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Una cittadinanza onoraria per….A proposito: per cosa?

 

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PERPLESSITA’ umbè PERPLESSA

di Piero Murineddu

Don Masia, “il parroco amato et apprezzato da tutti i sennoresi, guida non solo spirituale per tutto il paese”. Fin qui le parole del cronista de La Nuova, Saivadori da Sossu.

E daboi la magniloquente e reboante motivazione della cittadinanza onoraria:

In segno di alta considerazione e riconoscenza per l’intensa attività umana, sociale e morale a sostegno della comunità di Sennori, svolta in 23 anni di presenza nel nostro paese e per l’encomiabile esempio ispirato ai fondamentale valori umani di solidarietà, amore e aiuto al prossimo dimostrato nella sua preziosa missione pastorale

Et ancoraeppoi il virgolettato del giovane sindaco de Sennaru:

“I motivi che ci hanno spinto ad assegnare questa onorificenza sono tanti. Il primo che viene alla mente, in maniera spontanea, è che don Tore è per tutti noi un esempio: con la sua forza, la sua determinazione, il vigore che dispiega nell’affrontare con positività le problematiche della Comunità di Sennori, in sintonia con le amministrazioni comunali, sono un prezioso supporto alla voglia di crescita e di riscatto che accomuna tutti i sennoresi”

Questo è il primo motivo, sindaco Nico’. E il secondo?

Se mi si permette, contrariamente mi permetto ugualmente, in tutto ciò, oltre l’esagerata pomposità condita di retorica baciapile, c’intravedo parecchia fantasia e pure umbé ipocrisia

Vediamo…

1. “Apprezzato e amato da tutti i sennoresi e guida NON SOLO spirituale”              

E di cos’altro, Saivadò (il cronista)?              

2. “Intensa attività umana, sociale e morale”  

E saristhia questa “intensa attività”?

3. “Encomiabile esempio …….”                         

Esempio de ghe?

4. “Preziosa missione pastorale”                                                                    mmmmmmhhhhhhhhh………

5. “Con la sua forza, la sua determinazione, il vigore che dispiega nell’affrontare con positività le problematiche della Comunità di Sennori……”                                                                     

E bla bla bla bla bla e ribla e tribla…………..

Chi mi conosce almeno un pochetto sa che solitamente non riesco ad essere diplomatico e quando qualcosa mi ronza dentro, sento un bisogno quasi irrefrenabile di buttarla fuori. Sarà anche per questo che a certuni non vado proprio a genio? Sarà, ma il problema non é mio…

Sinceramente pensavo che la cittadinanza onoraria fosse una cosa seria e si concedesse solo in casi di particolare merito e francamente questo non mi sembra proprio uno di questi casi. So di cittadinanze onorarie date a letterati, musicisti, artisti e alte personalità. Ma  questo non mi sembra proprio uno di questi casi.

In questa occasione si tratta di un prete. E quali possono essere i meriti di un prete, e parroco nello specifico?

Vediamo….

1. Testimone reale della figura di Gesù Cristo, cioè povero, sincero, smascheratore di sepolcri imbiancati, coraggioso, pronto a dare la vita per l’amico e il nemico, portatore e predicatore di una Parola ricca, attualizzata, gioiosa, fascinosa, provocatoria, edificante, rivoluzionaria, diretta, che mette in crisi il nostro falso perbenismo……..

2. Animatore spirituale, certamente, ma anche sociale, in quanto le due sfere non sono disgiunte

3. Uno che davanti ai potenti ha il coraggio di farsi portavoce dei poveri e dei loro diritti

4. Un “pastore” che cura e ha il massimo rispetto per il suo “gregge” e per ciascuno in  modo particolare

5. Una Guida che fa crescere gli altri e aiuta a costruire una vera e viva comunità

6. Una figura “attraente” e che non manca di criticare il Potere in tutte le sue sfaccetature

6. Che dice pane al pane, vivo al vino, senza girarci troppo intorno

7. Che aiuta la sua comunità ad essere accogliente e aperta, verso tutti e sopratutto verso  i “lontani” spiritualmente ed ideologicamente

8. Che lascia le proprie comodità per “stare con” e sostenere chi fa fatica, chi é costretto dal nostro perbenismo a starsene rannicchiato ai margini

9. Che ascolta, fa sua e mette in pratica la “rivoluzione” che sta tentando questo Papa

10.Per rimanere nelle indicazioni di papa Francesco, che è aperto ad accogliere CONCRETAMENTE i profughi e stimola la “sua” comunità a fare altrettanto

