..di persone sanguigne e facilmente infiammabili il mondo è strapieno, e anche le gerarchie ecclesiastiche non sono esenti.  Il fatto è che la reazione è stata causata da lecitissime domande poste dall’intimorito giornalista (timore dal trovarsi ad interloquire con un monsignorone, tra l’altro addirittura  Generale), il quale non ha avuto neanche il tempo di rispondere il “Sempre sia lodato” finale d’ordinanza. Ognuno dia al fatto il giudizio che crede.

Voglio piuttosto soffermarmi sul seguito del poco gentile augurio:”Non voglio vedere il mio nome sul giornale, altrimenti do ordine ad un gruppo di gente di non comprare l’Unione per una settimana”. Oh caspiterina, proprio un vero Generale! Sembra che anche quando era a Cagliari abbia attuato questa – come chiamarla – minaccia, ritorsione, vendetta o, più poeticamente, boicottaggio. Nel caso di quest’ultima possibilità, sarebbe una forma di lotta nonviolenta, ma – e di questo chiedo scusa –  non propendo a pensare che l’illustre Mani sia un seguace di Gandhi o di Luther King. Credo invece che la minaccia del vecchio prete sia frutto dell’antica arroganza clericale che ha portato molti ad allontanarsi – grazie a Dio- da una certa Chiesa, che per secoli ha abusato del potere non solo spirituale sulle anime per tenere sottomesse le persone e condizionarne le vite. Anche grazie all’azione dell’attuale Papa, il Messaggio originale evangelico sta’ ritornando faticosamente in primo piano, nonostante le molte resistenze all’interno della stessa Chiesa (gerarchie, preti e molti laici). Ho fiducia che questa vicenda del mica tanto reverendissimo Mani sia uno degli ultimi colpi di coda di un clericalismo da sempre combattuto dallo stesso Gesù Cristo. Ma comunque, Egli è venuto a salvare i peccatori e, a differenza di quella umana, la Giustizia divina  guarda nel profondo. Se lo si vuole, nessuno è esentato dall’intraprendere un cammino di conversione, anche i gerarchi della Chiesa. Pentimento e Ripararazione, quindi: il vecchio arcivescovo si tolga i pesanti gradi di Generale, riconosca il suo sbaglio, chieda scusa a chi ha offeso e collabori, per quanto può, a svelare  tutte le turpitudini che hanno scandalizzato i piccoli e i grandi. Così sia

Regina e Chris: la svolta della loro vita

catrambone

 di Emanuele Lauria

La “nave della solidarietà” ha incrociato davanti alla statua della Madonna della lettera intorno alle 13. E, di lì a poco, ha lasciato sulla banchina Marconi il suo carico di vite scampate alle onde: 405 migranti, prevalentemente eritrei, soccorsi il 14 maggio su un barcone di legno a 30 miglia dalle coste libiche, fra Tripoli e il confine ovest della Tunisia. Lo sbarco ha sancito numeri da record della missione filantropica di Regina e Christopher Catrambone, lei calabrese e lui statunitense di origine calabrese, che hanno messo su un’organizzazione denominata Moas (Migrant offshore aid station) con lo scopo di cercare e trarre in salvo gli extracomunitari in fuga verso l’Europa.
La Moas, che ha sede a Malta, è l’unica associazione privata che si occupa in modo strutturale del recupero dei naufraghi nel Mediterraneo. Ha ripreso l’attività da pochi giorni e dal 5 maggio, il giorno di un primo sbarco a Pozzallo, a ieri ha salvato oltre 1.400 persone., fra cui 211 donne e 106 bambini. Sono numeri che con orgoglio vanta Cristopher Catrambone, giunto a Messina a bordo della nave Phoenix. Negli occhi ancora il terrore dei migranti durante le operazioni di soccorso: «Il nostro equipaggio – racconta Catrambone sul profilo Twitter dell’organizzazione – non aveva mai visto nulla di simile. Questa gente veniva su dalla stiva della barca in un flusso infinito di umanità. Alcuni, fra i migranti, ci hanno raccontato storie terribili di persecuzione e fuga. Queste persone non hanno la libertà, non hanno nulla».
La Phoenix è una nave da 40 metri, con un personale di venti fra medici e soccorritori, dotata di una pista su cui decollano e atterrano due droni che supportano le ricerche in mare. È una sorta di ambulanza del Mediterraneo che, in raccordo con le autorità, coadiuva i mezzi “ufficiali”. L’idea, ai coniugi Catrambone, nacque nell’estate del 2013, durante una vacanza in barca nel Mediterraneo, alla vista di una giacca a pelo d’acqua al largo di Lampedusa. Da allora, 3mila salvataggi “privati” l’anno scorso, oltre 1.400 già quest’anno. L’ultimo approdo della missione ieri a Messina. Con la benedizione della Madonna della lettera.

regina

 

Leggiamo il racconto di Regina

Reggio Calabria, qualche anno addietro.
“È lì che conobbi Chris. Lui aveva deciso di ritrovare le sue radici, dopo essere stato costretto ad abbandonare New Orleans a causa dell’uragano Katrina. Venne a vivere a Reggio, vicino a casa mia, e non lontano dalla provincia di Catanzaro che il suo bisnonno aveva lasciato per l’America nel secolo scorso. Il problema dell’emigrazione, per noi meridionali, è sentito perché fa parte della nostra storia “.

Cosa vi ha spinto a occuparvi di quest’altro, più tragico, fenomeno migratorio?
“Nell’estate del 2013 eravamo in vacanza nel Mediterraneo. Lasciammo Lampedusa con una barca a motore presa in affitto, proprio alla vigilia della storica visita di papa Francesco. Sulla rotta verso Tunisi, la rotta delle stragi, vidi a pelo d’acqua una giacca beige, probabilmente appartenuta a qualche poveretto morto in mare. Quell’immagine cambiò tutto. Decidemmo di fare qualcosa, di dare un contributo per affrontare questa tragedia. Avevamo dei soldi da parte, invece di acquistare una casa decidemmo di comprare una nave. Una nave che finora ha salvato 4.400 persone. Una spesa ben ripagata”.

