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Maddalena e Angela, due cugine accomunate dal desiderio di una società non vendicativa verso chi ha sbagliato

 

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di Piero Murinddu

E’ possibile che in molti abbiano conosciuto o perlomeno sentito parlare della suora vincenziana Maddalena Fois. Io l’avevo contattata per telefono, con l’impegno di vederci quanto prima. La sua morte, avvenuta nello scorso aprile a seguito di una grave malattia, non ha permesso la reciproca conoscenza. Era nuorese di nascita, avvenuta nel 1941. Da giovanissima era stata attratta dallo spirito di servizio dei fondatori della sua comunità religiosa, Vincenzo De Paoli e Luisa De Marillac, due amici che negli anni a cavallo tra l’ultimo scorcio del 1500 e il 1600 si dedicarono ad alleviare le sofferenze dei più poveri nella Francia di allora.

Sempre impegnata a dare risposte concrete alle tante situazioni di bisogno e di emarginazione, suor Maddalena. Sensibile al mondo dei carcerati e sostenuto  la creazione nel 1996 dell’Associazione “Giovani in Cammino”, nel 2002, dopo un’iniziale esperimento di scuola d’intaglio del legno portato avanti in un garage in zona “Sacro Cuore” di Sassari e aver operato all’interno del locale carcere sassarese, fu avviata un’esperienza comunitaria di alternativa alla detenzione carceraria nella grande struttura che si trova sulla Strada Statale 200 litoranea per Castelsardo, in località “La Tonnara”, in stretta collaborazione con la Diocesi, proprietaria dell’immobile, da diverso tempo semi abbandonato e nel quale furono fatti opportuni interventi per renderlo nuovamente abitabile.

Nel tempo, fu costruito un capannone  per la falegnameria  e una porzione di terreno circostante venne impiantato ad orto. Pur tuttavia queste, insieme a qualche altra occasionale attività, non hanno mai permesso un’indipendenza economica alla casa, assicurata più che altro dalla sensibilità di privati e dalla Diocesi stessa.

Tra le sue mura hanno trovato ospitalità per periodi più o meno lunghi decine e decine di detenuti, beneficiari di pene alternative alla costrizione carceraria. La morte di suor Maddalena, anima e motore di un lungo e faticoso lavoro dove al centro veniva e continua ad essere posta la persona, ha causato un momentaneo sbandamento all’interno dell’associazione e nella casa comunitaria.

Una sua consorella, tra l’altro cugina e coetanea, si è offerta volontariamente per sostituirla nella conduzione della casa d’accoglienza nel territorio di Sorso.

Fino ai ieri, non avevo mai messo piede all’interno di quella che un tempo veniva chiamata “Casa del Fanciullo”. L’occasione mi è stata data dall’incontro casuale con un giovane residente. E’ così che, insieme a mia moglie, abbiamo conosciuto suor Angela Pedduzza, che a Nuoro abitava a pochi passi dalla casa della cugina Maddalena e che quasi per un obbligo morale ne ha voluto continuare l’opera. Da sempre anche questa donna ha sentito il bisogno ed il dovere di dare una mano per curare le ferite causate da questa società spesso egoista e violenta. Si è trovata a contribuire alla nascita e all’avvio della Casa Famiglia per malati di AIDS, voluta dall’Associazione “Mondo X Sardegna” del francescano Salvatore Morittu. La grande cortesia di questa donna ha svelato immediatamente il suo senso di accoglienza, mentre la sua spontaneità l’ha portata ad ammettere il bisogno di aiuto per portare avanti questa importante e civile esperienza di abbattimento delle barriere mentali che circondano il mondo dei carcerati. Durante la visita della grande e pulita casa, ci ha manifestato la delusione per la mancata accettazione da parte della Regione di un Progetto per l’allevamento di lumache previsto nel territorio di Valledoria, nei pressi della frazione “La Ciaccia”, in un terreno di proprietà della congregazione vincenziana.

Un’opportunità mancata per impegnare i detenuti in affidamento e avviare un’attività produttiva che avrebbe permesso di affrontare le spese, sia della casa e sia per la sussistenza degli ospiti. La piacevole e coinvolgente conversazione ci ha permesso di scoprire che l’apporto di chiunque voglia dare una mano, è atteso e fortemente desiderato. Qualunque tipo di aiuto, di ordine materiale ma non solo. Sarebbe utile qualcuno per dare una mano in cucina, per insegnare la coltivazione della terra, per riattivare la falegnameria già fornita dei macchinari necessari, per fare animazione diversificata con gli ospiti, eventualmente per accompagnarli per lo sbrigo di pratiche legate alla loro condizione di detenuti ed altro ancora.

E’ richiesta in pratica la presenza di persone di buona volontà, disposte a condividere la propria esperienza umana e culturale,convinte di avere ancora molto da apprendere, specialmente dal contatto con persone solitamente emarginate e guardate con diffidenza e che spesso sono ricche di potenzialità positive inespresse. Non per ultimo, persone che condividono l’idea che una società che si dice civile non può essere “vendicativa” nei confronti di chi ha sbagliato , ma ha il dovere di attivare concretamente tutti i meccanismi legali e sociali al fine di agevolarne il reinserimento in un contesto umano libero.

