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Versi che narrano il coraggio nelle donne del Vangelo

 

evangelium 20001

Eravamo in molte,

povere e ricche,

libere e schiave,

eravamo donne,

donne e malate,

malate di desiderio,

la legge dei padri ci prescrisse un destino non scelto,

ma noi rompemmo i vincoli,

spezzammo i divieti,

lasciammo le case,

voltammo le spalle ai destini segnati …..

ci riprendemmo la vita

 

Per riprendersi la vita è necessario parecchio coraggio. Questo Coraggio ci viene descritto da Rita Clemente nei suoi versi, dove le donne di cui si parla nel Vangelo raccontano dell’Incontro che ha cambiato la loro vita. Un Incontro forse inaspettato ma intimamente tanto desiderato, un Incontro che ha dato  la gioiosa certezza di sentirsi finalmente accettati per quello che realmente si è senza doversi mascherare e senza la preoccupazione di dover rispondere alle altrui aspettative, liberi da ogni corazza protettiva che spesso porta ad essere aggressivi e falsifica i rapporti. Quello che forse vorremmo essere tutti.  Un Incontro che fa riprendere la propria vita e porta ad un amore che non è possesso, ma donazione.

L’autrice, insegnante in pensione, scrive poesie, racconti e testi teatrali, oltre che occuparsi di integrazione sociale e Intercultura. E’ inoltre coordinatrice del Comitato Pace e Cooperazione di Chieri.

Quelle che seguono sono brevi considerazioni sul libretto di Enrico Peyretti, intellettuale impegnato nel Movimento Nonviolento e Pacifista e animatore delle Comunità di Base, sorte all’interno del variegato mondo Cattolico e che probabilmente più di altri (e spesso con sana ed entusiasta inquietudine) fanno un continuo lavoro di attualizzazione del Messaggio Evangelico.

Chi è interessato all’acquisto, può contattare direttamente l’autrice ritaclemr@libero.it    (Pi.Mu.)

 

 

Anche i vangeli vanno scossi, aperti, squarciati…..

di Enrico Peyretti

Cara Rita, ti dico subito che le donne che cantano e piangono, sempre vivissime, nelle tue pagine, mi hanno molto e lungamente commosso e innamorato. Permetti che dica questa mia commozione ad un po’ di amiche e amici. Le donne del vangelo, del cammino e della vita di Gesù, parlano tuo tramite con una autenticità diretta, che estrae scoppi di nuda vita da libri che abbiamo troppo imbalsamato nell’abitudine. Anche i vangeli vanno scossi e aperti, squarciati perché non diventino sepolcri religiosi, e le donne vive e frementi sono lì per questo. Hai fatto cosa bella e vera nel dare la tua voce, con immaginazione interpretante, e con bellezza, a quelle donne che videro e toccarono Gesù, per dire a noi chi Gesù fu per loro, e come lo compresero, e come lui le amò e le liberò. Erano voci secondarie, nella lunga tradizione, e tu, come tante altre studiose ascoltanti-parlanti, le hai portate in primo piano, come è giusto, accanto a figure e parole più note. E, dentro le parole, ci fai intravedere anime che impregnano la carne di spirito, trepidanti di vita intera. Anche la terrestrità di Maria di Nazareth, richiamata giù da nuvole celestiali, ce la rende più vera e vicina. Esegeti, critici letterari, diranno la loro, io ti dico la mia emozione nell’ammirare questa cerchia di donne innamorate di Gesù, perciò di tutta la vita, anche la nostra, di ciascuno. Vorrei che il tuo libretto che merita diffusione andasse anche in commercio, e se tira su quattro soldi, queste donne intraprendenti continueranno a fare la spesa, come allora, per il cammino di Gesù. Ti ringrazio molto di quel che ci hai messo dentro, di loro e di tuo.

 

 

 

 

Intervista al Papa del giornale olandese di strada “Straatnieuws”

Papa Francesco - ANSA

 

È ancora presto quando ci presentiamo al portone di servizio del Vaticano, a sinistra della Basilica di San Pietro. Le guardie svizzere sono al corrente del nostro arrivo e ci fanno passare. Dobbiamo andare alla Casa Santa Marta, perché è lì dove abita Papa Francesco. Quella Casa Santa Marta probabilmente è l’hotel a tre stelle più particolare del mondo. Un grande edificio bianco dove pernottano cardinali e vescovi che svolgono il loro servizio in Vaticano o vi si trovano di passaggio e che è anche la dimora dei cardinali durante il conclave.

Anche qui sanno del nostro arrivo. Due signore alla reception, come in ogni albergo, gentilmente ci indicano una porta laterale. La stanza dell’incontro è già stata preparata. Uno spazio abbastanza grande con una scrivania, un sofà, alcune tavole e sedie, questo è il luogo di ricevimento infrasettimanale del Papa. Poi, inizia l’attesa. Marc, il venditore di Straatnieuws, è il più tranquillo di tutti e aspetta, seduto sulla sedia, ciò che verrà.

Di colpo si presenta il fotografo ufficiale del Papa.  “Sta arrivando il Papa”, ci bisbiglia.

E prima che ce ne rendiamo conto entra nella stanza: Papa Francesco, il capo spirituale di 1,2 miliardi di cattolici. Porta con sé una grande busta bianca. “Mettetevi seduti, amici”, dice con un gesto gentile della mano, “Che piacere che siate qui.” Il Santo Padre dà l’impressione di un uomo calmo e amichevole, ma allo stesso tempo energico e preciso. Una volta seduti si scusa per il fatto di non parlare l’olandese. Glielo perdoniamo subito.

D – Le nostre interviste iniziano sempre con una domanda sulla via dove l’intervistato è cresciuto. Lei, Santo Padre, cosa si ricorda di quella via? Che immagini Le vengono in mente pensando alle strade della Sua infanzia?

R – “Io da quando avevo un anno fino al momento che sono entrato in seminario, ho vissuto nella stessa via. Era un quartiere semplice di Buenos Aires, tutte case basse. C’era una piazzetta, dove noi giocavamo a calcio. Mi ricordo che scappavo da casa e andavo a giocare a calcio con i ragazzi dopo la scuola. Poi mio papà lavorava in una fabbrica che era a cento metri. Faceva il ragioniere. E i nonni abitavano a cinquanta metri. Tutto a pochi passi l’uno dall’altro. Io mi ricordo anche i nomi della gente, da prete sono andato a dare i sacramenti, il conforto ultimo a tanti,  che mi chiamavano e ci andavo perché volevo loro bene. Questi sono i miei ricordi spontanei.”

D – Lei giocava anche a calcio?

R. – “Si”

D. – Era forte?

R. – “No. A Buenos Aires a quelli che giocavano il calcio come me, li chiamavano pata dura. Che vuol dire avere due gambe sinistre. Ma giocavo, facevo il portiere tante volte.”

D. – Com’è nato il suo impegno personale per i poveri?

R. – “Si, tanti ricordi mi vengono in mente. Mi ha colpito tanto una signora che veniva a casa tre volte alla settimana per aiutare la mia mamma. Per esempio aiutava in lavanderia. Lei aveva due figli. Erano italiani, siciliani e hanno vissuto la guerra, erano molto poveri, ma tanto buoni. E di quella donna ho sempre mantenuto il ricordo. La sua povertà mi colpiva. Noi non eravamo ricchi, noi arrivavamo alla fine del mese normalmente, ma non di più. Non avevamo una macchina, non facevamo le vacanze o tali cose. Ma a lei mancavano tante volte le cose necessarie. Noi avevamo abbastanza e mia mamma le dava delle cose. Poi lei è tornata in Italia, e dopo è ritornata in Argentina. L’ho ritrovata quando ero arcivescovo di Buenos Aires, aveva 90 anni. E l’ho accompagnata fino alla morte  a 93 anni. Un giorno lei mi ha dato una medaglia del Sacro Cuore di Gesù che porto ancora ogni giorno con me. Questa medaglia -che è anche un ricordo – mi fa tanto bene. Vuole vederla? “

(Con un po’ di fatica, il Papa riesce a tirar fuori la medaglia, completamente scolorita dopo essere stata portata per anni).

“Così penso a lei ogni giorno e a quanto ha sofferto per la povertà. E penso a tutti gli altri che hanno sofferto. La porto e la prego….”

D. – Qual è il messaggio della Chiesa per i senzatetto? Che cosa significa la solidarietà cristiana per loro in concreto?

R. – “Mi vengono due cose in mente. Gesù è venuto al mondo senzatetto e si è fatto povero. Poi la Chiesa vuole abbracciare tutti e dire che è un diritto di avere un tetto sopra di te. Nei movimenti popolari si lavora con tre ‘t’ spagnole, trabajo (lavoro), techo (casa) e tierra (terra). La chiesa predica che ogni persona ha il diritto a queste tre ‘t’. “

D. – Lei chiede spesso attenzione per i poveri e per i profughi. Non teme che in questo modo si possa generare una forma di stanchezza nei mass-media e nella società in generale?

