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Amore e rifiuto, stima e riserva nel testamento spirituale di Arturo Paoli

 

di Piero Murineddu

“La vera ragione di stendere questo testamento spirituale nasce dal fatto di sentire nella grande comunità- chiesa, amore e rifiuto, stima e riserva”. E’ un passaggio molto importante di ciò che, più avanti, di se stesso dice Arturo Paoli, il Piccolo Fratello deceduto lo scorso aprile sulla soglia dei 103 anni. Il suo nome è da annoverare tra i tanti che, appartenendo alla Chiesa Cattolica, sentono spesso difficoltà a condividere certe posizioni e indicazioni dottrinali, oltre che sentire forte la sofferenza di  non vedere la loro comunità realmente impegnata in quella “scelta preferenziale per i poveri”, enunciata più facilmente nelle parole che vissuta nella prassi quotidiana. Lo stare sempre e comunque dalla parte dei poveri comporta necessariamente non accettare nessun compromesso col potere, qualsiasi esso sia. Anzi, per essere veramente credibili, bisogna farsi poveri, che non vuol assolutamente essere nella miseria, ma  voler vivere dell’essenziale. Arturo ha sempre rifiutato di andare a braccetto col potere, e nel contempo, ne ha sempre condannato e denunciato qualsiasi abuso, ai danni sopratutto della povera gente. Tale atteggiamento rispecchia del resto la vita degli stessi Piccoli Fratelli, una congregazione religiosa che porta avanti uno stile di vita semplice e, come detto, essenziale, oltre che di condivisione con la gente dei luoghi dove sorgono le loro minuscole fraternità. A ragione  e a pieno titolo si può dire che essi la “scelta preferenziale per i poveri”  la fanno veramente. essendo e volendo essere loro stessi poveri. E’ proprio per questo che la loro “predicazione”, fatta più che altro con l’esempio nell’ordinarietà della vita, è credibile. “Amore e rifiuto, stima e riserva”, leggerete tra poco nel testamento di Arturo. Coloro che s’impegnano a fare le proprie scelte quotidiane alla luce del Vangelo, che comporta anche avere una consapevolezza civica e  lottare in modo  nonviolento  ma deciso contro le ingiustizie, inevitabilmente viene guardato con sospetto e diffidenza, forse perchè in fondo viene invidiato  loro il coraggio e il  non voler mettere la coscienza in secondo piano. Il Potere, quello ingordo e opprimente, purtroppo si nutre anche della complicità (spesso inconsapevole) e della passività di molti “buoni cristiani”, intenti a rispondere ai loro bisogni (spesso “doveri”) spirituali, e lasciando le faccende terrene ai tanti lupi famelici che liberamente circolano ben incravattati, imponendo le loro morali di comodo e interessate. Arturo, col sorriso permanentemente sulle labbra dovuto al suo cuore semplice, ci ha insegnato questo e tanto altro ancora.

 

 

 

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                Il mio testamento spirituale

Nella domenica della Santissima Trinità 22 giugno 2011 dopo aver celebrata la messa nella chiesa di san Martino in Vignale ed aver predicato l’omelia seguito devotamente da una folta comunità, testimone della mia normale facoltà mentale, comincio a stendere il mio testamento spirituale.

Comincio con l’esprimere la mia gratitudine all’arcivescovo mons. Italo Castellani che mi ha accolto e concesso ospitalità nella splendida residenza di san Martino, il cui parroco, don Lucio Malanca ha atteso ai miei bisogni come un fratello amoroso.

Ringrazio il Padre celeste del dono delle amicizie che hanno reso ovunque lieta la mia esistenza e consolato negli inevitabili contrasti.
Ricordo prima degli altri i fratelli della mia famiglia religiosa (beato Charles de Foucauld).
Ho spesso ricordato le lacerazioni del cuore, le giornate di distacchi, quelle che il beato Carlo chiama l’éloignement (la lontananza).

Parecchi giovani mi sono vicini in questa tappa della mia esistenza fra cui il mio compagno di contubernia (convivenza) Tommaso Centoni che ricordo qui con particolare gratitudine.

La vera ragione di stendere questo testamento spirituale nasce dal fatto di sentire nella grande comunità-chiesa amore e rifiuto, stima e riserva. E ho pensato che questo avesse dei motivi giusti ed inevitabili.
Se mi si chiedesse a quale Chiesa appartengo, quella cui aderisco direi, senza esitazioni, è quella del Concilio Vaticano II, è quella della Lumen Gentium, della Gaudium et Spes e confesso, senza tortuose ipocrisie, che penso che i due pontefici succeduti a Paolo VI sono incorsi nel rimprovero-lamento espresso da Gesù in Mt 16 e in Lc 12, sui segni dei tempi.
Credo fermamente che Gesù sia misericordioso non solo perché lancia un salvagente all’anima che sta per naufragare nella condanna eterna ma anche e soprattutto per la sua decisione, suggerita dal suo amore infinito di fare di ogni creatura umana, direttamente o anche a sua insaputa, un partecipe al suo progetto di “amorizzare” il mondo.
Abbiamo motivo di credere che una lagrimetta finale ci salverà dall’inferno. Ma i veri cristiani sono quelli che fanno quanto possono per portare frutto “Io sono la vite e voi i tralci”. Questo e solo questo è il nostro Salvatore.
Chiedo a tutti, parenti e amici che ho teneramente amato sulla terra, di pregare il Salvatore che mi accolga fra gli eletti. Ma vorrei dire a tutti coloro che mi ricordano che non dimentichino mai che il nostro luogo di nascita si professa cristiano-cattolico ma presentemente noi facciamo parte di un sistema politico il più antievangelico immaginabile.

Penso spesso a una bella preghiera al Padre «Tu apri la tua mano e riempi ogni essere di ogni bene».

Oggi per essere veri cristiani dovremmo pregare:
«Non guardare Signore
mentre riempio di pane il cassonetto dei rifiuti»
Mentre i nostri fratelli ci chiedono ospitalità noi preghiamo
«Liberaci dai nemici che vengono a turbare la nostra pace».

