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E’ ANCORA POSSIBILE PARLARE DI NONVIOLENZA?

CNV

 

di Maria G. Di Rienzo

Fu un popolo disarmato, il popolo dell’India, a sconfiggere la  forza di occupazione britannica. Fu la pratica nonviolenta a rovesciare  strutture razziste e ingiuste come quelle sfidate da Gandhi e King.
Ma persino di fronte a questi clamorosi successi, e all’infinità di altri  che potrei citare, mi si dice: “Si’, ha funzionato perche’ gli Inglesi non  erano i nazisti, perche’ i razzisti degli stati del Sud degli Usa non erano  nazisti. Se lo fossero stati…”.
In primo luogo, non abbiamo modo di sapere se un’opposizione nonviolenta di  massa avrebbe o no sconfitto Hitler, per il semplice motivo che essa non è  stata tentata.
Ma all’interno dell’Europa occupata dai nazisti abbiamo dei ben documentati  casi di successi nonviolenti.

Citerò ad esempio la Danimarca, dove la resistenza nonviolenta fu guidata dal re in persona: egli comincio’ con il dichiarare che se gli ebrei danesi  fossero stati forzati ad indossare la “stella di Davide” lui sarebbe stato  il primo a portarla. E quando i nazisti si mossero per arrestare e deportare  gli ebrei danesi, autorita’ e popolazione del paese riuscirono a trasferirli
sani e salvi in Svezia nel giro di sole 48 ore.

In Bulgaria, la gente sedette sui binari dei treni e impedì che essi  partissero con gli ebrei a bordo verso i campi di sterminio.

In Italia, si, proprio da noi, dei treni subirono misteriosi ritardi e  furono indirizzati sui binari “sbagliati”, di modo che non arrivarono mai ai  campi.

In Norvegia, la protesta degli insegnanti fu in grado di contrastare la  nazificazione e potrei continuare.

L’altra parte della risposta concerne un mito, e cioè che tutte le  nefandezze del nazismo siano senza paragoni. Sfortunatamente non è così.

La brutale dominazione belga del Congo ha ucciso svariati milioni di  africani. E c’era ben poco di “gentile” nella dominazione britannica  dell’India o in quello che la comunita’ di colore statunitense dovette  soffrire.

Non tutte le lotte si vincono. Non le vincono tutte nè i pacifisti, nè i terroristi,  nè gli eserciti, nè le corporazioni economiche.
La nonviolenza non vince sempre: e questa non è una ragione per  abbandonarla, non piu’ di quanto lo sia per i militaristi abbandonare le  armi ove esse falliscano.  La differenza è che la nonviolenza non desidera la cancellazione e la morte  e la distruzione dei suoi avversari, ma un cambiamento radicale dell’intera  situazione. Una differenza non da poco.

Attentati Parigi: la strage, il silenzio e lo sgomento

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di Andrea Scanzi

Silenzio. Finora non ho detto né scritto nulla sui fatti di Parigi. Me lo avete chiesto di continuo (grazie), ma ho preferito deliberatamente il silenzio. Karl Kraus, in quel capolavoro inaudito che è “Gli ultimi giorni dell’umanità”, notava con toni satirico-allucinati come la Prima guerra mondiale non avesse indotto l’umanità a riflettere di più. Al contrario: tutti avevano un’opinione e dovevano esternarla, generando un cicaleccio inutilmente assordante come la coda della deandreiana La domenica delle salme.

Provo quasi invidia per chi, un attimo dopo la strage, aveva già un parere. O addirittura una soluzione. Ovviamente era quasi tutta gente che non sa nulla, ma proprio nulla, di Abu Bakr al-Baghdadi, di sciiti e sunniti, delle mirabili analisi di Zack Beauchamp, della guerra civile in Siria e del suo sconfinamento in Iraq. La stessa rivalutazione (a casaccio) delle capacità “profetiche” di Oriana Fallaci è stata tanto colpevole quanto puerile. E neanche riesco, come lavacro della coscienza, a farmi bastare un avatar col tricolore francese. Beati voi: a me non riesce, non mi viene. So che siete sinceri e senz’altro sbaglio io. Come ha scritto qualcuno – mi pare si chiamassero Gaber e Luporini – mi volto indietro e quel che provo (e trovo) è questo: “Io cohttp://pieromurineddu.myblog.it/wp-admin/post-new.phpme uomo posso dire solo ciò che sento/ cioè solo l’immagine del grande smarrimento (..) Di fronte al terrorismo e a chi si uccide c’è solo lo sgomento”. A volte, prima di parlare, occorrerebbe stare zitti (questa arriva tardi, ma arriva).

I due poli. Il dibattito, soprattutto nell’immediato, non pareva contemplare qualcosa che fosse diverso dal pacifismo tout court, che fa tanto sinistra flowerpower peace and love, oppure dal rutto becero guerrafondaio di chi si compiace nel cavalcare gli istinti peggiori dell’uomo. Impossibile una via di mezzo: uno spazio serio di dibattito. Dire (da qui) che Hollandeha sbagliato a dichiarare

guerra è molto comodo, ma se la strage fosse accaduta in Italia avrei probabilmente voluto anch’io una reazione analoga. Quantomeno nell’immediato. E non sono certo un guerrafondaio. (Anche per questo, spesso, è meglio stare zitti. Studiare. Riflettere. Per non pentirsi di quello che si è appena detto).

L’odio e Bergonzoni. Allo stato attuale, dopo lo studio e la riflessione, le lacrime e lo smarrimento, il mio stato d’animo si attesta dalle parti del marito della donna uccisa al Bataclan. Era sua moglie, ma non per questo – così ha scritto – i terroristi avranno il suo odio. E’ una lettera bellissima, come lo è l’ennesimo guizzo di genio di Alessandro Bergonzoni, che stamani trasforma sul Fatto l’invocazione “O Dio Onnipotente credo in te” in un oltremodo misericordioso – e dunque utopico – “Odio onnipotente/ Non credo in te!/ ma non ti farò una guerra spietata”. Ieri ho goduto delle parole di Moni Ovadia a Ballarò quasi che fossero un balsamo per l’anima, e persino Salvini – quasi mai condivisibile ma certo non stupido – per una volta è stato zitto e ha incassato il colpo. Mi tornano, una volta di più, le parole di Vittorio Arrigoni: “Restiamo umani”. Per meglio dire: torniamo umani. O addirittura diventiamolo: una volta per tutte.

Sì, ma la guerra serve? Tutto questo però non è una risposta politica o strategica, ma emotiva: l’unica possibile, per noi che non abbiamo ruoli di governo. Difendere la propria umanità, ove ammesso che sia presente, dovrebbe essere il nostro orizzonte quotidiano. Poi però uno si chiede: la guerra servirebbe? In primo luogo siamo già in guerra. L’Occidente la fa da decenni in Medioriente, con risultati quasi sempre disastrosi. Un certo Tony Blair, professione “macellaio ilare della sinistra” (per questo piace a Renzi), con una decina di anni di ritardo ha ammesso che la guerra in Irak era sbagliata, e che proprio la guerra ha permesso allo Stato Islamico di germogliare. Tutto vero, ma ora cos’è cambiato? Semplice: adesso la guerra è alle nostre porte. E dunque ci interessa molto di più. Finora l’Europa era stata quasi sempre salvata, a parte Madrid e Londra più di dieci anni fa. Esprimere solidarietà agli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, era facile da lontano. Con la mattanza di Charlie Hebdo è cambiato tutto. E ora che il Giubileo sta per cominciare, scopriamo di colpo quanto la nostra vita sia smisuratamente labile.

Crozza Paradox. Ieri Maurizio Crozza ha coraggiosamente sottolineato come tanti italiani si riempiano la bocca (e la bacheca) di slogan tipo “Je suis Paris”, ma poi non glie n’è mai fregato nulla delle morti lontane. Insomma: ipocrisia. Pensate ai curdi: vengono massacrati da decenni, ma non mi risultano fiaccolate nostrane. Di curdi e peshmerga si parla solo adesso perché ora all’Occidente d’improvviso fanno comodo, visto che in Iraq e Siria gli “stivali sul terreno” ce li mettono loro (e stanno” “dalla nostra parte”). Crozza ha ragione, ma è sempre stato così: i morti non sono tutti uguali. Non solo perché alcune morti sono salvifiche (esempio: Hitler) ma anche perché il morto più vicino è più morto degli altri. Perché? Perché il morto vicino ci ricorda la nostra morte. Spesso, più che compassione, la nostra è egoistica – ma umanissima – paura di morire.

