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MALTRATTAMENTI A SCUOLA? PARLIAMONE

GIORGIO 103

di Piero Murineddu

Ogni tanto le cronache giornalistiche ci parlano di episodi di maltrattamenti nei confronti di soggetti deboli e indifesi (case per anziani, classi elementari….), la qual cosa ci riempie giustamente d’indignazione e fa riaffiorare in noi la vasta gamma di torture che vorremmo infliggere ai colpevoli di questi misfatti per fargliela pagare. Lo sappiamo, fa sempre comodo far la parte dei giudici, e di quelli più implacabili.

Rimanendo nel solo ambito scolastico,andando a ritroso nell’archivio de La Nuova, sono incappato nella vicenda della maestra di Sorso che  un anno fa circa era salita ai/agli  (dis)onori della cronaca  perchè ai propri alunni, e a qualcuno in modo particolare, di tanto in tanto riservava oltre a sorrisi, pazienza e comprensione,  anche una buona dose di “spirito materno”, nel senso che quando una normalissima mamma perde la pazienza, o perchè è in fase di premestruazioni o, peggio, durante il  ciclo mensile che le permette la  possibilità quasi divina di dare alla vita nuovi esseri umani, o perchè è alle strette col marito, o perchè il marito non ce l’ha proprio (!), o  perchè è oberata dagli impegni casalinghi e per centinaia di altri motivi ancora, qualche scappellotto o qualche mestolata in testa all’insopportabile figliolo è umanamente possibile che scappi. Almeno, questo succede nelle normali famiglie, Diciamo la verità, quasi una cosa insignificante davanti a quello che abbiamo ricevuto  ai nostri tempi dalle nostre madri ed anche dai nostri maestri/e elementari.

Eppoi c’è da considerare che in una classe scolastica si ha a che fare con minimo due decine di “figlioli” e riuscire a gestirli al meglio e sempre col sorriso e la delicatezza non dico che sia cosa impossibile, ma, ammettiamolo, parecchio difficile sicuramente. Queste mie considerazioni non hanno l’obiettivo di giustificare i modi bruschi che un’insegnante usa come prassi normale del suo modo di fare, ma personalmente non sono tra quelli pronti a stracciarsi le vesti quando qualche maestra viene colta nel disdicevole fatto. Se poi ne parla il giornale, tutti addosso al “mostro”. Ma dai! Se siamo genitori e se siamo sinceri e realisti, ditemi, quante volte capita di venirci l’impulso di prendere il tenero frugoletto o il borioso adolescente e sbatterlo al muro? Siamo per questo dei mostri o degli educatori incapaci?

Aiòòòòòò….!! Non credo assolutamente che  la maestra in questione possa essere considerata tale, cioè, che nei decenni d’insegnamento che aveva alle spalle il suo atteggiamento coi ragazzi o con qualcuno di loro  fosse da aguzzina e torturatrice. E dabboi, sarebbe bene e onesto che ogni qualvolta avvenga qualcosa di simile in ambito scolastico o in qualche famiglia, ci ponessimo in atteggiamento di toglierci la “trave” che abbiamo nel nostro occhio prima di vedere il moscerino negli occhi altrui. Gli insegnanti, specialmente quelli dei primi anni scolastici, sono delle persone come noi a cui diamo la delega di aiutarci a far crescere i nostri figli nel miglior modo possibile, per cui, invece di avere la “fissa” di controllarli e giudicarli, cerchiamo di trovare il modo di essere più collaborativi. Se lo volessimo (e naturalmente la dirigenza scolastica trovasse il modo più idoneo) avremmo sicuramente anche noi adulti la possibilità di crescere ancora, magari supplendo a tutte le mancate “crescite” che ci siamo persi nell’arco di 20,30, 40, 50 e oltre anni che possiamo avere sulle spalle,ma a volte non nel cervello.

 

Se avete voglia di leggere , vi rimando all’articolo – credo il secondo o terzo – della maestra di Sorso

http://ricerca.gelocal.it/lanuovasardegna/archivio/lanuovasardegna/2015/02/09/NZ_13_01.html?ref=search

Tore&Lello

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di Piero Murineddu

Quel 19 luglio del 2015 ha segnato la vita al mio amico Salvatore, l’ultimo tamburinaggiu di Sossu. Membro del comitato di Sant’Antonio, erano stati invitati per sfilare in processione alla festa sennorese di San Biagio. Già con difficoltà di vista, una brutta caduta provoca al povero Tore una lesione midollare che lo paralizza. Un mese di ortopedia a Sassari, più due mesi di fisioterapia al Marino di Alghero e tre al San Giovanni Battista di Ploaghe, gli fanno riacquistare l’uso delle braccia. Assistito da tempo da un simpatico e dinamico giovane grazie ai finanziamenti per i disabili concessi dalla Regione, da quel giorno, nelle ore stabilite, questo giovanotto diventa l’angelo custode di Tore. Lello – questo è il suo nome – lo scarrozza ovunque con la sedia a rotelle, oppure, nell’impossibilità di uscir di casa per il brutto tempo, fa in modo che il suo assistito non si annoi. Quando il Centro di Aggregazione del paese era aperto e pieno di vita, Tore era uno dei più assidui frequentatori e partecipava con entusiasmo alle varie attività che si portavano avanti. Chiuso questo luogo di ritrovo per incapacità dell’attuale amministrazione pubblica di riuscire a mandare avanti le iniziative valide e che funzionano – in questo caso e nell’ultimo triennio di apertura, anche a causa della mala gestione da parte di una Cooperativa  che ha praticamente vanificato tutto il lavoro fatto in precedenza dalle volenterose e fantasiose assistenti e animatrici locali – chiuso il Centro, dicevo, Tore ha dato il suo apporto presso la Caritas sassarese e ha fatto attività teatrale presso un istituto per disabili, sempre a Sassari. Da quando gli era stata riconosciuta la legge 162, era stato Tore stesso a scegliere Lello come assistente, conosciuto in giovanissima età di quest’ultimo. La scorsa estate, per cercare il modo migliore per risolvere il problema del trasporto pubblico nel capoluogo, Lello mi aveva contattato per dargli una mano, ed è proprio in quella occasione che ho avuto modo di conoscere questo giovane molto aperto al dialogo e veramente impegnato ad alleggerire le difficoltà quotidiane di Tore. Durante il colloquio, abbiamo concordato che fosse lui a fare i primi passi presso la direzione delle ferrovie. Un tipo deciso Lello. Per quanto è possibile, è riuscito nel suo intento di ottenere, volta per volta dietro richiesta ed orario concordato, un pulmino per poter portare Tore in città. Essendo impiegato il nuovo treno per tutte le corse, non ci sarebbero problemi, ma spesso viaggiano ancora le vecchie e malandate littorine o quel pezzo di antiquariato del treno in legno. Un’esemplare e bella storia di piena sintonia umana quella tra Tore&Lello, non solo per il bellissimo rapporto di affetto e amicizia che va ben oltre il semplice rapporto di lavoro. Nello stesso tempo sono la dimostrazione che quando si conoscono i propri diritti, insieme alla necessaria caparbietà, si riesce a richiamare le istituzioni a quelli che sono i loro doveri.