R. – “A tutti noi viene la tentazione – quando si torna su un tema che non è bello, perché è brutto parlarne – di dire: “Ma, finiamo: questa cosa, stufa troppo “. Io sento che la stanchezza esiste, ma non mi fa paura. Io devo continuare di parlare delle verità e di come sono le cose.”

D. – È il suo dovere?

R. – “Si, è il mio dovere. Lo sento dentro di me. Non è un comandamento, ma come persone tutti dobbiamo farlo. “

D. – Non teme che la Sua difesa della solidarietà e dell’aiuto per i senzatetto e altri poveri possa essere sfruttata politicamente? Come deve parlare la Chiesa per essere influente e allo stesso tempo rimanere fuori dagli schieramenti politici?

R. – “Ci sono strade che portano a sbagli in quel punto. Vorrei sottolineare due tentazioni. La Chiesa deve parlare con la verità e anche con la testimonianza: la testimonianza della povertà. Se un credente parla della povertà o dei senzatetto e conduce una vita da faraone: questo non si può fare. Questa è la prima tentazione. L’altra tentazione è di fare accordi con i governi. Si possono fare accordi, ma devono essere accordi chiari, accordi trasparenti. Per esempio: noi gestiamo questo palazzo, ma i conti sono tutti controllati, per evitare la corruzione. Perché c’è sempre la tentazione della corruzione nella vita pubblica. Sia politica, sia religiosa.  Io ricordo che una volta con molto dolore ho visto -quando l’Argentina sotto il regime dei militari è entrata in guerre con la Gran Bretagna per le Isole Malvine `che la gente dava delle cose, e ho visto che tante persone, anche cattolici, che erano incaricati di distribuirle, le portavano a casa. C’è sempre il pericolo della corruzione.  Una volta ho fatto una domanda a un ministro dell’Argentina, un uomo onesto. Uno che ha lasciato l’incarico perché non poteva andare d’accordo con alcune cose un po’oscure Gli ho fatto la domanda: quando voi inviate aiuti, sia pasti, siano vestiti, siano soldi, ai poveri e agli indigenti: di quello che inviate, quanto arriva là, sia in denaro sia in spesa? Mi ha detto: il 35 per cento. Significa che il 65 per cento si perde. È la corruzione: un pezzo per me, un altro pezzo per me.”

D. – Lei crede che finora nel suo pontificato ha potuto ottenere un cambiamento mentale, per esempio nella politica?

R. – “Non saprei cosa dire. Non lo so. So che alcuni hanno detto che io ero comunista. Ma è una categoria un po’ antiquata (ride).  Forse oggi si usano altre parole per dire questo…”

D. – Marxista, socialista…

R. – “Hanno detto tutto questo.”

D. – I senzatetto hanno dei problemi finanziari, ma coltivano la propria libertà.  Il papa non ha nessun bisogno materiale, ma è considerato da alcuni come un prigioniero in Vaticano. Non sente mai il desiderio di mettersi nei panni di un senzatetto?

R. – “Mi ricordo il libro di Mark Twain ‘Il principe e il povero’, quando uno può mangiare tutti i giorni, hai vestiti, hai un letto per dormire, hai una scrivania per lavorare e non manca niente. Hai anche degli amici. Ma questo principe di Mark Twain vive in una gabbia d’oro.”

D. – Si sente libero qui in Vaticano?

R. – “Due giorni dopo essere eletto papa, sono andato (nella versione olandese: “come si dice ufficialmente”) a prendere possesso dell’appartamento papale nel Palazzo Apostolico. Non è un appartamento lussuoso. Ma è largo, è grande… Dopo aver visto questo appartamento mi è sembrato un imbuto al rovescio, cioè grande ma con una porta piccola. Questo significa essere isolato. Io ho pensato: non posso vivere qua semplicemente per motivi mentali. Mi farebbe male. All’inizio sembrava una cosa strana, ma ho chiesto di restare qui, a Santa Marta. E questo mi fa bene perché mi sento libero. Mangio nella sala pranzo dove mangiano tutti. E quando sono in anticipo mangio con i dipendenti. Trovo gente, la saluto e questo fa che la gabbia d’oro non sia tanto una gabbia. Ma mi manca la strada.”

D. Santo Padre, Marc vuole invitarla per andare a mangiare una pizza con noi. Che ne pensa?

R. – “Mi piacerebbe, ma non riusciremmo a farlo. Perché il momento che esco da qua verrà la gente da me.  Quando sono andato a cambiare le lenti dei miei occhiali in città, erano le sette di sera. Non c’era molta gente in strada. Mi hanno portato dall’ottico e sono uscito della macchina e lì c’era una donna che mi ha visto e ha gridato: “Ecco il papa.” E poi io ero dentro e fuori tutta la gente …”

D. – Le manca il contatto con la gente?

R. – “Non mi manca perché la gente viene qua. Ogni mercoledì vado in piazza per l’Udienza Generale, qualche volta vado in una parrocchia: sono in contatto con la gente. Per esempio ieri (26 ottobre) sono venuti più di cinquemila zingari nell’Aula Paolo VI.”

D. – Si vede che lei gode di questo giro nella piazza durante l’Udienza Generale…

R. – “È vero. Si, è vero.”

D. – Il Suo omonimo San Francesco scelse la povertà radicale e vendette anche il suo evangeliario. In quanto papa, e vescovo di Roma, si sente mai sotto pressione per vendere i tesori della Chiesa?

R. – “Questa è una domanda facile. Non sono i tesori della Chiesa, ma sono i tesori dell’umanità. Per esempio, se io domani dico che la Pietà di Michelangelo venga messa all’asta, non si può fare, perché non è proprietà della Chiesa. Sta in una chiesa, ma è dell’umanità. Questo vale per tutti i tesori della Chiesa. Ma abbiamo cominciato a vendere dei regali e altre cose che mi vengono date. E i proventi della vendita vanno a monsignore Krajewski, che è il mio elemosiniere. E poi c’è la lotteria. C’erano delle macchine che sono tutte vendute o date via con una lotteria  e il ricavato è usato per i poveri. Ma ci sono cose che si possono vendere e queste si vendono.”

D. – Si rende conto che la ricchezza della Chiesa possa creare questo tipo di aspettative?

R. – “Si, se facciamo un catalogo dei beni della Chiesa, si pensa: la Chiesa è  molto ricca. Ma quando è stato fatto il Concordato con l’Italia 1929 sulla Questione Romana, il governo italiano di quel tempo ha offerto alla Chiesa un grande parco a Roma. Il papa di allora, Pio XI, ha detto: no, vorrei soltanto un mezzo chilometro quadrato per garantire la indipendenza della Chiesa. Questo principio vale ancora. Sì, i beni immobili della Chiesa sono molti, ma  li usiamo per mantenere le strutture della Chiesa e per mantenere tante opere che si fanno nei paesi bisognosi: ospedali, scuole. Ieri, per esempio, ho chiesto di inviare in Congo 50.000 euro per costruire tre scuole in paesi poveri, l’educazione è una cosa importante per bambini. Sono andato all’amministrazione competente, ho fatto questa richiesta e i soldi sono stati inviati.”

D. – Parliamo di Olanda. Lei è mai stato nel nostro Paese?

R. – “Si, una volta quando ero superiore provinciale dei gesuiti dell’Argentina. Ero di passaggio nel corso di un viaggio. Sono stato a Wijchen, perché lì i avevano il noviziato, e sono anche stato ad Amsterdam per un giorno e mezzo, dove ho visitato una casa dei gesuiti. Della vita culturale non ho visto niente perché non avevo tempo.”

D. – Per questo potrebbe essere una buona idea se i senzatetto di Olanda La invitassero per una visita al nostro paese. Che ne pensa, Santo Padre?

R. – “Le porte non sono chiuse a questa possibilità.”

D. Cosi, quando ci sarà una tale richiesta, Lei la prenderà in considerazione?

R. – “La considero. E adesso che l’Olanda ha una regina argentina (ride), chissà.”

D. – Ha forse un messaggio speciale per i senzatetto del nostro Paese?

R. – “Non conosco bene i particolari dei senzatetto in Olanda. Vorrei dire che l’Olanda è un paese sviluppato con tante possibilità. Io direi di chiedere ai senzatetto olandesi di continuare a lottare per le tre ‘t’. “

Alla fine anche Marc fa alcune domande. Vuole sapere, tra l’altro, se il Papa già da piccolo sognava di diventare Papa. Il Santo Padre risponde con un risoluto ‘No”.