Quanto vi è costata sinora questa missione?
“Otto milioni di dollari l’anno scorso. Nel 2014 abbiamo finanziato l’operazione con le nostre risorse, non ci sembrava giusto chiedere un aiuto solo sulla base di un’idea. A ottobre, chiusa la prima campagna con un bilancio di 3 mila persone soccorse, abbiamo aperto una sottoscrizione. Che finora ha fruttato circa 100 mila euro, oltre ai 180 mila euro donati da un imprenditore tedesco. Ahimè, siamo lontani dal target prefissato per questa seconda parte dell’attività appena cominciata, che dovrebbe concludersi a ottobre (tre milioni circa, ndr). Temiamo di non farcela”.

C’è chi, sul web, commenta la vostra iniziativa chiedendovi polemicamente di ospitarli a casa, i naufraghi raccolti in mare.
“Cosa significa casa mia? Casa mia, come la casa di questa gente che fugge per necessità, è il mondo. Non c’è un’umanità di serie A e di serie B. Io non sapevo cosa fosse l’orrore prima di quest’esperienza. Ho visto persone stipate come sardine nella stanza dei motori, senza aria, in mezzo ai loro stessi bisogni. Le foto non volevamo neppure pubblicarle, se l’abbiamo fatto è anche per svegliare le coscienze”.

Qual è il vostro rapporto con le forze ufficiali in azione nel Mediterraneo?
“Non c’è alcuna carta scritta. Noi ci siamo proposti e, in raccordo con le autorità, interveniamo su richiesta per fornire una sorta di pronto soccorso: grazie agli operatori di Medici senza frontiere facciamo uno screening sanitario dei migranti salvati, diamo loro da mangiare, li vestiamo. Poi, teoricamente, dovremmo trasbordarli su altre navi. Ma in soli quindici giorni, quest’anno, ben tre volte li abbiamo portati direttamente noi nei porti siciliani”.

Sembra che grazie alle immagini fatte dai droni che voi usate per scopi socio-umanitari siano stati catturati alcuni scafisti.
“Questo non mi risulta, anzi mi sembra difficile. Abbiamo fornito agli investigatori foto fatte da lontano. Comunque: se è andata così, meglio”.

Non è sconfortante il fatto che dei ricchi benefattori debbano supplire all’azione dell’Europa?
“C’è molta enfasi attorno a una circostanza che non dovrebbe stupire: noi, da cittadini, aiutiamo lo Stato, gli Stati. A me, personalmente, fa più rabbia che l’Italia venga lasciata sola dagli altri Paesi a gestire l’emergenza, ad accogliere questi che possiamo chiamare rifugiati, prima che immigrati. Detto ciò, noi non siamo miliardari, ma filantropi, ovvero persone che hanno dei beni e li mettono a disposizione di altri. Potevamo investire in altri settori, l’abbiamo fatto nella solidarietà”.

In due settimane avete già sottratto alle onde la metà delle persone salvate l’anno scorso. Ci può essere sollievo, non gioia davanti alla dimensione del problema.
“La questione centrale sono le politiche sull’immigrazione: noi l’anno scorso abbiamo collaborato con Mare Nostrum. Operazione che si è chiusa ma non è stata rimpiazzata. E certo non si può sostituire con la nostra nave e con il nostro equipaggio di venti persone a bordo. Perché, sia chiaro, Triton è un’altra cosa, è un programma di controllo delle frontiere. E da solo non è sufficiente”.

Dietro ogni profugo c’è un mercante d’armi

di Jan Oberg

jan oberg

Gli stati membri dell’Unione Europea stanno cercando di apparire come se stessero facendo qualcosa di serio per occuparsi della povera gente colpita da catastrofe, in fuga dalle zone di guerra verso l’Europa nelle condizioni più rischiose e inumane. A parte la mancanza di umanesimo e compassione e la cinica intenzione di mantenere il fattore ”deterrenza”, altre caratteristiche circondano questi tragici eventi.

In vari resoconti mediatici e dichiarazioni politiche il termine ”profugo” viene sempre più sostituito da “migrante” – difficilmente una pura coincidenza dato che il numero di profughi, sfollati in ambito nazionale e richiedenti asilo ha superato i 50 milioni di confratelli umani a livello mondiale l’anno scorso.

 

Migranti e profughi

Un migrante, per l’ONU, è una persona impegnata nella ricerca di un’attività remunerativa in uno stato di cui non è cittadino/a (originario). Un profugo è una persona del tutto diversa che si trova fuori dal proprio paese [originario] per aver patito (o temuto) persecuzione indotta da razza, religione, nazionalità, od opinione politica; perché membro di una categoria sociale di persone perseguitata; o perché in fuga da una guerra. Un profugo ha il diritto di cercare asilo e non dovrà essere penalizzato per il proprio ingresso o soggiorno illegale.

 

In cerca di una vita migliore” ?

Vi si aggiunga il fraseggio ormai molto ripetuto ma fuorviante per cui questi profughi arrivano “in cerca di una vita migliore” in Europa – formulazione molto eurocentrica che fa il gioco di coloro che dicono che questa gente viene qui solo per rubarci il lavoro e approfittare dei nostri sistemi previdenziali – come se la loro vita fosse già buona ma la volessero migliore.

È semplicemente assurdo. Il punto è non verso che cosa fuggano ma da che cosa. I profughi stanno scappando da qualche versione d’inferno. Questi profughi su battelli se ne scappano verso un altro continente senza scarpe, denaro o averi perché la loro vita è insopportabile e non hanno proprio speranza. I profughi non sono cercatori di felicità.

Usare ”migranti” anziché ”profughi” distoglie la nostra attenzione da ciò cui essi sfuggono, dalla nostra stessa complicità in tutto ciò e riduce la nostra responsabilità nel proteggerli.

 

La guerra, l’elefante nella stanza che non dobbiamo vedere

Poiché per lo più questi profughi provengono da zone dove gli interventi militari occidentali e le esportazioni di armi hanno miseramente fallito il loro scopo dichiarato ufficialmente e causato solo più problemi.