E’ colpa dell’Occidente”. Certo che lo è, ma dirlo non aiuta a risolvere il problema. Non del tutto. Saddam Hussein, per lungo tempo, agli Stati Uniti ha fatto comodo. La Francia è intervenuta in Siria contro il despotismo di Assad, finendo però col fare il gioco dell’Isis (e dando addirittura ragione a Putin, che infatti adesso in Francia – e non solo – è tornato di moda). Anche l’Italia resta equivoca: che rapporti ha Renzi con gli emiri, che ha riverito anche di recente in alcuni dei suoi viaggi tragicomici? Ed è proprio necessario vendere altri caccia Eurofighter al Kuwait per 8 miliardi con la compartecipazione di Governo e Alenia (cioè gruppo Finmeccanica), con la scusa che “il Kuwait è nostro alleato e pure moderato”? Esaurite l’analisi e l’autoanalisi atte a individuare il colpevole, resta il problema di fondo: che fare concretamente? Bombardare? Non reagire? Azzerare i finanziamenti (a chi? All’Isis, che i soldi se li procaccia benissimo già da solo col suo autogoverno)? Oppure, come sento ripetere ovunque come un mantra, “Operare con un’attenta intelligence?” (che vuol dire, di grazia?). Io non ho soluzioni, ma mi fanno un po’ sorridere quelli che alla mattanza reagiscono prendendosela con Belpietro (che resta Belpietro: lo scoprite adesso?) o invocando la misericordia. E’ un atteggiamento che va certo perseguito come esseri umani, ma se foste governanti cosa fareste? Vale anche per i 5 Stelle, che hanno avuto il merito di attendere prima di dare una risposta – per il frastuono inutile bastavano Fiano e Luttwak – ma che hanno poi dato risposte eticamente accettabilissime ma concretamente fumose.

E l’Italia che farà? Neanche l’Italia lo sa ancora. E’ ovvio che, appellandosi all’articolo 42.7 del Trattato di Lisbona, la Francia non chiede all’Europa soltanto “un appoggio morale”, come tartagliava un po’ pateticamente ieri il rutilante Gentiloni a Otto e mezzo (mamma mia, in che mani siamo). La Francia ci chiede di intervenire militarmente. Magari non con nuove milizie a terra, ma verosimilmente intensificando le attività aeree e di informazione. Al momento la Francia è parsa comprensibilmente confusa e drammaticamente impreparata sul fronte dell’intelligence, ambito – per quanto possa sembrare assurdo – in cui invece l’Italia sa eccellere.

Purtroppo siamo abituati a fronteggiare terrorismo e malavita organizzata. E questo ci ha tenuto allenati. Gli stessi Servizi Segreti, quando non deviati, non sono privi di eccellenza. Resta però il quesito dirimente: che fare concretamente? Renzi è un politico imbarazzante quando si occupa di politica interna, di questione morale, di economia. E ha pure una “classe dirigente” che fa quasi sempre pena. E’ un disastro e si sa. In questi giorni, almeno per ora, sta però usando toni equilibrati e ponderati. Ha giustamente tirato per le orecchie il ministro Pinotti (sì, la Pinotti è un ministro), che aveva straparlato di bombardamenti, e lui stesso sarà terrorizzato all’idea di dipendere da Gentiloni. E’ una fortuna – se non altro – che oggi al governo non ci sia un premier guerrafondaio (Berlusconi, Salvini). Renzi sta prendendo comprensibilmente tempo. Forse perché è sgomento pure lui, forse perché un intervento armato non sarebbe elettoralmente redditizio. Non è dato sapere. Ma è già qualcosa.

Il santanchismo. Gli attentati parigini, pensati e commessi – giova ricordarlo – da terroristi ritenuti “troppo eccessivi” persino da Al Qaeda, hanno ovviamente ringalluzzito le carampane querule dell’ignoranza. Sono in servizio permanente in tivù, possibilmente da shampiste fraintese per giornaliste. Straparlano genericamente di musulmani, dimenticando per esempio che l’uomo che ha evitato la strage allo Stade de France era musulmano. O che il 95% delle vittime del sedicente Stato Islamico è a sua volta islamico. Di fronte alle tragedie e alle paure, gli avvoltoi dell’odio sono i primi a volare. Per questo sarà dura non cedere alla rabbia e all’odio. Ma occorre provarci. Anzi riuscirci.

P.S. Qualche caso umano, che non cito perché “se gli sputo li profumo”, ha colto l’occasione in questi giorni per spalare merda su Emergency. E’ gente così repellente, intendo non solo fisicamente, che perfino la repellenza si vergogna di albergare in loro. Io, per quel che vale, trovo che essere connazionale di Gino Strada sia una cosa bellissima. E ne vado fiero.

 

“Signore, disarmali. E disarmaci”: sia la nostra risposta

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di Enzo Bianchi

​”Signore, disarmali! Signore disarmaci!”. Così pregavano al cuore della bufera algerina i monaci trappisti di Tibhirine. E, in chi crede, tale preghiera sorge spontanea di fronte a efferatezze che di umano hanno solo il raziocinio con cui vengono progettate e realizzate. È un nuovo pezzo incandescente di quella «terza guerra mondiale» parcellizzata nella quale non si riesce a capire – o i pochi non vogliono che i molti capiscano – chi arma chi e a che scopo.

Disarmare chi uccide senza pietas pare al di là delle nostre forze, come pure supera le nostre capacità il disarmare i nostri sentimenti e renderli degni di quell’umanità che non riconosciamo nell’altro quando assume i tratti del carnefice. Per questo l’autentico disarmo, interiore ed esteriore, è da invocare da Dio come dono ed è da ricercare con le nostre forze come profezia. Disarmati, potremmo forse trovare il tempo e la lucidità per porci interrogativi che oggi l’angoscia e il pianto soffocano nella rabbia dell’impotenza. Siamo di fronte a disperati che seminano disperazione? Oppure cinici burattinai stanno giocando al massacro in una lotta di potere che gli uni rivestono di un manto religioso sempre più abusato e falso e gli altri abbelliscono con richiami ipocriti a valori negati nei comportamenti verso gli altri?

Purtroppo solo il terrorismo sembra capace di causare l’insurrezione delle nostre coscienze, ma noi non vogliamo vederne le cause, né assumerci le responsabilità per tutte le situazioni che lo hanno favorito o che ne diventano l’humus. La rivolta delle nostre coscienze dovrebbe avvenire non solo quando siamo colpiti nella nostra Europa, ma sempre, quando si scatena la barbarie e uomini, donne e bambini ne sono vittime: si pensi a quanto avviene quotidianamente in Siria o in Iraq… Ovunque un essere umano è ucciso, l’umanità intera dovrebbe sentirsi ferita.

Parlare di tragica spirale di violenza non è figura retorica: quando ci si lascia trascinare nel vortice della morte e si cerca di venirne fuori con armi speculari e contrapposte, quando si vede il turbine montare e ci si avvita a ritroso per incolpare gli uni o gli altri di averne innescato il moto, allora la velocità stessa del vortice accelera, fino a travolgere tutto: i fini perversi come le buone intenzioni, i torti e le ragioni, i giusti e i malvagi, i sommersi e i salvati.

«Non c’è giustificazione né religiosa né umana» per simili atti, ha proclamato con voce rotta papa Francesco. Perché la religione non implica guerra e morte violenta, mentre la ragione umana è contraddetta alla radice dalla negazione dell’umanità del proprio simile. Rispondere da esseri umani e da credenti a gesti disumani e contrari alla religione implica allora il ripudio dell’«occhio per occhio» e il fondare i nostri gesti su ciò che è giusto e retto, su ciò che la dignità dell’uomo e la volontà di Dio mostrano al nostro intimo come fonte di shalom, di pace e vita piena. E non cedere alla logica della morte che invoca altra morte.

Il giorno dello scoppio della seconda guerra mondiale, così scriveva il poeta Wystan Auden: «Senza difesa il nostro mondo / giace sotto la notte attonito; / eppure, accesi ovunque, / ironici punti di luce / lampeggiano là dove i Giusti / si scambiano i loro messaggi: / oh, che io possa, composto come loro / d’Eros e di polvere, / assediato dalla medesima / negazione e disperazione, / mostrare una fiamma affermativa».

Ecco, possano i nostri silenzi oranti, le nostre parole accorate, le nostre azioni meditate, le nostre vite donate mantenere acceso un lucignolo affermativo, così che altri possano a loro volta mostrare una fiamma di speranza. «Se questo è un uomo», invitava a chiederci Primo Levi nel baratro del disumano: non rassegniamoci a ripetere la stessa domanda dopo settant’anni e altri milioni di morti di una tragica guerra a puntate.

Lorenzo Milani, coscienza critica del sistema sociale di ieri e di oggi


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di Piero Murineddu

Sempre alla ricerca di figure significative che diano stimolo rinnovato allo spirito critico che ritengo sempre necessario, in questi giorni la figura di don Lorenzo Milani ha catalizzato la mia attenzione. Un giovane di madre ebrea che quando si è convertito al cattolicesimo ha ritenuto inevitabile diventare prete ( “Quando don Milani si converte al cattolicesimo  ha già scelto di essere prete, fra i due momenti non c’è soluzione di continuità e la vita sacerdotale sostanzia la sua fede” (Giuseppe Fornari). Pensando che un parroco non può limitarsi ad occuparsi esclusivamente dell’aspetto spirituale dei suoi parrocchiani, o meglio, con la convinzione che il messaggio cristiano si rivolge all’intera vita, individuale e collettiva, e che propone quindi la liberazione da tutto ciò che impedisce la realizzazione dell’umanità nella sua completezza, don Lorenzo rimane molto coinvolto nelle problematiche sociali, prendendo posizioni in favore della giustizia, cosa che naturalmente dava fastidio a chi deteneva il potere. Per questo motivo, pensando di farlo tacere e di renderlo innocuo, dal suo vescovo viene confinato a Barbiana, una minuscola località di montagna, non immaginando che questo posto sarebbe diventato un faro per la costruzione del concetto di “comunità educativa e di ricerca”, dove non ci sono più coloro che hanno il compito esclusivo d’insegnare e altri quello di apprendere, cosa che comporta l’esercizio di un potere non sempre liberante per i destinatari e la formazione di gerarchie, ma tutti insegnano e tutti imparano (leggi l’ultima parte dell’articolo che segue).