R. – “ Ma dirò una confidenza. Quando ero piccolo non c’erano i negozi dove si vendevano le cose. Invece c’era il mercato dove si trovava il macellaio, il fruttivendolo eccetera. Io ci andavo con la mamma e la nonna per fare le spese. Ero piccolino, avevo quattro anni. E una volta mi hanno domandato: ‘Cosa ti piacerebbe fare da grande?’ Ho detto: il macellaio!”

D. – Per molti fino al 13 marzo 2013 Lei era uno sconosciuto. Poi da un momento all’altro, Lei è diventato famoso in tutto il mondo. Come ha vissuto quest’esperienza?

R. – “È venuto e non l’aspettavo. Non ho perso la pace. E questo è una grazia di Dio. Non penso tanto al fatto che sono famoso. Dico a me stesso: adesso ho un posto importante, ma in dieci anni nessuno ti consocerà più (ride). Sai, ci sono due tipi di fama: la fama dei ‘grandi’ che hanno fatto grandi cose, come Madame Curie, e la fama dei vanitosi. Ma quest’ultima fama è come una bolla di sapone.”

D. – Così, Lei dice ‘adesso sono qua e devo fare il meglio’ e continuerà questo lavoro fino a quando ne sarà in grado?

R. – Sì.

D. – Santo Padre, si può immaginare un mondo senza poveri?

R. – “Io vorrei un mondo senza poveri. Noi dovremmo lottare per questo. Ma io sono un credente e so che il peccato è sempre dentro di noi. E la cupidigia  umana c’è sempre, la mancanza di solidarietà, l’egoismo che crea i poveri. Per questo mi sembra un po’ difficile immaginare un mondo senza poveri.  Se Lei pensa ai bambini sfruttati per lavoro schiavo, o ai bambini sfruttati per abuso sessuale. E un’altra forma di sfruttamento: uccidere bambini per togliere gli organi, il  traffico di organi. Uccidere i bambini per togliere gli organi è cupidigia. Per questo non so se lo faremo questo mondo senza poveri, perché il peccato c’è sempre e ci porta l’egoismo. Ma dobbiamo lottare, sempre, …sempre”.

 

Abbiamo finito. Ringraziamo il Papa per l’intervista. Anche lui ci ringrazia e dice che il colloquio gli è piaciuto molto. Poi prende la busta bianca che per tutto il tempo è rimasta accanto a lui sul sofà ed estrae per ognuno di noi un rosario. Vengono scattate delle foto e poi Papa Francesco si congeda. Così tranquillo e rilassato com’è arrivato, ora esce dalla porta.

Le campane suonano a festa per la caduta di Marino?

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di Luca Kocci
Fra coloro che esul­tano per la caduta del sin­daco di Roma Igna­zio Marino, un posto in prima fila spetta al car­di­nale Angelo Bagna­sco. «Roma ha biso­gno di un’amministrazione, di guide, che la città merita mol­tis­simo, tanto più in que­sto momento in cui il Giu­bi­leo è alle porte. Ci augu­riamo che Roma possa pro­ce­dere a testa alta e con grande effi­cienza», ha dichia­rato ieri il pre­si­dente della Cei a Radio Vaticana, appena lo scio­gli­mento del con­si­glio comu­nale è apparso sicuro. E ha rin­ca­rato L’Osservatore Romano: la vicenda ha assunto «i con­torni di una farsa», «al di là di ogni altra valutazione resta il danno, anche di imma­gine, arre­cato a una città abi­tuata nella sua sto­ria a vederne di tutti i colori, ma rara­mente espo­sta a simili vicende».
È noto il “tem­pi­smo” delle gerar­chie eccle­sia­sti­che che, forse fedeli alla mas­sima maoi­sta di «basto­nare il cane che annega», affon­dano il colpo di gra­zia a un uomo di governo solo quando è poli­ti­ca­mente morto, quindi inser­vi­bile. È acca­duto così anche con Ber­lu­sconi, “sco­mu­ni­cato” dallo stesso Bagna­sco solo nel set­tem­bre 2011 («com­por­ta­menti non solo con­trari al pub­blico decoro, ma intrin­se­ca­mente tristi e vacui», «stili di vita dif­fi­cil­mente com­pa­ti­bili con la dignità delle per­sone e il decoro delle istituzioni e della vita pub­blica»), quando gli scan­dali ses­suali dell’ex pre­mier ave­vano ormai fatto il giro del mondo.
Nel caso dell’ex sin­daco, però, le gerar­chie cat­to­li­che – soprat­tutto ita­liane – bru­ciano i tempi, cominciando ad attac­care Marino ben prima che salga al Cam­pi­do­glio. Il chi­rurgo ha infatti un pes­simo cur­ri­cu­lum, soprat­tutto in tema di “prin­cipi non nego­zia­bili” che, ben­ché ridi­men­sio­nati – ma non cancel­lati – da papa Fran­ce­sco, per la Cei e per molti vescovi costi­tui­scono tut­tora una sorta di stella polare.
Il pec­cato ori­gi­nale di Marino è un dia­logo con il car­di­nal Mar­tini («Così è la vita») pub­bli­cato dall’Espresso del 2006 in cui ven­nero affron­tati, con grande aper­tura, tutti i temi etici su cui i vescovi ave­vano innal­zato le bar­ri­cate: fine vita, acca­ni­mento tera­peu­tico e testa­mento bio­lo­gico; fecon­da­zione assi­stita (dopo la vit­to­ria refe­ren­da­ria di Ruini con­tro la legge 40); aborto e ini­zio vita; ricerca sulle cellule sta­mi­nali embrio­nali e, in gene­rale, con­fini e limiti della scienza; ado­zioni per i sin­gle; uso del pro­fi­lat­tico per la pre­ven­zione dell’Aids. Un dia­logo dai con­te­nuti dirom­penti (diven­tato poi un libro, Cre­dere e cono­scere, Einaudi, curato da Ales­san­dra Cat­toi, fede­lis­sima di Marino in Cam­pi­do­glio) che mise in grande imba­razzo le gerar­chie eccle­sia­sti­che: il disap­punto era forte, ma era dif­fi­cile attac­care fron­tal­mente un car­di­nale come Martini. Diverso invece il discorso nei con­fronti di Marino, che da quel momento fini­sce sul “libro nero” dei vescovi, come del resto altri “cat­to­lici adulti”. Anche per­ché negli anni suc­ces­sivi, da sena­tore del Pd, con­ti­nua ad inter­ve­nire: sostiene le scelte di Pier­gior­gio Welby e di Bep­pino Englaro, pro­muove una legge per il testa­mento bio­lo­gico, afferma che la 194 non è un tabù.
Quando si can­dida a sin­daco, nei sacri palazzi la fibril­la­zione sale. I media cat­to­lici fanno di tutto per sbar­rare la strada al chi­rurgo che però viene eletto, e subito dif­fi­dato da Avve­nire ad «aprire campi di bat­ta­glia sulle que­stioni che inve­stono valori pri­mari». Come suc­cede nell’ottobre 2014, quando il sindaco tra­scrive nei regi­stri comu­nali i matri­moni cele­brati all’estero da 16 cop­pie omo­ses­suali. «Scelta ideo­lo­gica che cer­ti­fica un affronto isti­tu­zio­nale senza pre­ce­denti», tuona il Vica­riato di Roma.
Gli ultimi giorni di Marino sono un cal­va­rio. Prima il caso del “non invito” a Phi­la­del­phia in occa­sione del viag­gio negli Usa di papa Fran­ce­sco, il quale, in maniera piut­to­sto irri­tuale, risponde alla domanda di un cro­ni­sta: «Io non ho invi­tato il sin­daco Marino a Phi­la­del­phia, chiaro?». Poi le rive­la­zioni di mons. Paglia – pre­si­dente del Pon­ti­fi­cio con­si­glio per la Fami­glia ma soprat­tutto sto­rica guida spi­ri­tuale della Comu­nità di Sant’Egidio -, “rubate” dalla tra­smis­sione radio­fo­nica La zan­zara: «Marino si è imbu­cato, nes­suno lo ha invi­tato, il papa era furi­bondo» (e pochi giorni dopo di nuovo Sant’Egidio – che a Roma, anche a livello poli­tico, ha sem­pre gio­cato un ruolo impor­tante – sbugiarda il sin­daco, smen­tendo che suoi espo­nenti abbiano par­te­ci­pato a una cena regi­strata dai famosi scon­trini). Da ultimo è il card. Val­lini, vica­rio del papa per la dio­cesi di Roma, a invo­care una «nuova classe dirigente».
Uscito di scena il sin­daco, sarà evi­tato un incon­tro imba­raz­zante: domani, infatti, il papa cele­brerà una messa al cimi­tero del Verano, dove era atteso anche Marino, il quale però, essendo deca­duto, non ci sarà. E il 5 novem­bre, a San Gio­vanni in Late­rano, verrà pre­sen­tata la Let­tera aperta alla città di Roma redatta dal Con­si­glio pasto­rale dio­ce­sano, pre­sie­duto da Val­lini. Con­terrà l’invito a «ripar­tire dalle molte risorse reli­giose e civili pre­senti a Roma» per sce­gliere chi gover­nerà la capitale. L’inizio della cam­pa­gna elettorale.