Nel nuovo cittadino onorario de Sennaru vi é qualcuna di queste caratteristiche? Per quanto mi sforzi, io faccio molta fatica ad intravederne manc’una…

Sorso: Il “Museo” c’è, ma neanche lu sindaggu….lo vede

di Piero Murineddu

No, non parlo del Museo ufficiale di “Sossu antiggu” ospitato nella Sede di Rappresentanza dei nostri politici  e dove si svolgono eventi più o meno “colti” che avvengono in paese. Eia, avete capito, il Palazzo Baronale intendo (sede di un assessorato, di mostre pittoriche, di presentazione di libri, matrimoni civili e ridacchianti, commedie, tragedie e quant’altro volete….). Non parlo neanche di auspicati altri musei che facciano conoscere a noi indigeni e agli accudiddi fissi o di passaggio le nostre “eccellenze” attuali e passate (artisti e letterati, Civiltà Contadina, lavorazione di r’ariba, dill’ua, di ra varina e di althri marabigli…). No, manco di questi parlo, sperando di poterlo fare in un prossimo futuro, quando a governare Sossu ci sarà finalmente qualche politico illuminato et intelligente. Il Museo che intendo è di quell’arte particolare e ingegnosa dove i ferri principali del mestiere sono……le bombolette spray. Capito avete? Si, lo so, questi giovani artisti hanno un nome inglese, ma non ho voglia di andare a cercare come si scrive correttamente. L’importante è che ci capiamo. Veramente una bellissima e fantasiosa esposizione. Ve ne faccio vedere alcuni esemplari…

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Embè….abbizzati ve ne siete? Una marabiglia di gurori e vinze di vantasia!

Purtroppo, a goderne della visione sono in pochi, come il gruppetto di giobanotti incontrati stamattina quando sono andato a visità lu Museo (“come mai non siete a scuola?” – “Sciopero c’è” – “E per cosa questo sciopero?” – “Boh!”)

A proposito, non ho detto ancora il perchè della mia “visita”. Lo stimolo me l’ha dato Saivadori, lu giobanottu sussincu che scrive di Sossu e dintorni su La Nuova. Mezza pagina. Motivo? Presto detto, specialmente per gli spilorci che invece di spendere un euro e vinti pa ru giornari, preferiscono bersi la birretta. Queste opere d’arte sono impresse nelle grige mura della scuola materna di Sant’Anna, specialmente quei muri che racchiudono la palestra. Sembra che i vicini abbiano fatto una segnalazione all’Ufficio d’igiene Pubblica dell’Asl perchè sono costretti a subìre il degrado che caratterizza il sito adiacente alle loro abitazioni. Sembra anche che qualche insegnante abbia già fatto in passato la segnalazione alle autorità locali competenti, le quali erano evidentemente presi dal pensiero di come riempire le vuote casse comunali, per cui avevano da preoccuparsi di cose ben più importanti. Per obbligo d’ufficio, i funzionari dell’Igiene Pubblica hanno scritto a ru sindaggu di Sossu per sollecitarne la pulizia. Sapete come se n’è uscito lu signor Morghen? “Non avevamo ricevuto nessuna segnalazione, ma adesso interverremo immediatamente”. 

Nella mia visita odierna ho chiesto ai ragazzi  “in sciopero” da quando è che il posto è così messo male. Uno sui 16-17 anni mi ha risposto che quando da piccolo veniva per giocare, il degrado c’è sempre stato. Oh, caspiterina!

In effetti, i segni di degrado “stagionato” sono evidenti

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Ebba altha, bredu, sporcizia a non finire….. Ragione ha Saivadori, lu gronistha di ra Nuova, ma oltre che degradato, il posto è veramente brutto. Una palestra “bunker”…colate di cemento a non finire…un grigiore che se ci stazioni troppo ti viene il pensiero del suicidio.

Prima, il caseggiato vicino ospitava la Ludoteca e il Centro di Aggregazione, per cui un pò di “vita” vi era, ma adesso è un penosissimo musthoggiu.

Prima di andare lì in fondo, c’è un boschetto, dove qualche appassionato di bocce del tempo che fu aveva immaginato ore rilassanti a giocazzare, e per questo con le proprie mani aveva fatto il campetto. Il Centro da quel dì è morto, ma il campetto c’è sempre, triste e inutilizzato, anche perchè gli uomini di Sorso preferiscono passeggiarsela su e giù per il paese, facendo tappa magari al solito bar, per cui tempo per pensare al “gioco” non ne hanno proprio

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Come dice l’articolo su La Nuova, all’interno del sito vi sono le sedi di ri barrunzeddhi e la Pro Loco, ma stranamente del degrado a due passi non si sono mai accorti. Muddu e fatti l’affari doi, legge imperante a Sossu e non solo…ga si vazzi li vrazzigghi soi campa mill’ànni. Per cui, zitti e mosca.