Riconoscere a chiunque il diritto ad una vita dignitosa

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di Piero Murineddu

Secondo me l’attuale Papa sta’ cercando di scardinare tutto quel sistema di potere che nella Chiesa Cattolica da troppo tempo sembrava eterno ed intoccabile, compreso quell’intreccio di privilegi dovuto all’appoggio dato al potere politico di turno, in virtù dell’influsso sulle coscienze individuali. Gia dalle primissime “stravaganze” di Bergoglio, all’interno stesso della Chiesa molte figure gerarchiche avevano iniziato a storcere il naso e tuttora continuano a farlo. Ma anche in mezzo al più vasto popolo cattolico, siano essi associazioni, preti, suore,comunità e individui, la diffidenza e le perplessità nei suoi confronti continuano a persistere, e questo nonostante gli apparenti apprezzamenti. Si vede specialmente al momento di seguirne le indicazioni. I bene, bravo, giusto arrivano da ogni dove, ma solitamente si continua imperterriti a pensare e agire come si è sempre fatto.

Poi ci sono quelli che la guerra gliela fanno senza troppi giri di parole, siano essi giornalistoni atei devoti alla Giuliano Ferrara & company, e siano politici che si presentano come custodi e difensori della sacra tradizione cattolica contro l’invasione dei mori, e lo sguaiato e rozzo Salvini in questo momento è uno dei maggiori rappresentanti. Guerra non direttamente contro il Papa argentino, la qual cosa sarebbe troppo compromettente, ma contro figure di cui si è voluto circondare, come il segretario della CEI Nunzio Galantino, il quale ha avuto la lodevole e coraggiosa “sfrontatezza” di affermare che sulla questione del continuo e drammatico esodo forzato per entrare in Europa, certa politicaglia ci marcia per scopi elettoralistici.

Secondo Salvini e compagnia arrogante, Galantino, oltre che essere isolato e persino inviso a buona parte dei vescovi, sarebbe addirittura “comunista”, come se questo termine fosse diventato la maggior offesa che si può fare a qualcuno, specialmente se vuole agire nel sociale. Ma ci pensate? Fino a non molto tempo fa se si volevano indicare atteggiamenti reazionari, intolleranti e padronali, gli si dava del “fascista”. Ora invece, se si vuole rinfacciare qualcuno che tenta di richiamare i diritti e il rispetto delle minoranze, oltre che un senso di giustizia il cui significato sta’ diventando sempre più vago e soggettivo, allora gli si da’ rabbiosamente del “comunista”. E’ incredibile, ma così gira il mondo. Prima i nostri bisogni, si dice, e poi, se ne rimane, quelli degli altri. Detta così sembrerebbe cosa sensata, ma in realtà nasconde un profondo egoismo e indifferenza verso il destino altrui, specialmente se non è dei nostri. In ogni caso, l’importante è che questi “altri” stiano da noi il più lontano possibile.

Il fatto è che questa posizione è largamente condivisa anche tra chi si definisce “cattolico”, termine che comporta inclusione e non esclusione, con la convinzione che Galantino in fondo se le cercata ed ha sicuramente esagerato. Ma come, non è stato proprio Gesù Cristo che ha parlato di accoglienza, di condivisione, di fraternità, del dovere di aiutare chi è nel bisogno? Che ha smascherato apertamente gli atteggiamenti ipocriti e che ha parlato di un amore fino a dare la vita per gli altri? Che ha insistito affinchè le ingiustizie venissero riconosciute e combattute? E non solamente quando non comporta rischio e non intacca interessi particolari a noi vicini, ma sempre e in ogni caso. Ma quanto ci siamo allontanati dal concretizzare questo stile di vita?

Io, nel mio piccolo, i miei riferimenti ideali continuo ad averceli, insieme allo sforzo di rimanere a loro fedele. Ho anche la capacità di distinguere i sepolcri imbiancati e la sconfinata ipocrisia nella quale siamo spesso immersi. In questa ipocrisia vi è specialmente chi, con l’apparente dedizione ad alleviare le sofferenze altrui, ha il principale obiettivo di far strada a se stessoStrumentalizzare il bisogno delle persone è la cosa più miserabile che un essere umano possa fare, e chi lo fa consapevolmente, non ha nessuna attenuante e nessunissima giustificazione.

Dico papale papale, e questa locuzione riferita all’attuale Papa è azzecattissima, che chi non è disposto a far partecipi gli altri (che sono in stato di necessità) dei mezzi di sussistenza che possiede, pochi o molti che siano, tradisce un doveroso impegno verso il prossimo. E qui non si tratta di fede religiosa, politica o ideologica, ma semplicemente di riconoscere ad ogni essere umano, qualsiasi esso sia, il diritto a condurre un’esistenza dignitosa. Difficoltà e privazioni ne abbiamo un po’ tutti, ma altri ne hanno ancora di più, molte di più. Una cosa è la povertà, un’altra è la miseria. Per chi ha una fede religiosa, c’è qualcuno che ha detto che più che essere credenti, bisogna essere credibili. Non so a voi, ma a me quest’affermazione mette parecchio in crisi.


Grigliata campestre e quel “Tira chi ti dira chi Ruseddu…….”