Forse il solo vantaggio di vivere in questa terra opulenta sarà quello di essere convinti di essere incapaci: “sono un servitore inutile”.
Nel caso cadessi ammalato, come preludio della mia morte, chi è vicino mi suggerisca questo ritornello “sono un servitore inutile”. Sul problema del mio cadavere non ho nessuna disposizione da dare. Mi attira il cimiterino di san Martino in Vignale ma lasciatelo decidere a chi se ne occupa.
Lucca S. Martino in Vignale 22 giugno 2011
Fratello Arturo Paoli

 

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Aggiunta del 31 dicembre 2011
Oggi martedi 13 dicembre 2011 festa di santa Lucia nel pieno delle facoltà mentali unisco al mio testamento la seguente disposizione.
Nell’evento della mia morte dispongo la mia ultima volontà che la mia salma venga interrata nel piccolo cimitero adiacente alla chiesa di san Martino in Vignale (alla sua destra verso levante) con una semplice targa.
Sac. Arturo Paoli
Piccolo fratello del Vangelo
Nato 30 . 11 . 1912
Morto 13 . 07 . 2015
Exultabunt in Christo ossa humiliata
Arturo Paoli

Arturo e il suo camminare, scrivere, parlare……

Per me è sempre un piacere ricevere la lettera che periodicamente i Piccoli Fratelli di Spello, religiosi che ispirano la loro vita individuale e di fraternità a Charles De Foucauld, mandano ai loro amici, i tanti che nel corso degli anni hanno condiviso la loro vita nella comunità umbra di Spello, specialmente nel periodo estivo. Giustamente, quest’ultima l’hanno voluta dedicare ad Arturo Paoli, il carissimo 103enne che ci ha recentemente lasciati. Il ricordo è affidato a Bernardo, col quale nel 1957 Arturo ed altri avevano condiviso la loro vita coi minatori di Bindua, in Sardegna.

Quando alla fine, non poteva più camminare e scrivere e poi neanche  parlare, il dubbio ha fatto parte del suo cammino di fede”, dice Bernardo del suo e nostro  Amico ormai giunto al termine del suo cammino terreno. Il CAMMINARE era per lui una consuetudine quotidiana. Preso il suo bastone, lo metteva dietro sotto la testa e, tenendolo ben saldo nelle mani, s’avviava nelle sue lunghe passeggiate. Pensando, riflettendo, pregando, ricordando le innumerevoli vicende vissute nella sua non breve vita. Lo SCRIVERE era probabilmente l’attività che ha maggiormente assorbito il tempo e le fatiche di Arturo, e il PARLARE, cosa che faceva sempre molto volentieri, gli permetteva di comunicare agli altri, sempre ansiosi e lieti di ascoltarlo, la sua visione delle cose, specialmente riguardo alla vita di fede, che assolutamente doveva essere “incarnata” nelle cose minute e anche grandi di ogni giorno. L’idea che nella fragilità dell’età avanzata sia stato preso dal dubbio, mi fa sentire il caro Arturo ancora più vicino, più vero, più amico e più fratello. (Pi.Mu.)

 

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Carissimi tutti,

Ci sentiamo uniti e in cammino con ciascuno/a di voi in questo mondo che stenta a trovare i sentieri della solidarietà e della fratellanza. Consapevoli che dobbiamo incominciare da noi, dalle nostre relazioni….

Come senz’altro avrete saputo, durante l’estate e per l’esattezza il 13 luglio ci ha lasciati Arturo Paoli, il nostro fratello maggiore che nel mese di novembre prossimo avrebbe compiuto 103 anni.

Ci siamo così ritrovati a Lucca per l’ultimo saluto insieme a tanti amici e amiche, fratelli e sorelle. E’ stata una vera festa di celebrazione  e ringraziamento per una vita compiuta, che ha trovato la sua pienezza nella fedeltà e nel servizio del Regno del Padre.

Ecco la testimonianza di nostro fratello Bernardo alla fine delle esequie:

“Sì, è proprio vero, c’è solo da ringraziare per la vita di fratel Arturo, perché è stata una vita riuscita. Riuscita perché, vita data. Fratel Arturo ha pensato agli altri rischiando di essere arrestato, torturato, ammazzato quando era un riferimento per vari ebrei che nascondeva durante la guerra mondiale.

Dopo il suo noviziato in Algeria e un tempo di fraternità in una zona di miniera a Bindua in Sardegna, vive in Argentina a contro corrente del regime militare, anche allora rischiando molto. Infatti, in quel tempo, alcuni fratelli sono torturati e un altro viene portato via mentre svolgeva il suo lavoro di spazzino. Ed è così che fratel Maurizio fa parte della lunga lista de “los desparecidos”.

In Venezuela, Arturo ritrova per un tempo il fratello con il quale visse a Fortin Olmos in Argentina.

Però è vero che fratel Arturo ha vissuto poco in fraternità, sia in Venezuela che in Brasile. Ma ha sempre saputo essere di stimolo con le sue riflessioni scritte o semplicemente condivise. Ha saputo mettere insieme persone attente ai bisogni dei più sprovvisti delle regioni povere dove aveva scelto di vivere.

Anche se sembra svolgere una vita di fraternità per conto suo, aveva  sempre presente le fraternità e i fratelli sparsi per il mondo. Come noi era mosso da quella spiritualità di Nazareth, spiritualità del quotidiano e delle cose semplici che Charles de Foucauld ci aveva trasmesso. La sua ultima casa, qui, a Lucca l’aveva chiamata “casa del beato Charles de Foucauld”.

Quando alla fine, non poteva più camminare e scrivere e poi neanche  parlare, il dubbio ha fatto parte del suo cammino di fede. Ma, alla fine, ha lasciato alle persone meravigliose che lo accompagnavano, una pace profonda.

Chiudendo gli occhi lo ritroviamo sorridente, umano, affettuoso .

 

 

Un civilissimo ed educativo inizio d’anno scolastico

 

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Il liceo Siotto di Cagliari non imponga agli studenti ideali politici a senso unico. Se qualche studente  fosse contrario all’invasione di immigrati clandestini in atto in questi mesi, saprebbe in partenza che il dirigente scolastico probabilmente non gradirebbe eventuali opinioni discordanti. La scuola deve essere terza e imparziale, far sentire tutti gli studenti liberi di esprimere le proprie opinioni e a casa propria. Non imporre modelli di pensiero a senso unico”                                               (nota di “Noi con Salvini Sardegna“)

 

Alle strumentalizzazioni  rispondo che questa è una scuola della Repubblica e qui si rispetta la Costituzione che sancisce il diritto d’asilo e di pace. Questo è il “Siotto”, una scuola accogliente anche in senso più generale. Questo avvio non poteva che cominciare così:non potevano non lanciare un messaggio di fronte a una tragedia così grande“. (Peppino Loddo, dirigente scolastico)

 

Il diritto di asilo è tra i diritti fondamentali dell’uomo, e nella nostra Costituzione è sancito dall’’articolo 10, terzo comma: “lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge“.