Andando via, passo davanti al Giardino degli Aranci, posto pubblico…… naturalmente ben chiuso

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A Luigi, un giovanotto che va spesso a trovare la nonna che abita davanti al cancellone d’entata, chiedo quand’è l’ultima volta che lo ha visto aperto. “Alla festa della Madonna“, mi risponde. Aggiunge che del giardino pubblico ha le chiavi un privato che abita nella casa rossa lì all’angolo, ma non si sa a quale titolo. Probabilmente a rifornirsi a suo piacimento di arance e limoni “pubblici”, penso io maliziosamente. Non ho messo mai piede in quest bel giardino. Bisogna che mi ricordi di farlo ……alla prossima festa di “Noli me tollere”, senza toccare i limoni  di proprietà pubblica, naturalmente.

Ringrazio Saivadori, lu gronistha di Sossu, per lo spunto che stamattina mi ha dato per “l’struttiva” passeggiata che mi ha fatto fare, e anche perchè ho saputo che lu sindaggu Morghen, adesso che è stato informato del degrado di un posto dove giornalmente le mamme affidano i loro figlioletti alle maestrine, INTERVERRA’ IMMEDIATAMENTE.

 

Ischuseddi ancòra un poggu. Eru pinsendi:

MA IL COMPITO DI UN ASSESSORE NON E’ SOPRATUTTO QUELLO DI CURARE IL PROPRIO AMBITO, STANDO ANCHE A CONTATTO CON LA GENTE E GIRANDO NEI LUOGHI DI SUA COMPETENZA PER RENDERSI CONTO DI PERSONA?

Buone giornate piovose a tutti

PREDICARE più o meno bene e RAZZOLARE secondo la propria comodità

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MANCANZA di TEMPISTICA e altro ancora

di Piero Murineddu

Questa lettera pubblicata oggi su “La Nuova Sardegna” mi da’ l’opportunità  di spiegare il motivo per cui era da molto tempo che avevo smesso di scrivere al “nostro” giornale.

Considerando la poco diffusione de “L’Unione Sarda” nella parte settentrionale dell’isola, si può affermare che La Nuova sia il quotidiano maggiormente letto dai tattaresi e compagnia nordica. In questo giornale, dopo le pagine dedicate sbrigativamente a ciò che succede al di là del Tirreno e nel mondo, a quelle della cronaca locale, alle troppe dedicate allo sport, si arriva “finalmente” ai necrologi, pagina dalla quale molti iniziano ad aprire l’organo informativo.Naturalmente tutti i paginoni dedicati alla pubblicità vengono saltati con stizza, vanificando la spesa e l’aspettativa dell’inserzionista, almeno per me, s’intende. Ciò detto, chi dei cittadini vuole esprimere un qualsiasi parere che vada oltre la stretta cerchia familiare o amicale, per forza di cose è “costretto” a mandare il proprio scritto al giornale in questione, anche se con l’avvento dei social le possibilità si sono allargate, facendo anche arrivare più direttamente il messaggio, seppur ad una cerchia sempre limitata. Diciamo pure che pubblicando su La Nuova, ciò che si vuole esprimere arriva a più persone. Comprensibilmente bisogna riuscire ad essere concisi, e non tutti hanno questa capacità. Io sono tra questi. La lettera pubblicata in verità è gia lunghetta, ma i tagli vi sono. Se avete voglia in questo link potete leggere quanto da me pubblicato “a suo tempo” su questo stesso blog

(cliccateci sopra o fare copia-incolla)

E come riparo, il tettuccio d’ingresso della chiesa

Naturalmente a La Nuova non avevo mandato l’intero contenuto del blog. Il fatto è che questa lettera, rimanendo attuali le valutazioni (almeno dal mio punto di vista), in un certo senso è superata dagli eventi. Infatti la dozzina di giovani somali che pernottavano all’aperto, nel mentre sono stati ospitati in un locale di una vicina parrocchia, e questo per interessamento di un gruppo di cittadini e la sensibilità del parroco che li ha accolti. In più, non avevo chiesto chiarimenti ad un parrocchiano qualsiasi, ma allo stesso parroco della chiesa vicino alla Questura sassarese

Era su questi ultimi eventi che avevo inviato una nuova lettera, dopo che avevo perso la “speranza” che la precedente sarebbe stata pubblicata.