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di Piero Murineddu

Belle quelle serate estive dove ti trovi con gli amici per consumare una cena  in campagna, col fuoco acceso e tutti che si danno da fare per trascorrere insieme delle ore liete. Può succedere che, oltre essere l’occasione per rinsaldare antiche amicizie, servano anche per farne nascere di nuove. E’ quello che è avvenuto qualche settimana fa, in quella campagnetta che solitamente uso come mio rifugio e come luogo di ricarica fisica, psichica e spirituale. Gente motivata da forti ideali o di questi in ricerca,che, soliti ritrovarsi regolarmente per parlare agli altri ciascuno della propria vita, ogni tanto sentono il bisogno di fare allegra convivialità, aiutata dalla larga griglia  sulla quale cuociono lentamente delle grosse bistecche e dell’ottimo pesce al cartoccio. Personalmente avrei preferito verdure, ma ogni tanto a qualche compromesso bisogna pur scendere quando si sta’ con gli altri. Ed è così che mentre l’esperto elettricista, arrivato con la sua officina ambulante si dava da fare per creare un’adeguata illuminazione, un altro gruppo non si è fatto pregare a prendere le bocce in mano e buttarsi in una combattuta sfida. Un gruppo di donne non si è fatto scrupolo di prendere una panchina e spostarla poco lontano per meglio raccontarsi le loro cose. Altri si sono attivati per ingrandire il tavolo e  permettere così a tutti i presenti di stare seduti comodamente. I più generosi (almeno in questa occasione) si son dati da fare per avviare il fuoco e preparare quanto programmato. Insomma, ognuno  di sua iniziativa ha fatto tranquillamente la sua parte, senza pretendere che altri lasciassero quello a cui in quel momento desideravano dedicarsi. In quest’atmosfera di accoglienza reciproca e di non sguaiato stare insieme, la maggior parte del tempo l’ho trascorso con Paolo, pensionato dopo 35 anni di lavoro all’INPS e grande appassionato di pesca e di mare. Le cose che mi ha raccontato, stimolato dal mio interesse e dalle mie domande, sono state tante, ma di una in particolare voglio farvi partecipi, risalente addirittura ai primi anni di scuola al “Porcellana”, istituto elementare sassarese. Avete presente il “ tira chi ti dira Ruseddu…..”, legato alla leggenda che i sorsesi mattacchioni avrebbero preteso addirittura di portarsi via a Sorso la famosa fontana, trascinandola con delle corde? Ebbene, Paolo dice che il suo maestro Costantino Poddighe, di cui conserva un bellissimo ricordo, in occasione di una ricerca scolastica aveva indicato ai suoi alunni una versione più verosimile della questione. Nelle campagne sorsesi si produceva la canapa, utilizzata per la costruzione di corde. Giornalmente ci si recava a Sassari per vendere il prodotto del proprio lavoro. Trovandosi la spianata dove sorge la fontana di Rosello proprio all’entrata della città, prima di recarsi al mercato dove le corde venivano vendute non a peso  ma bensì a metraggio, gli accorti e furbi sussinchi le legavano proprio alla fontana per tirarle con forza e poterle così allungare il più possibile.

Che dire, a me questa versione sembra più realistica. Vabbè che in molte occasioni i romangini  “di sotto”  hanno dato prova di stravagante “pazzia”, che a ben guardare pùò essere segno di particolare acume e di spirito libertario indomabile, ma questa storiella che volessero trascinarsi dietro il fontanone di Ruseddu può svelare più che altro la stupidità di chi l’ha messa in giro e continua a perpetuarla come veritiera. Grazie Paolo.

Dopo il gradito pasto e nonostante le resistenze iniziali, alla fine le chitarre, riuscitele ad accordare con molta difficoltà, sono venute fuori e, seppur con intonazioni molto approssimative e con un coro fatto di molte, ma molte voci “dispari”, il repertorio anni 60-70 è stato dignitosamente rivisitato. Qualcuno ha richiesto anche quella canzone sassarese che parla di quella fantasiosa storiellina dei sorsesi che volevano portasi via la fontana di Ruseddu, ma proprio non ne conoscevo gli accordi.

nota a piè di pagina

L’indomani, nonostante  le numerosissime sigarette fumazzate da buona parte dei presenti, per terra non ho trovato neanche uno schifoso mozziconcello. Bene. Anche per questo motivo, se si avanza la richiesta, un’altra cena prima dei rigori invernali si può ancora fare.

 

A.P.D. del 23 Agosto 2015: Senso civico? E cos’è?!

 

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di Piero Murineddu

Il decoro di regioni come il Trentino Alto Adige è garantito senza dover ricorrere a provvedimenti sindacali eccezionali. La vicenda dell’articolo si riferisce a Orosei, sulla costa orientale sarda, ma purtroppo la situazione non cambia altrove, e in estate la cosa è più visibile un po’ dappertutto. Cunette sporche con erbacce e sterpi non tagliati, piazzole con buste piene di tutto, giardini e piazze cittadine imbrattate, aree verdi sporche e non curate. Ovunque ti giri, il degrado impera. Danno all’immagine, all’ambiente e sopratutto, all’intelligenza.