No, c’è una spiegazione molto migliore: “Dietro ogni profugo c’è un mercante d’armi”. Qui cito liberamente il sostenitore di diritti umani e umanista svedese Peter Nobel, ex-capo della Croce Rossa svedese, allorché era presidente del Consiglio d’amministrazione di TFF (Transnational Foundation for Peace and Future Research). Non è da rendersi alla lettera – si fugge anche, per dire, da catastrofi naturali e malsviluppo causato dai modelli sfruttatori delle attività economiche occidentali.

Un’altra ragione è che qui si tratta di un caso classico in cui sarebbe appropriato un autentico intervento umanitario. Tuttavia, dal primo intervento “umanitario” in Jugoslavia, questo concetto è stato usato solo per legittimare operazioni militari. E i dirigenti UE riconoscono di non poter trattare il problema dei profughi sui barconi con gli F16.

Come per tanti altri problemi di questi anni, c’è un rifiuto psico-politico del fatto che il militarismo occidentale è la causa singola più importante dei problemi che abbiamo di fronte:

Odio e terrorismo contro l’Occidente (per esempio l’ISIS) è un problema causato in modo predominante dall’invasione, occupazione e (mal)amministrazione a guida USA dell’Iraq. I temi dell’ Iraq e del nucleare iraniano sono stati causati in primo luogo dall’esserci armi nucleari e pochi intenzionati a mantenerne il monopolio negando agli altri lo stesso privilegio.

La ragione singola più importante dietro la dissoluzione di vari stati – la Libia, per dirne uno – è il tentativo di risolvere problemi economici e democratici strutturali con mezzi militari. Inoltre, il lento ma sicuro indebolimento dell’Occidente, il relativo declino economico USA in particolare, è causato in gran parte dai costi delle sue guerre (fallite), delle sue basi militari estere e dalla complementare carenza di legittimità agli occhi di sempre più milioni di persone al mondo.

Non abbiamo ancora – ovunque – un decente dibattito pubblico sugli effetti negativi di virtualmente tutte le guerre.

 

Il denaro da solo non risolve i problemi

Ora, guardiamo quel che l’UE fa effettivamente: tiene un incontro – d’alto livello politico ma di basso livello intellettuale ed etico.

I suoi capi sostengono di assumere sia rapide iniziative sia responsabilità. In realtà, esibiscono una tipica disfunzione programmatica occidentale: per risolvere un problema, si stanziano altri soldi ma non si discute la diagnosi – le cause sottostanti al problema – o un cambiamento d’atteggiamento e di etica. Non esercitano autocritica, destrezza di governo ed esemplarità morale. Si sanano i sintomi senza possibilità di imparare qualche lezione ed evitare la successiva catastrofe causata dai soliti motivi di sempre.

 

Civiltà: e se invece …?

Immaginiamo che i dirigenti UE avessero invece dichiarato qualcosa del genere:

”Ci siamo resi conto che il numero di profughi è in aumento principalmente per il commercio d’armi e le guerre, e quindi investiremo nell’identificazione precoce dei conflitti e prevenzione della violenza, nella formazione di esperti in questi campi, nell’utilizzo di accorti mezzi civili fra cui il dialogo, la mediazione e i negoziati; e porremo sempre più embarghi agli armamenti invece di intensificare le forniture d’armi a queste e a future aree di conflitto.”

I capi della “comunità” internazionale” che tacciono in merito, fra l’altro, all’aggressione a guida arabo-saudita allo Yemen e non hanno mai formulato autocritiche di sorta a proposito di catastrofi “pacificatorie” denominate Iraq, Libia e Siria, opportunamente non congiungono mai i puntini: Le nostre guerre e l’affarismo armiero sono causa essenziale del rimbalzo di questi problemi a boomerang in forma di profughi, terrorismo e crisi economica.

L’umanità ha detto addio alla schiavitù, alla monarchia assoluta, al cannibalismo e, in via di principio, al lavoro infantile. Per risolvere, o almeno ridurre, il problema montante dei profughi, dovremmo cominciare a discutere come aumentare la civiltà umana criminalizzando il commercio di armi e abolendo la guerra – come dichiarato nel Preambolo alla Carta ONU.

Ma ci sono tabù su tali idee di buon senso in tutti i paesi che si considerano civili rispetto ai paesi moralmente fiacchi e incivili che essi distruggono, uno dopo l’altro.

27 aprile 2015

MUNTINAGGI PERPETUI

muntinaggiu di l'abaddoggiu

 

di Piero Murineddu

Li sussinchi più anzianotti non avranno difficoltà a riconoscere il luogo illustrato nella foto, una delle tante discariche che circondavano la Sorso di una volta. Sono passati tanti anni, eppure qualcosa non è cambiato da allora.Vedete quel cancello a sinistra? Ebbene, ancora oggi, se andate a guardarci dentro, le cose sono più o meno rimaste immutate, nel senso che lu muntinaggiu che vedete, oltre il muro è rimasto tale. Un Monumento Chiuso,simbolo della frequente incapacità delle persone di mettersi d’accordo. In questo caso, le parti contreaenti mancati sono gli eredi dell’antica fabbrica di conserve e qualche rappresentante dell’Amministrazione civica che in questi lunghi anni ha tentato (inutilmente) di acquisirne la proprietà per realizzarci una qualsiasi cosa. Non se ne fatto niente, e come appunto spesso succede, a tutt’oggi la cosa continua a far bella mostra di sé a chiunque si affaccia al muraglione dietro la Biblioteca Comunale. La zona è sicuramente a rischio di queste terrificanti alluvioni che capitano, in questi anni ma anche in quei tempi là,e infatti la fabbrica era stata distrutta da uno di questi eventi,ma possibile che non si riesca a trovare una soluzione a questo sconcio? E’ Possibile. Comunque, gli unici che beneficiano di questa situazione vergognosamente di stallo, sono i numerosi mici e micioni che vi abitano, a volte in una innaturale  e pacifica convivenza con cuccioli e cuccioloni. Allegramente miao miao e bau bau , e noialtri umani tiriamo a campà.