Onore alla Memoria di Petronio

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di Piero Murineddu

“Otto gennaio del 2011. Sono ormai sei anni che il carissimo Petronio Pani ci ha lasciati. Gran bella persona Petronio. Insegnante, educatore, ricercatore, animatore sociale e iniziatore di svariate avvenimenti culturali, oltre aver dato avvio all’associazione culturale – sportiva CCRSS, tuttora in attività grazie ad alcuni suoi tenaci compagni d’avventura, tra i quali il sempre attivo Leo Spanu. Buono d’animo, sempre disponibile con tutti e di una generosità sconfinata e incondizionata Petronio. Raccontava che quando era istruttore presso i corsi che si tenevano a San Camillo, i ragazzi di cui si prendeva più cura erano quelli che facevano più fatica e che magari appartenevano a famiglie malfamate. Era arrivato a Sorso da giovanissimo proveniente dal modenese dopo la morte della mamma. Oltre la scuola, dava una mano nell’officina del padre mashtr’Antoni, dal quale imparò tutti i segreti della saldatura e in generale, l’uso intelligente delle mani. Cresciuto nell’ambiente formativo che ruotava intorno alla figura di “don” Ambrogino Cicu, dove partecipava a varie attività ludico culturali nelle vesti di “Giovane Esploratore”. Assetato di Conoscenza Petronio, e dietro il suo entusiasmo condiviso da un gruppetto di amici, venne avviato l’interesse per la ricca archeologia del territorio, fino ad allora pressoché ignorata. Il parlare di lui sarebbe cosa lunga e altri potrebbero far meglio di me. Generalmente alle personalità che hanno dato lustro col comportamento e con l’opera, le comunità all’interno delle quali hanno vissuto sentono il bisogno di dedicar loro un qualcosa che ne perpetui la memoria, come la titolazione di una piazza, un parco, una via, e per il grande e nel contempo umile Petronio non può essere sicuramente una viuzza periferica, per l’ineguagliabile contributo dato per l’innalzamento del nostro livello culturale e umano, non paragonabile a quanto (non)fatto da qualsiasi politico locale, del passato e del presente.  Ciò avviene per volontà della pubblica amministrazione, spinta magari da qualche associazione culturale. Sono ormai otto anni che Sorso è amministrata più o meno dalle stesse persone, e purtroppo in tutto questo tempo appaiono scarsissimi o addirittura del tutto assenti iniziative che abbiano fatto progredire culturalmente Sorso e i suoi abitanti. Addirittura, anno dopo anno, ai cittadini son stati preclusi i luoghi simbolo della vita comunitaria e culturale. I fatti dicono che a Sorso l’aspetto Culturale è stato e continua ad essere colpevolmente trascurato. Per tornare a Petronio, mi auguro con tutto il cuore e la mente che se un “segno” del suo valore gli sia riconosciuto, non avvenga dagli attuali amministratori, assolutamente indegni di onorare una figura alta eppure semplice quale ha dimostrato di essere il carissimo e indimenticabile Petronio.”

Fin qui quanto qualche giorno fa ho spedito come lettera a La Nuova, e quello che leggete sotto è quanto effettivamente pubblicato il giorno 14, sabato. Pur capendo la necessità a volte di fare dei tagli per l’eccessiva lunghezza dei testi mandati dai lettori, tuttavia quelli più attenti si accorgeranno subito almeno di due particolari:

  1. Petronio, con altri amici volenterosi, ha dato avvio all’associazione CCRSS – Centro Culturale Ricreativo Sportivo Sorso – tuttora in attività, e non all’assessorato sportivo – culturale come ha frainteso il “forbiciaio” del giornale
  2. A termine del mio testo, mi auguro che se a Petronio nel futuro verrà titolato qualche segno (piazza, via, museo, parco….), ciò non avvenga assolutamente con gli attuali amministratori, che in otto anni di pseudo amministrazione della Cosa Pubblica, specialmente in ambito culturale hanno dimostrato tutta l’incapacità e insensibilità possibile. Il “forbiciao” ha deciso di omettere  questo finale, vuoi per la necessità di accorciare, o peggio, per lo scrupolo di non toccare la suscettibilità dei governanti sussinchi. Conosciamo bene la loro permalosità. Basti ricordare la reazione che ebbero qualche anno fa, quando furono presi di mira durante il rogo al Re Giorgio carnevalesco. Ne conservo ancora il testo, e chissà che decida di pubblicarlo prossimamente. Vedremo.

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Paolo e i suoi amici

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di Piero Murineddu

Un gruppetto di baldi ventenni sussinchi, del ’29 o giu di lì. Da sinistra sono Paolo Roggio, Mario Cossu, Angelino Marongiu e Antonino Zappino.

Il primo l’ho conosciuto qua non tanto tempo fa. Una parlantina che non vi dico. Ho con lui ancora un appuntamento rimasto finora in sospeso per registrare il racconto della sua vita. Bisogna che mi decida, anche perchè le cose accennate quel giorno sono tantissime e di sicuro interesse. Fòzza, isceddaddi Piè …….

Mario Cossu, dipendente delle Ferrovie e marito della mia amica Angela, purtroppo non ho avuto il piacere di conoscerlo. Mi dice la moglie che non era per niente un fessachiotto qualunque e che la vita con lui è stata parecciu beddha.

Angelino Marongiu non lo conosco personalmente, anche perchè il figlio Giovanni mi ha detto che non è tipo granchè loquace e che difficilmente acconsentirebbe a raccontarsi.

Il quarto degli amici  è Antonino Zappino, ma di lui conosco a mala pena il nome  e nient’altro.

Il luogo è senza dubbio alcuno il parco storico di Sossu, di fronte alla chiesa  “del Convento”.