Per la mia Amachina Piccolina Domenicale estiva, per la quale lo ricordo, ho preso lo spunto da quella più famosa “Amaca” dell’ottimo Michele Serra,quest’oggi mi servo di questo articoletto trovato su L’Unione di ieri. Sempre ieri, insieme all’intera famiglia, evento raro considerata la maggiore età dei due figli, ci siamo recati nel pomeriggio a Lu Bagnu, frazione poco prima di arrivare a Castelsardo, dove si trovano alcune discese a mare niente male, una delle quali per diverse occasioni è stata insignita della famosa Bandiera Blu per la bellezza e i servizi a disposizione dei bagnanti. Si, c’è anche quel baretto sulla spiaggia che coi suoi numerosi decibel musicali sparati non manca di rompere i coglioni a chi se ne vuole stare in pace, ma questo andazzo sembra che sia molto diffuso, svelando l’imbecillità dilagante. Non siamo stati però in quella spiaggia, ma in quell’altra che per raggiungerla bisogna scendere (e risalire) diverse decine di scalini. Spiaggia e specialmente roccia, proprio come piace a me. Una bella roccia mi ha creato quel piacevole fresco che mi ha permesso di distendermi e dedicarmi all’attività che prediligo, quello della lettura. Poco prima, mi son dovuto dar da fare per raccogliere le varie e maledette cicche conficcate un po’ ovunque nei due metri di spazio che occupavo. Parlavo dell’imbecillità. Appunto. Benissimo e necessarie le campagne di sensibilizzazione, ma ormai se non c’è la paura della sanzione pecuniaria, mi stò rassegnando a credere che gli imbecilli continueranno imperterriti ad essere tali, e naturalmente quando non sono visti, potendo così esprimere l’intero potenziale di stupida vigliaccheria di cui son capaci. E poi le nostre strade cittadine, specialmente i luoghi diventati punti di ritrovo dei nostri giovanotelli, buona parte dei quali si fa una pugnettina col senso civico, di cui non conoscono manco il significato. Spesso la mattina aspetto l’autobus per Sassari nei pressi della Stazione Ferroviaria di Sorso. I minuti di attesa mi servono per contemplare il posto e poter iniziare così di buon umore la giornata. Cingomme spiaccicate ovunque nei marciapiedi, il piccolo giardinetto pieno di cartoni di pizza, bottiglie vuote, cartacce e cicche in ogni dove, la seduta di quelle due panchine sporche, spesso resti di cibo tornati fuori dallo stomaco.

Due esempi, che da soli sarebbero sufficienti per prendere la decisione di vendere i pochi averi posseduti, fare i bagagli e partirsene con la mugliera,trascinando naturalmente anche la suocera contro la sua volontà, in Trentino Alto Adige, che intanto i figli sono in età di arrangiarsi. E no, questo non si può. Il lavoro, qui siamo cresciuti, abbiamo i nostri affetti e bla bla bla. Seppur a denti stretti, dobbiamo continuare a credere che con la sensibilizzazione le cose potranno migliorare……..potranno. Buona  domenica

 

 

“Da quando sei arrivato,sii felice,sei al sicuro, uomo molto probo (qui) sopraggiunto”

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 di Piero Murineddu

 

Giancarlo Pinna.Sicuramente un personaggio poliedrico e pieno di risorse questo giovanotto quasi settantenne, algherese di nascita e portotorrese di adozione. Non c’è  ambito della vita sociale, politica e culturale della città portuale che non attragga il suo interesse,e il più delle volte il suo apporto è propositivo e costruttivo. Tra le tante attività, attraverso il personaggio del Balai Lama, ha animato un ciclo di meditazioni di stampo spirituale, sull’amore, la giustizia e la pace. Prima che una patologia lo costringesse a servirsi di una carrozzina per invalidi, lo si poteva vedere in giro spesso di bianco vestito e con un copricapo tipico sardo, che inevitabilmente attirava l’attenzione specialmente di chi non conosce la positiva e stimolante stravaganza del particolare personaggio. Amante della musica, non ha fatto mai mancare la sua vis polemica in tanti convegni sulla lingua, l’archeologia e l’uso e valorizzazione dei beni culturali di cui Porto Torres è ricca. Non ha mancato neanche di prestarsi a rievocare fatti e personaggi storici. Ha avuto un ruolo importante nella trasformazione dell’Asinara da carcere a Parco Naturale, e non manca di far sentire la sua voce  ogni qualvolta si sente nell’aria l’intenzione di tornare  indietro. Per la sua ricca padronanza della parola, è stato e tuttora è portavoce di alcuni organismi culturali.

Per chi fosse interessato, Giancarlo ha un suo sito internet

http://giancarlopinna.altervista.org/html/home.htm

 

Negli ultimi tempi, nella pagina delle lettere de La Nuova Sardegna, spesso si leggono i suoi interventi, sempre puntuali e con cognizione di causa.

Quella che segue è dei giorni scorsi.

 

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Uomo di pace Giancarlo, col suo chiaro invito ad accogliere come graditi ospiti il gruppo di eritrei profughi che a Porto Torres hanno trovato alloggio, provvisorio o meno che sia. Generalmente, il tipo di accoglienza che lui suggerisce si riserva ai turisti in arrivo con le grosse navi nei mesi estivi, con l’intento mica tanto nascosto di arruffianarseli e magari portarli a decidere di fermarsi a Porto Torres per spendere i loro soldini. Per carità, azione lecita e sopratutto comprensibile, vista la continua crisi economica che patisce questa ex città industriale, che oggi, a distanza dalla dismissione degli impianti petrolchimici, più che benefici, ha lasciato danni al territorio e alla salute dei cittadini. Giancarlo stimola  i suoi concittadini e le istituzioni affinchè questa volta manifestino la loro tradizionale ospitalità non per averne indietro un tornaconto, almeno immediato, ma per comunicare a questa gente costretta ad allontanarsi dalle loro terre  insanguinate e a continuo rischio, che  la loro vita ha valore e che son portatori di valori che noi è ormai da molto che abbiamo messo da parte, presumendo di aver raggiunto un alto livello di civiltà e un benessere economico, spesso a discapito proprio di queste popolazioni che oggi approdano nei nostri porti nei modi drammatici che sappiamo.