Due cavalli, Dyane 6, R4…..e la giovinezza andata

di Piero Murineddu

“Mi mancano gli spifferi della Dyane e della R4 quando la notte si parcheggiava sulla collina di Calabona a guardare il mare“, dice l’autore del testo che segue. E’ sicuramente un modo romantico per non dire direttamente che più che altro quello che manca, man mano che si va avanti negli anni, è la giovinezza che si allontana sempre più, coi suoi entusiasmi, i sogni, gli amori freschi di giornata, le scoperte continue di sé e degli altri. Il non prendersi ancora troppo sul serio. Anche per me la R4 è stata la mia seconda casa, dopo quella paterna. Prima ancora la Dyane 6. Rossa l’una, arancione l’altra. Entrambe sono arrivate dopo diversi anni che scarrozzavo con un lambrettone acquistato di seconda mano che mi ha creato sempre un non sò che di frustrazione per l’impossibilità di costruirci sopra una sorta di gabbiotto, protettivo per il freddo e le piogge invernali. Ma va bè, non si può soddisfare ogni manìa che da giovani frulla nella “centralina” cerebrale. E’ vero, come dice Giampaolo: la R4 dava un senso in più di sicurezza e di robustezza. L’avevo anche personalizzata mettendoci le tendine, sia per non essere svegliato all’alba quando capitava di trascorrerci la notte, sia anche, all’occorrenza, poter avere dialoghi più intimi con la mia ragazza di allora, che altri non è che la mia moglie di oggi.

Due cavalli, Dyane 6, R4, Maggiolino…..Utilitarie schifate da molti per la loro poca “serietà”, mentre per altri  simboleggiarono quella libertà e molteplicità di possibilità , l’una vissutà più esternamente che interiormente, le altre con qualche rimpianto e diversi treni partiti lasciandoti desolatamente appiedato.

 

FAVOLOSE

Quella nostra piccola grande “R4″

 

di Giampaolo Cassitta

Sono stato prima tondo e poi quadrato e ho miscelato i miei umori (e gli amori) all’interno di quese due auto: la Dyane due cavalli prima e la R4 successivamente. In realtà chi era tondo non poteva essere quadrato. La Dyane era simbolo di avventura folle, di curve nelle quali il parafango toccava quasi l’asfalto, era il simbolo di “Questo piccolo grande amore” era, molta gioia e poca rivoluzione. Avevo una Dyane “cremina” nei miei primi diciotto anni e fu la prima auto che mi accompagnò al lavoro (Alghero Sassari con un volante da “camion” e con la paura di fermarci alla salita della “Landrigga”) fu lei che assistette al primo bacio, fu lei che, in qualche maniera, mi consegnò alla vita, al comprendere il rumore dei motori, il cambio delle marce, al prendere le curve dolcemente e con qualche apprensione. Non aveva autoradio la Dyane. Bastava cantare a squarciagola le canzoni imparate a memoria: ed erano Battisti e Baglioni. Soprattutto. Erano i miei vent’anni che spruzzavano nel palcoscenico dell’esistenza. Se ne andò una mattina d’aprile davanti alla Torre di Sulis. Rimasi con il volante in mano e la consapevolezza che qualcosa si era concluso. Passai dunque alla R4. Rossa. Il cambio a cloche era l’esatto contrario della Dyane e questo provocò, almeno all’inizio, qualche problema. Ma capii da subito che la R4 era essenzialmente diversa dalla Dyane: più forte, più compatta, meno disponibile agli sfronzoli. Nelle curve il parafango non baciava l’asfalto e l’orizzonte era piatto, verso l’alto, mentre quello della Dyane era decisamente ondulato e verso il basso. La mia R4 divenne il luogo dei dibattiti, delle prese di posizione. Fu la mia prima autoradio estraibile e le audio-cassette. La radio ci serviva per ascoltare Teleradio Alghero e comprendere quanto fosse potente nel territorio. Dopo Monte Agnese il segnale spariva e con lui la nostra speranza di essere famosi in tutti il mondo. Insomma nella R4 rossa passarono nuovi amori e nuove canzoni. Girarono Guccini e De Gregori, Led Zepelin, Pink Floyd. Dietro, sul sedile, copie di Lotta Continua, Doppiovù, Eureka, Linus, ma anche Alan Ford e Topolino. In quel mondo quadrato e in movimento il nostro viaggio dipendeva non dalla voglia ma dalla necessità: se avevi tremila lire potevi permettere la strada e per farla ognuno metteva le sue cinquecentolire. Ci lasciammo per una R5 amaranto. Le auto cominciavano a modificarsi, ad essere più sicure e le radio più potenti. Noi diventavamo più adulti e si provava a conciliare le rotondità della vecchia Dyane con le quadrature della R4. Siamo cresciuti così, nell’immaginare cosa ci fosse in quella sua maglietta fina e provare ad immaginarci dentro una cantina buia a respirare piano, dopo aver parcheggiato la Dyane e la R4. Insomma, quel rumore, quelle marce, quegli odori e quel parabrezza verticale e piccolo hanno segnato le nostre piccole esistenze. Guardando le nuove automobili super accessoriata abbiamo scoperto la nostra dolcissima essenzialità:  oggi quelle  auto ci conoscono da lontano e si aprono le portiere al nostro passare. Sarà più comodo ma anche un po’ più freddo. In fondo, mi mancano gli spifferi della Dyane e della R4 quando la notte si parcheggiava sulla collina di Calabona a guardare il mare. A mischiare acqua e sospiri, respirando piano. Molto piano.

Banche e commercio delle armi

Vi siete mai domandati dove finiscono i soldi che depositate in banca?