Paolo e Angelino mandavano avanti la propria sartoria ciascuno. Nessuna concorrenza o guardarsi a ischurriaddura: lavoro c’era per loro e per i pochi altri sarti che sicuramente operavano in paese, per cui potevano essere amici ugualmente, senza che l’invidia macerasse i loro animi, condizionandone il rapporto.  Del secondo ricordo la sartoria nel piazzale di Santu Pantarèu e che si spostava col suo vespone primo modello. Mi dice il figlio Giovanni che, specialmente quando aveva la sartoria pressapoco di fronte alla chiesa di Santa Croce, teneva con sè diversi ragazzi apprendisti del mestiere, una figura “caduta” ormai nel dimenticatoio. Ragazzi che non amavano molto lo studio scolastico oppure che più verosimilmente le famiglie non potevano permettersi di mandare a scuola. Ragazzi che aspiravano a guadagnare qualcosa il prima possibile, senza dover pesare sulle magri casse familiari. Penso proprio che grazie a questo come ad altri lavori artigianali, questi giovanotti abbiano imparato a darsi da fare nelle cose concrete, molto più dei coetanei studenti. E’ facile così che andando avanti negli anni e mettendo su famiglia, non avevano bisogno di chiamare l’esperto a pagamento per ogni caggadddura, vuoi che sia l’idraulico, l’elettricista, il muratore e per qualsiasi necessità che occorra in una casa.

Lasciamo così per ora, in attesa che mi decida ad andare da Paolo per registrarne i racconti della vita trascorsa.

 

 

 

 

 

 

 

 

don Tonino ci ha lasciati

di Piero Murineddu

Antonio Sanna, il carissimo don Tonino, ci ha lasciati per intraprendere il Grande Viaggio e raggiungere l’Altra Riva nella quale ha sempre creduto e della quale ha sempre parlato con passione e piena convinzione. Era il prete dal quale avrei voluto essere accompagnato  all’Ultima mia Dimora e sarebbe stato l’unico capace di sostenermi nell’eventuale dipartita di qualsiasi mio stretto familiare.

L’affabile e battagliero don Tonino! L’ascoltarlo saltuariamente la domenica mi faceva recuperare l’energia persa durante la settimana appena trascorsa e mi rinforzava per quella che seguiva.

Mi mancheranno i suoi  lunghi e mai noiosi approfondimenti delle letture bibliche, o meglio, della lettura sulla quale accentrava la sua attenzione e riflessione. Riflessioni che toccavano da vicino la vita concreta di ciascuno.

Mi mancheranno i canti su parole di David Maria Turoldo e per i quali aveva creato una o due melodie adattabili a tutti i testi. Era un’assemblea che cantava quella che si riuniva  nelle Messe da lui presiedute, e vederla ridotta al silenzio durante il suo funerale non mi ha fatto per niente piacere. Solo nel “Santo” ci è stato permesso di cantare,facendolo con forza e partecipazione, quasi a voler così rimediare a tutti gli altri momenti in cui a cantare son stati i soli “Cantori della Resurrezione”, che per quanto bravi, non potevano e dovevano sostituirsi ad un compito che spetta a tutta l’Assemblea celebrante.

Don Tonino non faceva mistero che certi passaggi ed espressioni previsti nel canone liturgico non gli andassero giù. Ecco quindi che al “Gloria” era una cosa logica sostituite quel “pace in terra agli uomini di buona volontà” con “pace in terra agli uomini che Egli ama“, frase che sintetizza bene tutta la sua predicazione. Così al “Padre Nostro”, quello stridente non  c’indurre in tentazione” con “non ci abbandonare nella tentazione“.

Oltre che prete incisivo e molto umano, era anche un grande musicista ed apprezzatissimo compositore don Tonino. Vista la mia passione per le interviste, gli avevo anche chiesto di raccontarsi davanti alla mia videocamera. “Il parlare a braccio davanti alla gente non mi crea problema – mi rispose – ma farlo davanti ad una macchina m’imbarazzerebbe parecchio…”.

Non aveva tuttavia  escluso in modo definitivo la possibilità di realizzare la cosa, magari una volta andato in “pensione”.  Più volte via email gli mandavo  le mie reazioni  alla sua omelia domenicale, avendo così un piccolo scambio che sempre nell’intimo ho sempre desiderato fosse fatto direttamente durante la funzione religiosa, nel possibile con una omelia condivisa.

Il procedere delle sue riflessioni non era mai scontato. Era tutt’altro che una “sentinella” dell’ortodossia cattolica tradizionale, pronto a bacchettare chiunque uscisse fuori dai binari precostituiti dalla dottrina fissata nel tempo dalle gerarchie, spesso escludenti più che includenti.

Era un continuo  e tenace studioso della Bibbia, e il suo studio non era statico ed acquisito allo stesso modo una volta per tutte. Riguardo alle tematiche sull’etica e sulla morale, era molto fermo quando diceva che certe posizioni e giudizi le avevano i vescovi e i Papi, e non sempre combaciavano con ciò che affermava la Parola di Dio contenuta nella Bibbia.

Un uomo libero don Tonino, nella coscienza e nel manifestare pubblicamente il suo pensiero.

Volevo molto bene a don Tonino. Mi manca e ci mancherà molto.

In un periodo particolare, forse tre anni fa, in seguito ad un mio scritto che lo riguardava, avevamo avuto un bello scambio epistolare. Di seguito riporto integralmente lo scritto e le reazioni di entrambi.

Al termine, riporto anche gli articoli firmati dai due corrispondenti della “Nuova Sardegna”, Gianni Bazzoni e Gavino Masia.

 

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Il “don” piacevolmente ….”logorroico”

di Piero Murineddu

Sento ogni tanto il bisogno di rimotivare e nutrire la mia fede cristiana attraverso l’edificante e piacevole “logorrea” di don Antonio Sanna, parroco per tanti anni della chiesa “Cristo Risorto” di Porto Torres. Spesso, specialmente i “praticanti” della domenica, si lamentano delle “prediche” eccessivamente lunghe, e non raramente, aggiungo io, “praticante” molto saltuario, inconcludenti e vuote di significato, se non i soliti e scontati inviti al ….vogliamoci bene. La “lungaggine” di don Antonio è un’eccezione.

Oltrepassati da un bel po’ gli ottanta, si ostina a rimanere giovane di spirito, e questo lo posso garantire. Naturalmente anche lui riconosce di essere a volte un tantino lunghetto, ma naturalmente, noialtri che gli vogliamo bene e gli siamo grati, non solo per il suo genio musicale e la capacità di essere un eccellente portavoce della essenzialità del Messaggio Evangelico, lo perdoniamo e lo ascoltiamo molto volentieri.

Chi lo frequenta, conosce la sua avversione per tutto l’apparato esteriore che appesantisce una religiosità che magari piace a tanti cattolici che vivono una fede miracolistica e coi portafogli e comodini zeppi di santini, ma che non ha più il potere di appassionante attrazione, specialmente per le nuove generazioni e per coloro che hanno conosciuto il volto rivoluzionario, misericordioso e “compagno di viaggio” di Gesù Cristo.