Ecco  il contenuto dell’ultima, spedita via email una settimana fa e non ancora pubblicata:

Leggere della soluzione trovata per il gruppo che forzatamente nei giorni scorsi soggiornava all’aperto nei pressi di una chiesa sassarese, riempie di speranza. Vuol dire che c’è ancora qualcuno che non si limita alle parole o, peggio, rimane indifferente ai bisogni altrui. Un gruppo di maestre, di studenti e  di genitori che si prendono a cuore il problema e si mobilitano per fare quello che possono. Bellissimo! Nei giorni (e sopratutto notti) di “campaggio” contro voglia, non è mancata la solidarietà degli altri migranti che ancora usufruiscono di un tetto e neanche di chi gestisce la casa d’accoglienza che il gruppo ha dovuto lasciare, fornendo loro il pasto serale. Segni importanti, non meno di quello del parroco che ha aperto la porta della canonica per dare ospitalità concreta, dimostrando che  tra il clero c’è ancora qualcuno che ascolta papa Francesco e non si limita a predicare  – più o meno bene –  ma a “razzolare” secondo la propria comodità. Adesso rimane l’altro passo importantissimo, questa volta delle istituzioni: oltre alla prima accoglienza, pensare sopratutto all’integrazione di tutta questa gente che per disperazione ha dovuto lasciare la propria terra. Intanto, come famiglie, per far sentir meglio la nostra vicinanza, abbiamo la possibilità, per esempio, d’invitare al pranzo natalizio nelle nostre case uno o due migranti. Sarebbe anche questo segno che non tutti siamo condizionati dalle nostre paure e pregiudizi. Sono persone in tutto uguali a noi, e come tutti, anche loro hanno bisogno di calore e amicizia. E’ un’opportunità di crescita, per noi e i nostri figli. (Pi.Mu.)

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Africa, ‘Fantozzi, la superiorità culturale è una cagata pazzesca!’

di Michele Dotti   MDotti-thumb

 

Tempo fa sentii con le mie orecchie  le parole alla radio di Paolo Villaggio sulla inferiorità della cultura africana. Se così non fosse non avrei potuto credere che un uomo di cultura come lui potesse mai esprimere un’idea così volgare, immatura e arretrata.

Siamo passati dalla teoria -ormai scientificamente insostenibile- della “superiorità della razza” a quella più subdola, ma non meno pericolosa, della “superiorità di una cultura”. Mi riecheggiano nella mente le nitide riflessioni del grande antropologo Marco Aime nel suo prezioso saggio Eccessi di culture.

Su una cosa soltanto concordo con Villaggio: l’ipocrisia buonista che si cela dietro certi atteggiamenti, ma riscontro che purtroppo non si tratta di razzismo; uno stesso livello di ipocrisia lo si ritrova spesso anche fra gli italiani.

Pare evidente invece l’ignoranza che Villaggio esprime sulla straordinaria ricchezza delle culture africane. E dicendo questo non mi riferisco solo alla loro immensa storia antica, in larga parte violentata da secoli di schiavitù e colonialismo, ma anche a quell’insieme di valori -tutt’ora vivi- che per molti aspetti potrebbero persino rappresentare un faro per il nostro futuro, nello smarrimento contemporaneo legato al declino materiale e spirituale della nostra cultura del “ben-avere”.

Mi riferisco a delle visioni africane della vita e della società da cui noi avremmo molto da imparare, in un fecondo scambio interculturale, per riorganizzare le nostre società su basi diverse e più sostenibili, non solo da un punto di vista ambientale, ma anche sociale. Mentre noi ci attorcigliamo disperati nella morsa della povertà, che ci dicono essere portata dalla crisi, in alcune lingue africane non esiste neppure una parola per tradurre il concetto di “povertà economica”; nella lingua wolof del Senegal, ad esempio, per esprimere questo concetto si utilizza l’espressione “ki amul nit”, che significa “orfano”, quindi povero di relazioni.

La centralità della dimensione sociale appare evidente in molte culture africane e potrebbe, a mio avviso, suggerirci qualche utile spunto di riflessione di fronte al collasso di un sistema fondato sull’individualismo e sull’ideologia della crescita.

Se ho fatto riferimento ad una espressione in una lingua africa è perché -come ricordava ironicamente Nanni Moretti– “le parole sono importanti”, in positivo come in negativo.

E in Africa lo sanno bene, come dimostra questa celebre frase di Amadou Ampaté Bà, grandissimo poeta del Malì, che riassume splendidamente l’importanza dell’oralità nelle culture africane: “In Africa quando muore un anziano brucia una biblioteca.”