Ho sempre ritenuto don Milani e la sua opera punto di riferimento di particolare importanza, e oggi a maggior ragione, vedendo dissolversi sempre più quei valori di solidarietà  e di attenzione reciproca che hanno fatto si che la nostra convivenza, seppur caratterizzata da innumerevoli problemi, andasse avanti in modo sufficientemente pacifica, senza arrivare, almeno per ora, a conflittualità estreme.

Nei giorni scorsi, alla ricerca di pubblicazioni su di lui che ricordavo di avere, ho finalmente dedicato del tempo a spulciare tra i tanti volumi messi più o meno alla rinfusa negli scaffali di casa. In mezzo a tantissima carta, grande è stata la soddisfazione ogni qualvolta i titoli riconducevano a don Lorenzo, compreso uno scritto dal suo amico David Maria Turoldo, altra dinamica e significativa figura di religioso e poeta venuto a mancare ormai nel lontano 1992. I libri ritrovati per adesso li ho accatastati nel comodino, con la speranza di poterli sfogliare quanto prima e poter approfondire sempre più la conoscenza di un uomo che ha dedicato la sua vita e il suo impegno sacerdotale per l’elevazione umana, sociale e culturale dei ragazzi di campagna di cui aveva deciso di prendersi cura.

Nel mentre mi è capitato sotto l’occhio un articolo apparso su Adista,  “agenzia di stampa romana sul mondo cattolico e sulle realtà religiose”, nel febbraio 2009, su un convegno dal titolo “Don Lorenzo Milani. L’opera, l’attualità, la generatività”.

Ne ho stralciato una parte, riportando in rosso i passaggi che personalmente ritengo più interessanti. L’offro alla tua attenzione.

 

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Don Lorenzo Milani, “coscienza critica” dell’Italia di oggi

di Luca Kocci

Più citato che letto, don Lorenzo Milani andrebbe invece non solo riletto ma anche studiato perché la sua opera costituisce la “coscienza critica del Paese”. Così Paolo Perticari, docente di Pedagogia generale e di Filosofia dell’educazione all’Università di Bergamo. “Quando lo si legge in realtà ci si sente letti”, ebbe a dire José Luis Corzo, religioso scolopio spagnolo docente di Teologia pastorale all’Università pontificia di Salamanca – fondatore fin dagli anni ‘70 di diverse scuole popolari ‘milaniane’ in Spagna.

Il tuttuno del maestro e del prete: “Barbiana è una cannonata pedagogica e cristiana innanzitutto perché Milani arriva a quella scuola mosso dalla fede e poi perché la conquista della lingua da parte dei piccoli montanari del Mugello era la via necessaria non solo per l’emancipazione sociale ma anche per il raggiungimento della fede annunciata tramite la parola”. Una parola, quindi, necessaria “per comprendere ed entrare in relazione con se stessi, con gli altri, con il mondo e anche con Dio”.(José Luis Corzo)

“Don Milani in una lettera a sua madre del 1952, riferendosi al suo servizio pastorale a Calenzano, scriveva di essere convinto ‘che le cariche di esplosivo che ci ho ammonticchiato in questi cinque anni non smetteranno di scoppiettare per almeno cinquanta anni sotto il sedere dei miei vincitori’. Io credo che quella dinamite – che ancora scoppia – si trovi anche sotto le sedie degli ecclesiastici”. (p.Chioso)

Risuona da anni, mettendo in libera uscita anche una buona dose di ovvietà, la domanda sulla riproducibilità e l’esportabilità della scuola di Barbiana. Un dibattito che lo stesso don Lorenzo Milani sembra aver chiuso prima ancora del suo avvio, con la lettera inviata nel settembre 1960 ad una delle sue ‘benefattrici’, Elena Brambilla Pirelli, sorella dell’industriale Alberto Pirelli: “I miei eroici piccoli monaci che sopportano senza un lamento e senza pretese 12 ore quotidiane feriali e festive di insopportabile scuola e ci vengono felici, non sono affatto eroi, ma piuttosto dei piccoli svogliati scansafatiche che hanno valutato (e a ben ragione) che 14 o anche 16 ore nel bosco a badar pecore son peggio che 12 a Barbiana a prender pedate e voci da me. Ecco il grande segreto pedagogico del miracolo di Barbiana. Ognun vede ch’io non ci ho merito alcuno e che il segreto di Barbiana non è esportabile né a Milano né a Firenze. Non vi resta dunque che spararvi”.

Ma chi ha familiarità con il linguaggio affilato e volutamente urtante di don Milani, sa che la questione è tutt’altro che chiusa.  Afferma Giuseppe Fornari: “don Milani è un uomo complesso, una “personalità non risolta”, un “santo senza aureola” ben diverso dall’idea di santità trasmessa dalla Chiesa che invece vuole “santi che facciano intravedere un paradiso già in Terra”, un “uomo di conflitto” e “pieno di contraddizioni”.  “Don Milani non era un pedagogista, non aveva un’idea di educazione – dice Fornari –  ma aveva una grande capacità di farsi coinvolgere dal mondo: ad un certo punto della sua vita si è incontrato con “l’abisso dell’ignoranza” dei giovani di Calenzano e dei ragazzi di Barbiana e ha deciso di mettersi in gioco, “usando se stesso e le sue contraddizioni” per tentare di colmare quest’abisso di ignoranza, senza avere un metodo, ma cercandolo e sperimentandolo giorno dopo giorno. E questa è stata, secondo Fornari, la grande intuizione di don Milani e il ‘segreto’ del suo successo educativo: “Insegnare per come si è, assumendo i propri conflitti e le proprie contraddizioni perché divengano creative, amare i ragazzi per quello che sono e voler essere amato per quello che egli è, in una sorta di passione reciproca. Don Milani era coinvolto totalmente nella relazione educativa, e solo così funziona l’educazione che altrimenti si risolve in mera trasmissione di contenuti. Questa è l’unica vera educazione, umanamente imperfetta ma potente, perché mette in luce le imperfezioni e le affronta creativamente”.

L’amore personale e concreto per i propri allievi, per il loro contesto sociale e per il loro ambiente”, concorda Fulvio Manara, docente di Pedagogia sociale all’Università di Bergamo, è il ‘segreto’ di Barbiana. Ma anche, a livello più pratico, la costruzione di una “comunità educativa e di ricerca” dove “i grandi aiutano i più piccoli” e quindi in cui “si impara tutti insieme e tutti imparano da tutti”, in un “tessuto di relazioni personali” e in un “dialogo dialogale”, come diceva Raimon Panikkar. “Nessuno educa nessuno, ci educhiamo insieme, e in mezzo a noi si trova il mondo”, diceva Paulo Freire, citato da José Luis Corzo, che aggiunge: “Il rapporto del maestro con gli allievi non è immediato, proprio perché in mezzo c’è il mondo. Educare infatti, a differenza di insegnare e imparare, è un verbo intransitivo: si può quindi insegnare ed imparare qualcosa, ma ci educhiamo solo insieme, a partire dalle sfide del mondo”. E il mondo, oltre a costituire la mediazione, è anche il punto di arrivo, dice ancora Manara. “A Barbiana lo studio autentico e l’uso della parola non servivano per fare discorsi ma per intendersi, erano cioè orientati verso un dialogo vivo. Il fine non era l’apprendimento in sé, ma il servizio al mondo. Infatti la parola, a partire da quella di don Lorenzo, non era una parola che anestetizza ma di incontro e scontro con il mondo”.

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Versi che narrano il coraggio nelle donne del Vangelo

 

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Eravamo in molte,

povere e ricche,

libere e schiave,

eravamo donne,

donne e malate,

malate di desiderio,

la legge dei padri ci prescrisse un destino non scelto,

ma noi rompemmo i vincoli,

spezzammo i divieti,

lasciammo le case,

voltammo le spalle ai destini segnati …..

ci riprendemmo la vita

 

Per riprendersi la vita è necessario parecchio coraggio. Questo Coraggio ci viene descritto da Rita Clemente nei suoi versi, dove le donne di cui si parla nel Vangelo raccontano dell’Incontro che ha cambiato la loro vita. Un Incontro forse inaspettato ma intimamente tanto desiderato, un Incontro che ha dato  la gioiosa certezza di sentirsi finalmente accettati per quello che realmente si è senza doversi mascherare e senza la preoccupazione di dover rispondere alle altrui aspettative, liberi da ogni corazza protettiva che spesso porta ad essere aggressivi e falsifica i rapporti. Quello che forse vorremmo essere tutti.  Un Incontro che fa riprendere la propria vita e porta ad un amore che non è possesso, ma donazione.