Diritto di asilo e status di rifugiato. E’ quest’ultimo riconoscimento che le varie Commissioni regionali stanno decidendo per ogni immigrato che è approdato alle nostre coste: accettare tale richiesta perchè proveniente da guerre o dittature oppure  farlo tornare indietro perchè  motivato da “semplici” questioni economiche.  “Diritto d’asilo e di pace“, aggiunge il Dirigente nel suo discorso ai ragazzi, e per chi ha conservato una equilibrata capacità di giudizio, nonostante oramai l’estrema messa in discussione di tutti quei valori che l’umanità ha faticosamente raggiunto nella sua storia, la pace è quella condizione che permette la totale manifestazione dell’essenza migliore di ciascun individuo e di ciascun popolo,  e l’accoglienza verso gli altri e il volersi rapportare alla pari sono componenti primari della pace. Come è possibile non far partecipi ragazzi in crescita di quest’epocale evento migratorio che sta’ caratterizzando questi tempi? Chi ha responsabilità nella formazione dei giovani, cos’altro di più importante può loro comunicare, specialmente all’inizio di una convivenza annuale, qual’è quella scolastica?  E far ciò sarebbe voler condizionare “politicamente” e imporre modelli di pensiero a senso unico? E che c’entra l’immigrazione “clandestina” contro la quale qualche studente potrebbe essere contrario? E’ estremamente calunnioso e offensivo ipotizzare possibili ritorsioni  da parte del Dirigente. Personalmente, sono convinto che un Dirigente che decide di iniziare in questo modo l’anno scolastico, sia una persona molto rispettosa, disponibile al dialogo e molto distante dall’atteggiamento arrogante dei tanti impegnati ad innalzare muri e, “con Salvini”, ad appesantire l’aria e avvelenare sempre più gli animi, rendendo sempre più utopica una convivenza pacifica. (Piero Murineddu)

 

http://www.videolina.it/video/servizi/86774/l-integrazione-parte-da-scuola-al-siotto-primo-giorno-con-i-migranti.html

 

Siamo tutti Raif ? Mah………….

Raif è un giovane blogger saudita che dal 2012 sta’ duramente pagando la sua “pretesa” di esprimere liberamente il suo pensiero. Sopratutto, spingeva i suoi conterranei a fare altrettanto. Seppur vivendo noi in democrazie incompiute che spesso fanno un passo avanti e due indietro, quello di potersi esprimere senza la paura di ritorsioni e addirittura col rischio della vita è una conquista abbastanza consolidata, a parte certe situazioni e in certi particolari luoghi. Altrove nel mondo si è ancora molto lontani da ciò. Per chi non  fosse a conoscenza del caso di Raif Badawi, vi propongo questo articolo di Riccardo Noury tratto da “Il Fatto Quotidiano”, ma  volendone approfondire la vicenda, nella rete può spaziare liberamente. Ancora una volta, come giustamente viene rilevato nell’articolo, colpisce il quasi silenzio dell’Occidente quando si tratta si prendere posizione su argomenti riguardanti il mancato rispetto dei fondamentali diritti umani in Paesi alleati militarmente ed economicamente, o che può essere rischioso intromettersi nel loro “affari interni”, come per esempio la Cina.  Nel contempo, i capi dei nostri Paesi progrediti non hanno esitato ad intervenire con armi super tecnologiche quando bisognava  “esportare” la democrazia, e inevitabilmente questi interventi dall’alto hanno provocato un numero impressionante di “effetti collaterali”, cioè cittadini inermi trucidati e fatti a pezzetti. Sembra truce usare questi termini, ma è la cruda realtà. In fondo al post trovate il link dove si parla della guerra dell’Arabia Saudita contro il suo vicino Yemen, anche questa nell’indifferenza pressochè totale. (Pi.Mu.)

Raif Badawi

di Riccardo Noury

“Gli stati basati sulla religione rinchiudono i loro popoli nel cerchio della fede e della paura”.

Paura del pensiero libero. Ecco perché Raif Badawi fa paura. Perché sfida la paura.

Raif Badawi è in carcere dal 17 giugno 2012 in Arabia Saudita. E’ stato giudicato di aver offeso l’Islam tramite il suo forum online, “Liberi liberali sauditi” e, per questo, condannato a 10 anni di carcere e a 1000 frustate, da eseguire 20 alla volta per 50 settimane.

Il 6 giugno di quest’anno la condanna è diventata definitiva e non c’è segnale, da parte delle autorità saudite, di ravvedimento o di clemenza. Anzi, Badawi ha persino rischiato una condanna a morte per il reato aggiuntivo di “apostasia” (tra i capi d’accusa c’era anche quello di aver fatto “like” su una pagina facebook di arabi cristiani…)

Le prime 50 frustate gli sono state inflitte il 9 gennaio di quest’anno all’esterno della principale moschea di Gedda, al termine della preghiera del venerdì e di fronte a una folla giubilante che invocava la grandezza di Allah. Uno spettacolo turpe, per fortuna non ulteriormente replicato ma che può riprendere da un giorno all’altro.

La persecuzione giudiziaria di Raif Badawi è seguita con preoccupazione da milioni di persone. In decine di paesi, alla vigilia di ogni possibile sessione settimanale di frustate, si organizzano manifestazioni di fronte alle sedi diplomatiche dell’Arabia Saudita. Purtroppo, a questa generosa partecipazione di opinione pubblica fa da contrasto il quasi generale silenzio delle istituzioni.

Prevale, come sempre, sulle frustate a un blogger (così come sull’uso sfrenato della pena di morte, con oltre 200 decapitazioni nei primi cinque otto mesi del 2015, sui crimini di guerra commessi dalla coalizione a guida saudita intervenuta nella crisi dello Yemen e sulla persecuzione ai danni di altri oppositori non violenti e difensori dei diritti umani l’esigenza di “tenersi stretto” un alleato importante in un’area geopolitica complicata, un simbolo di quello che viene caparbiamente definito “islam moderato”, un partner utile contro le minacce del terrorismo, un florido mercato per vendita di armi. Pazienza che la sua “moderazione” e la sua “utilità” siano smentite dai fatti.

 

Dal 17 settembre, i post di Raif Badawi saranno disponibili al pubblico italiano grazie all’editore Chiarelettere, col volume “1000 frustrate per la libertà

 

 

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La moglie Ensaf Haidar mostra una foto col marito Raif coi loro  tre figli Terad, Najwai e Miriyam

 

«Vi prego, aiutatemi a salvare mio marito. La mia voce da sola non basta, ma tutti insieme possiamo farcela».
Questo l’appello di Ensaf Haidar, la moglie di Raif.
Col suo blog, il marito offriva spunti di riflessione sulla politica e sulla religione, sostenendo la necessità di riforme nel proprio paese. Le autorità iniziarono a considerarlo un personaggio scomodo, e per Raif nel 2008 iniziarono i primi problemi con la giustizia. Da quel momento, l’uomo decise di far fuggire all’estero sua moglie e i loro tre bambini, che si recarono prima in Egitto e successivamente in Libano, per poi ottenere asilo politico in Canada.