 

aerei

di Laura Bruzzaniti 

Useresti i tuoi risparmi per sostenere l’industria delle armi? Sceglieresti di essere cliente di una banca che fa profitti dalla vendita di missili verso paesi in conflitto? Molti risponderebbero di no. Eppure, senza saperlo, molti affidano i propri soldi a “banche armate”, banche che traggono profitto dalle esportazioni di armi. Il  ruolo delle banche nella produzione e commercio di armi è fondamentale: chi produce, vende, acquista armi ha bisogno dell’appoggio delle banche per avere credito e servizi bancari per le operazioni commerciali. E le banche, naturalmente, ci guadagnano. L’Italia è tra i primi otto paesi al mondo per la vendita di armi: vendiamo caccia, missili, bombe, munizioni, veicoli militari. Nel 2013 il totale delle transazioni per esportazioni di armi gestite dalle banche italiane ammontava a quasi tre miliardi di euro.

15 ANNI DI BATTAGLIE
Sono molte le banche che prestano i loro servizi all’industria delle armi e così ci si ritrova, senza neanche saperlo, a finanziare con i propri risparmi chi vende o acquista armi. È da questa considerazione – la responsabilità individuale dei correntisti – che nasce la campagna “Banche armate”, lanciata nel 2000 dalle riviste missionarie Mosaico di Pace, Missione Oggi, Nigrizia, per chiedere a cittadini, parrocchie e associazioni di esigere trasparenza dalle proprie banche, di esercitare pressioni e soprattutto di scegliere banche “pacifiche”, non coinvolte con il commercio delle armi.  A quindici anni di distanza, ora i promotori della campagna hanno fatto il punto sui risultati raggiunti e promosso l’appello per una “quaresima disarmata”.

IL CLIENTE DEVE SAPERE DI PIU’
Il commercio di armi è legale e sono legali i servizi bancari collegati. L’esportazione di armi  è regolata dalla legge 185/90 che stabilisce alcuni principi fondamentali: divieto di vendere armi a paesi in guerra o che violano i diritti umani e poi  trasparenza e controllo delle operazioni. Nel rispetto di questi principi, dunque, non c’è niente di illegale in una banca che fa operazioni legate alla vendita di armi.
Per i promotori della campagna “Banche armate”, però, i clienti di un banca devono chiedere di più all’istituto al quale affidano i propri risparmi: non solo il rispetto della legge, ma anche un’assunzione di responsabilità verso la collettività, regole di condotta che non mettano al centro esclusivamente il profitto. II rispetto, in altre parole, di quella responsabilità sociale di impresa che ormai tutte le banche affermano, almeno in teoria, di osservare…

Esportare armi: un commercio legale, ma non troppo
Non sempre le esportazioni di armi avvengono nel rispetto della legge. Le armi  italiane vengono vendute sopratutto all’Arabia Saudita, Algeria, Emirati Arabi Uniti, Oman, Egitto, Turchia, Israele. Dall’elenco dei Pasi è evidente che le armi  vanno anche dove non dovrebbero, per legge, andare: zone di conflitto, regimi che violano i diritti umani. Inoltre, denunciano i promotori di “Banche armate”, sta diminuendo la trasparenza e il controllo sul commercio delle armi. Dal 2012, in attuazione di una norma europea, l’autorizzazione del Ministero dell’Economia per i trasferimenti bancari collegati alla vendita di armi è stata abolita e sostituita da una semplice comunicazione via web. Ancora, la Relazione annuale del Presidente del Consiglio al Parlamento sulle operazioni di export di armi da qualche anno contiene meno informazioni, meno dettagli. Insomma, le autorizzazioni spariscono e le informazioni diminuiscono. E senza informazioni anche l’opinione pubblica può controllare di meno.

“Disarmiamo i nostri conti” 
Con una piccola indagine si può però sapere quali sono le banche che fanno profitti dalla vendita di armi.  Tabelle ed elenchi possono essere consultati su www.banchearmate.it. Chi poi volesse “disarmare” il proprio conto in banca, aderendo all’appello di “Banche armate”, può scrivere al direttore della propria banca, chiedendo informazioni sul coinvolgimento nelle esportazioni di armi (riportiamo qui sotto un modello di lettera da scrivere al Direttore della banca). E se l’istituto  non risponde o conferma di essere conivolto? Allora basta chiudere il conto e spostarlo su una banca non armata.

 


Per scoprire se la vostra banca è coinvolta, scrivete al Direttore…

Egregio Direttore, nella Relazione sull’export italiano di armi del 2013, presentata dal presidente del Consiglio in Parlamento è evidenziato il coinvolgimento di istituti bancari del nostro paese. Come cliente della sede/filiale di………………… titolare del C/C n°………………….. mi sento interpellato, in quanto anche i miei risparmi potrebbero contribuire a sostenere l’export italiano di armamenti. Aderendo alla campagna di Mosaico di Pace, Missione Oggi, Nigrizia, con la presente La invito a confermare o smentire il coinvolgimento della banca da Lei rappresentata. Mi riservo il diritto di rendere pubblica la Sua risposta, dalla quale dipenderà la mia decisione di continuare o interrompere il rapporto con l’Istituto da Lei rappresentato. In attesa di un Suo riscontro, colgo l’occasione per porgerLe i miei più distinti saluti.

 

“Dì ai miei figli che sono guarito”

 

Normalmente, su Facebook  evito di curiosare nella pagina comune a tutti gli “amici”, preferendo invece andare di proposito nella pagina personale di taluni che di solito ritengono di far partecipi gli altri di cose – diciamo – di una certa sostanza. Lo so, è questione di gusti. Giulio è uno di questi, e di solito, il mio andare a “fargli visita” non rimane deluso. Come in questo caso, per l’appunto. Vi invito a leggere con attenzione e il massimo rispetto il suo ricordo di quello che erano i vecchi manicomi. Specialmente per quelle lacrime dall’amico andato a trovare. Grazie Giulio. (Pi.Mu.)