Dopo aver bonariamente rimproverato l’assemblea perchè quasi certo che la maggior parte dei presenti non sapesse che oggi, con la Festa di Cristo Re, finiva anche l’Anno Liturgico, ha preso lo spunto per evidenziare la diffusa ignoranza tra i cattolici delle cose riguardanti la fede che professano.

Come non dargli ragione? Esempi se ne potrebbero fare, ma è un dato di fatto così evidente che non è il caso. E ignoranza non solo nell’aspetto “religioso” della vita, naturalmente.

Nello spazio dedicato all’omelia, anche se spesso non disdegna di commentare e di dare spiegazioni in qualsiasi momento della liturgia, tra le altre cose, ha ammesso il suo disagio ogni qualvolta si sente quasi costretto a leggere i passaggi dove si nomina l’ “onnipotenza” di Dio. E’ fatto così don Antonio, gli piace assestare queste picconate improvvise alla placida e consolante fede degli astanti, anche se non manca di dare spiegazioni, il più delle volte convincenti.In questo caso, per esempio, si è preoccupato di dire che il termine “onnipotente” non esiste nel Nuovo Testamento, dove frequentemente, Dio è considerato “Misericordioso”.

Pensiamoci un po’. La concezione di un Dio onnipotente, ha portato e continua a portare molti “fedeli” (e anche non fedeli !), a rinfacciare a Dio il fatto che non è intervenuto per evitare quella catastrofe, non ha impedito quella grave malattia, ha permesso quel grave delitto e via discorrendo. In altre parole, gli si rinfaccia l’Assenza. Questa distorta visione di Dio, assolutamente non presentata da Colui che ce l’ha fatto conoscere, ci ha portato a vivere una fede molte volte condizionata dal risentimento perchè Dio non interviene nelle nostre vicende umane. Lo stesso Gesù storico, atteso e considerato quel Messia vendicativo che le avrebbe suonate agli oppressori del popolo ebraico, è stato abbandonato da tutti quando non ha risposto alle aspettative di un forte Condottiero verso la liberazione dai romani. In definitiva, e ficchiamocelo in testa senza che questo ci scandalizzi, DIO NON PUO’ TUTTO! Gesù ce lo ha presentato come un compagno di viaggio, che incoraggia a darci da fare, che ci indica la strada, e per esperienza, sappiamo che la strada da percorrere per costruire il suo Regno gia su questa terra, che altro non vuol dire che realizzare la Giustizia, l’Uguaglianza, la Condivisione, la Pace……, è piena di difficoltà: Egli ci dà il sostegno per affrontare queste difficoltà, non per evitarle.

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Caro Piero, rispondo alla tua “piacevolmente logorroica” lettera. Tanti anni fa mi trovavo a San Pietro di Sorres per gli esercizi spirituali. Ne ho fatti pochi e solo con chi sapevo di ricevere “grazia su grazia”.Uno di questi era predicato da Padre Turoldo. Vicino a me sedeva un prete che sbuffava  continuamente per la lungaggine: minimo un’ora e un quarto. A me piaceva da morire. Le prediche mi sembravano cortissime…
Il fedele ha il diritto a prediche brevi. E può farlo sempre: basta alzarsi dal banco e andare via. Con grande soddisfazione per entrambi. Ma il fedele che borbotta normalmente è un bigotto. Non farebbe mai un peccato simile…Detto questo rispondo alla tua domanda sul mio essere stato viceparroco di don Gino Porcheddu. Devo dire che mi sono trovato bene con lui dal punto di visto pastorale. Era un uomo buono e di fede cristallina che aveva creato una vera comunità cristiana. Lo ricordo con venerazione ed affetto. Dopo un anno di permanenza è venuto a trovarmi Don Manconi che cercava un amico per fare insieme con lui il viceparroco a Porto Torres. La cosa mi è piaciuta, e ho detto “si”.Per quanto riguarda l’aspetto musicale, Don Gino era troppo giovane e per sostituirlo avrei dovuto aspettare molti anni (inutilizzato). Ho preferito farmi l’esperienza sul campo. Tutto qui. Quando Don Gino ha avuto problemi di salute che lo hanno costretto  a lasciare il lavoro mi ha scritto una lettera chiedendomi scusa per non aver capito le mie qualità musicali. Chiedere scusa è segno di grande santità. Mi fermo qui. Non voglio essere “logorroico”.

Un forte abbraccio con stima Don Tonino

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Carissimo don Tonino,
per quanto non ho potuto scrutare l’espressione del volto mentre scriveva la sua, sono tuttavia certo che non c’erano segni di risentimento per la mia bonaria espressione usata. Nel caso contrario, non era assolutamente mia intenzione. Per quanto il termine possa avere solitamente una valenza negativa, diciamo che al momento non ho trovato un sinonimo più ….leggero. E dopo, sa che le dico? Quasi la invidio per il buon umore e la lucidità che riesce ad avere a quell’ora mattutina…io, prima di mezzogiorno ho ancora il cervello e l’umore in fase di riscaldamento. Solitamente ascolto volentieri tutte le sue considerazioni, frutto di esperienza e di passione vera. Certo è, per come sono strutturate le liturgie, possibilità di scambio non è che abbondino, per cui c’è il rischio che comporta ogni qualvolta è una sola persona che parla ed esprime le personali intuizioni. Sono certo che mi capisce. L’assemblea, oltre le parti rituali sue proprie, non ha molta possibilità di essere “attiva”. Basta così, altrimenti rischio di essere “logorroico”, anche se spero, piacevolmente per lei. Spero quanto prima di prendere un caffè insieme.

Con stima e affetto. Piero

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Caro Piero, vedo che mi conosci bene. Ho riso di gusto mentre scrivevo la risposta. Grazie per la tua intelligenza. E’ vero. A volte potrei essere più breve. Sto migliorando molto (sic) e rispetto al passato ho fatto molti (?) progressi. Nei giorni feriali la mia messa con omelia dura 25 minuti. La domenica sono più lungo ma ci sono dei fedeli (forse pochi) che mi dicono che sono uno dei pochi preti che ascoltano  volentieri e capiscono quello che dice o perlomeno se ne vanno turbati. I fedeli sono diversi tra loro e strani Alcuni, pensa, mi rimproverano quando sono breve. Tengo da più di un trentennio un corso biblico dalla durata di sessanta minuti per lezione e ancor oggi ho circa cento ascoltatori per settimana. Ma lì chiunque può interrompere e fare domande. Alla messa non lo ritengo possibile almeno che non duri diverse ore. Grazie delle tue osservazioni, sono sempre utili anche se so da don Primo Mazzolari che i colpi al prete arrivano  sia da sinistra che da destra. E tutti al cuore. Con piacere il caffè insieme.