 

Per firmare in favore della sua liberazione:

https://appelli.amnesty.it/raif-badawi/

 

In qust’altro link, i crimini commessi dalla coalizione guidata dall’Arabia Saudita ai danni della poplazione dello Yemen:

http://www.amnesty.it/Yemen-in-un-rapporto-di-Amnesty-International-le-prove-dei-crimini-di-guerra-nel-sud-del-paese

 

ARABIA SAUDITA

Due righe sulla lettera di Matteo Renzi ad alcuni quotidiani europei

IMMIGRAZIONE: A LAMPEDUSA IN NOTTATA ALTRI 310 CLANDESTINI

 

 

di Piero Murineddu

Matteo Renzi, dopo che diverse testate giornalistiche europee gli hanno chiesto più coraggio nell’affrontare la questione migranti, risponde attraverso una lettera pubblica. Leggendola quest’oggi, ho avuto tanti stimoli di riflessione. Mi limito a rilevarne qualcuna.

 

Sarà il tunnel di Calais, il Tir in Austria, la foto spezzacuore del piccolo Aylan in Turchia, sta’ di fatto che all’improvviso tutti si sono accorti di ciò che stava accadendo.”(Matteo Renzi)

Credo che questa percezione l’abbiano avuta in molti, e se non sbaglio, l’aria è cambiata quando la Cancelliera tedesca ha improvvisamente capovolto atteggiamento nei confronti di chi vuole entrare nel suo Paese. Si, l’ingresso sembra riservato ai siriani, dove la guerra è più evidente e dove la presenza dell’IS è più marcata e qualche malizioso pensa che questo cambiamento è frutto di un calcolo ben preciso, fatto sta’ che i giornali e le tivù hanno iniziato ha mettere in rilievo esempi di accoglienza invece che notizie su manifestazioni di respingimento. Oltre la Polonia, la Slovacchia, la Repubblica Ceca e l’Ungheria,che si dicono non in grado di aiutare qualcuno viste le loro persistenti difficoltà, c’è ancora la ricca Danimarca,altalenante sul da farsi. Si fa ancora fatica a capire che il far parte di un’Unione di Stati, comporta “onori” ma anche oneri. E’ tuttavia necessario entrare in quest’ottica,anche perchè le “penitenze” sono dietro l’angolo.

 

Non basta commuoversi, bisogna muoversi. Le emozioni sono importanti, ma le azioni servono di più. Che nessuno immagini di cavarsela col solito rito del minuto di silenzio”.(M.R.)

Il fatto tragico è che molti non sono in grado manco di commuoversi. Il cinismo del “mors tua vita mea” sembra che in certuni abbia preso il sopravvento e abbia talmente indurito che si rimane indifferenti a qualsiasi situazione di bisogno che può esserci intorno. E poi ci sono quelli che ti portano ad essere duri, a loro dire ad essere “razionali”. Uno è sicuramente il Matteo leghista che, vistosi isolato politicamente nella sua posizione di respingimento, adesso dice che “sono pur sempre una persona e se qualcuno che ha bisogno bussa alla mia porta io apro”, e questo dopo aver affermato, come risposta ad una domanda diretta, che anche se ha un bilolocale, un profugo l’ospiterebbe. Naturalmente profugo di guerra e nessun altro. Io dubito tantissimo, ma comunque, se qualche associazione impegnata seriamente ad accogliere questa marea di gente disperata gli mandasse a casa qualcuno da ospitare, potremmo vedere se il Matteo leghista parla perché ha la lingua collegata al cervello (e sopratutto al cuore!), oppure…….

 

Occorre maggiore attenzione all’Africa. E’ il cuore del nostro futuro, ha straordinarie capacità di crescita, è la miniera di una nuova speranza per chi crede negli ideali di un mondo globale”(M.R.)

E di quanto l’Africa avrebbe bisogno di attenzioni,ma non predatorie, com’è finora avvenuto, specialmente nell’epoca del colonialismo. In questo senso il termine “miniera” usato da Renzi potrebbe creare inquietudine. Solo se pensiamo all’Inghilterra e al suo attuale e persistente lavarsene le mani, il pensiero inevitabilmente và a quando la sua presenza in ogni dove serviva principalmente ad ingrassare se stessa, in modo particolare in terra africana e in India. Quello che è adesso, è anche frutto dello sfruttamento illimitato delle terre e dei beni altrui. Inutile ribadire la grande pena e irritazione che provoca chi stà bene e se ne infischia degli altri.

 

Chi ha studiato la storia della fine delle grandi civiltà, a cominciare dalla decadenza dell’Impero Romano, sa che il declino non inizia da un dato economico, ma culturale”(M.R.)

Il riferimento è all’Europa e al suo travagliato cammino verso un’unità effettiva,ma la fondatezza di tale affermazione è validissima per tutti gli ambiti della vita, collettiva ma anche individuale.

 

Bruno Vespa e il Casamonica show

di Vittorio Emiliani

Non ha reso certamente un buon servizio alla “nuova” Rai il pur navigatissimo Bruno Vespa con l’ospitata a “Prima Porta” della figlia e del nipote di Vittorio Casamonica, capo di uno clan più potenti dell’area metropolitana di Roma. Non che non dovesse averli come ospiti. Solo che bisognava fare giornalismo vero, abbandonare i toni ammiccanti e quasi mielosi usati anche in questa circostanza e chiamare persone in grado di rompere quell’idillio richiamando tutti alla cruda realtà.

Il funerale grandioso, prepotente, pacchiano come pochi al “papa” di questa numerosa famiglia che ha collezionato, lui e i suoi, processi e condanne di ogni tipo. Che la figlia parlasse del padre Vittorio con la dolcezza di “O mio babbino caro” ci sta. Bisognava però ricordare a tutti, al numeroso pubblico, circa 2 milioni di persone, che quel lusso sfarzoso e kitsch era reso possibile da un quarantennio abbondante di malaffare che il clan ha prodotto e trattato fra le periferie orientali e i Castelli.

Secondo la Direzione Investigativa Antimafia (Dia) si tratta della struttura criminale più potente e radicata del Lazio il cui patrimonio viene stimato in 90 milioni di euro e con migliaio di affiliati. Settori di attività, usura, droga (a livello internazionale), racket edilizio, scommesse, riciclaggio negli stabilimenti balneari, nella ristorazione, nella società di capitale.

Tanti, a cicli, gli arresti subiti dai Casamonica in origine Sinti venuti dall’Abruzzo (i più stanziali, gestori di giostre), all’inizio degli anni ’70. Alcune loro donne, belle ed eleganti, era facile notarle in piazza del Popolo, davanti a Rosati o a Canova, ritrovi di intellettuali. Uno di loro, Romolo, è stato boxeur, campione italiano dei pesi medi, finito però anche lui nel fango dell’usura.