(da Il Manifesto del 31 ottobre 2015)

4 novembre: con don Milani contro la guerra

Due parole introduttive

di Piero Murineddu

È già qualche anno che lessi il lungo articolo che segue e che contribuì non poco ad aprirmi gli occhi e la mente sull’ipocrita demagogia che si continua a fare riguardo alla presunta necessità del continuo e scandalosamente dispendioso rafforzamento degli arsenali nazionali, sostenuta dall’immancabile propaganda più o meno esplicita che non ci sarebbero alternative all’uso della forza militare.

Il pensiero di don Lorenzo sarà sempre un faro su questo aspetto della convivenza umana che, oggi ancor più di ieri, rischia di rendere il mondo una polveriera destinata a saltare in aria se non s’inverte urgentemente la marcia.

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Perché non ho mai amato il 4 novembre?

di Giuliano Falco

 

Forse perché mi è sempre sembrata una brutta idea festeggiare una carneficina. Una delle prime di un secolo che sarà anche stato breve, ma, che quanto a stragi, non si è certo risparmiato. Da un lato abbiamo gli stati che mandano al massacro la propria gioventù (anche un Papa ha definito questo conflitto una “inutile strage”, dimenticando che c’erano preti che benedicevano le truppe e che le rassicuravano sul fatto che Dio fosse con loro! Purtroppo il movimento operaio e libertario si divise tra pacifisti e bellicisti, ahimè, e personalità insospettabili, aderirono a quest’ultima fazione.

Dall’altro, i soldati che non sentivano per nulla questa guerra, che pensavano ai loro campi, alle loro mucche, alle loro famiglie (c’era un bel libro, edito da Mursia, mi pare, sulle lettere che i soldati, dal fronte, scrivevano al Re, per esprimere, come potevano e sapevano, disappunto e contrarietà). Purtroppo la loro opposizione si manifestava in genere con l’autolesionismo (ad esempio si sparavano ad un piede) o con la diserzione. I disertori erano talmente tanti che i dispacci militari, al momento di scegliere la salma del Milite Ignoto da tumulare a Roma nell’altare della patria, precisavano che doveva essere scelta una salma non colpita alla schiena perché questa era la punizione per i disertori, in quanto essere colpiti alla schiena è segno e simbolo di chi fugge davanti al nemico. A onor del vero, ci sono stati anche casi di reazione armata contro gli ufficiali che ordinavano l’attacco…

Un nuovo capitolo della lunga storia della stupidità militare…

Ma per me, nato sul finire degli anni ’50, tutto ciò resta incomprensibile. Anche a scuola, il maestro ci insegnava che la Prima Guerra Mondiale era, per l’Italia, il proseguo del Risorgimento e che la parola “mamma!” era l’ultima pronunciata dal soldato colpito a morte…La mia simpatia è sempre andata verso non chi le guerre le combatteva, verso i disertori o gli obiettori totali.

Per ragioni anagrafiche, oltre che ideologiche, sono stato obiettore di coscienza al servizio militare (in base alla legge 772 del 1972). Non sono stato obiettore totale per vigliaccheria: non ho la stoffa dell’eroe. Finire in galera non mi è mai piaciuto…in compenso, ho aderito allo sciopero in difesa dell’obiezione di coscienza (in tutto il Belpaese, ha aderito a questo iniziativa circa il 10 % degli obiettori in servizio…), rischiando il deferimento al tribunale militare…
Occorre fare un’operazione sistematica e capillare di controinformazione su quanto ci costa a livello politico, sociale, economico e umano l’esercito e gli armamenti. Quante case, posti di lavoro, scuole, ospedali ecc. si potrebbero realizzare con i soldi che ogni anno spendiamo per le armi, per tutte le guerre cosiddette umanitarie che combattiamo in tutto il mondo. Occorre informare le persone delle spese inutili e dannose che paghiamo per i bombardieri, spese inutile e dannose che paghiamo, non solo in vile pecunia ma in distruzione del territorio e della salute di chi vi abita. Ad esempio, quanto ci costano le servitù militari (dai poligono di tiro all’installazione di radar -che a volte servono ai militari, spesso per controllare i processi migratori; in ogni caso, per controllo del territorio).
Ma torniamo al 4 novembre. È fin troppo facile ricordare Durrenmat che scriveva “Quando lo stato si prepara ad ammazzare si fa chiamare Patria”… C’è un bel libretto che costa pochi euro e che consiglio a tutti di leggere (o di rileggere): sono i Documenti del Processo di don Milani . Il titolo riprende una sua famosa frase: L’obbedienza non è più una virtù. Purtroppo, non tutti sanno che prosegue definendo l’obbedienza come la più subdola delle tentazioni. È più facile obbedire che seguire la propria coscienza, il proprio pensiero critico.

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Don Milani credeva nella pedagogia dell’occasionalità e ne aveva fatto il filo conduttore della sua scuola. Anche questo scritto nasce da un ‘occasione’: il 12 febbraio 1965 viene pubblicato sul quotidiano La Nazione, un’ordine del giorno dei cappellani militari in congedo della Toscana. Il documento si conclude affermando che i suddetti cappellani militari in congedo “considerano un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta “obiezione di coscienza” che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà”.

Del libro ne riporterò solo alcune citazioni, rinviando il lettore alla fonte originale per una lettura più approfondita.

Don Lorenzo rivolgendosi ai cappellani militari scrive:

“non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro- gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto […] ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra Patria e valori ben più alti di lei.Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé nemmeno la legittima difesa.Mi riferirò piuttosto alla Costituzione”
Don Lorenzo si riferisce agli articoli 11 (“l’Italia ripudi al guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”) e 52 (“La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”). Certo, il suo linguaggio è semplice (ma la sua missione era quella di farsi comprendere da tutti, dai colti come dagli incolti, parteggiando per questi ultimi), il suo classismo è elementare. A volte si sente che sono trascorsi 46 anni da quando è stata scritta la lettera…ma, don Milani è sempre don Milani e ci offre in continuazione spunti e motivi di riflessione. Infatti, il Priore prosegue:“Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia.Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l’onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile? Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza ad ogni costo? E se l’ordine era il bombardamento dei civili, un’azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l’esecuzione d’ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidenti aggressioni, l’ordine d’un ufficiale ribelle l popolo sovrano, le repressioni di manifestazioni popolari?

Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni guerra. Quando ve ne sono capitate davanti agli occhi o avete mentito o avete taciuto. O volete farci credere che avete detto la verità in faccia ai vostri «superiori» sfidando la prigione e la morte? Se siete ancora vivi e graduati è segno che non avete mai obiettato a nulla…”

Don Lorenzo ripercorre la storia degli ultimi cento anni, a partire dal 1860. Per amore di brevità, riporterò solo alcuni brani relativi alla Prima Guerra Mondiale:

“L’Italia aggredì l’Austria con cui questa volta era alleata.Battisti era un Patriota o un disertore? È un piccolo particolare che va chiarito se volete parlare di Patria. Avete detto ai vostri ragazzi che quella guerra si poteva evitare? Che Giolitti aveva la certezza di poter ottenere gratis quello che poi fu ottenuto con 600.000 morti ? Che la stragrande maggioranza della Camera era con lui (450 su 508)? Era dunque la Patria che chiamava alle armi? E se anche chiamava, non chiamava forse a una «inutile strage»? (l’espressione non è d’un vile obiettore di coscienza ma d’un Papa).Era nel ’22 che bisognava difendere la Patria aggredita. Ma l’esercito non la difese. Stette a aspettare gli ordini che non vennero. Se i suoi preti l’avessero educato a guidarsi con la Coscienza invece che con l’Obbedienza «cieca, pronta, assoluta» quanti mali sarebbero stati evitati alla Patria e al mondo (50.000.000 di morti). Così la Patria andò in mano a un pugno di criminali che violò ogni legge umana e divina e riempendosi la bocca della parola Patria, condusse la Patria allo sfacelo. In quei tragici anni quei sacerdoti che non avevano in mente e sulla bocca che la parola sacra «Patria», quelli che di quella parola non avevano mai voluto approfondito il significato, quelli che parlavano come parlate voi, fecero un male immenso proprio alla Patria (e, sia detto incidentalmente, disonorarono anche la Chiesa)”.