Comunicazione? E famolo strano,dai…

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Sembra che ormai l’automazione stia  sostituendo l’azione diretta dell’uomo in tutti gli ambiti, e a ciò non di rado conseguono  aspetti non tanto positivi, specialmente per quanto concerne la qualità dei rapporti umani. Seppur non direttamente, l’argomento è affrontato da Nanni Delbecchi nel suo articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano di lunedì 17 agosto, dove si parla dell’uso del telefono.

WhatsApp, posta elettronica, sms….. Mezzi che hanno rivoluzionato il nostro rapportarci col mondo circostante, stravolgendone i tradizionali e consolidati modi. Con un minuto di conversazione telefonica, “la comunicazione ritrova quel fattore umano che la rete combatte in modo subdolo quanto scientifico”. Possiamo essere di buono o di cattivo umore, in un momento di apertura verso il mondo intero o di momentanea chiusura, completamente rinchiusi nel nostro intimo più impenetrabile. In quel momento senti lo squillo del telefonino. Leggi il nome e decidi se rispondere o meno. Se rispondi in ogni caso, è evidente che non hai alcun timore di farti sorprendere dall’interlocutore così come sei in quel momento, simpatico o meno simpatico, facile alla parola o in difficoltà a mettere insieme un concetto sensato. Man mano che ci stiamo circondando dall’elettronica, sembra quasi che questa “disponibilità” continua la stiamo sempre più perdendo. Decidiamo noi quando entrare in contatto o meno. Il rispondere al telefono fisso senza display diventa ancor più problematico, non sapendo chi c’è dall’altro capo. Mi chiedo se questi nuovi mezzi stiano agevolando o complicando la comunicazione. Sicuramente la scrittura, specialmente se non è di getto, permette maggior riflessione e può esprimere meglio il nostro pensiero. D’altra parte, però, preclude quello scambio di vibrazioni, sguardi, espressioni, silenzi, atteggiamenti. Componenti questi che arricchiscono la comunicazione interpersonale. Ci si può scrivere, ed anche tanto, ma se non c’è l’intenzione di entrare in relazione con l’altro, c’è il rischio che il silenzio accresca ulteriormente il fossato che divide.Altra cosa è  quell’altro tipo di silenzio, spesso assai  comunicativo, che ci può essere tra individui con ideali, aspirazioni, sentimenti e sensibilità comuni. Difficile ma non impossibile da sperimentare e realizzare.

Quindi, rinunciare ogni tanto a qualche sms o email e  usare il telefono, se proprio vi sono impedimenti per incontrarsi di persona. Aiuterebbe sicuramente ad entrare meglio in relazione. Poi, magari, ognuno per la sua strada. Ma intanto non si è persa un’opportunità per crescere e per edificare ponti comunicativi.

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Nei loro panni, noi faremmo lo stesso

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di Fabio Marcelli

L’emigrazione che porta masse innumerevoli e crescenti di persone ad abbandonare situazioni invivibili per effetto di conflitti,persecuzioni politiche, razziali e religiose, devastazioni ambientali, siccità, epidemie, crisi economiche, ecc., costituisce, prima ancora di ogni valutazione giuridica, una necessità oggettiva e incomprimibile, espressione di un legittimo desiderio di sopravvivenza delle persone coinvolte. Noi, nei loro panni, faremmo lo stesso, in assenza di alternative praticabili.

Questa semplice premessa vanifica tutte le politiche che si oppongono alle migrazioni. Esse fanno leva sulle paure del cittadino comune, bistrattato per conto suo da governi e potere economico, additandogli un facile bersaglio. E’ la politica di coloro che, incapaci o comunque lungi dal lottare per imporre gli interessi popolari, si accontentano di dire alla gente che se stanno male è per colpa dei “clandestini” e dei Rom.

Scendendo sul piano più prettamente giuridico, l’accoglienza costituisce in vari casi un dovere anche da questo punto di vista. Pensiamo alla situazione dei richiedenti asilo, di cui la Convenzione di Ginevra del 1951 nel combinato disposto con il Protocollo di New York del 1967,  impone l’accoglimento, qualora fuggano una persecuzione per “motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche”.

La fonte appena citata impone in questi casi agli Stati di accoglienza di concedere ai rifugiati un certo trattamento che non deve essere inferiore a quello più favorevole applicato ai cittadini di un Paese straniero. In realtà, a moltissime persone che si trovano in queste condizioni non è concesso il diritto di richiedere asilo. Fuggendo da guerre e persecuzioni devono rivolgersi a organizzazioni criminali che lucrano notevoli profitti e ne provocano in vari casi la morte. Lo scafismo è l’altra faccia del salvinismo e dell’ipocrisia dell’Unione Europea, dato che l’apertura di canali legali di afflusso dei richiedenti asilo, cui costoro si oppongono, farebbe venir meno la fonte degli illeciti profitti delle bande criminali impegnate nel traffico dei migranti.