Con affetto e stima   Don Tonino

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Ecco gli articoli pubblicati su La Nuova

19 dicembre 2016

Addio al sacerdote che fece amare a tutti la musica polifonica

di Gianni Bazzoni

Quasi un mese fa, ormai provato dalla malattia era tornato a dirigere i Cantori della Resurrezione, anche se gli avevano consigliato di non affaticarsi. Una sedia davanti al coro fondato trent’anni fa e il maestro seduto, poi la sofferenza in piedi per dirigere l’Ave Maria. L’ultima volta in pubblico di don Antonio Sanna è in quelle immagini che oggi vengono delicatamente consegnate al ricordo. Il prete-musicista si è spento ieri nella sua casa, a cinquanta passi dalla parrocchia di Cristo Risorto che aveva fondato nel 1970. Aveva 84 anni, originario di Bottidda, era arrivato a Porto Torres quando aveva 27 anni, giovanissimo sacerdote, vice parroco a San Gavino. E aveva subito messo in evidenza la sua straordinaria passione per la musica polifonica, sorretta da doti eccellenti che nel tempo lo hanno portato – da autodidatta – a sedere allo stesso tavolo dei più grandi compositori e direttori di coro italiani ed europei. Nel 1959 aveva fondato il Coro Polifonico Turritano che ha diretto per 37 anni proiettandolo verso livelli artistici certificati da decine di premi (sei primi posti ad Arezzo) in competizioni internazionali. Nel 2007 gli è stato consegnato il premio «Una vita per la direzione corale» istituito dal Concorso polifonico internazionale Seghizzi. Non c’era youtube e neppure Facebook, insomma non era così immediata la registrazione di una esibizione artistica, ma certo sarebbe bello oggi – per tutti – rivedere quel piccolo-grande uomo dirigere le sue “Tre danze sarde”, mentre ondeggia e guida il coro a un ritmo che cresce e coinvolge fino a fare scattare in piedi il pubblico, anche quello di fede straniera che non capiva una parola di sardo ma tanto di musica.

Già, la musica insegnata con la fede, senza mai fare invasioni di campo, con un a apertura al dialogo e al confronto ma con una presenza forte, chiara, dettata dalla sua elevata cultura. Ai suoi corsi biblici sono arrivati in tanti, da ogni parte, per nutrirsi della fede cristiana. E la parrocchia di Cristo Risorto è diventata nel tempo un punto di riferimento. Chi ci capitava per caso, capiva subito che dietro quelle “picconate” assestate all’improvviso e che facevano traballare chi si presentava con la corazza fragile del bigottismo c’era il messaggio di un prete che non nascondeva la sua avversione per l’apparato esteriore, per tutte quelle cose che appesantiscono una religiosità che piace tanto a chi professa una fede miracolistica e assai poco alle nuove generazioni. A quei giovani che l’hanno amato e ammirato. Don “Tonino” era uno dalle scelte nette, e quando tagliava era per ricominciare. Così come ha fatto 30 anni fa, nel 1986, con i Cantori della Resurrezione, creati dal nulla e oggi riconosciuti come uno dei complessi corali più interessanti del panorama polifonico italiano. Amava discutere di politica, delle vicende di una Porto Torres alla quale era profondamente affezionato e quando dieci anni fa gli venne concessa la cittadinanza onoraria di “turritano a vita” ironizzò sul riconoscimento augurandosi di trovare posto nel cimitero cittadino. Ma rivolse un appello serio agli amministratori locali: «Non fate morire i Cantori della Resurrezione…».

La camera ardente è stata allestita nella parrocchia di Cristo Risorto dove oggi alle 16, in quella che considerava la sua casa, saranno celebrati i funerali. Dieci anni fa, quando don Sanna celebrò la messa per la morte del regista sassarese Giampiero Cubeddu, al quale lo legava una profonda amicizia, disse: «Il Regno di Dio è vicino, Giampiero ce ne ha dato un saggio…». Ora il prete esempio di tenacia, determinazione e voglia di andare avanti, quello che ha insegnato che “la musica è vita” è partito per un nuovo viaggio lasciando un patrimonio straordinario che fa grande Porto Torres e la Sardegna. Buon viaggio don Sà…

Sul “coro di campagna”

«Cosa ho provato? Mi è bastato guardare le facce del pubblico, sentire quegli applausi che non finivano mai e poi leggere negli occhi dei miei coristi l’incredulità e allo stesso tempo la gioia per un risultato che ci collocava tra i grandi della polifonia italiana». Il maestro non l’aveva mai detto a nessuno, ma quella storia della prima volta ad Arezzo, quando i giornali etichettarono il Polifonico Turritano come “coro di campagna” non gli era andata giù. E dopo tanti anni, quando la giuria decretò il primo premio al complesso corale diretto da Antonio Sanna, lui goceanino testardo, uomo di grande cultura e musicista che i grandi avevano cominciato a “studiare”, si regalò quel momento di festa. Una rivincita silenziosa, senza gesti eclatanti ma con tanta soddisfazione dentro. Perché il maestro era lui. (g.b.)«Cosa ho provato? Mi è bastato guardare le facce del pubblico, sentire quegli applausi che non finivano mai e poi leggere negli occhi dei miei coristi l’incredulità e allo stesso tempo la gioia per un risultato che ci collocava tra i grandi della polifonia italiana». Il maestro non l’aveva mai detto a nessuno, ma quella storia della prima volta ad Arezzo, quando i giornali etichettarono il Polifonico Turritano come “coro di campagna” non gli era andata giù. E dopo tanti anni, quando la giuria decretò il primo premio al complesso corale diretto da Antonio Sanna, lui goceanino testardo, uomo di grande cultura e musicista che i grandi avevano cominciato a “studiare”, si regalò quel momento di festa. Una rivincita silenziosa, senza gesti eclatanti ma con tanta soddisfazione dentro. Perché il maestro era lui.