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Ma al di là di queste parole, ciò che vale ancora oggi, per il presente, in questo quotidiano sempre più segnato da disperazione e violenza, dopo i fatti di Roma e la nuova guerra di Libia e la sua conclusione (?) è la dimensione pedagogica in cui questo scritto nasce. Innanzitutto, don Lorenzo condivideva con i suoi ragazzi ogni evento, dal più semplice al più complesso. Figuriamoci una querela. Quello che lo preoccupa non è tanto ciò che potrà accadergli (al momento del processo, il Priore non potrà essere presente, perché gravemente malato) ma quale insegnamento potranno ricavarne i suoi ragazzi:
“Ora io sedevo davanti ai miei ragazzi nella mia duplice veste di maestro e di sacerdote e loro mi guardavano sdegnati e appassionati. Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non ne avevo bisogno di far notare queste cose ai miei ragazzi. Le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita.Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto.Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande «I care» . È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. «Me ne importa, mi sta a cuore». È il contrario esatto del motto fascista «Me ne frego».
Proseguendo, don Lorenzo affronta temi rilevanti, per giungere a parlare della nonviolenza (che lui scrive con il trattino). Il testo è interessante, ma non è possibile in questa sede analizzarlo per intero. Per cui salterò alle conclusioni. Come suo solito, il suo linguaggio è esplicito («Bisogna dire pane al pane e culo al culo» affermava, da bravo toscanaccio) e i temi affrontati sono scottanti. Ad esempio a un certo punto affronta il problema delle morti dei civili nelle guerre.
Abbiamo letto a scuola su segnalazione del «Giorno» un articolo del premio Nobel Max Born (Bullettin of the Atomic Scientists, aprile 1964).
Dice che nella prima guerra mondiale i morti furono 5% civili 95% militari (si poteva ancora sostenere che i civili erano morti «incidentalmente»).
Nella seconda 48% civili 52% militari (non si poteva più sostenere che i civili fossero morti «incidentalmente»).
In quella di Corea 48% civili 16% militari (si può sostenere che i militari muoiano«incidentalmente».
Sappiamo tutti che i generali studiano la strategia d’oggi con l’unità di misura del megadeath (un milione di morti) cioè che le armi attuali mirano direttamente ai civili e che si salveranno forse solo i militari.
Che io sappia nessun teologo ammette che un soldato possa mirare direttamente (si può ormai dire esclusivamente) ai civili. Dunque in casi del genere il cristiano deve obiettare anche a costo della vita. Io aggiungerei che mi pare coerente dire che a una guerra simile il cristiano non potrà partecipare nemmeno come cuciniere.

Gandhi l’aveva già capito quando ancora non si parlava di armi atomiche.

«Io non traccio alcuna distinzione tra coloro che portano le armi di distruzione e coloro che prestano servizio di Croce Rossa. Entrambi partecipano alla guerra e ne promuovono la causa. Entrambi sono colpevoli del crimine di guerra».
A questo punto mi domando se non sia accademia seguitare a discutere di guerra con termini che servivano già male per la seconda guerra mondiale.
Eppure mi tocca parlare anche della guerra futura perché accusandomi di apologia di reato ci si riferisce appunto a quel che dovranno fare o non fare i nostri ragazzi domani.
E, don Lorenzo conclude amaramente con un appello ai Giudici:
Spero di tutto cuore che mi assolverete, non mi diverte l’idea di andare a fare l’eroe in prigione, ma non posso fare a meno di dichiararvi esplicitamente che seguiterò a insegnare ai miei ragazzi quel che ho insegnato fino a ora. Cioè che se un ufficiale darà loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura.Spero che in tutto il mondo i miei colleghi preti e maestri d’ogni religione e d’ogni scuola insegneranno come me. Poi forse qualche generale troverà ugualmente il meschino che obbedisce e così non riusciremo a salvare l’umanità. Non è un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l’umanità ci salveremo almeno l’anima.
Epilogo
Don Lorenzo Milani morì prima della fine del processo d’appello e, come ricorda Neera Fallaci in un altro bel volume , il reato si estinse per la morte del reo…Luca Pavolini, allora direttore del periodico del Partito Comunista, Rinascita (don Lorenzo aveva inviato copia della Lettera alle riviste dell’area cattolica e a quelle di sinistra: con suo grande rammarico, quelle cattoliche la ignorarono), venne condannato a cinque mesi e dieci giorni…
Conclusioni
A mio parere dobbiamo intervenire non solo in occasione del 4 novembre, ma ogni giorno dell’anno e su più fronti (tanto per usare una metafora militare…):
– controinformazione: cos’è stata in realtà la Prima Guerra Mondiale, quali sono stati i suoi costi, le sue conseguenze; quanto costa l’apparato militare al paese in termini di repressione, controllo del territorio, danni alla salute e via dicendo; quanto costano le guerre e gli armamenti, anche in tempo di ‘pace’;
– pedagogico: intervenire nelle scuole, sul posto di lavoro, ovunque sia possibile, su cos’è la guerra e cos’è la pace, ammesso che da qualche parte sia esistita; cos’è la violenza e cos’è la nonviolenza; aiutare giovani e insegnanti a contrastare la violenza nelle scuole organizzando focus group, seminari ecc.
– politico: invitare a non votare per coloro che non si sono impegnati contro le missioni militari, ecc. denunciare le varie iniziative militariste apparentemente innocenti, dalle frecce tricolori all’esercito nelle scuole; contrastare e controinformare .su quanto il ‘militare’ pesi sul territorio, sulla salute, sull’economia e sulla politica

Lo so: il lavoro da fare è molto e i mezzi sono pochi. Ma la nonviolenza è l’unica strada da percorrere…

Ai nostri morti

di Franco Marcoaldi

Dove stanno acquattati i nostri morti?
In quali angusti anfratti della mente,
in quali sconfinati spazi aperti?
In quali tremolanti porti?
Il loro passo è lento e fiero,
atletico amorevole severo.
Non bussano alla porta delle case,
loro non vanno mai di fretta.
Di rado compaiono nei sogni, appena un cenno;

buttano l’amo, avanzano un quesito … e abbandonano la scena.                                        Nostra e soltanto nostra resta la pena
per quell’incontro troppo fugace.

Perché lo so, o venerato Mondo,
che senza il conforto sagace dei miei morti mai ti potrei lodare.
Per quell’illogica bontà stupida
e cieca, istintiva, ricorrente,
che inonda quanto è vivo
– un cervo agonizzante accudito
da un fratello casuale, il ramo
scorticato che un passante
fascia perché aderisca
meglio al tronco.

Sono quelle schegge di umanità
senza ritorno, piccole crepe
nel grande mare dell’indifferenza,
spicciole figure d’immortalità
figlie di debolezza, granelli
di sabbia che si librano
nel vento a inceppare
il meccanismo feroce
e onnipresente del maligno.

A loro, ai morti,chiedo di offrirmi qualche appiglio.
Lo chiedo a un padre che ho frainteso                                                                                   malgrado fossi figlio suo in tutto: bocca e naso,
sbalzi d’umore, daimon d’amore,
scatti d’ira, frivola leggerezza
e una gravezza incupita e repentina.
Lui conosceva a menadito
insetti e piante e stelle.
L’avessi temuto un po’ di meno
e apprezzato un po’ di più
oggi dalla gioia non starei
nella mia pelle, perché è proprio
nei prodigi di natura, a me
per buona parte ignoti,
che intravvedo
la possibilità di colmare
i miei più dolorosi vuoti.

Chiedo tardivo aiuto
a un fratello che ho perso
troppo presto e non ho
amato a sufficienza.
Tra noi, la vicinanza dell’infanzia
si era crepata nell’età oscura
dell’adolescenza – e a lungo
un’ideologica arroganza mi impedì
di accogliere la sua fragilità
sfacciata ed esibita, il gusto
teatrale di volersi conquistare
a tutti i costi un’altra vita.

Lo vedo ancora avvolto
nella sua elegantissima
vestaglia, combattere con ironico
eroismo l’ultima, disperatissima
battaglia.

E mi domando:
che ho fatto io delle basse
scatole di legno utilizzate
da mio padre
per infilzare insetti? del coraggio
sfrontato di un fratello,
catodico ecce homo, che difese
innanzi al mondo i malati
come lui considerati alla stregua
di appestati postmoderni,
di paria, di reietti?

Poco, ne ho fatto. E oggi
mi restano solo delle povere
parole per provare a restaurare
affreschi esperienza stinti ormai
per troppa pioggia e troppo sole.
Eppure continuo a cercare
tra i morti e continuo a chiedere
aiuto ai trascorsi maestri di versi,
ideatori di catene di segni
che battono il tempo
trovando nel ritmo quanto
altri non vede – anche questa
è questione di fede – una fede
che fa sue le parole “non so”.