L’autrice, insegnante in pensione, scrive poesie, racconti e testi teatrali, oltre che occuparsi di integrazione sociale e Intercultura. E’ inoltre coordinatrice del Comitato Pace e Cooperazione di Chieri.

Quelle che seguono sono brevi considerazioni sul libretto di Enrico Peyretti, intellettuale impegnato nel Movimento Nonviolento e Pacifista e animatore delle Comunità di Base, sorte all’interno del variegato mondo Cattolico e che probabilmente più di altri (e spesso con sana ed entusiasta inquietudine) fanno un continuo lavoro di attualizzazione del Messaggio Evangelico.

Chi è interessato all’acquisto, può contattare direttamente l’autrice ritaclemr@libero.it    (Pi.Mu.)

 

 

Anche i vangeli vanno scossi, aperti, squarciati…..

di Enrico Peyretti

Cara Rita, ti dico subito che le donne che cantano e piangono, sempre vivissime, nelle tue pagine, mi hanno molto e lungamente commosso e innamorato. Permetti che dica questa mia commozione ad un po’ di amiche e amici. Le donne del vangelo, del cammino e della vita di Gesù, parlano tuo tramite con una autenticità diretta, che estrae scoppi di nuda vita da libri che abbiamo troppo imbalsamato nell’abitudine. Anche i vangeli vanno scossi e aperti, squarciati perché non diventino sepolcri religiosi, e le donne vive e frementi sono lì per questo. Hai fatto cosa bella e vera nel dare la tua voce, con immaginazione interpretante, e con bellezza, a quelle donne che videro e toccarono Gesù, per dire a noi chi Gesù fu per loro, e come lo compresero, e come lui le amò e le liberò. Erano voci secondarie, nella lunga tradizione, e tu, come tante altre studiose ascoltanti-parlanti, le hai portate in primo piano, come è giusto, accanto a figure e parole più note. E, dentro le parole, ci fai intravedere anime che impregnano la carne di spirito, trepidanti di vita intera. Anche la terrestrità di Maria di Nazareth, richiamata giù da nuvole celestiali, ce la rende più vera e vicina. Esegeti, critici letterari, diranno la loro, io ti dico la mia emozione nell’ammirare questa cerchia di donne innamorate di Gesù, perciò di tutta la vita, anche la nostra, di ciascuno. Vorrei che il tuo libretto che merita diffusione andasse anche in commercio, e se tira su quattro soldi, queste donne intraprendenti continueranno a fare la spesa, come allora, per il cammino di Gesù. Ti ringrazio molto di quel che ci hai messo dentro, di loro e di tuo.

 

 

 

 

Intervista al Papa del giornale olandese di strada “Straatnieuws”

Papa Francesco - ANSA

 

È ancora presto quando ci presentiamo al portone di servizio del Vaticano, a sinistra della Basilica di San Pietro. Le guardie svizzere sono al corrente del nostro arrivo e ci fanno passare. Dobbiamo andare alla Casa Santa Marta, perché è lì dove abita Papa Francesco. Quella Casa Santa Marta probabilmente è l’hotel a tre stelle più particolare del mondo. Un grande edificio bianco dove pernottano cardinali e vescovi che svolgono il loro servizio in Vaticano o vi si trovano di passaggio e che è anche la dimora dei cardinali durante il conclave.

Anche qui sanno del nostro arrivo. Due signore alla reception, come in ogni albergo, gentilmente ci indicano una porta laterale. La stanza dell’incontro è già stata preparata. Uno spazio abbastanza grande con una scrivania, un sofà, alcune tavole e sedie, questo è il luogo di ricevimento infrasettimanale del Papa. Poi, inizia l’attesa. Marc, il venditore di Straatnieuws, è il più tranquillo di tutti e aspetta, seduto sulla sedia, ciò che verrà.

Di colpo si presenta il fotografo ufficiale del Papa.  “Sta arrivando il Papa”, ci bisbiglia.

E prima che ce ne rendiamo conto entra nella stanza: Papa Francesco, il capo spirituale di 1,2 miliardi di cattolici. Porta con sé una grande busta bianca. “Mettetevi seduti, amici”, dice con un gesto gentile della mano, “Che piacere che siate qui.” Il Santo Padre dà l’impressione di un uomo calmo e amichevole, ma allo stesso tempo energico e preciso. Una volta seduti si scusa per il fatto di non parlare l’olandese. Glielo perdoniamo subito.

D – Le nostre interviste iniziano sempre con una domanda sulla via dove l’intervistato è cresciuto. Lei, Santo Padre, cosa si ricorda di quella via? Che immagini Le vengono in mente pensando alle strade della Sua infanzia?

R – “Io da quando avevo un anno fino al momento che sono entrato in seminario, ho vissuto nella stessa via. Era un quartiere semplice di Buenos Aires, tutte case basse. C’era una piazzetta, dove noi giocavamo a calcio. Mi ricordo che scappavo da casa e andavo a giocare a calcio con i ragazzi dopo la scuola. Poi mio papà lavorava in una fabbrica che era a cento metri. Faceva il ragioniere. E i nonni abitavano a cinquanta metri. Tutto a pochi passi l’uno dall’altro. Io mi ricordo anche i nomi della gente, da prete sono andato a dare i sacramenti, il conforto ultimo a tanti,  che mi chiamavano e ci andavo perché volevo loro bene. Questi sono i miei ricordi spontanei.”

D – Lei giocava anche a calcio?

R. – “Si”

D. – Era forte?

R. – “No. A Buenos Aires a quelli che giocavano il calcio come me, li chiamavano pata dura. Che vuol dire avere due gambe sinistre. Ma giocavo, facevo il portiere tante volte.”

D. – Com’è nato il suo impegno personale per i poveri?

R. – “Si, tanti ricordi mi vengono in mente. Mi ha colpito tanto una signora che veniva a casa tre volte alla settimana per aiutare la mia mamma. Per esempio aiutava in lavanderia. Lei aveva due figli. Erano italiani, siciliani e hanno vissuto la guerra, erano molto poveri, ma tanto buoni. E di quella donna ho sempre mantenuto il ricordo. La sua povertà mi colpiva. Noi non eravamo ricchi, noi arrivavamo alla fine del mese normalmente, ma non di più. Non avevamo una macchina, non facevamo le vacanze o tali cose. Ma a lei mancavano tante volte le cose necessarie. Noi avevamo abbastanza e mia mamma le dava delle cose. Poi lei è tornata in Italia, e dopo è ritornata in Argentina. L’ho ritrovata quando ero arcivescovo di Buenos Aires, aveva 90 anni. E l’ho accompagnata fino alla morte  a 93 anni. Un giorno lei mi ha dato una medaglia del Sacro Cuore di Gesù che porto ancora ogni giorno con me. Questa medaglia -che è anche un ricordo – mi fa tanto bene. Vuole vederla? “

(Con un po’ di fatica, il Papa riesce a tirar fuori la medaglia, completamente scolorita dopo essere stata portata per anni).

“Così penso a lei ogni giorno e a quanto ha sofferto per la povertà. E penso a tutti gli altri che hanno sofferto. La porto e la prego….”

D. – Qual è il messaggio della Chiesa per i senzatetto? Che cosa significa la solidarietà cristiana per loro in concreto?

R. – “Mi vengono due cose in mente. Gesù è venuto al mondo senzatetto e si è fatto povero. Poi la Chiesa vuole abbracciare tutti e dire che è un diritto di avere un tetto sopra di te. Nei movimenti popolari si lavora con tre ‘t’ spagnole, trabajo (lavoro), techo (casa) e tierra (terra). La chiesa predica che ogni persona ha il diritto a queste tre ‘t’. “

D. – Lei chiede spesso attenzione per i poveri e per i profughi. Non teme che in questo modo si possa generare una forma di stanchezza nei mass-media e nella società in generale?

R. – “A tutti noi viene la tentazione – quando si torna su un tema che non è bello, perché è brutto parlarne – di dire: “Ma, finiamo: questa cosa, stufa troppo “. Io sento che la stanchezza esiste, ma non mi fa paura. Io devo continuare di parlare delle verità e di come sono le cose.”

D. – È il suo dovere?

R. – “Si, è il mio dovere. Lo sento dentro di me. Non è un comandamento, ma come persone tutti dobbiamo farlo. “

D. – Non teme che la Sua difesa della solidarietà e dell’aiuto per i senzatetto e altri poveri possa essere sfruttata politicamente? Come deve parlare la Chiesa per essere influente e allo stesso tempo rimanere fuori dagli schieramenti politici?