Fa quindi bene la Chiesa Cattolica  a condannare i “piazzisti di fanfaronate da osteria, chiacchiere da bar che rilanciate dai media rischiano di provocare conflitti” nonché a prendersela con un governo anch’esso fanfarone e sostanzialmente assente e inadempiente, nonostante il valido impegno di tanti funzionari, militari e appartenenti alle forze dell’ordine. Ci si aspetta però dalla Chiesa di Papa Francesco un impegno ancora maggiore mettendo a disposizione di migranti e senzatetto tutte le proprie ingenti proprietà disseminate sul territorio. In mancanza, il governo dovrebbe procedere alla confisca di tutti gli immobili sfitti siano essi di proprietà ecclesiastica o di banche e società, salvaguardando solo i piccoli proprietari, per metterli a disposizione dei bisogni insoddisfatti dei migranti e dei cittadini italiani a loro volta assoggettati a un crescente e intollerabile impoverimento.

Su questi ed altri elementi abbiamo svolto  il progetto FEI (Fondo europeo di integrazione) “Partecipare per integrarsi”, analisi delle migliori pratiche italiane ed europee in materia di housing sociale, mobilità lavorativa e ricongiungimento familiare, condotta dall’ISGI-CNR in collaborazione con ARCI (capofila), ACLI e Patronato ACLI, che presenteremo il 22 settembre a Roma e il 9 ottobre a Napoli.

Sulla solidarietà e l’accoglienza nei confronti di migranti e richiedenti asilo, premesse di una proficua integrazione, si giocano non solo i destini di centinaia di migliaia di persone in lotta per la loro sopravvivenza e per una vita degna, ma l’avvenire stesso di ordinamenti come quello italiano e quello europeo che devono dimostrare nei fatti di poter realizzare quei valori di dignità umana cui proclamano di ispirarsi ma che purtroppo invece calpestano ogni giorno.

 

Il “Ministero della Paura”

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di Piero Murineddu

Paura. Su questo stato emotivo, sperimentato da ogni essere animale, si potrebbe parlare lungamente e da diverse angolazioni. Negli animali è legato esclusivamente all’istinto di sopravvivenza, mentre negli esseri umani la cosa si fa un tantino più complessa. Si può riferire ad una condizione legata al presente o, forse più spesso, che riguarda il futuro. Anche senza aver fatto studi approfonditi, ne sperimentiamo i vari livelli,che vanno da un semplice timore,apprensione, preoccupazione,  inquietudine o  esitazione davanti alle normalissime situazioni quotidiane che ci troviamo a vivere. In altri casi, che possono arrivare ad un livello patologico, si parla d’ansia, di terrore, di fobia o di panico.  Per le condizioni di vita individuali, possiamo vivere uno o più di questi stati emotivi. A livello collettivo, può evidenziare un momento storico particolare, e conseguentemente, portare a comportamenti comuni. Generalmente, si può affermare che ciò che non si conosce provoca paura, con le sue varie declinazioni. Va da se che la volontà e l’impegno per conoscere e capire, potrebbe far superare questo stato che proprio piacere non fa. In questo momento non è mia intenzione fare alcun esempio. Ognuno può trovare applicazione nei diversi ambiti della vita personale, sociale e mondiale.

 

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Una delle ultime sere, mi ha colpito molto un personaggio, il “Ministro della Paura”, presentato dal grande Antonio Albanese all’interno di un suo spettacolo. Come sempre, questo poliedrico attore mi diverte tantissimo, e tantissimo mi fa anche pensare, come in questo caso. La Paura istituzionalizzata per mantenere un equilibrio, tra individui e tra società.Difficile distinguerne i confini tra finzione spettacolizzata e realtà.

Di seguito ve ne riporto la primissima parte, seguita dall’intero spezzone teatrale.

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“Io sono il Ministro della Paura, e come ben sapete senza la paura non si vive.

Senza la paura della fame e della sete non si vive.
Senza la paura della famiglia e della scuola non si vive.
 
Senza la paura di Dio e della sua barba bianca non si vive.
 
Una società senza paura è come una casa senza fondamenta, per questo io ci sarò sempre.
 
Nel mio ufficio bianco, con la mia scrivania bianca di fronte al mio poster bianco……
Aaahhh…porca troia, che paura!
 
Ci sarò sempre coi miei attrezzi da lavoro, con la mia pulsanteria: pulsante giallo, pulsante arancione e pulsante rosso.
Rispettivamente poca paura,abbastanza paura, paurissima.
 
E seguendo correttamente questo stato d’animo, io aiuto il mondo a mantenere l’ordine.
 
Senza di me le guerre scoppierebbero inutilmente. Le epidemie non avrebbero senso.
Le bombe esploderebbero senza nessun vantaggio sociale.

Io trasformo la paura in ordine, e l’ordine è il cardine di ogni società rispettabile.
 
Io le paure le plasmo, le elaboro, le impasto e poi ve le trasmetto……………
 

 

A.P.D. del 16 agosto 2015 – La vigliaccata di andare a rubare dal medico…di mattina

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di Piero Murineddu

Giorno dopo Ferragosto, nessun quotidiano in edicola. Soffriranno coloro che non se la passeggiano se non hanno  il giornale sotto braccio o possono starsene in piedi all’angolo di strada facendo finta di leggere con interesse, motivo per cui forse escono presto la mattina, ma almeno gli edicolanti si sentono giustificati a non alzarsi all’alba e caricati a ora comoda bagagli e famiglia in auto, farsi la tanto attesa e spesso rimandata gitarella fuori porta. Dunque, nessuna spesa per il giornale quest’oggi.