Davanti alla morte: la “terapia intensiva” di padre ALBERTO MAGGI

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di Piero Murineddu

“Era il nove aprile, lunedì dell’Angelo. Verso le dieci del mattino, all’improvviso sento un dolore terribile qui proprio nel petto…”.  Inizia così il racconto della particolarissima vicenda vissuta da padre Alberto, uno dei tanti preti non propri ortodossi riguardo alla dottrina cattolica e per questo guardato con sospetto e diffidenza. Un prete non molto amante dei “miracoli” e del dogmatismo, mai esitante a dire le cose così come le sente, senza troppi giri di paroloni, e che per questo hanno la capacità di arrivare direttamente al cuore di chi lo ascolta. Fra l’altro, dice che lui voleva intitolarlo “Un eretico in corsia”, ma con l’avvento di papa Francesco, dietro suggerimento dell’Editore ha volentieri cambiato idea.

“Chi non muore si rivede”. E questo modo di dire comune, nelle pagine del libro diventano un’affermazione di fede. Nell’ottica cristiana, infatti, non esiste una morte definitiva, per cui Alberto, trovandosi realmente davanti a questo passo fondamentale, lo ha vissuto …..felice di farlo.

Prestatomi da un amico, tempo fa avevo letto questo suo volumetto che parla dei suoi 75 giorni trascorsi quasi tutti in terapia intensiva. Giorni di sofferenza si, ma vissuti con un atteggiamento interiore tale da conquistare l’intero personale dell’ospedale, quali medici, infermieri, donne delle pulizie. A suo dire, un libro scritto come dichiarazione d’amore verso tutte queste persone che lo hanno assistito  e gli hanno salvato la vita. Sicuramente è così, ma in realtà è lui, con la sua serenità davanti alla morte, che ha conquistato tutte le persone che ruotavano intorno al suo letto.

Nell’infinito archivio di youtube ho trovato un video dove racconta di questa sua esperienza. Scaricato e trasformato in MP3, ne ho ricavato un altro dove insieme alle sue parole, ho rilevato delle frasi che mi hanno particolarmente colpito. L’offro alla tua attenzione, con la certezza che se lo ascolterai con interesse e senza distrazioni, appena possibile andrai a procurarti il libro, a sfogliarne le pagine con stupore, a rileggerlo appena terminato, per poi prestarlo alle persone a te care. Ti assicuro che ciò avverrà.

 

CARI NIPOTI,VI RACCONTO LA NOSTRA CRISI

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di Luciano Gallino

Quel che vorrei provare a raccontarvi, cari nipoti, è per certi versi la storia di una sconfitta politica, sociale, morale: che è la mia, ma è anche la vostra. Con la differenza che voi dovreste avere il tempo e le energie per porre rimedio al disastro che sta affondando il nostro paese, insieme con altri paesi di quella che doveva essere l’Unione europea. A ogni sconfitta corrisponde ovviamente la vittoria di qualcun altro. In realtà noi siamo stati battuti due volte. Abbiamo visto scomparire due idee e relative pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella di pensiero critico. Ad aggravare queste perdite si è aggiunta, come se non bastasse, la vittoria della stupidità. L’idea di uguaglianza, anzitutto politica, si è affermata con la Rivoluzione francese. Essa dice che ogni cittadino gode di diritti inalienabili, indipendenti dal suo censo o posizione sociale, e ogni governo ha il dovere di adoperarsi per fare in modo che essi siano realmente esigibili da ciascuno. La marcia di tale idea è stata per oltre due secoli faticosa e incerta, ma nell’insieme ha avuto esiti straordinari. La facoltà di eleggere i propri rappresentanti in Parlamento; la formazione di sindacati liberi; la graduale estensione del voto sino a includere tutti i cittadini; la tassazione progressiva; l’ingresso del diritto nei luoghi di lavoro; l’istruzione libera e gratuita per tutti sino all’università; la realizzazione dello stato sociale; i limiti posti alle attività speculative della finanza: è una lunga storia, quella che vede il principio di uguaglianza diventare vita quotidiana per l’intera popolazione.

Due periodi furono specialmente favorevoli a tale marcia: gli anni Trenta sotto la presidenza Roosevelt, negli Stati Uniti, che videro un grande rafforzamento dei sindacati e una severa regolazione della finanza, e i primi trent’anni dopo la Seconda guerra mondiale, in quasi tutti gli Stati europei, Italia compresa. Poi, sul finire degli anni Settanta, la ristretta quota di popolazione che per generazioni aveva subito l’attacco dell’idea e delle politiche di uguaglianza decise che ne aveva abbastanza. Si tratta della classe dei personaggi superpotenti e super- ricchi che controllano la finanza, la politica, i media, che dopo i moti di piazza anti Wall Street di anni recenti si usa stimare nell’1 per cento: un dato che le statistiche sulla distribuzione della ricchezza confermano. Essa iniziò quindi un feroce quanto sistematico attacco a qualsiasi cosa avesse attinenza con l’uguaglianza, previa una preparazione che risaliva addirittura agli anni Quaranta.

(…) Quando parlo di pensiero critico, che costituisce la perdita numero due, mi riferisco a una corrente di pensiero che oltre al soggiacente ordine sociale mette in discussione le rappresentazioni della società diffuse dal sistema politico, dai principali attori economici, dalla cultura dominante nelle sue varie espressioni, dai media all’accademia. La tesi da cui tale corrente è (o era) animata è che le rappresentazioni della società predominanti in un paese distorcono la realtà al fine di legittimare l’ordine esistente a favore delle élite o classi che formano tra l’1 e il 10 per cento della popolazione. È una tesi che ha una lunga storia. È stata formulata tra i primi da Machiavelli; ha toccato un vertice di spessore e complessità con Marx e poi con la teoria critica della società, elaborata dalla Scuola di Francoforte tra gli anni Venti e Cinquanta; si è prolungata in Italia con Gramsci e in Francia con Bourdieu e Foucault, sin quasi ai giorni nostri.

La suddetta tesi trova una clamorosa conferma nella società contemporanea, a cominciare dalla nostra. La rappresentazione di quest’ultima che vi propongono i giornali, la Tv, i discorsi dei politici, le scienze economiche, la stessa scuola, l’università, sono soltanto contraffazioni della realtà, elaborate a uso e consumo delle classi dominanti. È la funzione che svolgono quotidianamente le dottrine neoliberali. E guai se uno osa contraddirle. Il richiamo alle distorsioni che l’enorme aumento della disuguaglianza ha prodotto in campo sociale, politico, morale, civile, intellettuale viene confutato con l’idea che l’arricchimento dei ricchi solleva tutte le barche – laddove un minimo di riguardo all’evidenza empirica mostra che nel migliore dei casi, ha scritto un economista americano, esso solleva soltanto gli yacht.

(…) Al posto del pensiero critico ci ritroviamo, come si è detto, con l’egemonia dell’ideologia neoliberale, la sua vincitrice. È un’ideologia strettamente connessa all’irresistibile ascesa della stupidità al potere. È l’impalcatura delle teorie e delle azioni che prima hanno quasi portato al tracollo l’economia mondiale, poi hanno imposto alla Ue politiche di austerità devastanti per rimediare a una crisi che aveva tutt’altre cause – cioè la stagnazione inarrestabile dell’economia capitalistica, il tentativo di porvi rimedio mediante un accrescimento patologico della finanza, la volontà di riconquista del potere da parte delle classi dominanti. Oltre alla crisi ecologica, che potrebbe essere giunta a un punto di non ritorno.

Resta pur vero che senza l’apporto di una dose massiccia di stupidità da parte dei governanti, dei politici, e ahimè di una porzione non piccola di tutti noi, le teorie economiche neoliberali non avrebbero mai potuto affermarsi nella misura sconsiderata che abbiamo sott’occhio.

(…) Pensate a quanto è successo nell’autunno 2014. All’epoca i disoccupati sono oltre tre milioni. I giovani senza lavoro sfiorano il 45 per cento. La base produttiva ha perso un quarto del suo potenziale. Il Pil ha perso 10-11 punti rispetto all’ultimo anno prima della crisi. E che fa il governo? Si sbraccia allo scopo di introdurre nella legislazione sul lavoro nuove norme che facilitino il licenziamento, riprendendo idee e rapporti dell’Ocse di almeno vent’anni prima. Come non concludere che siamo dinanzi a casi conclamati di stupidità? (o forse di malafede: discutere di come licenziare con meno intralci legali è anche un modo per non discutere dei problemi di cui sopra. Lascio a voi il giudizio).