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FERITE APERTE

 

di Giulio M.Manghina

Oggi hanno aperto al pubblico Rizzeddu, l’ex manicomio – c’era la fila, come quando hanno aperto le carceri di San Sebastiano. Strutture repressive, non monumenti – l’una di devianze mentali, l’altra di devianze sociali.
Dovevano essere una soluzione, invece erano un problema.
Ma non è questo. Non so cosa abbia visto la folla di quel che resta di Rizzeddu, del suo giardino, delle sue stanze, delle sue voci, delle sue grida, dei suoi silenzi. Andavo a trovare un Amico a Rizzeddu – non avevo neanche vent’anni e la prima volta mi ci volle del coraggio per farlo, ma fui ripagato dal suo forte abbraccio e dalle sue lacrime quando mi vide. Della struttura manicomiale ricordo solo l’odore spietato degli interni e le persone inermi che sostavano nel giardino, ma forse ho rimosso molto del resto. Un giorno vidi un volto che mi sembrava conosciuto – un uomo col viso affilato e smagrito, il naso aquilino e gli occhi infossati, con indosso quel che restava di un vecchio impermeabile e con un bordino blu in testa – anche lui si accorse di me, mi venne incontro e mi disse: “Ti ricordi di me? Sono AP, abitavo vicino a casa tua…. dì ai miei figli che sono guarito” mi disse “dì loro che mi vengano a prendere e mi riportino a casa, qui è un inferno”.  AP era lì perché aveva tentato di uccidere la moglie, e c’era quasi riuscito – ai figli non ho mai detto niente.  No, non ci sono andato oggi a Rizzeddu e ho fatto forza su me stesso per scrivere.

Dopo alcuni commenti, in cui giustamente si è rilevato il rischio della spettacolarizzazione  e della curiosità morbosa che  può aver spinto  qualcuno a far la fila per potersi immergere nella tetra atmosfera della sofferenza mentale, Giulio ha chiarito:

L’ho fatto per  condividere con voi un’esperienza personale che avevo rimosso e che è venuta a galla dopo aver visto una foto della folla in fila per la visita. Solo questo. La folla è, per definizione, una massa eterogenea composta di diverse sensibilità e la si può osservare da diversi punti di vista non necessariamente incompatibili. Personalmente ho apprezzato il fatto che nel caso del manicomio, a differenza del carcere di S.Sebastiano, sia stato vietato l’uso di fotocamere – qualche buona ragione gli organizzatori l’avranno avuta. Ancora grazie per la vostra pazienza e partecipazione.

Migrazioni e questione Rom: da problemi a risorse?

 

 

 

sangue

 

di Piero Murineddu
Senza tregua, genti diverse continuano ad approdare alle nostre coste, dopo aver rischiato la vita attraversando il Mediterraneo a bordo di precarie imbarcazioni. Impotenti e forse rassegnati, ma mi auguro non indifferenti, quasi  giornalmente veniamo a sapere di molti che non ce la fanno, andando a aggiungersi ai tantissimi che negli ultimi anni in quelle profonde e fredde acque hanno trovato la morte. Sappiamo che la maggior parte si mettono in viaggio per  sfuggire regimi totalitari, persecuzioni e fame, altri alla ricerca di una vita migliore. come facevano gli italiani a cavallo del ‘900. Oggigiorno, gli attuali migranti devono dimostrare di provenire da Paesi in guerra, quindi richiedenti “asilo politico”. In attesa del verdetto della commissione valutante e dei giudici, questa gente viene ospitata in alloggi temporanei.

 

IMMIGRAZIONE: CRESCE POLEMICA SU 'MARE NOSTRUM'

Facilmente si intuisce che i tempi della loro sofferta odissea si protrarranno in modo indefinito, ma finalmente, anche se quasi controvoglia, sembrerebbe che  l’Europa stia iniziando a capire che la soluzione del problema, arrivato ormai a proporzioni inimmaginabili fino a qualche tempo fa, non può ricadere solo nel Paese dove  queste persone stremate riescono a mettere piede. Si sta’ capendo anche che, seppur a tempo determinato, costoro hanno il diritto di non essere ammassati in luoghi che inizialmente sembravano lager, anche perchè ciò provoca inevitabilmente problemi di gestione e di convivenza.

Le Prefetture stanno decidendo dove e in che numero queste genti devono essere sistemate, senza imposizioni ma di comune accordo con le comunità locali. E’ possibile che ciò possa dare origine a problemi, come  tutte le diversità costrette a convivere, ma è necessario e ormai urgente che ciascuno si prenda la sua parte di responsabilità.

 

mani

 

Ciò detto, voglio spostare l’attenzione ai Rom. Anche se il problema non è delle stesse dimensioni, si tratta ugualmente di persone a cui è giunto il tempo, obbligatoriamente, di dare risposte dignitose.

Stiamo venendo a sapere che per disposizione dell’UE i campi nomadi devono essere chiusi, in quanto luoghi di segregazione. Di questo, tutti dovremmo gioire, e non solamente i più sensibili alle sorti altrui. E’ fondamentalmente questione di giustizia e di civiltà.

corteo-Rom--a-Roma

Anche l’Amministrazione sassarese si sta dando da fare per trovare una sistemazione alle famiglie che occupano il terreno che sorge nella zona di Piandanna, Quelli che storcono già il naso stiano tranquilli: ciò avverrà grazie ai finanziamenti che l’UE ha destinato per questo obiettivo, per cui non sono soldi “rubati” a noialtri. La solidarietà deve essere anche creativa, e magari diverrebbe meno difficile e complicata metterla in atto. Sarebbe ora che i conventi, sempre più vuoti, si aprissero all’accoglienza, e qualche realtà in questo senso esiste già. Anche le vecchie case cantoniere potrebbero servire allo scopo.