Per la mia Amachina Piccolina Domenicale mi servo di un’unica notizia apparsa ieri su L’Unione Sarda. Precisamente, più che notizia è una piccola intervista fatta ad  un medico di famiglia. Eccovi la scansione.

 

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Come avete visto, è un normalissimo medico di famiglia, come può essere il mio o il tuo che leggi. Pensandoci, certo che è importante la figura di questo medico inventato all’assistenza pubblica. Medico di fiducia, si dice, e se questa fiducia non c’è, manca una componente fondamentale nel rapporto con un professionista che puoi andare a rompere le scatole quanto vuoi che intanto non ti presenta la parcella, a meno che non gli richiedi qualche certificato il cui pagamento è previsto. Sappiamo, per esperienza diretta o per sentito dire, che di medici di famiglia ce ne sono di tutti i tipi. Sicuramente quello più ricercato è chi mostra attenzione alla tua persona, lì in quel momento. Quello che ti ascolta e che non ti liquida sbrigativamente con una ricetta. Quello che smette di guardare il monitor del computer e ti guarda in faccia, sforzandosi di sorriderti, per quanti problemi possa avere personalmente e in famiglia. In poche parole, quello che ti accoglie e non ti fa pesare il fatto che sei di nuovo lì ad appesantirlo coi tuoi mali, di salute fisica o di altra natura. Naturalmente non si può pretendere che ti dedichi molto tempo, anche perché  nella sala d’attesa ci sono altri pazienti, spesso impazienti, ma quel po’ di tempo che gli sei seduto davanti, è giusto aspettarsi che sia presente con tutte le sue facoltà, sopratutto ….umane.

Si potrebbero rilevare diverse cose sulle risposte date in quest’intervista, e a ben guardare, sono situazioni riscontrabili un po’ ovunque: depressione diffusa e richiesta di ansiolitici, insieme a quella pilloletta blu, dimostrando che non è più  il caffè  pubblicizzato da Nino Manfredi la sola cosa che  più la mandi giù e più ti tira sù. Certo è che la pruriginosità del titolo dato all’intervista conferma che alla maggior parte dei direttori, non tutti, interessa sopratutto che il giornale venga venduto, ma questo è un altro discorso. C’è anche quel giudizio di “troppa superficialità” nella politica. Io metterei anche altre peculiarità di questo particolare ambito della vita collettiva, ma quest’oggi non ho molta voglia di essere polemico. Piuttosto, vorrei rilevare il finale dell’intervista, quella vigliaccata di andare a rovistare in casa altrui…di mattina. Come di mattina?! Ma tradizionalmente, i furti non avvengono di notte,  entrando dalla finestra del primo piano dimenticata aperta, camminando pian pianino senza fare il minimo rumorino? Come no! Mi dite invece che entrano in pieno giorno, dal  portone blindato, si preparano il caffè, fanno la cacchettina, premono lo sciacquone, caricano il caricabile e tranquillamente vanno via fischiettandosela? Ma veramente? E che ne sapevo io! Ero fermo ai giornaletti di Diabolik, l’implacabile. Ah, che bei tempi quello dei fumetti, e che brutti tempi questi altri che stiamo vivendo!

 

 

Lettera a quelli che dicono: “Meglio lasciarli affogare”

Due parole di presentazione

Ormai per me sta diventando un appuntamento fisso quello di comprare “Il Fatto Quotidiano” del lunedì. La su impostazione più che da quotidiano è da settimanale, e infatti me lo porto dietro per tutti i sette giorni, fino al successivo. Lo leggo senza fretta, e le sue venti pagine piegate in quattro ci stanno comodamente dentro il borsello, che come ogni anzianotto che si rispetti, ormai uso portarmi dietro, per evitare di avere le tasche gonfie di tutto. Probabilmente per molti, l’aria da saputello del suo direttore, Marco Travaglio, è irritante e la cosa è comprensibile, in quanto chi dice le cose chiaramente e senza troppi giri di parole, spesso non risulta molto simpatico. Nonostante ciò, vi invito ogni tanto a spenderlo questo euro e cinquanta e constaterete la ricchezza di tutte le pagine di questo giornale.

E’ dall’ultimo numero che ho tratto l’articolo che segue. L’esperienza di una ragazza che, per motivi di studio e probabilmente per indole personale, ha deciso di vivere alcuni mesi al contatto diretto con i giornalieri arrivi dei profughi nel porto di Palermo. Ilaria è giovanissima e sono certo che la sua vita rimarrà segnata per sempre.  Scorretelo con attenzione. Evito qualsiasi commento, che risulterebbe superfluo. (Pi.Mu.)