                                                                         20 dicembre 2016 

L’addio della comunità a don Tonino

di Gavino Masia

 

«Possa il Signore ricompensarlo per il bene che ha fatto e faremo in modo di mettere in pratica ciò che il suo Maestro ha insegnato a lui e lui ha poi insegnato a noi». Parole di ringraziamento e di speranza che il parroco di Cristo Risorto don Michele Murgia ha detto ieri sera durante l’omelia del funerale di don Tonino Sanna: «Un fratello e un maestro con cui siamo entrati in sintonia già dal primo momento in cui ci siamo incontrati: lui ha detto “A me non piace comandare” e io ho risposto “A me non piace obbedire”, battute ironiche che ci hanno permesso di capirci al volo e di vivere un periodo bellissimo della nostra esistenza». Tanti i ricordi di don Murgia in una chiesa gremita all’inverosimile e con tanta gente rimasta fuori ad ascoltare. Commovente il ricordo degli ultimi giorni di vita del prete maestro di musica polifonica che ha voluto proprio il suo successore in parrocchia a celebrare l’omelia del suo funerale. Ad accompagnare ogni passo della funzione religiosa i Cantori della Resurrezione – gruppo creato 30 anni fa e oggi uno dei complessi corali emergenti nel panorama polifonico nazionale – mentre ad assistere alla messa c’erano i coristi che hanno fatto parte del Coro Polifonico Turritano che il maestro Sanna ha portato ai vertici della polifonia internazionale conquistando premi prestigiosi a tutti i livelli. A presiedere la concelebrazione, il vescovo padre Paolo Atzei – accompagnato dai canonici turritani – che sul filo dei ricordi ha ripercorso i primi anni di conoscenza di don Tonino: «Mi piace pensare a lui senza rubare la tessera biografica che ognuno di voi conserva nella mente, sigillata dal ricordo della vicenda a Porto Torres dopo un anno di viceparroco a Sassari in Cattedrale accanto al grande maestro di musica Aldo Porqueddu. Qui dal 1966 nella parrocchia di Cristo Risorto non è sorta una grande basilica ma quello che lui ha fatto da subito in semplicità e povertà trasmettendo calore e intensità umana insieme a quel filone musicale di cui voi avete goduto con bellissimi concerti a livello nazionale e internazionale».

Testimonianze che raccontano la vita di un prete che ha saputo dare una sua impronta precisa alla parrocchia di Cristo Risorto e che l’ha fatta crescere nel tempo con quella sua caparbietà tipica a cui univa tenerezza e dolcezza nell’affrontare qualsiasi tema della vita quotidiana. «In questi 12 anni del mio episcopato – ha aggiunto padre Paolo – con don Tonino ho avuto dei colloqui bellissimi almeno una volta l’anno, nei quali ho colto la dimensione più vera e più creativa della struttura umana, che è quella della libertà». Dopo la messa tanti applausi e una fila interminabile di persone di tutte le età per dare l’ultimo saluto al parroco, maestro di musica e di vita. Il finale è nelle parole che don Michele Murgia ha postato sul social: «Ciao amico mio: prometto di guardare sempre nella stessa direzione in cui guardavi tu».

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QUANDO AD EMIGRARE – PER LA FAME, NON PER LA GUERRA – ERANO GLI ITALIANI

pagina tratta dal sito della Fondazione Paolo Cresci per la Storia dell’Emigrazione Italiana

 

Partire

La decisione di partire veniva spesso presa su richiamo dall’estero di parenti o amici e trovava conforto anche nelle “guide per gli emigranti” molto spesso prodotte dai paesi che volevano attrarre manodopera dall’Europa. Esse mostravano immagini da paradiso terrestre: sconfinate pianure dall’esuberante vegetazione, case linde, ordinati quartieri cittadini.

Questi sogni su carta venivano esibiti con spregiudicatezza dalle agenzie di viaggio e dagli agenti delle compagnie di navigazione per convincere gli indecisi a partire. Gli agenti erano talvolta veri e propri emissari di società o governi esteri. Tipico il caso del Brasile che, negli ultimi decenni dell’Ottocento, incrementò l’immigrazione dall’Europa offrendo il viaggio gratuito dal porto di partenza sino alla destinazione finale nelle fazendas nelle quali sarebbe stato concesso a ciascuna famiglia emigrata anche un lotto di terreno coltivabile in proprio.

La procedura per l’espatrio prevedeva la richiesta e la successiva concessione del passaporto. Quello per l’emigrante, dall’inizio del Novecento, fu per un lungo periodo caratterizzato da una copertina di colore rosso. Sul passaporto dell’uomo con famiglia al seguito potevano essere iscritti la moglie e i figli e anche gli ascendenti conviventi. Per gli iscritti alla leva serviva anche il nulla osta delle autorità militari.

Si va,ma dove?

In treno si raggiungevano i paesi europei e anche il porto francese di Le Havre da cui era più agevole, per gli emigranti del Nord, imbarcarsi per le destinazioni americane. Il numero delle partenze crebbe – torrenziale – sino alla vigilia della prima guerra mondiale: era “la grande emigrazione”.

Al termine del conflitto e per la progressiva chiusura degli sbocchi americani si rinnovò l’esodo verso le destinazioni europee ma con un numero ridotto di espatri. Agli altri porti si aggiunse Trieste. Nel secondo dopoguerra le partenze verso tutte le destinazioni, continentali o intercontinentali che fossero, ripresero con un notevole incremento numerico.

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L'imbarco dei bagagli degli emigranti sul piroscafo “Tomaso di Savoia” del Lloyd Sabaudo. 1919

 

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             Il viaggio e l’arrivo

A bordo

Almeno sino alla fine dell’Ottocento, gli armatori italiani effettuarono il trasporto degli emigranti con una flotta obsoleta di velieri che furono, a ragione, chiamati “le navi di Lazzaro”. Il viaggio che, ancora nei primi anni dello scorso secolo, poteva durare anche un mese si compiva in condizioni di vita oggi inimmaginabili. La situazione peggiore era quella degli alloggi.

Le cuccette, tutte nella parte bassa della nave, si affacciavano su corridoi che per lo più ricevevano aria soltanto dai boccaporti. In esse mancava letteralmente lo spazio vitale. Di conseguenza, al mattino, qualunque fossero le condizioni atmosferiche, tutti erano costretti a trasferirsi sui ponti: le malattie – polmonari e intestinali specialmente – erano all’ordine del giorno e anche la mortalità era alta.

La valigia è stata a lungo il simbolo dell’emigrazione. Prima della valigia c’era il “fagotto”: un pezzo di stoffa, uno scialle nel migliore dei casi, in cui avvolgere le cose da portare con sé nel nuovo paese. In alcune delle foto sottoi pubblicate si vedono delle donne “infagottate”, sono esse stesse dei bagagli in quanto hanno addosso più abiti, messi a strati, per non lasciare incustoditi nelle stive i propri averi, poveri e perciò preziosi. E nel fagotto, o nella valigia, c’era tutto un “mondo”: ricordi della famiglia ormai lontana, un biglietto per un parente o un compaesano, talvolta una lettera di presentazione per qualcuno che, si sperava, potesse dare un aiuto, cibo, uno strumento musicale… un mondo, appunto. E anche, per i più previdenti, un vocabolario “fai da te”.  Con la costruzione negli anni Venti dei grandi piroscafi da crociera, che trasportavano ancora gran numero di emigranti, la durata del viaggio e le condizioni di vita a bordo migliorarono sensibilmente.