Le famiglie Rom ospitate in una delle due parti in cui il campo di Piandanna è diviso, si sono sempre impegnati a tenere al meglio il loro spazio, creando un piccolo villaggio con casette pulite,giardino ordinato e coltivando tra loro un forte senso di solidarietà. Dopo un’assemblea con alcuni rappresentanti dell’ASCE (Associazione Sarda Contro l’Emarginazione) il cui ruolo propositivo e di mediazione sta’ portando concreti frutti alla costruzione di una cultura di accoglienza e solidarietà, hanno mandato una lettera a Palazzo Ducale con la quale chiedono di essere coinvolti nelle decisioni che li riguardano.  Evidenziano che l’integrazione auspicata non la si può intendere principalmente nel dover vivere in appartamenti, forzatamente a stretto contatto e magari mal visti e mal sopportati dai vicini ( l’incontro tra diversità è sempre impegnativo, si sà), ma come vicinanza nell’agire, nella conoscenza e arricchimento reciproci e sopratutto, nel rispetto delle leggi da parte di tutti. Di fatto, i loro figli stanno frequentando le scuole cittadine, con soddisfazione di tutti.

bambini

Nella lettera si chiede di essere messi in grado di guadagnarsi da vivere, perchè è attraverso questo sacrosanto diritto che si può condurre una dignitosa esistenza, per loro come per tutti. Se proprio è necessario spostarsi da dove si trovano ora, preferirebbero restare tutti insieme, usando i finanziamenti europei per edificare un piccolo villaggio dove tramandare insieme le loro usanze e cultura, tradizionalmente contadina, poter coltivare e vivere anche dai prodotti che la terra produce.

Utopia? A me, considerando che si tratta di una quarantina di persone, sembrano richieste sensate,legittimate dal fatto che gli immigrati non possono continuare ad essere fatti oggetto delle nostre pietistiche “concessioni”, ma considerati simili a noi,con diritti e doveri. I Rom, come anche gli immigrati,non sono un’entità univoca, ma persone come noi, con sensibilità ed esigenze diverse, per cui è diritto di queste famiglie chiedere di poter continuare a vivere insieme. Non sono nomadi, ed hanno dimostrato, dal modo in cui vivono, di avere grande dignità e di vivere quei valori solidaristici e comunitari che noi “gagè” ci siamo scordati da un pezzo, immersi come siamo in una mentalità utilitaristica e opportunistica. In molti l’atteggiamento di rifiuto continua a prevalere, ma se vogliamo progredire, umanamente e civilmente, dobbiamo ribaltare l’istintiva tendenza d’innalzare barriere e digrignare i denti contro tutti coloro di cui abbiamo paura. Una mente civile non può continuare a persistere nelll’illusoria convinzione dell’antico “mors tua vita mea”.

Migrazione di genti di diversa provenienza e, in proporzione molto inferiore, giusta e rispettosa integrazione delle genti Romanì, molti dei quali da tempo cittadini italiani: a quando, per la crescita comune,  queste realtà, da oggettivi problemi  diverranno  effettive risorse?

Il SSN vissuto ( leggi: patito) da dentro

trasferimento

 

di Elsa Pascalis

Sono qui, ancora viva e piena di sangue, per raccontarvi cosa è, come respira e come muore, il nostro Sistema Sanitario Nazionale.

Alle 4,30 del mattino arrivano a far le pulizie. Accendono le luci al neon della stanza proprio mentre sono in piena fase rem. Sono più o meno le 6 quando senza neanche accorgermene il laccio emostatico stringe il mio braccio sinistro e attraverso un piccolo aghetto mi succhia via 5 boccette di sangue. Lei mi guarda: ha gli occhi che arrivano dalla Transilvania.

Alle 7 mentre sognavo d’essere nella spiaggia di Ko Samui ad idratarmi cosce e chiappe bevendo il succo cocco con la cannuccia arriva un camice verde che mi ricorda che devo prendere una compressa. Lei mi guarda e ha gli occhi della Signorina Rottermeier.

Alle 7,30 aprono il rubinetto della cannula per la prima flebo. Credo che sia il gastroprottetore. Mi riaddormento e non mi accorgo che la provetta me la son ciucciata tutta senza chiudere il rubinetto: flebite! Arriva l’infermiera, toglie la cannula e si mette alla ricerca di una nuova vena: «che brutte vene che ha, signora», mi sussurra, con gli occhi di Grazia Deledda.

Mah, non saprei se son belle o brutte, in ogni caso non è colpa mia, me le ha date la natura e non credo esistano creme per renderle più gradevoli, toglierle le occhiaie ed eliminare i segni dell’età. Mi trova la vena e se la fa andar bene anche se è bruttina. Buca, e alle 8,15 parte la seconda flebo, questa volta di antibiotico. ‘

Azz…!!! si sta facendo tardi, devo assolutamente “lavarmi e levarmi” il “frago” di Istituzione Totale che mi circonda, prima che arrivi il giro di visite. Carico la borsettina con asciugamani, rossetto, fard, ombretto e cose varie e avariate per la toilette della mattina. Mi dirigo nel bagno che divido con altre 5 signore.

Lavarsi con l’asta e la flebo è operazione più complicata di quanto si possa immaginare. Riemergo da quella che sembra più una lotta che un piacevole momento beauty. Mi rimetto a letto dignitosamente pulita e in ordine: emano profumo di Eden, finalmente. Nell’ordine, arrivano una serie di specializzandi che: 1) misurano la pressione, 2) ascoltano il cuore, 3) tamburellano nella schiena, 4) si vogliono sentir dire 33, 5) verificano dal dito la circolazione sanguigna, 6) vorrebbero altro ma non osano.

Altro infermiere, stacca l’antibiotico e ne piazza un altro.

Arriva il Medico Gran Visir insieme ad una decina di studenti ai quali presenta me come un quadro clinico; insomma, mi illustra. Visita approfondita, a tipo lezione accademica: è un po’ essere animale al circo o modella per ritrattista, dipende dai giorni. Oggi è lunedì: mi spetta essere zebra colorata.

In ogni caso, protagonista, oggetto d’attenzione plurima. Uff!

Altra flebo, altro antibiotico. Dal nulla sorge una signorina culo stretto-tutta pepe. Mi deve accompagnare ad un consulto chirurgico in altro reparto. Mi guarda. Stringe gli occhi in fare doloroso e vomita un: «..ma sei Ucraina?» Trattengo lo sputo. Mi esce solo un «No, non sono Ucraina ma potrei essere tua mamma!»