R. – “Ci sono strade che portano a sbagli in quel punto. Vorrei sottolineare due tentazioni. La Chiesa deve parlare con la verità e anche con la testimonianza: la testimonianza della povertà. Se un credente parla della povertà o dei senzatetto e conduce una vita da faraone: questo non si può fare. Questa è la prima tentazione. L’altra tentazione è di fare accordi con i governi. Si possono fare accordi, ma devono essere accordi chiari, accordi trasparenti. Per esempio: noi gestiamo questo palazzo, ma i conti sono tutti controllati, per evitare la corruzione. Perché c’è sempre la tentazione della corruzione nella vita pubblica. Sia politica, sia religiosa.  Io ricordo che una volta con molto dolore ho visto -quando l’Argentina sotto il regime dei militari è entrata in guerre con la Gran Bretagna per le Isole Malvine `che la gente dava delle cose, e ho visto che tante persone, anche cattolici, che erano incaricati di distribuirle, le portavano a casa. C’è sempre il pericolo della corruzione.  Una volta ho fatto una domanda a un ministro dell’Argentina, un uomo onesto. Uno che ha lasciato l’incarico perché non poteva andare d’accordo con alcune cose un po’oscure Gli ho fatto la domanda: quando voi inviate aiuti, sia pasti, siano vestiti, siano soldi, ai poveri e agli indigenti: di quello che inviate, quanto arriva là, sia in denaro sia in spesa? Mi ha detto: il 35 per cento. Significa che il 65 per cento si perde. È la corruzione: un pezzo per me, un altro pezzo per me.”

D. – Lei crede che finora nel suo pontificato ha potuto ottenere un cambiamento mentale, per esempio nella politica?

R. – “Non saprei cosa dire. Non lo so. So che alcuni hanno detto che io ero comunista. Ma è una categoria un po’ antiquata (ride).  Forse oggi si usano altre parole per dire questo…”

D. – Marxista, socialista…

R. – “Hanno detto tutto questo.”

D. – I senzatetto hanno dei problemi finanziari, ma coltivano la propria libertà.  Il papa non ha nessun bisogno materiale, ma è considerato da alcuni come un prigioniero in Vaticano. Non sente mai il desiderio di mettersi nei panni di un senzatetto?

R. – “Mi ricordo il libro di Mark Twain ‘Il principe e il povero’, quando uno può mangiare tutti i giorni, hai vestiti, hai un letto per dormire, hai una scrivania per lavorare e non manca niente. Hai anche degli amici. Ma questo principe di Mark Twain vive in una gabbia d’oro.”

D. – Si sente libero qui in Vaticano?

R. – “Due giorni dopo essere eletto papa, sono andato (nella versione olandese: “come si dice ufficialmente”) a prendere possesso dell’appartamento papale nel Palazzo Apostolico. Non è un appartamento lussuoso. Ma è largo, è grande… Dopo aver visto questo appartamento mi è sembrato un imbuto al rovescio, cioè grande ma con una porta piccola. Questo significa essere isolato. Io ho pensato: non posso vivere qua semplicemente per motivi mentali. Mi farebbe male. All’inizio sembrava una cosa strana, ma ho chiesto di restare qui, a Santa Marta. E questo mi fa bene perché mi sento libero. Mangio nella sala pranzo dove mangiano tutti. E quando sono in anticipo mangio con i dipendenti. Trovo gente, la saluto e questo fa che la gabbia d’oro non sia tanto una gabbia. Ma mi manca la strada.”

D. Santo Padre, Marc vuole invitarla per andare a mangiare una pizza con noi. Che ne pensa?

R. – “Mi piacerebbe, ma non riusciremmo a farlo. Perché il momento che esco da qua verrà la gente da me.  Quando sono andato a cambiare le lenti dei miei occhiali in città, erano le sette di sera. Non c’era molta gente in strada. Mi hanno portato dall’ottico e sono uscito della macchina e lì c’era una donna che mi ha visto e ha gridato: “Ecco il papa.” E poi io ero dentro e fuori tutta la gente …”

D. – Le manca il contatto con la gente?

R. – “Non mi manca perché la gente viene qua. Ogni mercoledì vado in piazza per l’Udienza Generale, qualche volta vado in una parrocchia: sono in contatto con la gente. Per esempio ieri (26 ottobre) sono venuti più di cinquemila zingari nell’Aula Paolo VI.”

D. – Si vede che lei gode di questo giro nella piazza durante l’Udienza Generale…

R. – “È vero. Si, è vero.”

D. – Il Suo omonimo San Francesco scelse la povertà radicale e vendette anche il suo evangeliario. In quanto papa, e vescovo di Roma, si sente mai sotto pressione per vendere i tesori della Chiesa?

R. – “Questa è una domanda facile. Non sono i tesori della Chiesa, ma sono i tesori dell’umanità. Per esempio, se io domani dico che la Pietà di Michelangelo venga messa all’asta, non si può fare, perché non è proprietà della Chiesa. Sta in una chiesa, ma è dell’umanità. Questo vale per tutti i tesori della Chiesa. Ma abbiamo cominciato a vendere dei regali e altre cose che mi vengono date. E i proventi della vendita vanno a monsignore Krajewski, che è il mio elemosiniere. E poi c’è la lotteria. C’erano delle macchine che sono tutte vendute o date via con una lotteria  e il ricavato è usato per i poveri. Ma ci sono cose che si possono vendere e queste si vendono.”

D. – Si rende conto che la ricchezza della Chiesa possa creare questo tipo di aspettative?

R. – “Si, se facciamo un catalogo dei beni della Chiesa, si pensa: la Chiesa è  molto ricca. Ma quando è stato fatto il Concordato con l’Italia 1929 sulla Questione Romana, il governo italiano di quel tempo ha offerto alla Chiesa un grande parco a Roma. Il papa di allora, Pio XI, ha detto: no, vorrei soltanto un mezzo chilometro quadrato per garantire la indipendenza della Chiesa. Questo principio vale ancora. Sì, i beni immobili della Chiesa sono molti, ma  li usiamo per mantenere le strutture della Chiesa e per mantenere tante opere che si fanno nei paesi bisognosi: ospedali, scuole. Ieri, per esempio, ho chiesto di inviare in Congo 50.000 euro per costruire tre scuole in paesi poveri, l’educazione è una cosa importante per bambini. Sono andato all’amministrazione competente, ho fatto questa richiesta e i soldi sono stati inviati.”

D. – Parliamo di Olanda. Lei è mai stato nel nostro Paese?

R. – “Si, una volta quando ero superiore provinciale dei gesuiti dell’Argentina. Ero di passaggio nel corso di un viaggio. Sono stato a Wijchen, perché lì i avevano il noviziato, e sono anche stato ad Amsterdam per un giorno e mezzo, dove ho visitato una casa dei gesuiti. Della vita culturale non ho visto niente perché non avevo tempo.”

D. – Per questo potrebbe essere una buona idea se i senzatetto di Olanda La invitassero per una visita al nostro paese. Che ne pensa, Santo Padre?

R. – “Le porte non sono chiuse a questa possibilità.”

D. Cosi, quando ci sarà una tale richiesta, Lei la prenderà in considerazione?

R. – “La considero. E adesso che l’Olanda ha una regina argentina (ride), chissà.”

D. – Ha forse un messaggio speciale per i senzatetto del nostro Paese?

R. – “Non conosco bene i particolari dei senzatetto in Olanda. Vorrei dire che l’Olanda è un paese sviluppato con tante possibilità. Io direi di chiedere ai senzatetto olandesi di continuare a lottare per le tre ‘t’. “

Alla fine anche Marc fa alcune domande. Vuole sapere, tra l’altro, se il Papa già da piccolo sognava di diventare Papa. Il Santo Padre risponde con un risoluto ‘No”.

R. – “ Ma dirò una confidenza. Quando ero piccolo non c’erano i negozi dove si vendevano le cose. Invece c’era il mercato dove si trovava il macellaio, il fruttivendolo eccetera. Io ci andavo con la mamma e la nonna per fare le spese. Ero piccolino, avevo quattro anni. E una volta mi hanno domandato: ‘Cosa ti piacerebbe fare da grande?’ Ho detto: il macellaio!”

D. – Per molti fino al 13 marzo 2013 Lei era uno sconosciuto. Poi da un momento all’altro, Lei è diventato famoso in tutto il mondo. Come ha vissuto quest’esperienza?

R. – “È venuto e non l’aspettavo. Non ho perso la pace. E questo è una grazia di Dio. Non penso tanto al fatto che sono famoso. Dico a me stesso: adesso ho un posto importante, ma in dieci anni nessuno ti consocerà più (ride). Sai, ci sono due tipi di fama: la fama dei ‘grandi’ che hanno fatto grandi cose, come Madame Curie, e la fama dei vanitosi. Ma quest’ultima fama è come una bolla di sapone.”