Fra il clan e la stessa Banda della Magliana i rapporti sono stati numerosi: il defunto “re” Vittorio recuperava crediti per quel giglio di Nicoletti cassiere della banda. Questo e altro si poteva e doveva dire e contestare a “Porta a Porta” se si voleva fare informazione e servizio pubblico. Ma v’è di più, poteva essere l’occasione per fornire un quadro oggettivo, serio, documentato della presenza nomade (in realtà sempre meno nomade) in Italia.

Si parla spesso di una vera e propria “invasione” zingara in Italia. Falso: da noi sono molti di meno che in Grecia, in Francia o in Spagna, sui 120-150mila, chiamati ancora nomadi quando il 70 per cento ormai risulta stabilizzato o lo è sempre stato (i già citati Sinti, ad esempio). Sono comunque lo 0,75 per cento della popolazione italiana. Metà di loro ha passaporto italiano e per lo più sono cittadini europei fuggiti dalle guerre balcaniche. La scelta di ospitarli in campi nomadi per lo più indecenti ha accresciuto la loro emarginazione che l’Onu ci rimprovera fin dagli anni ’90. Appena il 6 per cento di loro arriva ad un diploma scolastico contro il 67 per cento della media europea. La metà appena dei ragazzi viene mandata alla scuola dell’obbligo.

Il Comune di Roma ha speso per i campi nomadi, tanto squallidi quanto oggetto di speculazioni criminali (Mafia Capitale), ben 24 milioni di euro nel solo 2013. Risorse da riconvertire in social housing, per meglio integrare questa popolazione. Come chiedono da tempo gli esponenti più colti e illuminati della comunità, per esempio Nazzareno Guarnieri, il primo Rom diplomato, nel 1971, presidente della Federazione dei Romanì e che è stato anche maestro elementare sperimentando – come ha raccontato alla brava e competente Bianca Stancanelli autrice del libro “La vergogna e la fortuna. Storia di Rom” (Marsilio) – la emarginazione delle classi Lacio Drom, dai pessimi risultati. Guarnieri incita i Rom a lasciare i campi nomadi, a tirarsi fuori anche da soli “da quella dannazione”. Ma bisogna anche aiutarli ad uscirne, a entrare fra la gente. Trasmissioni come questa di Vespa non fanno opinione in senso costruttivo. Anzi. Indignano e confondono le idee.

Penso, o forse non riesco a pensare, prigioniera come sono della confusione mentale imperante in questo secolo

isis

di EVE ENSLER

“È permesso percuotere la schiava come [forma di] darb ta’deeb [percosse disciplinari], [ma ] è vietato [ricorrere alle ] darb al-takseer [letteralmente percosse massacranti], [darb] al-tashaffi [percosse allo scopo di ottenere gratificazione], oppure [darb] al-ta’dheeb [percosse come tortura]. Inoltre è proibito colpire al volto“.

Mi chiedo come facciano i burocrati dell’Is a distinguere i pugni, i calci e lo strangolamento inflitti a scopi disciplinari dagli atti mirati alla gratificazione sessuale. Interviene una squadra tutte le volte che una schiava viene picchiata, per controllare se c’è erezione? E come fanno poi a stabilire che cosa, con esattezza, l’ha provocata? Certi uomini si eccitano soltanto nel momento in cui affermano il proprio potere. E se si stabilisce che il soldato picchia, strangola e prende a calci la sua schiava per puro piacere, qual è la punizione per lui? Verrà costretto a restituire la schiava e a perdere il deposito, dovrà pagare una multa salata, o semplicemente pregare di più?