****

da “Il denaro, il debito e la doppia crisi” di Luciano Gallino (Einaudi, pagg. 200, euro 18)

 

 

“Animazione alla lettura” con le donne anziane di Sorso

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di Piero Murineddu

Non so se per Sorso il fatto che un gruppo di donne anziane si riunisse regolarmente alcuni pomeriggi della settimana per fare le cose che solitamente ciascuna fa nella propria casa, fosse una novità. Sicuramente era una gran bella cosa. Questo succedeva fino a quando è rimasto in piedi il Centro di Aggregazione comunale. Per la riapertura, il Se, il Quando e il Come non sono dati di saperlo. Cucire sopratutto, ma ogni tanto preparare e cucinare pane e dolci, festeggiare il compleanno di qualcuna, creare manufatti. Modo semplice e intelligente per superare l’abituale e pesante solitudine, specie per chi era rimasta vedova. Parlando e stando piacevolmente insieme. E’ possibile che, specie nelle serate invernali, ciò avvenga in alcune case private, e se così fosse, sarebbe segno che ancora un qualche senso comunitario si continua a conservare e ad alimentare.

Oltre le attività prettamente manuali animate dall’ improvvisate conversazioni (cosa che per le donne non richiede alcuna fatica!), nel Centro di via della Resistenza a volte si leggeva e si commentava qualche articolo di giornale, oppure qualche pagina dei due preziosissimi libri dell’indimenticabile Andrea Pilo “Ammenti…”. Come mi è stato riferito, una volta è capitato di leggere un libro di Anna Demuro, la maestra elementare in pensione e poliedrica artista, proveniente da Calangianus e stabilitasi a Sorso da tantissimo tempo. Anch’io l’ho letto e se non l’avete fatto vi consiglio di farlo.   “Catalina di Limbara – Alle origini della vita” , volumetto ambientato negli antichi stazzi galluresi. Se non riuscite a trovarlo in vendita, nella Biblioteca comunale dovrebbero averlo, altrimenti, se abitate nei paraggi, non esitate a chiedermelo in prestito.

Nelle prime pagine c’è la descrizione meticolosa di ciò che costituiva l’arredamento di questa tipica costruzione campestre, e al gruppo di donne sussinche riunite è proprio questo che da’ stimolo per fare paragoni con quello che si trovava nelle povere abitazioni della Sorso  della loro gioventù, manifestando la disarmante spontaneità delle simpatiche e veraci donne sussinche. Letta una parte, ci si soffermava per fare qualche considerazione:

“Si abìani una gamara e dui appusenti vò dì chi èrani ricchi. La gasa nosthra èra un fòndiggu e drummiami a misciapari in una cuscia….”.

Qualche pagina prima, era stato rilevato il grande senso di ospitalità, definita “specchio dell’anima” dalla mamma della giovane protagonista del libro, che si aveva verso chi bussava alla propria porta di casa. Ma anche su questo aspetto qualcuna delle presenti dissentiva:

Ma di gà ospitariddai seddi fabiddhendi!? Gandu vinìa caschunu zi cuabami tuttu achì si nò no nabanzaba a noi. E tandu, si v’èrani dui nozi li dubìu dà a ghiddhi e no ni rimanìa a noi? Lu matessi si abìami uniganti carigghi. Z’affrisciabami tuttu. A si pudìa fraziggà, ma no si dazìa nuddha a nisciunu….”.

Inutile insistere sulla tradizionale ospitalità  dei sardi:

Ma gosa, chi èrami tutti morthi di fami, macca…

L’accoglienza, la condivisione. A volte, chi ha troppo non da’ niente, ma chi ha poco è più propenso a condividere con chi è nel bisogno…..:

Eh, gia l’hai bona ià! Ma lu no si cumprendi chi noi  di chisthi ragsiunamenti non ni fazìami?  Sò beddhi parauri, ma la fami èra droppa. Mè sureddha cara, gandu màmma fazìa li dozzi, ghi èrani misuraddi achì dubìani durà da prima  a dabboi di Pascha, e li bischotti iscìani da lu forru, a lu sai cosa dizìani a li pizzinni? “Piglieddibi a manu denta e andeddi a la cantunadda pa vidè si s’intendi lu fiaggu beddhu”. Noi, abbaiddendi ghiddhu foggu beddhu cu li bischotti imbuffendisi, andaziami. “Mà, no s’intendi lu fiaggu…”  Ghi ti beghia assassinadda, vai più in fondu….

Facevano così per non far sentire il profumo dei dolci ai ragazzini, altrimenti ne avrebbero chiesto qualcuno.

E gussì gandu si fazìa lu bani. Furabami casche pezzu di pastha da la mesa e zi lu schaldhiami i lu furreddhu, achì dubìa durà e no zi ni daziani manc’appena. Gandu z’ischubriani, èrani mazzaddi. E ghi mazzaddi!

Però, qualche cosa alle bambine veniva dato:

“Lu bani chi  sottu iscìa nieddhu nieddhu, lu razziggabani. “Magneddu – zi dizìani – chi vi crescini li peri biondi…”

 

A questi piacevoli incontri, con scambi e racconti realmente corrispondenti a quello che succedeva nel passato, partecipava anche qualche signora “continentale” che faceva interventi in italiano corretto, la qual cosa, a volte, poteva creare disagio alle altre:

Sapete, anche se non capisco tutto  quello che dite, io mi trovo molto bene in mezzo a voi”

Ciò rassicurava la maggior parte delle presenti, che magari potevano patire qualche senso d’inferiorità per il loro esprimersi in dialetto molto stretto. Nello stesso tempo, venivano fatte allusioni che solo loro potevano capire, cosa che insieme a frequenti battute accompagnate da “lu cittu” (occhiolino), rimarcava la “differenza” con chi non aveva fatto le loro identiche esperienze. Una sorta di “autidifesa” di gruppo davanti alle accudidde, magari per supplire alla loro frequente bassa scolarità.

Particolare “animazione alla lettura”, quindi, e non tanto per entrare il più possibile nel racconto del libro, quanto per comunicare agli altri ciò che si è stati e, probabilmente, svelarsi come si è nell’oggi.

 

Questo e tanto altro ancora avveniva tra le mura del Centro di Aggregazione di Sorso, dove le persone anziane erano ben felici di recarsi, insieme a tanti ragazzi, attratte dalle varie attività che vi si svolgevano, ma sopratutto per rompere la solitudine alla quale oggi in molti si è costretti.

Lorenzo e il valore della Gratitudine

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di Piero Murineddu

 

Grazie per tutte le emozioni e per tutti i sorrisi, ma il grazie più importante per aver fatto parte della mia vita. Ricordati che io ci sarò sempre per te. Grazie di tutto. Sei una donna meravigliosa

Alla fine, almeno in parte, si è diradata la nebbia che avvolgeva la dichiarazione d’amore impressa in quel famoso maxi manifesto. Da quanto si è saputo, parole che assumono particolare importanza perché  pronunciate in un momento estremo qual’è quello dell’approssimarsi della morte.

Voglio raccontare la mia reazione alla lettura dell’articolo apparso la scorsa domenica  su La Nuova.

A Sorso, ogni qual volta in auto ce la giriamo nella rotatoria nei pressi del cimitero, inevitabilmente l’occhio va a finire in quei manifesti  formato extralarge esposti in quell’alto e grigio muro, dove periodicamente viene pubblicizzato un po’ di tutto.  Se non erro, ad inaugurare l’uso di questi manifestoni in un punto così strategico è stata l’attuale amministrazione comunale, che col famoso ANDA BE’ intendeva autopromuovere il proprio operato in vista del secondo mandato affidatole dalla maggior parte dei sussinchi, evidentemente soddisfatti di come fino ad allora era stata governata la cittadina billellerina. Nei giorni seguenti, protetto dall’oscurità notturna, qualcuno aveva fatto una piccola ma significativa aggiunta, volendo esprimere a modo suo il proprio dissenso. Ma questa è un’altra storia.

In mezzo alla varietà di prodotti ed eventi pubblicizzati, questa volta quell’obbrobriosa parete è stata impreziosita da una bellissima foto e da parole, come già detto, pronunciate (o dettate) in una particolarissima situazione:

“Grazie per tutte le emozioni e per tutti i sorrisi, ma il grazie più importante per aver fatto parte della mia vita. Ricordati che io ci sarò sempre per te. Grazie di tutto. Sei una donna meravigliosa”

Nei giorni precedenti avevo sentito di questo manifesto, ma pur essendoci passato davanti diverse volte, non vi avevo mai fatto caso. L’articolo mi ha quasi costretto a porvi l’attenzione che meritava. Purtroppo, recatomi sul posto a fine mattinata dello stesso giorno festivo, qualcuno aveva fatto sparire metà del grande manifesto (!)

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Le supposizioni sul possibile autore di questa iniziativa si erano rincorse. I più avranno pensato forse ad un giovinotto, che pur essendo finita la relazione amorosa, voleva ugualmente esprimere l’affetto e la riconoscenza per l’amore ricevuto, mentre altri  avranno addirittura immaginato  qualche sposo attempato e con prole che voleva far sapere al mondo della lunga e tormentata relazione con la sua  segreta amante, oppure ancora ad un’arzilla coppia di vivaci vecchietti  ancora perdutamente innamorati…..