D. – Così, Lei dice ‘adesso sono qua e devo fare il meglio’ e continuerà questo lavoro fino a quando ne sarà in grado?

R. – Sì.

D. – Santo Padre, si può immaginare un mondo senza poveri?

R. – “Io vorrei un mondo senza poveri. Noi dovremmo lottare per questo. Ma io sono un credente e so che il peccato è sempre dentro di noi. E la cupidigia  umana c’è sempre, la mancanza di solidarietà, l’egoismo che crea i poveri. Per questo mi sembra un po’ difficile immaginare un mondo senza poveri.  Se Lei pensa ai bambini sfruttati per lavoro schiavo, o ai bambini sfruttati per abuso sessuale. E un’altra forma di sfruttamento: uccidere bambini per togliere gli organi, il  traffico di organi. Uccidere i bambini per togliere gli organi è cupidigia. Per questo non so se lo faremo questo mondo senza poveri, perché il peccato c’è sempre e ci porta l’egoismo. Ma dobbiamo lottare, sempre, …sempre”.

 

Abbiamo finito. Ringraziamo il Papa per l’intervista. Anche lui ci ringrazia e dice che il colloquio gli è piaciuto molto. Poi prende la busta bianca che per tutto il tempo è rimasta accanto a lui sul sofà ed estrae per ognuno di noi un rosario. Vengono scattate delle foto e poi Papa Francesco si congeda. Così tranquillo e rilassato com’è arrivato, ora esce dalla porta.

Le campane suonano a festa per la caduta di Marino?

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di Luca Kocci
Fra coloro che esul­tano per la caduta del sin­daco di Roma Igna­zio Marino, un posto in prima fila spetta al car­di­nale Angelo Bagna­sco. «Roma ha biso­gno di un’amministrazione, di guide, che la città merita mol­tis­simo, tanto più in que­sto momento in cui il Giu­bi­leo è alle porte. Ci augu­riamo che Roma possa pro­ce­dere a testa alta e con grande effi­cienza», ha dichia­rato ieri il pre­si­dente della Cei a Radio Vaticana, appena lo scio­gli­mento del con­si­glio comu­nale è apparso sicuro. E ha rin­ca­rato L’Osservatore Romano: la vicenda ha assunto «i con­torni di una farsa», «al di là di ogni altra valutazione resta il danno, anche di imma­gine, arre­cato a una città abi­tuata nella sua sto­ria a vederne di tutti i colori, ma rara­mente espo­sta a simili vicende».
È noto il “tem­pi­smo” delle gerar­chie eccle­sia­sti­che che, forse fedeli alla mas­sima maoi­sta di «basto­nare il cane che annega», affon­dano il colpo di gra­zia a un uomo di governo solo quando è poli­ti­ca­mente morto, quindi inser­vi­bile. È acca­duto così anche con Ber­lu­sconi, “sco­mu­ni­cato” dallo stesso Bagna­sco solo nel set­tem­bre 2011 («com­por­ta­menti non solo con­trari al pub­blico decoro, ma intrin­se­ca­mente tristi e vacui», «stili di vita dif­fi­cil­mente com­pa­ti­bili con la dignità delle per­sone e il decoro delle istituzioni e della vita pub­blica»), quando gli scan­dali ses­suali dell’ex pre­mier ave­vano ormai fatto il giro del mondo.
Nel caso dell’ex sin­daco, però, le gerar­chie cat­to­li­che – soprat­tutto ita­liane – bru­ciano i tempi, cominciando ad attac­care Marino ben prima che salga al Cam­pi­do­glio. Il chi­rurgo ha infatti un pes­simo cur­ri­cu­lum, soprat­tutto in tema di “prin­cipi non nego­zia­bili” che, ben­ché ridi­men­sio­nati – ma non cancel­lati – da papa Fran­ce­sco, per la Cei e per molti vescovi costi­tui­scono tut­tora una sorta di stella polare.
Il pec­cato ori­gi­nale di Marino è un dia­logo con il car­di­nal Mar­tini («Così è la vita») pub­bli­cato dall’Espresso del 2006 in cui ven­nero affron­tati, con grande aper­tura, tutti i temi etici su cui i vescovi ave­vano innal­zato le bar­ri­cate: fine vita, acca­ni­mento tera­peu­tico e testa­mento bio­lo­gico; fecon­da­zione assi­stita (dopo la vit­to­ria refe­ren­da­ria di Ruini con­tro la legge 40); aborto e ini­zio vita; ricerca sulle cellule sta­mi­nali embrio­nali e, in gene­rale, con­fini e limiti della scienza; ado­zioni per i sin­gle; uso del pro­fi­lat­tico per la pre­ven­zione dell’Aids. Un dia­logo dai con­te­nuti dirom­penti (diven­tato poi un libro, Cre­dere e cono­scere, Einaudi, curato da Ales­san­dra Cat­toi, fede­lis­sima di Marino in Cam­pi­do­glio) che mise in grande imba­razzo le gerar­chie eccle­sia­sti­che: il disap­punto era forte, ma era dif­fi­cile attac­care fron­tal­mente un car­di­nale come Martini. Diverso invece il discorso nei con­fronti di Marino, che da quel momento fini­sce sul “libro nero” dei vescovi, come del resto altri “cat­to­lici adulti”. Anche per­ché negli anni suc­ces­sivi, da sena­tore del Pd, con­ti­nua ad inter­ve­nire: sostiene le scelte di Pier­gior­gio Welby e di Bep­pino Englaro, pro­muove una legge per il testa­mento bio­lo­gico, afferma che la 194 non è un tabù.
Quando si can­dida a sin­daco, nei sacri palazzi la fibril­la­zione sale. I media cat­to­lici fanno di tutto per sbar­rare la strada al chi­rurgo che però viene eletto, e subito dif­fi­dato da Avve­nire ad «aprire campi di bat­ta­glia sulle que­stioni che inve­stono valori pri­mari». Come suc­cede nell’ottobre 2014, quando il sindaco tra­scrive nei regi­stri comu­nali i matri­moni cele­brati all’estero da 16 cop­pie omo­ses­suali. «Scelta ideo­lo­gica che cer­ti­fica un affronto isti­tu­zio­nale senza pre­ce­denti», tuona il Vica­riato di Roma.
Gli ultimi giorni di Marino sono un cal­va­rio. Prima il caso del “non invito” a Phi­la­del­phia in occa­sione del viag­gio negli Usa di papa Fran­ce­sco, il quale, in maniera piut­to­sto irri­tuale, risponde alla domanda di un cro­ni­sta: «Io non ho invi­tato il sin­daco Marino a Phi­la­del­phia, chiaro?». Poi le rive­la­zioni di mons. Paglia – pre­si­dente del Pon­ti­fi­cio con­si­glio per la Fami­glia ma soprat­tutto sto­rica guida spi­ri­tuale della Comu­nità di Sant’Egidio -, “rubate” dalla tra­smis­sione radio­fo­nica La zan­zara: «Marino si è imbu­cato, nes­suno lo ha invi­tato, il papa era furi­bondo» (e pochi giorni dopo di nuovo Sant’Egidio – che a Roma, anche a livello poli­tico, ha sem­pre gio­cato un ruolo impor­tante – sbugiarda il sin­daco, smen­tendo che suoi espo­nenti abbiano par­te­ci­pato a una cena regi­strata dai famosi scon­trini). Da ultimo è il card. Val­lini, vica­rio del papa per la dio­cesi di Roma, a invo­care una «nuova classe dirigente».
Uscito di scena il sin­daco, sarà evi­tato un incon­tro imba­raz­zante: domani, infatti, il papa cele­brerà una messa al cimi­tero del Verano, dove era atteso anche Marino, il quale però, essendo deca­duto, non ci sarà. E il 5 novem­bre, a San Gio­vanni in Late­rano, verrà pre­sen­tata la Let­tera aperta alla città di Roma redatta dal Con­si­glio pasto­rale dio­ce­sano, pre­sie­duto da Val­lini. Con­terrà l’invito a «ripar­tire dalle molte risorse reli­giose e civili pre­senti a Roma» per sce­gliere chi gover­nerà la capitale. L’inizio della cam­pa­gna elettorale.

(da Il Manifesto del 31 ottobre 2015)

4 novembre: con don Milani contro la guerra

Due parole introduttive

di Piero Murineddu

È già qualche anno che lessi il lungo articolo che segue e che contribuì non poco ad aprirmi gli occhi e la mente sull’ipocrita demagogia che si continua a fare riguardo alla presunta necessità del continuo e scandalosamente dispendioso rafforzamento degli arsenali nazionali, sostenuta dall’immancabile propaganda più o meno esplicita che non ci sarebbero alternative all’uso della forza militare.

Il pensiero di don Lorenzo sarà sempre un faro su questo aspetto della convivenza umana che, oggi ancor più di ieri, rischia di rendere il mondo una polveriera destinata a saltare in aria se non s’inverte urgentemente la marcia.

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Perché non ho mai amato il 4 novembre?

di Giuliano Falco

 

Forse perché mi è sempre sembrata una brutta idea festeggiare una carneficina. Una delle prime di un secolo che sarà anche stato breve, ma, che quanto a stragi, non si è certo risparmiato. Da un lato abbiamo gli stati che mandano al massacro la propria gioventù (anche un Papa ha definito questo conflitto una “inutile strage”, dimenticando che c’erano preti che benedicevano le truppe e che le rassicuravano sul fatto che Dio fosse con loro! Purtroppo il movimento operaio e libertario si divise tra pacifisti e bellicisti, ahimè, e personalità insospettabili, aderirono a quest’ultima fazione.