Penso alla facilità con cui si considera l’Is una mostruosa aberrazione, mentre in realtà è l’esito di una lunga serie ininterrotta di crimini e disordini. Le atrocità sessuali inflitte dall’Is si differenziano solo nella forma e nella prassi da quelle perpetrate da molti altri signori della guerra in altri conflitti. Sconvolgente e nuovo è lo sfoggio sfrontato e impudente che si fa di questi crimini pubblicizzati su internet, lo sdoganamento commerciale di queste atrocità, le app, dove il sesso è un mezzo per reclutare. Le azioni e la rapida proliferazione dell’Is non nascono dal nulla. Sono il frutto di un’escalation legittimata da secoli di dilagante impunità della violenza sessuale. Questo mi fa venire in mente le Comfort women , le prime schiave sessuali dell’era moderna, giovani donne asiatiche rapite nel fiore degli anni dall’esercito imperiale giapponese durante la Seconda guerra mondiale e detenute nelle comfort stations , per soddisfare le esigenze sessuali dei soldati al servizio del loro Paese. Le donne subivano anche settanta stupri al giorno. Quando, esauste, non riuscivano più a muoversi, venivano incatenate al letto e stuprate ancora come sacchi molli. A queste donne la vergogna ha tappato la bocca per quarantacinque anni e per altri venticinque hanno marciato e atteso, vigili, sotto la pioggia, chiedendo giustizia. Sono rimaste in poche ormai e non più tardi di un mese fa il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, ha perso l’ennesima occasione di fare ammenda.
Io penso all’inerzia, al silenzio, alla paralisi che ha bloccato e impedito le indagini e l’incriminazione degli abusi sessuali ai danni delle donne musulmane, croate e serbe stuprate nei campi dell’ex Yugoslavia, delle donne e delle bambine afroamericane stuprate nelle piantagioni del Sud, delle donne e delle bambine ebree stuprate nei campi di concentramento tedeschi, delle donne e delle bambine native americane stuprate nelle riserve degli Stati Uniti. Mi sembra di sentire i lamenti delle anime in pena di donne e bambine violate in Bangladesh, Sri Lanka, Haiti, Guatemala, Filippine, Sudan, Cecenia, Nigeria, Colombia, Nepal, e la lista si allunga. Penso agli ultimi otto anni che ho trascorso nella Repubblica democratica del Congo dove un’analoga conflagrazione di capitalismo rapace, secoli di colonialismo, guerra e violenza senza fine ha lasciato migliaia di donne e bambine prive di organi, salute mentale, famiglia o futuro. E penso a parole come “ri-violentata”, sostituita ormai da “ri-ri-riviolentata”.
Vedete, è come se stessi raccontando la stessa storia da vent’anni. Ci ho provato con i numeri, il distacco, la passione, le suppliche, la disperazione esistenziale, e anche ora, mentre scrivo, mi chiedo se abbiamo creato un linguaggio adatto a questo secolo che sia più potente del pianto.
Penso che le istituzioni patriarcali non hanno saputo intervenire in maniera efficace e che le strutture come l’Onu amplificano il problema nel momento in cui le forze di peacekeeping che dovrebbero proteggere le donne e le bambine si macchiano a loro volta di stupri.
Penso all’operazione Shock and Awe (“colpisci e terrorizza”) e a come ha contribuito a scatenare questa, che potremmo definire “Stupra e decapita”. Quando noi cittadini, a milioni, in tutto il mondo, manifestavamo contro la guerra inutile e immorale in Iraq restando inascoltati, eravamo perfettamente consapevoli del dolore, dell’umiliazione e dell’oscurità che avrebbero generato quei letali tremila missili Tomahawk americani.
Penso al fondamentalismo religioso e a Dio padre, a quante donne sono state stuprate in suo nome, a quante massacrate e assassinate. Penso al concetto di stupro come preghiera, alla “teologia dello stupro”, alla religione dello stupro. Questa pratica è una delle più diffuse religioni al mondo, in crescita con centinaia di conversioni al giorno, dato che un miliardo di donne nella sua vita subirà percosse o uno stupro (i dati sono dell’Onu).
Penso alla velocità folle a cui si moltiplicano nuovi e grotteschi metodi per mercificare e profanare i corpi delle donne in un siste- ma in cui ciò che più è vivo, sia esso la terra o le donne, deve essere ridotto a oggetto e annichilito per aumentare i consumi, la crescita e l’amnesia.
Penso alle migliaia di giovani occidentali, uomini e donne, tra i quindici e i vent’anni, che si sono arruolati nell’Is. In cerca di cosa, in fuga da cosa? Povertà, alienazione, islamofobia, desiderio di avere un senso e un obiettivo?
Penso a quello che mi ha detto la mia sorella attivista in una conversazione su Skype da Baghdad questa settimana: «L’Is è un virus e l’unica cosa da fare con i virus è sterminarli». Mi chiedo, come si stermina una mentalità, come si bombarda un paradigma? Come si fanno saltare la misoginia, il capitalismo, l’imperialismo e il fondamentalismo religioso?
Penso, o forse non riesco a pensare, prigioniera come sono della confusione mentale imperante in questo secolo. Da un lato sono consapevole che l’unico modo per andare avanti è riscrivere da zero la storia attuale, procedere a un esame collettivo approfondito e ponderato delle cause che stanno alla base delle varie violenze in tutte le loro componenti economiche, psicologiche, razziali, patriarcali, che richiedono tempo. Allo stesso tempo, so che in questo preciso istante tremila donne yazide subiscono percosse, stupri e torture.
Penso alle donne, alle migliaia di donne che in tutto il mondo hanno operato senza pausa per anni e anni, esaurendo ogni fibra del loro essere per denunciare lo stupro, per porre fine a questa patologia di violenza e odio nei nostri confronti. E la razionalità, la pazienza, l’empatia, la mole della ricerca, le cifre che mostriamo, le sopravvissute che curiamo, le storie che ascoltiamo, le figlie che seppelliamo, il cancro di cui ci ammaliamo non contano: la guerra contro di noi infuria ogni giorno più metodica, più sfacciata, brutale, psicotica.
Penso che l’Is, come l’aumento del livello dei mari, lo scioglimento dei ghiacciai, le temperature assassine sia forse il segnale che per le donne si avvicina lo scontro finale. È giunta l’ora in cui secoli eterni di rabbia femminile devono fondersi in un’impetuosa forza vulcanica, scatenando la furia globale della vagina delle divinità femminili Kali, Oya, Pele, Mama Wati, Hera, Durga, Inanna e Ixchel, lasciando che sia la nostra ira a guidarci.
Penso alla cantante folk yazida Xate Zhangali, che dopo aver visto le teste delle sue sorelle penzolare dai pali nella piazza del suo villaggio ha chiesto al governo curdo di armare e addestrare le donne, e penso alle Sun Girls, la milizia femminile da lei creata, che combatte l’Is sulle montagne del Sinjar. E in questo momento, dopo anni di attivismo contro la violenza, sogno che migliaia di casse piene di ak47 cadano dal cielo sui villaggi, le fattorie e le terre delle donne, questi guerrieri con il seno che insorgono combattendo per la vita.
Così sono arrivata a pensare all’amore, a come il fallimento di questo secolo sia un fallimento dell’amore. Cosa siamo chiamati a fare, di che cosa siamo fatti tutti noi che siamo in vita su questo pianeta oggi. Che tipo di amore serve, quanto deve essere profondo, intenso e bruciante. Non un amore ingenuo sentimentale, neoliberista, ma un amore ossessivamente altruista.
Un amore che sconfigga i sistemi basati sullo sfruttamento di molti a vantaggio di pochi. Un amore che trasformi il nostro disgusto passivo di fronte ai crimini contro le donne e l’umanità in una resistenza collettiva inarrestabile. Un amore che veneri il mistero e dissolva la gerarchia. Un amore che trovi valore nella connessione e non nella competizione tra noi. Un amore che ci faccia aprire le braccia ai profughi in fuga invece di costruire muri per tenerli fuori, bersagliarli con i lacrimogeni o rimuovere i loro corpi gonfi dalle nostre spiagge.
Un amore che bruci di fiamma viva tanto da pervadere il nostro torpore, squagliare i nostri muri, accendere la nostra immaginazione e motivarci a uscire infine, liberi, da questa storia di morte. Un amore che ci dia la scossa, spingendoci a dare la nostra vita per la vita, se necessario.
Chi saranno i coraggiosi, furibondi, visionari autori del nostro manuale di amore rivoluzionario?
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Articolo apparso su La Repubblica del 6/9/15, come presentazione del libro “Nel corpo del mondo”. L’autrice de “I monologhi della vagina”, che non indugia a considerarsi ancora “femminista”, ha sempre combattuto contro la violenza sulle donne e non si è mai arresa,nè dopo esser stata da piccola abusata dal padre, nè dopo la droga e il sesso come fuga, nè col tumore che da cinquantenne ha attaccato il suo utero.

La marcia delle donne e degli uomini scalzi

 

 

Noi stiamo dalla parte degli uomini scalzi“. Inizia così l’appello lanciato da alcuni personaggi dello spettacolo e della cultura a sostegno dei migranti. La marcia delle donne e degli uomini scalzi è l’invito a togliere le scarpe e a camminare per esprimere solidarietà verso chi “ha bisogno di mettere il proprio corpo in pericolo per poter sperare di vivere o di sopravvivere”. L’appuntamento è fissato a Venezia  venerdì 11 settembre. La marcia partirà alle 17 da Piazza Santa Maria Elisabetta al Lido di Venezia e proseguirà fino al cuore della Mostra Internazionale di Arte Cinematografica.

I firmatari dell’appello invitano tutti ad aderire alla loro iniziativa, e a organizzare la stessa marcia anche in altre città italiane ed europee.  Spiegano che camminare scalzi è un modo per chiedere con forza i primi tre necessari cambiamenti delle politiche migratorie europee e globali. Vogliono che ci sia certezza di corridoi umanitari sicuri per vittime di guerre, catastrofi e dittature, che ci sia accoglienza degna e rispettosa per tutti, che vengano chiusi e smantellati tutti i luoghi di concentrazione e detenzione dei migranti e che venga creato un vero sistema unico di asilo in Europa superando il regolamento di Dublino. Perchè “dare accoglienza  a chi fugge dalla povertà – c’è scritto nell’appello – significa non accettare le sempre crescenti disuguaglianze economiche e promuovere una maggiore redistribuzione delle ricchezze”.