E poi la firma: vera o di fantasia? Di un sussincu o di un’accudiddu?

Sul quotidiano sassarese, della notizia vi era il richiamo gia in prima pagina. In un primo momento ho trovato eccessiva l’attenzione data alla vicenda, indubbiamente molto particolare ma secondaria riguardo ad altri fatti più importanti e concreti, quale per esempio l’estenuante ed esasperante vicenda dell’acqua pubblica che per ben quaranta giorni non si è potuta usare per usi alimentari a causa dell’eccessiva presenza di quei stramaledetti nitriti, e nonostante ciò, in giro non si è vista mai l’ombra di un’autobotte per la distribuzione di acqua potabile. Ma anche questa è un’altra storia.

Procedendo nella lettura della mezza pagina occupata all’articolo, andavo però man mano ricredendomi. Il tono usato è riuscito a toccare quelle corde emotive che solitamente si tende a mettere in secondo piano, e poi ancora,  perchè  tanti di noi sono coinvolti in questo “patto d’amore” tra sussinchi e femmini sinnaresi, o viceversa: “La loro storia d’amore sovrasta il cliché dell’antica rivalità campanilistica che ci sarebbe fra i due centri. Leggende a parte, la realtà è un’altra e racconta che nella culla della Romangia nascono e crescono tanti amori” (S. Santoni).

 

“Grazie per tutte le emozioni e per tutti i sorrisi, ma il grazie più importante per aver fatto parte della mia vita. Ricordati che io ci sarò sempre per te. Grazie di tutto. Sei una donna meravigliosa”

 

“Grazie per tutte le emozioni e per tutti i sorrisi”

Uno stare insieme fatto di emozioni e di sorrisi, di gioie ma anche di  malumori e difficoltà di vario genere, cose che  umanizzano qualsiasi relazione

“….ma il grazie più importante per aver fatto parte della mia vita”

La presenza dell’altro/a nella quale ci si identifica e per la quale si è profondamente grati

“Ricordati che io ci sarò sempre per te”

Un “tu” divenuto riferimento sicuro che va al di là del tempo

“Sei una donna meravigliosa”

Riconoscimento della Meraviglia che provoca la persona amata. Una “Meraviglia”, seppur piena di limiti, che aiuta a far crescere e a migliorare l’altro che sono io.

 

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Ormai di questo bellissimo manifesto non è rimasta traccia, ma tra quelli che d’ora in poi lo sostituiranno, nessuno avrà l’alto valore di quel breve scritto e di quella bell’immagine, che in un tempo troppo breve hanno abbellito  quella bruttissima  e grigia parete e, ancora di più, sono riusciti ad entrare nei nostri cuori sempre più freddi e induriti.

“Grazie di tutto”

Grazie a te, Lorenzo, chiunque tu sia, per averci ricordato  quanto sia ancora importante  la Gratitudine, atteggiamento dal quale ci stiamo sempre più allontanando, pensando  che ormai tutto ci sia dovuto. E’ sicuro che per molti anni ricorderemo questo tuo nobilissimo sentimento e queste tue parole….immortali.

La misericordia di Bergoglio crea scandalo

 

 

di Enzo Bianchi (priore del monastero di Bose)

Il termine “apocalisse” non indica, come molti intendono, qualcosa di catastrofico, bensì un “alzare il velo”, una ri-velazione, l’ emergere di una realtà inaspettata o nascosta. Per questo ciò che sta avvenendo non solo in questi giorni sinodali ma dall’ inizio del pontificato di Francesco è un’ apocalisse che fa conoscere situazioni che paiono impossibili e svela la verità delle coscienze e dei cuori. Che cos’ è in gioco in questo confronto che a volte appare un’ aspra battaglia? Non ciò che la chiesa crede in obbedienza al vangelo. In particolare non è in gioco la dottrina cattolica sull’ indissolubilità del matrimonio cristiano e nemmeno un patteggiamento della chiesa circa la famiglia oggi. No, in gioco è la dimensione pastorale, l’ atteggiamento da assumere verso chi ha sbagliato e verso la società contemporanea. E in questo senso proprio la chiesa per esserne ministra ha il compito di determinarne la disciplina rinnovandola e rendendola più fedele al vangelo. Va detto con chiarezza: ciò che scandalizza è la misericordia! Sembrerebbe impossibile, ma non possiamo dimenticare che Gesù non è stato condannato e messo a morte perché si era macchiato di qualche crimine secondo il diritto romano, né perché aveva smentito la parola di Dio contenuta nelle leggi e nei profeti, bensì per il suo comportamento troppo misericordioso: annunciava infatti il perdono, senza far ricorso a una giustizia retributiva e punitiva, amava frequentare prostitute e peccatori noti come tali e stare alla loro tavola.

Il suo modo di comportarsi ha rivelato che la misericordia non è un correttivo per mitigare la giustizia, non è neppure un soccorso per chi non conosce la verità: la giustizia di Dio è sempre misericordia anzi, è la misericordia che stabilisce la giustizia e rende splendente e non abbagliante la verità. I nemici di Gesù erano esperti della santa Scrittura (scribi) e uomini “religiosi” che confidavano in se stessi e nel loro comportamento scrupolosamente osservante. È dunque rivelativo che un’ opposizione analoga emerga anche contro papa Francesco e il cammino che tenta di tracciare per la chiesa, l’ esodo verso le periferie esistenziali di un’ umanità sofferente e mendicante amore, tenerezza, compassione in un mondo sempre più incapace di prossimità e di fraternità.

Ho già avuto modo di scriverlo: se il papa sarà fedele al vangelo troverà opposizione, persino rigetto e disprezzo perché non potrà essere di più del suo Signore. L’ ha profetizzato Gesù semplicemente leggendo le proprie vicende e quelle dei profeti prima di lui. Ciò che stupisce è che chi nei confronti dei papi precedenti non avanzava critiche o contestazioni ma poneva loro domande, veniva additato come “non cattolico”, mentre oggi, grazie alla libertà che Francesco ha voluto assicurare al dibattito, alcuni arrivano a sospettare che lui permetta di lasciar manipolare un confronto che nella chiesa dovrebbe sempre essere ascolto dell’ altro, riconoscimento che il successore di Pietro, il papa, “fa strada insieme” ( syn-odos ) ai vescovi ma presiedendo la loro comunione con un carisma e un mandato proprio che proviene dal Signore stesso.

Siamo tornati al tempo del concilio, alle contestazioni più o meno manifeste, alle mormorazioni contro Giovanni XXIII e Paolo VI, ma questo non deve spaventare. Nella sua storia, la chiesa ha conosciuto ore più critiche, anche se queste vicende non offrono una testimonianza di parresia e di comunione fraterna. Stupisce che questa contestazione venga da chi papa Francesco ha voluto tenere vicino a sé nel governo della chiesa o incaricare di aiutarlo per tracciare un cammino di riforma delle istituzioni. Ma questo dato rivela chi è l’ attuale papa: non è un pontefice che scarta chi sa diverso da lui, non è un “regnante” che emargina chi ha altre ottiche pastorali. Tutti possono constatare questo suo atteggiamento che gli nuoce e gli rende faticoso il suo servizio alla chiesa. D’ altronde nella chiesa c’ è chi vorrebbe che Francesco fosse solo una breve parentesi, chi afferma che “questo papa non gli piace”, chi lo considera “debole nella dottrina”, chi non ama il suo ecumenismo che vuole abbracciare tutti i battezzati e non creare muri nei confronti dei non cristiani e degli uomini e delle donne del mondo.

Per scelta di Benedetto XVI ho partecipato a due sinodi e non vedo in quello in corso una procedura radicalmente diversa: pubblicare il riassunto della discussione senza fornire i nomi dei singoli intervenuti e le frasi da loro pronunciate, per esempio, consente di non classificare i vescovi in tradizionalisti e innovatori, in conservatori e liberali sulla base di affermazioni apodittiche che non riflettono l’ incidenza avuta dal confronto e dal dialogo nel corso del dibattito. Le diversità infatti sono legittime, soprattutto in un’ assemblea veramente cattolica, in cui i vescovi sono portavoce del loro popolo.

Esser “servo della comunione” per papa Francesco è arduo, ma i cattolici credono anche che su di lui c’ è la promessa fatta a Pietro da Gesù stesso: “Ho pregato perché la tua fede non venga meno e tu conferma i tuoi fratelli!”. Questa è un’ ora di apocalissi nella chiesa e non sarà l’ ultima: ognuno si assuma le proprie responsabilità nei confronti della comunione cattolica e, più ancora, nei confronti del vangelo al quale dice di voler obbedire.