Dall’altro, i soldati che non sentivano per nulla questa guerra, che pensavano ai loro campi, alle loro mucche, alle loro famiglie (c’era un bel libro, edito da Mursia, mi pare, sulle lettere che i soldati, dal fronte, scrivevano al Re, per esprimere, come potevano e sapevano, disappunto e contrarietà). Purtroppo la loro opposizione si manifestava in genere con l’autolesionismo (ad esempio si sparavano ad un piede) o con la diserzione. I disertori erano talmente tanti che i dispacci militari, al momento di scegliere la salma del Milite Ignoto da tumulare a Roma nell’altare della patria, precisavano che doveva essere scelta una salma non colpita alla schiena perché questa era la punizione per i disertori, in quanto essere colpiti alla schiena è segno e simbolo di chi fugge davanti al nemico. A onor del vero, ci sono stati anche casi di reazione armata contro gli ufficiali che ordinavano l’attacco…

Un nuovo capitolo della lunga storia della stupidità militare…

Ma per me, nato sul finire degli anni ’50, tutto ciò resta incomprensibile. Anche a scuola, il maestro ci insegnava che la Prima Guerra Mondiale era, per l’Italia, il proseguo del Risorgimento e che la parola “mamma!” era l’ultima pronunciata dal soldato colpito a morte…La mia simpatia è sempre andata verso non chi le guerre le combatteva, verso i disertori o gli obiettori totali.

Per ragioni anagrafiche, oltre che ideologiche, sono stato obiettore di coscienza al servizio militare (in base alla legge 772 del 1972). Non sono stato obiettore totale per vigliaccheria: non ho la stoffa dell’eroe. Finire in galera non mi è mai piaciuto…in compenso, ho aderito allo sciopero in difesa dell’obiezione di coscienza (in tutto il Belpaese, ha aderito a questo iniziativa circa il 10 % degli obiettori in servizio…), rischiando il deferimento al tribunale militare…
Occorre fare un’operazione sistematica e capillare di controinformazione su quanto ci costa a livello politico, sociale, economico e umano l’esercito e gli armamenti. Quante case, posti di lavoro, scuole, ospedali ecc. si potrebbero realizzare con i soldi che ogni anno spendiamo per le armi, per tutte le guerre cosiddette umanitarie che combattiamo in tutto il mondo. Occorre informare le persone delle spese inutili e dannose che paghiamo per i bombardieri, spese inutile e dannose che paghiamo, non solo in vile pecunia ma in distruzione del territorio e della salute di chi vi abita. Ad esempio, quanto ci costano le servitù militari (dai poligono di tiro all’installazione di radar -che a volte servono ai militari, spesso per controllare i processi migratori; in ogni caso, per controllo del territorio).
Ma torniamo al 4 novembre. È fin troppo facile ricordare Durrenmat che scriveva “Quando lo stato si prepara ad ammazzare si fa chiamare Patria”… C’è un bel libretto che costa pochi euro e che consiglio a tutti di leggere (o di rileggere): sono i Documenti del Processo di don Milani . Il titolo riprende una sua famosa frase: L’obbedienza non è più una virtù. Purtroppo, non tutti sanno che prosegue definendo l’obbedienza come la più subdola delle tentazioni. È più facile obbedire che seguire la propria coscienza, il proprio pensiero critico.

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Don Milani credeva nella pedagogia dell’occasionalità e ne aveva fatto il filo conduttore della sua scuola. Anche questo scritto nasce da un ‘occasione’: il 12 febbraio 1965 viene pubblicato sul quotidiano La Nazione, un’ordine del giorno dei cappellani militari in congedo della Toscana. Il documento si conclude affermando che i suddetti cappellani militari in congedo “considerano un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta “obiezione di coscienza” che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà”.

Del libro ne riporterò solo alcune citazioni, rinviando il lettore alla fonte originale per una lettura più approfondita.

Don Lorenzo rivolgendosi ai cappellani militari scrive:

“non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro- gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto […] ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra Patria e valori ben più alti di lei.Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé nemmeno la legittima difesa.Mi riferirò piuttosto alla Costituzione”
Don Lorenzo si riferisce agli articoli 11 (“l’Italia ripudi al guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”) e 52 (“La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”). Certo, il suo linguaggio è semplice (ma la sua missione era quella di farsi comprendere da tutti, dai colti come dagli incolti, parteggiando per questi ultimi), il suo classismo è elementare. A volte si sente che sono trascorsi 46 anni da quando è stata scritta la lettera…ma, don Milani è sempre don Milani e ci offre in continuazione spunti e motivi di riflessione. Infatti, il Priore prosegue:“Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia.Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l’onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile? Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza ad ogni costo? E se l’ordine era il bombardamento dei civili, un’azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l’esecuzione d’ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidenti aggressioni, l’ordine d’un ufficiale ribelle l popolo sovrano, le repressioni di manifestazioni popolari?

Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni guerra. Quando ve ne sono capitate davanti agli occhi o avete mentito o avete taciuto. O volete farci credere che avete detto la verità in faccia ai vostri «superiori» sfidando la prigione e la morte? Se siete ancora vivi e graduati è segno che non avete mai obiettato a nulla…”

Don Lorenzo ripercorre la storia degli ultimi cento anni, a partire dal 1860. Per amore di brevità, riporterò solo alcuni brani relativi alla Prima Guerra Mondiale:

“L’Italia aggredì l’Austria con cui questa volta era alleata.Battisti era un Patriota o un disertore? È un piccolo particolare che va chiarito se volete parlare di Patria. Avete detto ai vostri ragazzi che quella guerra si poteva evitare? Che Giolitti aveva la certezza di poter ottenere gratis quello che poi fu ottenuto con 600.000 morti ? Che la stragrande maggioranza della Camera era con lui (450 su 508)? Era dunque la Patria che chiamava alle armi? E se anche chiamava, non chiamava forse a una «inutile strage»? (l’espressione non è d’un vile obiettore di coscienza ma d’un Papa).Era nel ’22 che bisognava difendere la Patria aggredita. Ma l’esercito non la difese. Stette a aspettare gli ordini che non vennero. Se i suoi preti l’avessero educato a guidarsi con la Coscienza invece che con l’Obbedienza «cieca, pronta, assoluta» quanti mali sarebbero stati evitati alla Patria e al mondo (50.000.000 di morti). Così la Patria andò in mano a un pugno di criminali che violò ogni legge umana e divina e riempendosi la bocca della parola Patria, condusse la Patria allo sfacelo. In quei tragici anni quei sacerdoti che non avevano in mente e sulla bocca che la parola sacra «Patria», quelli che di quella parola non avevano mai voluto approfondito il significato, quelli che parlavano come parlate voi, fecero un male immenso proprio alla Patria (e, sia detto incidentalmente, disonorarono anche la Chiesa)”.

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Ma al di là di queste parole, ciò che vale ancora oggi, per il presente, in questo quotidiano sempre più segnato da disperazione e violenza, dopo i fatti di Roma e la nuova guerra di Libia e la sua conclusione (?) è la dimensione pedagogica in cui questo scritto nasce. Innanzitutto, don Lorenzo condivideva con i suoi ragazzi ogni evento, dal più semplice al più complesso. Figuriamoci una querela. Quello che lo preoccupa non è tanto ciò che potrà accadergli (al momento del processo, il Priore non potrà essere presente, perché gravemente malato) ma quale insegnamento potranno ricavarne i suoi ragazzi:
“Ora io sedevo davanti ai miei ragazzi nella mia duplice veste di maestro e di sacerdote e loro mi guardavano sdegnati e appassionati. Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non ne avevo bisogno di far notare queste cose ai miei ragazzi. Le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita.Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto.Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande «I care» . È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. «Me ne importa, mi sta a cuore». È il contrario esatto del motto fascista «Me ne frego».
Proseguendo, don Lorenzo affronta temi rilevanti, per giungere a parlare della nonviolenza (che lui scrive con il trattino). Il testo è interessante, ma non è possibile in questa sede analizzarlo per intero. Per cui salterò alle conclusioni. Come suo solito, il suo linguaggio è esplicito («Bisogna dire pane al pane e culo al culo» affermava, da bravo toscanaccio) e i temi affrontati sono scottanti. Ad esempio a un certo punto affronta il problema delle morti dei civili nelle guerre.
Abbiamo letto a scuola su segnalazione del «Giorno» un articolo del premio Nobel Max Born (Bullettin of the Atomic Scientists, aprile 1964).
Dice che nella prima guerra mondiale i morti furono 5% civili 95% militari (si poteva ancora sostenere che i civili erano morti «incidentalmente»).
Nella seconda 48% civili 52% militari (non si poteva più sostenere che i civili fossero morti «incidentalmente»).
In quella di Corea 48% civili 16% militari (si può sostenere che i militari muoiano«incidentalmente».
Sappiamo tutti che i generali studiano la strategia d’oggi con l’unità di misura del megadeath (un milione di morti) cioè che le armi attuali mirano direttamente ai civili e che si salveranno forse solo i militari.
Che io sappia nessun teologo ammette che un soldato possa mirare direttamente (si può ormai dire esclusivamente) ai civili. Dunque in casi del genere il cristiano deve obiettare anche a costo della vita. Io aggiungerei che mi pare coerente dire che a una guerra simile il cristiano non potrà partecipare nemmeno come cuciniere.