E’ arrivato il momento di decidere da che parte stare.
E’ vero che non ci sono soluzioni semplici e che ogni cosa in questo mondo è sempre più complessa.
Ma per affrontare i cambiamenti epocali della storia è necessario avere una posizione, sapere quali sono le priorità per poter prendere delle scelte.
Noi stiamo dalla parte degli uomini scalzi.
Di chi ha bisogno di mettere il proprio corpo in pericolo per poter sperare di vivere o di sopravvivere.
E’ difficile poterlo capire se non hai mai dovuto viverlo.
Ma la migrazione assoluta richiede esattamente questo: spogliarsi completamente della propria identità per poter sperare di trovarne un’altra. Abbandonare tutto, mettere il proprio corpo e quello dei tuoi figli dentro ad una barca, ad un tir, ad un tunnel e sperare che arrivi integro al di là, in un ignoto che ti respinge, ma di cui tu hai bisogno.
Sono questi gli uomini scalzi del 21°secolo e noi stiamo con loro.
Le loro ragioni possono essere coperte da decine di infamie, paure, minacce, ma è incivile e disumano non ascoltarle.

La Marcia degli Uomini Scalzi parte da queste ragioni e inizia un lungo cammino di civiltà.
E’ l’inizio di un percorso di cambiamento che chiede a tutti gli uomini e le donne del mondo globale di capire che non è in alcun modo accettabile fermare e respingere chi è vittima di ingiustizie militari, religiose o economiche che siano. Non è pensabile fermare chi scappa dalle ingiustizie, al contrario aiutarli significa lottare contro quelle ingiustizie.
Dare asilo a chi scappa dalle guerre, significa ripudiare la guerra e costruire la pace.
Dare rifugio a chi scappa dalle discriminazioni religiose, etniche o di genere, significa lottare per i diritti e le libertà di tutte e tutti.
Dare accoglienza a chi fugge dalla povertà, significa non accettare le sempre crescenti disuguaglianze economiche e promuovere una maggiore redistribuzione delle ricchezze.

(articolo tratto da Repubblica.it)

 

Proprio nei giorni scorsi mi è capitato di rivedere il filmato che segue, realizzato poco meno di 25 anni fa, quando si era organizzata una marcia e una giornata di convivenza e di testimonianza reciproca tra partecipanti di Sorso e di Sennori. Essendo tra gli organizzatori, avevo preso la parola per sintetizzare il senso dell’iniziativa e  manifestare il sentimento che accomunava tutta quella gente che si era ritrovata lì quel giorno. Esprimevo il bisogno e desiderio di unità, di differenze che dovevano essere opportunità di crescita e non di divisione, di accoglienza reciproca. A ben guardare, concetti che è bene ribadire oggi più che mai, alla luce di queste migrazioni epocali alle quali è necessario dare risposte, rinunciando al nostro istintivo egoismo e sforzandosi di razionalizzare le troppe e spesso infondate paure verso il diverso e ciò che ancora non conosciamo. E’ con questo spirito che parteciperò idealmente alla Marcia di Venezia. (Piero Murineddu)

 


Maddalena e Angela, due cugine accomunate dal desiderio di una società non vendicativa verso chi ha sbagliato

 

srMaddalena

di Piero Murinddu

E’ possibile che in molti abbiano conosciuto o perlomeno sentito parlare della suora vincenziana Maddalena Fois. Io l’avevo contattata per telefono, con l’impegno di vederci quanto prima. La sua morte, avvenuta nello scorso aprile a seguito di una grave malattia, non ha permesso la reciproca conoscenza. Era nuorese di nascita, avvenuta nel 1941. Da giovanissima era stata attratta dallo spirito di servizio dei fondatori della sua comunità religiosa, Vincenzo De Paoli e Luisa De Marillac, due amici che negli anni a cavallo tra l’ultimo scorcio del 1500 e il 1600 si dedicarono ad alleviare le sofferenze dei più poveri nella Francia di allora.

Sempre impegnata a dare risposte concrete alle tante situazioni di bisogno e di emarginazione, suor Maddalena. Sensibile al mondo dei carcerati e sostenuto  la creazione nel 1996 dell’Associazione “Giovani in Cammino”, nel 2002, dopo un’iniziale esperimento di scuola d’intaglio del legno portato avanti in un garage in zona “Sacro Cuore” di Sassari e aver operato all’interno del locale carcere sassarese, fu avviata un’esperienza comunitaria di alternativa alla detenzione carceraria nella grande struttura che si trova sulla Strada Statale 200 litoranea per Castelsardo, in località “La Tonnara”, in stretta collaborazione con la Diocesi, proprietaria dell’immobile, da diverso tempo semi abbandonato e nel quale furono fatti opportuni interventi per renderlo nuovamente abitabile.

Nel tempo, fu costruito un capannone  per la falegnameria  e una porzione di terreno circostante venne impiantato ad orto. Pur tuttavia queste, insieme a qualche altra occasionale attività, non hanno mai permesso un’indipendenza economica alla casa, assicurata più che altro dalla sensibilità di privati e dalla Diocesi stessa.

Tra le sue mura hanno trovato ospitalità per periodi più o meno lunghi decine e decine di detenuti, beneficiari di pene alternative alla costrizione carceraria. La morte di suor Maddalena, anima e motore di un lungo e faticoso lavoro dove al centro veniva e continua ad essere posta la persona, ha causato un momentaneo sbandamento all’interno dell’associazione e nella casa comunitaria.

Una sua consorella, tra l’altro cugina e coetanea, si è offerta volontariamente per sostituirla nella conduzione della casa d’accoglienza nel territorio di Sorso.

Fino ai ieri, non avevo mai messo piede all’interno di quella che un tempo veniva chiamata “Casa del Fanciullo”. L’occasione mi è stata data dall’incontro casuale con un giovane residente. E’ così che, insieme a mia moglie, abbiamo conosciuto suor Angela Pedduzza, che a Nuoro abitava a pochi passi dalla casa della cugina Maddalena e che quasi per un obbligo morale ne ha voluto continuare l’opera. Da sempre anche questa donna ha sentito il bisogno ed il dovere di dare una mano per curare le ferite causate da questa società spesso egoista e violenta. Si è trovata a contribuire alla nascita e all’avvio della Casa Famiglia per malati di AIDS, voluta dall’Associazione “Mondo X Sardegna” del francescano Salvatore Morittu. La grande cortesia di questa donna ha svelato immediatamente il suo senso di accoglienza, mentre la sua spontaneità l’ha portata ad ammettere il bisogno di aiuto per portare avanti questa importante e civile esperienza di abbattimento delle barriere mentali che circondano il mondo dei carcerati. Durante la visita della grande e pulita casa, ci ha manifestato la delusione per la mancata accettazione da parte della Regione di un Progetto per l’allevamento di lumache previsto nel territorio di Valledoria, nei pressi della frazione “La Ciaccia”, in un terreno di proprietà della congregazione vincenziana.