Emigranti sul ponte, inizi novecento

Emigranti sul ponte, inizi novecento
Donne emigranti in coperta. 1900

Donne emigranti in coperta. 1900
Spaccato di un piroscafo

Spaccato di un piroscafo

Arrivati finalmente

Nel paradiso terrestre promesso dalle “Guide” le cose, in realtà, stavano diversamente. Subito dopo l’arrivo gli immigrati cominciavano a rendersi conto di essere giunti nell’America com’era e non come l’avevano sognata. Le immagini da paradiso terrestre di cui si erano riempiti gli occhi e la mente trovavano scarso riscontro nelle pesanti formalità burocratiche cui venivano sottoposti e, almeno negli Stati Uniti, molti erano coloro che venivano respinti specialmente perché affetti da malattie invalidanti. Quelli che venivano ammessi nel paese erano trattati, e contrattati, come a una fiera del bestiame o a un mercato degli schiavi. Inoltre, per restringere la portata delle correnti migratorie furono varati, nel tempo, provvedimenti di vario genere.

In Argentina e Brasile, paesi che hanno accolto grandi masse di emigranti italiani, anche lo sbarco non era facile. Dalla nave si raggiungeva la terra ferma dopo il trasbordo su barche e barchette (in Argentina l’ultimo tratto d’acqua veniva attraversato su carretti trainati da cavalli mentre in Brasile, dal porto di Santos, si raggiungeva San Paolo in treno). Una volta sulla terraferma si veniva alloggiati in strutture che potremmo definire di contenzione – l’Hotel e l’Hospedaria degli immigranti. I governi dei due paesi offrivano informazioni generali su usi e costumi locali oltre l’aiuto di uffici del lavoro che, però, operavano senza alcuna forma di selezione dei nuovi arrivati in base alle competenze lavorative. In realtà il punto di forza dell’emigrante era la “catena migratoria”, la rete di parenti, amici, compaesani che, avendo già vissuto l’esperienza dell’esodo, lo guidava in ogni fase dell’espatrio e ne facilitava l’inserimento nel paese di destinazione.

New York, Appena arrivati

New York, Appena arrivati
USA, New York, Banchina d’approdo della Navigazione Generale Italiana

USA, New York, Banchina d’approdo della Navigazione Generale Italiana
Argentina, Buenos Aires, 1900 circa. Carretti che trasportano gli emigrati sulla terraferma

Argentina, Buenos Aires, 1900 circa. Carretti che trasportano gli emigrati sulla terraferma
L’arrivo al porto di New York

L’arrivo al porto di New York

La “Merica”

 

Negli Stati Uniti, all’arrivo nel porto di New York, gli emigranti venivano sbarcati e costretti a Ellis Island dove i controlli erano molti e severi.

Tutta una serie di norme operavano una prima, drastica selezione. Esse spaziavano nei più disparati campi: si veniva respinti per malattia (per esempio, i tracomatosi erano al più presto reimbarcati per il paese di origine), per indigenza estrema, per età giovanile o troppo avanzata, per stato civile (donne e orfani che non avevano nel paese chi li soccorresse e li aiutasse a trovar lavoro).

Nel 1917, dopo averlo preannunciato per più di vent’anni, fu varato il Literacy Act, una legge sull’analfabetismo che impose un’effettiva stretta all’immigrazione e colpì tantissimi italiani specie meridionali.

Ulteriori restrizioni si ebbero con l’approvazione delle leggi, nel 1921 e nel 1924, dette Quota Act che permettevano annualmente l’ingresso di immigrati di una qualsiasi etnia in numero molto limitato.

USA, New York.	 Appena sbarcati ad Ellis Island

USA, New York. Appena sbarcati ad Ellis Island
USA, New York, Il salone di Ellis Island dove gli immigrati sostavano in attesa dell’espletamento delle pratiche di controllo e di accettazione

USA, New York, Il salone di Ellis Island dove gli immigrati sostavano in attesa dell’espletamento delle pratiche di controllo e di accettazione
USA New York. Veduta di Ellis Island

USA New York. Veduta di Ellis Island

Miss Liberty

La Statua della libertà – chiamata da sempre Miss Liberty – fu donata dalla Francia agli Stati Uniti in segno d’amicizia e si legò strettamente al fenomeno dell’emigrazione solo dopo che furono incisi sul suo basamento i versi di Emma Lazarus: “Tenetevi, antiche terre, i fasti della vostra storia… Datemi coloro che sono esausti, i poveri, le folle accalcate che bramano di respirare libere, i miseri rifiuti delle vostre coste brulicanti: mandatemi coloro che non hanno una casa, che accorrano a me, a me che innalzo la mia fiaccola accanto alla porta d’oro”.

Quella bella signora sembrava essere grande come l’America e come i sogni degli emigranti di “fare la Merica”.

Invece, all’arrivo nel porto di New York, dopo aver contemplato con la dovuta meraviglia la maestosa signora, gli emigranti venivano sbarcati e costretti a Ellis island dove tutta una serie di norme operavano una drastica selezione.

Eppure, nell’immaginario di molti immigrati la Statua della libertà è diventata l’America pur con tutte le sue contraddizioni. Essi scoprirono che le strade non erano pavimentate di oro e addirittura che quelle strade sarebbe toccato a loro costruirle.

E la speranza di vivere in uguaglianza e in libertà si sarebbe presto dissolta.

L’immagine della Statua della libertà è quella che gli emigrati negli Stati Uniti hanno più inviato a famiglia e amici rimasti in Italia

Cultura a Sorso? Pa cariddai…..

 

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di Piero Murineddu

Eccovelo l’ingresso sprangato di quella che fu la Ludoteca e il Centro di Aggregazione sussincu. L’ultima volta che mi è capitato di vederne il portone desolatamente chiuso è quando sono andato per rendermi conto direttamente dello stato di degrado in cui versa la spazio circostante e quella bruttissima palestra nella struttura comunale di Sant’Anna, un ammasso di grigio cemento circondato da erbacce, vetri rotti, tubi di scolo dell’acqua piovana non interrati.

Vedi

Sorso: Il “Museo” c’è, ma neanche lu sindaggu….lo vede

Un luogo emblematico che sintetizza lo stato di semi abbandono in cui versa la cittadina di Sorso, sopratutto nelle sue periferie, e tutto per colpa di questa politicaglia che ci sta sgovernando ormai da troppo tempo e che non ammette il proprio fallimento, tornandosene bravi bravi alla loro vita privata, magari lasciando l’onere ad un commissario prefettizio il tentare di restituire alla comunità romangina un pò di dignità. Niente. Loro se ne stanno rigidamente attaccati come fantasmi invisibili al loro non invidiabile posto di comando, senza un minimo di vergogna e addossando la responsabilità dell’immobilismo amministrativo alle solite casse vuote.