Gandhi l’aveva già capito quando ancora non si parlava di armi atomiche.

«Io non traccio alcuna distinzione tra coloro che portano le armi di distruzione e coloro che prestano servizio di Croce Rossa. Entrambi partecipano alla guerra e ne promuovono la causa. Entrambi sono colpevoli del crimine di guerra».
A questo punto mi domando se non sia accademia seguitare a discutere di guerra con termini che servivano già male per la seconda guerra mondiale.
Eppure mi tocca parlare anche della guerra futura perché accusandomi di apologia di reato ci si riferisce appunto a quel che dovranno fare o non fare i nostri ragazzi domani.
E, don Lorenzo conclude amaramente con un appello ai Giudici:
Spero di tutto cuore che mi assolverete, non mi diverte l’idea di andare a fare l’eroe in prigione, ma non posso fare a meno di dichiararvi esplicitamente che seguiterò a insegnare ai miei ragazzi quel che ho insegnato fino a ora. Cioè che se un ufficiale darà loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura.Spero che in tutto il mondo i miei colleghi preti e maestri d’ogni religione e d’ogni scuola insegneranno come me. Poi forse qualche generale troverà ugualmente il meschino che obbedisce e così non riusciremo a salvare l’umanità. Non è un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l’umanità ci salveremo almeno l’anima.
Epilogo
Don Lorenzo Milani morì prima della fine del processo d’appello e, come ricorda Neera Fallaci in un altro bel volume , il reato si estinse per la morte del reo…Luca Pavolini, allora direttore del periodico del Partito Comunista, Rinascita (don Lorenzo aveva inviato copia della Lettera alle riviste dell’area cattolica e a quelle di sinistra: con suo grande rammarico, quelle cattoliche la ignorarono), venne condannato a cinque mesi e dieci giorni…
Conclusioni
A mio parere dobbiamo intervenire non solo in occasione del 4 novembre, ma ogni giorno dell’anno e su più fronti (tanto per usare una metafora militare…):
– controinformazione: cos’è stata in realtà la Prima Guerra Mondiale, quali sono stati i suoi costi, le sue conseguenze; quanto costa l’apparato militare al paese in termini di repressione, controllo del territorio, danni alla salute e via dicendo; quanto costano le guerre e gli armamenti, anche in tempo di ‘pace’;
– pedagogico: intervenire nelle scuole, sul posto di lavoro, ovunque sia possibile, su cos’è la guerra e cos’è la pace, ammesso che da qualche parte sia esistita; cos’è la violenza e cos’è la nonviolenza; aiutare giovani e insegnanti a contrastare la violenza nelle scuole organizzando focus group, seminari ecc.
– politico: invitare a non votare per coloro che non si sono impegnati contro le missioni militari, ecc. denunciare le varie iniziative militariste apparentemente innocenti, dalle frecce tricolori all’esercito nelle scuole; contrastare e controinformare .su quanto il ‘militare’ pesi sul territorio, sulla salute, sull’economia e sulla politica

Lo so: il lavoro da fare è molto e i mezzi sono pochi. Ma la nonviolenza è l’unica strada da percorrere…

Ai nostri morti

di Franco Marcoaldi

Dove stanno acquattati i nostri morti?
In quali angusti anfratti della mente,
in quali sconfinati spazi aperti?
In quali tremolanti porti?
Il loro passo è lento e fiero,
atletico amorevole severo.
Non bussano alla porta delle case,
loro non vanno mai di fretta.
Di rado compaiono nei sogni, appena un cenno;

buttano l’amo, avanzano un quesito … e abbandonano la scena.                                        Nostra e soltanto nostra resta la pena
per quell’incontro troppo fugace.

Perché lo so, o venerato Mondo,
che senza il conforto sagace dei miei morti mai ti potrei lodare.
Per quell’illogica bontà stupida
e cieca, istintiva, ricorrente,
che inonda quanto è vivo
– un cervo agonizzante accudito
da un fratello casuale, il ramo
scorticato che un passante
fascia perché aderisca
meglio al tronco.

Sono quelle schegge di umanità
senza ritorno, piccole crepe
nel grande mare dell’indifferenza,
spicciole figure d’immortalità
figlie di debolezza, granelli
di sabbia che si librano
nel vento a inceppare
il meccanismo feroce
e onnipresente del maligno.

A loro, ai morti,chiedo di offrirmi qualche appiglio.
Lo chiedo a un padre che ho frainteso                                                                                   malgrado fossi figlio suo in tutto: bocca e naso,
sbalzi d’umore, daimon d’amore,
scatti d’ira, frivola leggerezza
e una gravezza incupita e repentina.
Lui conosceva a menadito
insetti e piante e stelle.
L’avessi temuto un po’ di meno
e apprezzato un po’ di più
oggi dalla gioia non starei
nella mia pelle, perché è proprio
nei prodigi di natura, a me
per buona parte ignoti,
che intravvedo
la possibilità di colmare
i miei più dolorosi vuoti.

Chiedo tardivo aiuto
a un fratello che ho perso
troppo presto e non ho
amato a sufficienza.
Tra noi, la vicinanza dell’infanzia
si era crepata nell’età oscura
dell’adolescenza – e a lungo
un’ideologica arroganza mi impedì
di accogliere la sua fragilità
sfacciata ed esibita, il gusto
teatrale di volersi conquistare
a tutti i costi un’altra vita.

Lo vedo ancora avvolto
nella sua elegantissima
vestaglia, combattere con ironico
eroismo l’ultima, disperatissima
battaglia.

E mi domando:
che ho fatto io delle basse
scatole di legno utilizzate
da mio padre
per infilzare insetti? del coraggio
sfrontato di un fratello,
catodico ecce homo, che difese
innanzi al mondo i malati
come lui considerati alla stregua
di appestati postmoderni,
di paria, di reietti?

Poco, ne ho fatto. E oggi
mi restano solo delle povere
parole per provare a restaurare
affreschi esperienza stinti ormai
per troppa pioggia e troppo sole.
Eppure continuo a cercare
tra i morti e continuo a chiedere
aiuto ai trascorsi maestri di versi,
ideatori di catene di segni
che battono il tempo
trovando nel ritmo quanto
altri non vede – anche questa
è questione di fede – una fede
che fa sue le parole “non so”.

Davanti alla morte: la “terapia intensiva” di padre ALBERTO MAGGI

cover

di Piero Murineddu

“Era il nove aprile, lunedì dell’Angelo. Verso le dieci del mattino, all’improvviso sento un dolore terribile qui proprio nel petto…”.  Inizia così il racconto della particolarissima vicenda vissuta da padre Alberto, uno dei tanti preti non propri ortodossi riguardo alla dottrina cattolica e per questo guardato con sospetto e diffidenza. Un prete non molto amante dei “miracoli” e del dogmatismo, mai esitante a dire le cose così come le sente, senza troppi giri di paroloni, e che per questo hanno la capacità di arrivare direttamente al cuore di chi lo ascolta. Fra l’altro, dice che lui voleva intitolarlo “Un eretico in corsia”, ma con l’avvento di papa Francesco, dietro suggerimento dell’Editore ha volentieri cambiato idea.

“Chi non muore si rivede”. E questo modo di dire comune, nelle pagine del libro diventano un’affermazione di fede. Nell’ottica cristiana, infatti, non esiste una morte definitiva, per cui Alberto, trovandosi realmente davanti a questo passo fondamentale, lo ha vissuto …..felice di farlo.

Prestatomi da un amico, tempo fa avevo letto questo suo volumetto che parla dei suoi 75 giorni trascorsi quasi tutti in terapia intensiva. Giorni di sofferenza si, ma vissuti con un atteggiamento interiore tale da conquistare l’intero personale dell’ospedale, quali medici, infermieri, donne delle pulizie. A suo dire, un libro scritto come dichiarazione d’amore verso tutte queste persone che lo hanno assistito  e gli hanno salvato la vita. Sicuramente è così, ma in realtà è lui, con la sua serenità davanti alla morte, che ha conquistato tutte le persone che ruotavano intorno al suo letto.

Nell’infinito archivio di youtube ho trovato un video dove racconta di questa sua esperienza. Scaricato e trasformato in MP3, ne ho ricavato un altro dove insieme alle sue parole, ho rilevato delle frasi che mi hanno particolarmente colpito. L’offro alla tua attenzione, con la certezza che se lo ascolterai con interesse e senza distrazioni, appena possibile andrai a procurarti il libro, a sfogliarne le pagine con stupore, a rileggerlo appena terminato, per poi prestarlo alle persone a te care. Ti assicuro che ciò avverrà.