Un’opportunità mancata per impegnare i detenuti in affidamento e avviare un’attività produttiva che avrebbe permesso di affrontare le spese, sia della casa e sia per la sussistenza degli ospiti. La piacevole e coinvolgente conversazione ci ha permesso di scoprire che l’apporto di chiunque voglia dare una mano, è atteso e fortemente desiderato. Qualunque tipo di aiuto, di ordine materiale ma non solo. Sarebbe utile qualcuno per dare una mano in cucina, per insegnare la coltivazione della terra, per riattivare la falegnameria già fornita dei macchinari necessari, per fare animazione diversificata con gli ospiti, eventualmente per accompagnarli per lo sbrigo di pratiche legate alla loro condizione di detenuti ed altro ancora.

E’ richiesta in pratica la presenza di persone di buona volontà, disposte a condividere la propria esperienza umana e culturale,convinte di avere ancora molto da apprendere, specialmente dal contatto con persone solitamente emarginate e guardate con diffidenza e che spesso sono ricche di potenzialità positive inespresse. Non per ultimo, persone che condividono l’idea che una società che si dice civile non può essere “vendicativa” nei confronti di chi ha sbagliato , ma ha il dovere di attivare concretamente tutti i meccanismi legali e sociali al fine di agevolarne il reinserimento in un contesto umano libero.

Riconoscere a chiunque il diritto ad una vita dignitosa

 sudan

 

di Piero Murineddu

Secondo me l’attuale Papa sta’ cercando di scardinare tutto quel sistema di potere che nella Chiesa Cattolica da troppo tempo sembrava eterno ed intoccabile, compreso quell’intreccio di privilegi dovuto all’appoggio dato al potere politico di turno, in virtù dell’influsso sulle coscienze individuali. Gia dalle primissime “stravaganze” di Bergoglio, all’interno stesso della Chiesa molte figure gerarchiche avevano iniziato a storcere il naso e tuttora continuano a farlo. Ma anche in mezzo al più vasto popolo cattolico, siano essi associazioni, preti, suore,comunità e individui, la diffidenza e le perplessità nei suoi confronti continuano a persistere, e questo nonostante gli apparenti apprezzamenti. Si vede specialmente al momento di seguirne le indicazioni. I bene, bravo, giusto arrivano da ogni dove, ma solitamente si continua imperterriti a pensare e agire come si è sempre fatto.

Poi ci sono quelli che la guerra gliela fanno senza troppi giri di parole, siano essi giornalistoni atei devoti alla Giuliano Ferrara & company, e siano politici che si presentano come custodi e difensori della sacra tradizione cattolica contro l’invasione dei mori, e lo sguaiato e rozzo Salvini in questo momento è uno dei maggiori rappresentanti. Guerra non direttamente contro il Papa argentino, la qual cosa sarebbe troppo compromettente, ma contro figure di cui si è voluto circondare, come il segretario della CEI Nunzio Galantino, il quale ha avuto la lodevole e coraggiosa “sfrontatezza” di affermare che sulla questione del continuo e drammatico esodo forzato per entrare in Europa, certa politicaglia ci marcia per scopi elettoralistici.

Secondo Salvini e compagnia arrogante, Galantino, oltre che essere isolato e persino inviso a buona parte dei vescovi, sarebbe addirittura “comunista”, come se questo termine fosse diventato la maggior offesa che si può fare a qualcuno, specialmente se vuole agire nel sociale. Ma ci pensate? Fino a non molto tempo fa se si volevano indicare atteggiamenti reazionari, intolleranti e padronali, gli si dava del “fascista”. Ora invece, se si vuole rinfacciare qualcuno che tenta di richiamare i diritti e il rispetto delle minoranze, oltre che un senso di giustizia il cui significato sta’ diventando sempre più vago e soggettivo, allora gli si da’ rabbiosamente del “comunista”. E’ incredibile, ma così gira il mondo. Prima i nostri bisogni, si dice, e poi, se ne rimane, quelli degli altri. Detta così sembrerebbe cosa sensata, ma in realtà nasconde un profondo egoismo e indifferenza verso il destino altrui, specialmente se non è dei nostri. In ogni caso, l’importante è che questi “altri” stiano da noi il più lontano possibile.

Il fatto è che questa posizione è largamente condivisa anche tra chi si definisce “cattolico”, termine che comporta inclusione e non esclusione, con la convinzione che Galantino in fondo se le cercata ed ha sicuramente esagerato. Ma come, non è stato proprio Gesù Cristo che ha parlato di accoglienza, di condivisione, di fraternità, del dovere di aiutare chi è nel bisogno? Che ha smascherato apertamente gli atteggiamenti ipocriti e che ha parlato di un amore fino a dare la vita per gli altri? Che ha insistito affinchè le ingiustizie venissero riconosciute e combattute? E non solamente quando non comporta rischio e non intacca interessi particolari a noi vicini, ma sempre e in ogni caso. Ma quanto ci siamo allontanati dal concretizzare questo stile di vita?

Io, nel mio piccolo, i miei riferimenti ideali continuo ad averceli, insieme allo sforzo di rimanere a loro fedele. Ho anche la capacità di distinguere i sepolcri imbiancati e la sconfinata ipocrisia nella quale siamo spesso immersi. In questa ipocrisia vi è specialmente chi, con l’apparente dedizione ad alleviare le sofferenze altrui, ha il principale obiettivo di far strada a se stessoStrumentalizzare il bisogno delle persone è la cosa più miserabile che un essere umano possa fare, e chi lo fa consapevolmente, non ha nessuna attenuante e nessunissima giustificazione.

Dico papale papale, e questa locuzione riferita all’attuale Papa è azzecattissima, che chi non è disposto a far partecipi gli altri (che sono in stato di necessità) dei mezzi di sussistenza che possiede, pochi o molti che siano, tradisce un doveroso impegno verso il prossimo. E qui non si tratta di fede religiosa, politica o ideologica, ma semplicemente di riconoscere ad ogni essere umano, qualsiasi esso sia, il diritto a condurre un’esistenza dignitosa. Difficoltà e privazioni ne abbiamo un po’ tutti, ma altri ne hanno ancora di più, molte di più. Una cosa è la povertà, un’altra è la miseria. Per chi ha una fede religiosa, c’è qualcuno che ha detto che più che essere credenti, bisogna essere credibili. Non so a voi, ma a me quest’affermazione mette parecchio in crisi.