Mi molla nel nuovo reparto, faccio la visita e mi viene a riprendere al calar del sole, come nei western. In camera mi mettono la 4a flebo. Si son fatte le 2 del pomeriggio.

Alle 3 un’altra Oss mi accompagna a fare un’ecografia. Non parla. Ha parlato con la precedente.

Alle 4 di nuovo in camera. Riparte il giro delle flebo che va avanti sino ad oltre l’orario delle visite. Alle 22 vorrei leggere un libro ma la giornata è stata dura, troppo dura. Decido di chiudere la saracinesca e dormire. Non fa. La mia vicina di letto è in vena di chiacchiera e la lascio fare perché lei si che sta male, ma male male, poretta. La vita non le è stata simpatica.

Si è fatta mezzanotte, Cenerentola già dorme e anche io cerco di calare le palpebre. Ma ecco, proprio quando sogni di poter sognare per qualche ora di fila, ecco che parte il vecchio della stanza a fianco che tutti detestano perché tratta di merda chiunque. Urla, si agita, fa un casino nero, dà della puttana all’infermiera e della “troialla” alla dottoressa del turno di notte.

Non lo sopporto più. Mi alzo, lo sputo e gli mollo un urlo che lo fa sobbalzare nel letto: «E BASTAAAA, DEVE SMETTERE DI DAR FASTIDIO A TUTTI O GIURO CHE LA FACCIO STAR MALE IO!!!». Ops, si calma! L’unico al mondo che si mette paura davanti a me e la cosa mi regala certa notevole e imperitura soddisfazione.

Non faccio in tempo a rimettermi a letto che partono altre urla dalla stanza a destra. «Ohi, sto male, ohiamommia sto male, ohi sto morendo». Tutti sappiamo che no, non è vero. Prossima fermata l’indomani per la signora: destinazione psichiatria.

Sono le tre del mattino, sono stremata e se non sta zitta la zittisco io. Alle tre e mezzo la mia personalità è quella di un killer senza pietà: il mostro di Rostok mi fa un baffo. Mi risparmia il truce lavoro e finalmente chiude la bocca sfinita da se stessa.

Mi resta un’ora di sonno prima che riparta il tran tran: dalle pulizie alle flebo, ai lamenti degli altri pazienti. Stare in ospedale è unu traballu, unu film ‘e guerra, un corso estremo di sopravvivenza. Ma sono qui, ancora viva e piena di sangue, per raccontarvi cosa è, come respira e come muore, il nostro Sistema Sanitario Nazionale.

“Basta umiliazioni, siamo tutti migranti”

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Omero Ciai intervista Javier Cercas

 

 

 

«È semplice capire: dovremmo provare a metterci dall’altra parte  –  dice lo scrittore spagnolo Javier Cercas  -, immaginare di essere noi quei ragazzi, quei padri, quelle donne incinte che attraversano il mare. Perché tutti siamo emigranti. Siamo stati migranti o lo sono stati i nostri avi, i nostri genitori, i nostri nonni. Migranti dalla povertà, dalle guerre, alla ricerca di una esistenza migliore. L’ho fatto una volta a Tijuana, l’ultima città messicana di fronte a San Diego, ho immaginato di attraversare la frontiera fra il Messico e gli Stati Uniti. Quella è la più grande linea di confine fra il primo e il terzo mondo. La nostra, quella europea è la seconda. A Tijuana all’improvviso tutto ti diventa chiaro. Il senso di umiliazione per chi si avvicina al Muro che hanno eretto è tremendo, sconvolgente. Ma è anche dove comprendi che la disperazione non si ferma di fronte a nessuna barriera. Che il desiderio di una vita migliore per sé, e soprattutto per i propri figli, è nella nostra natura, lo portiamo nel Dna».

Che impressione le fanno i barconi che solcano il Canale di Sicilia?

«Quello che è accaduto è spaventoso e di fronte ad un fatto orribile come la morte di 900 persone inghiottite dal mare è necessario trovare delle soluzioni. Altrimenti siamo complici. E questo non vuol dire porre la questione in termini sentimentali o emotivi ma in termini reali. Ogni giorno c’è gente che muore cercando di entrare in Europa. Ogni giorno. Nei mezzi di comunicazione, com’è inevitabile, se ne parla soltanto quanto il numero delle vittime diventa mostruoso, inaccettabile. Quando muoiono 5 o 10 non succede nulla».

Cosa dovrebbero fare le istituzioni europee?

«L’Europa non può permetterlo. Non può essere soltanto un mercato, deve essere anche un’idea, un concetto politico, sociale, umano. È un’idea di inclusione, un’idea di dignità. Se non siamo capaci di costruire uno spazio di dignità in questo mondo, non vale neppure la pena perseguire l’idea dell’Europa unita. Non si può solo rattoppare, pensare soluzioni provvisorie e precarie, servono soluzioni definitive».

Aprire le frontiere sarebbe una soluzione?

«Aprire le porte a tutti in modo disordinato è impossibile e ci getterebbe in un caos. Ma è anche falso credere che con politiche di controllo più severe si possa fermare l’onda. C’è un refrain spagnolo che dice: ‘Non si possono mettere le porte a un campo aperto’. E chi non ha nulla non ha nulla da perdere, cantava Bob Dylan. Non puoi fermarlo. Devi accoglierlo. Per quanto dure possano essere le tue misure contro di lui non potrai impedire che arrivi qui. L’unica cosa che puoi fare è regolare questa migrazione, governarla. Vengono e verranno se noi lo vogliamo ma anche se non lo vogliamo».

Come si fa?

«L’emergenza migranti non è un affare aneddotico, è una grande crisi da affrontare e continuerà ad esserlo per molto tempo. Ma come nel caso della Grecia, l’Europa non si prende sul serio: non esiste una politica economica e neppure una politica estera comune. Non può essere un problema dell’Italia oggi, della Spagna domani o di Malta dopodomani. Quante persone devono ancora morire per la nostra incapacità di un agire comune? Nulla può fermare le migrazioni, si possono solo affrontare e gestire con dignità e razionalità».
 
 
(articolo del 24 aprile 2015 su Repubblica )