 

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Una giovane stagista sta passando l’estate ad assistere i profughi che arrivano a Palermo. Si rivolge a chi non riesce a provare alcuna empatia verso quanti rischiano la vita per cercare di salvare quella degli altri

 

 

Lettera a quelli che dicono:

“Meglio lasciarli affogare”

 

di Ilaria Roccuzzo Reuscher

Ci sono persone che non capiscono o non vogliono capire e dicono frasi vuote: “dovremmo rimandarli tutti a casa”, oppure “dovremmo chiudere le frontiere”, che poi si traduce “lasciamoli affogare nel Mar Mediterraneo”. Vorrei mettervi tutti qui, su questo molo del porto di Palermo, a osservare quello che succede. E succede questo: arriva un’enorme nave della Guardia Costiera, da lontano sembra quasi vuota, poi man mano si avvicina e attracca e allora li vedi. Alcuni si affacciano, altri sono seduti sul ponte superiore, altri ancora sono seduti o sdraiati accanto alle scialuppe di salvataggio. Guardano a riva come se non sapessero dove sono e da dove vengono. Come se quella umanità che li attende, fra Croce Rossa, Caritas, locali aziende di sanità, Protezione Civile, Polizia, fosse costituita da alieni.Sono centinaia e fra di loro ci sono anche morti, fra cui bambini e donne incinte. Iniziano a scendere, quelli nelle condizioni peggiori per primi, indossando larghe divise bianche, la maggior parte è scalza. Si mettono in fila, attendendo di passare il primo controllo medico, per capire chi è malato di cosa ed essere inviato nel giusto padiglione medico, non prima di prendere distrattamente la busta con bibite e cibo che gli porgi e andare a sedersi per mangiare.

C’è la mamma con la bambina in braccio che stringe un pelouche, c’è il ragazzo con la maglietta della Juventus e quello con la maglietta del Manchester United, c’è lo spazio dove vengono fatti sedere i minorenni. E loro fanno paura; sono ragazzi, sono me e i miei amici quattro o cinque anni fa, ma a loro l’hanno rubata la spensieratezza e la gioia di essere giovani. E se si inorridisce a vedere gli sguardi vuoti di certi adulti, vedere quelli di questi ragazzi ti fa venire voglia di piangere. Non per i piedi nudi, la puzza, i tagli addosso ma per i loro sguardi. È da lì che capisci.

Alcuni ti sorridono quando gli porgi la busta, e ti dicono “thank you” o “merci beaucoup”. Loro sono stati fortunati , la loro speranza è stata più forte della disperazione, sanno che il peggio è passato e che loro sono vivi e i loro volti e i loro occhi non possono non ridere. Alcuni aiutano persino a tradurre qualche frase, fanno anche delle battute. Poi ci sono quelli che non sorridono. Sono quelli che in mezzo a quel mare hanno lasciato una grande parte di sé stessi e della propria anima. C’è un ragazzo con la camicia blu elettrico, 25 forse 30 anni, che ha visto i suoi due fratelli affogare davanti ai propri occhi. Non prende da mangiare né da bere e chiede soltanto un telefono. Quando riesce a recuperarne uno, chiama a casa, sua mamma, che è rimasta là, e le dice che è arrivato ma che i suoi due fratelli non ci sono riusciti. Poi chiude e si siede su una panca, a guardare per terra, mentre tutti gli altri passano e se ne vanno, verso gli ultimi controlli e poi verso i pullman. Non mangia, non beve, ogni tanto scende qualche lacrima, ma lui resta impassibile. Vorrei dire un’ultima cosa a quelle persone che parlano senza riflettere: immaginate che una terribile guerra cominci a distruggere l’Europa, e che voi siate costretti a partire, lasciando tutto, inclusa una parte della vostra famiglia, e che dobbiate attraversare tutto il continente a piedi, arrivando al mare, forse non riuscendo nemmeno a salire su una barca e restando uccisi sul molo, o che riuscendoci passiate giorni e giorni ammassati gli uni sugli altri, come bestiame, senza qualsiasi straccio di dignità umana. Lotta per la sopravvivenza, si chiama. Arrivate finalmente a destinazione e siete vivi. E chi c’è ad attendervi? Fra le altre, anche delle persone che dicono che non c’è posto per voi e che dovete tornarvene a casa. Quale casa poi non si sa, visto che la vostra non esiste più. Rifletto sulle parole di un giovane somalo che ha detto che questa gente ha solo avuto la sfortuna di nascere dalla parte sbagliata del mare.
Molti, camminando verso i pullman, ti fanno ciao con la mano e ti rivolgono un sorriso a mille denti. Sono felici, e non la felicità che si sente quando mamma ci compra un regalo per Natale. No, lo vedi nei loro occhi, questa è la vera felicità, quella che provano nel realizzare che forse non hanno più nulla, ma hanno ancora la vita. Mentre ti sorridono, è come se una gioia improvvisa quasi insensata e fuori luogo in un momento del genere ti riempisse. Anche perché sopra la vostra testa in quel momento stanno facendo scendere le bare con i cadaveri. Tornando a casa, mi rendo conto che puzzo, i miei vestiti e il mio intero corpo puzzano e mi sento come se qualcuno avesse appoggiato un peso di una tonnellata sulla mia testa. E intanto mentre l’Europa litiga e i francesi vogliono sospendere la libera circolazione nello spazio Schengen, i siciliani, sempre criticati, spesso guardati con arroganza, perché “dai, sono terroni”, perché “la loro isola è sporca, perché sono disorganizzati”, e poi “c’è la mafia”, accolgono queste persone con una generosità che commuove.
E riaccende la speranza che forse, in fondo, non è tutto così buio.