Voglio limitarmi a considerare l’ambito “culturale” della convivenza sussinca (si fa per dire “convivenza”, perchè ormai ciascuno preferisce starsene per gli affarazzi propri coltivandosi il piccolo “orticello” familiare).

Ricordate questa estate, quando, dopo mesi e mesi di chiusura, l’assessore incaricato si era impegnato pubblicamente a far riaprire “a giorni” La Billellera? Parole e bugie. Andate a rileggervi

Imminente apertura de La Billellera. Parola di assessore

Nel posto simbolico della “cultura”, qual’è la Biblioteca comunale, l’assessore incaricato raramente vi mette piede. La zona del soppalco, resa inagibile dalla famosa alluvione di quel stramaledetto 18 giugno, nonostante le segnalazioni, credo che continui ad essere inaccessibile. Naturalmente vorrei sbagliarmi. Nel caso chiedo scusa.

Se seguite “Sorso e Sennori – La Banca della Memoria”, vi sarete accorti che ultimamente ho dato molto spazio all’opera  di Anna Demuro, un’artista veramente di valore, e naturalmente poco conosciuta e ancor meno valorizzata. All’inizio della scorsa estate erano andati a trovarla nella sua abitazione l’assessore alla Cultura e la vice sindaco di Sorso. Non c’è bisogno di fare nomi perchè li conoscete benissimo. Ebbene, dopo aver fatto loro vedere le tante opere presenti in casa, compresa la grande urna posizionata in giardino che racchiude la particolare “Collina delle Croci” da lei realizzata, ha fatto legger loro il “testamento” col quale s’impegna a donare alla popolazione di Sorso diverse sue opere pittoriche di grandi dimensioni, a patto che ci sia un luogo idoneo per esporle pubblicamente. “Consideri la cosa gia fatta“, ha detto l’assessore. Da allora tutto tace, come è sprofondata nel silenzio più assoluto la valorizzazione di tutti in nostri artisti e letterati. 

Stessa disponibilità l’aveva espressa il prof. Nicola Tanda, possessore di una grande biblioteca. Niente. Si è lasciato che il Professore facesse la sua donazione al comune di Ozieri, che gli aveva dato l’importanza e l’attenzione che lo studioso sorsinco meritava.

Tre esempi, sintomi del’importanza che a Sorso chi di dovere NON DA alla Cultura.

Ma torniamo al Centro di Aggregazione. Abbiamo letto da poco su La Nuova che la Cooperativa che gestiva le attività per tre anni ha chiesto al Comune il pagamento degli ultimi due mesi ancora non evasi, 40 mila euro circa. Dovete sapere che fino a quando il Centro era sotto la responsabilità diretta dei Servizi Sociali di Sorso, le cose andavano benissimo e le persone erano contentissime di frequentare e di partecipare alle varie attività portate avanti dal personale. Data  la gestione in mano a questa Cooperativa, progressivamente tutto è decaduto, complice anche l’amministrazione comunale che imponeva alcuni ruoli di responsabilità a persone di sua fiducia e, a giudizio dei frequentatori, completamente incompetenti ed incapaci di entrare in empatia con l’ “utenza” . La responsabile che fino ad allora aveva permesso, insieme alle colleghe, il buon funzionamento della struttura, Francesca Sulas, per tutti Chicca, era stata costretta a fare le valige perchè le si era proposto u contratto degradante e inaccettabile.

Nonostante ciò, il Centro di Aggregazione continuava a rimanere punto di riferimento per molti, ragazzi e adulti, sopratutto donne. Quest’ultime erano ben felici di partecipare a svariate attività che le impegnavano e permetteva loro di uscir di casa non più solo per recarsi  in chiesa,  ai funerali e a far la spesa. Trovarsi insieme, ed insieme fare le cose alla loro portata. Tutto fatto con entusiasmo. Ho senticchiato che qualcuno ogni tanto usufruisce di questi spazi, per suonare o fare chissà che, ma di preciso non so altro. Spero che non siano le solite concessioni ….clientelari, com’è stato  da tempo immemorabile per la Billellera. Qualora sbagliassi, contentissimo di ricredermi.

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Perchè quest’oggi m’è venuto di parlare di questo? Presto detto. Dopo pranzo, per recuperare qualche ramo secco adatto per fare l’albero natalizio, con mia moglie siamo andati in pineta. Vi abbiamo incontrato un gruppo di queste donne appena uscite dal ristorante del primo “pettine”, soddisfattissime del cibo succulento che avevano nello stomaco ad un pezzo ragionevolissimo e nostalgiche dei “vecchi tempi”:

– Ma pagosa no zi bigliemmu una gamara in affittu e zi vemmu noi lu Centro di Aggregazioni? Zesthu ghi èra sthadda una gosa beddha….

Capito? Persone di 70 – 75 anni che hanno il desiderio di stare insieme e isthudà ghissa maradizioni di televisioni sempri azzesa da lu manzanu ghizzu !!  Disposte ad autotassarsi per poter stare insieme. Una cosa completamente nuova per il nostro paese.

Lì mi è venuto di pensare ai grandi spazi che offrono le scuole, il più delle volte inutilizzati la sera. Ma  è proprio una cosa campata in aria che qualche aula venga messa a disposizione di gruppi di persone o associazioni che vogliono coltivare l’amicizia e portare avanti delle attività? Eia, a Sossu, con questi individui che ci sgovernano, di fatto è una cosa impossibile da realizzare.

Non rimane altro che aspettare pazientemente tempi migliori e governanti più illuminati………

RICORSO INAMMISSIBILE

Quinta sezione della Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso, col quale si chiedeva l’annullamento dell’ordinanza del tribunale di riesame di Cagliari, con la seguente motivazione:

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“Il tribunale ha valorizzato le INDUBBIE CAPACITA’ dell’indagato a tessere una rete di amicizie e SOPRATUTTUTTO COMPLICITA’  che gli aveva consentito di STRUMENTALIZZARE A SUO VANTAGGIO, elettorale ed economico,una serie di appalti finanziati dall’ente (Regione) i cui interessi egli avrebbe dovuto rappresentare. Una rete e un contesto dai quali l’indagato non appare essersi distaccato, né la difesa afferma che l’abbia fatto. Non risulta neppure che l’indagato abbia inteso col suo comportamento processuale distinguersi da tale sodalizio, illustrandone struttura e dinamiche o che vi siano altri atti concreti da cui desumere il suo allontanemento definitivo da logiche di arricchimento personale ai danni delle pubbliche amministrazioni che sia l’indagato sia i suoi complici avrebbero dovuto rappresentare”