La parola infatti è tutto nella comunità di villaggio! E’ attraverso la parola che si prendono le decisioni più importanti per la comunità e si trasmette tutto il sapere antico, le conoscenze, la cosmogonia, la saggezza degli anziani…

Mi sembra interessante considerare la traduzione che propone Bernard Lédéa Ouedraogo -fondatore del Movimento Naam- per la parola “sviluppo” nella lingua mooré del Burkina Faso: “Se si dovesse tradurre il termine “sviluppo” in lingua mooré, nel linguaggio dei contadini, si impiegherebbe l’espressione: “somwata”” che significa: “le buone relazioni e i benefici aumentano”.

Non è forse abbastanza chiaro?

Uno sviluppo inteso non come raggiungimento del benessere economico – cioè come crescita materiale – ma di un benessere globale, che privilegia le relazioni sociali e l’armonia della comunità. Se prendessimo questa concezione dello “sviluppo” come metro di riferimento, chi risulterebbe “sottosviluppato”?

Ma c’è un’altra espressione in lingua mooré su cui vale la pena riflettere: “Lafi”, onnipresente nei saluti, che significa al tempo stesso “salute fisica”, “pace interiore” e “pace” nella comunità e nel paese, intesa come assenza di guerra o conflitti interni.

Non esistono tre parole distinte per esprimere questi concetti che risultano quindi legati indissolubilmente in una concezione del “benessere” che racchiude in sé gli aspetti sia fisici che psichici e morali, e non può esistere se non è condiviso dalla intera comunità in cui si vive.

Quanto siamo lontani dalla cultura consumistica fondata su una concezione del “benessere” inteso come “ben-avere” esclusivamente individualistica e materiale, che però si scopre sempre più insoddisfatta e insostenibile.

C’è ancora un termine su cui vorrei soffermarmi, concludendo, sempre nella lingua moré del Burkina Faso, “Nàaba” il quale ha contemporaneamente il significato di “capo” e di “servitore”.

 

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Una visione del potere inteso dunque come servizio alla comunità! Secondo la tradizione, infatti, il potere di un capo è sancito dalla totale mancanza di beni materiali: chi decide su tutto, non ha bisogno di possedere niente.

Una leggenda racconta di tre fratelli che si videro distribuire ciascuno una borsa che conteneva il simbolo della loro attività futura. La borsa del primo fratello conteneva grani di miglio, ed egli infatti divenne agricoltore. La borsa del secondo fratello conteneva ferro, e questi divenne fabbro. La terza borsa, infine, non conteneva nulla: il terzo fratello divenne infatti un capo.

Quanti nàaba, intesi in questo senso, riusciremmo a trovare in Italia? Quanti candidati avremmo alle prossime elezioni se questi dovessero essere servitori in un’ottica che ci ricorda Gandhi, e poveri come San Francesco d’Assisi?

Penso proprio che le culture dell’Africa meritino tutto il nostro rispetto e possano tranquillamente dialogare alla pari con noi, in un reciproco e fecondo scambio di idee. Detto in parole più semplici, riprendendo un celebre espressione dell’intramontabile Fantozzi: caro Villaggio, per me la superiorità culturale è una cagata pazzesca!

Papa Francesco, che “delusione”!

“Sono delusi molti dei cardinali… Sono delusi i vescovi in carriera… È deluso gran parte del clero… Delusi anche i laici impegnati nel rinnovamento della Chiesa e i super tradizionalisti attaccati tenacemente al passato… A tanta crescente delusione, per fortuna, fa da contraltare la crescente soddisfazione di quanti sentono in questo papa l’eco dell’amore del Padre che raggiunge il cuore di ogni uomo, e l’entusiasmo dei poveri, degli emarginati, degli invisibili…”

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di Alberto Maggi

All’inizio era solo una discreta mormorazione, poi è diventata mugugno sempre più crescente, e ora, senza più remore, aperto dissenso nei confronti del Papa venuto dalla fine del mondo (e sono tanti che ce lo vorrebbero ricacciare). Papa Francesco in poco tempo è riuscito a deludere tutti. E la delusione si trasforma in un risentimento dapprima covato e ora platealmente manifesto.

Sono delusi molti dei cardinali, che pure lo hanno eletto. Era l’uomo ideale, senza scheletri negli armadi, dottrinalmente sicuro, tradizionalista ma con accettabili aperture verso il nuovo. Avrebbe potuto garantire un periodo di tranquillità alla Chiesa terremotata da scandali e divisioni. Mai avrebbero pensato che Bergoglio avrebbe avuto intenzione di riformare nientemeno che la Curia romana, eliminare privilegi e fustigare le vanità del clero. La sua sola presenza, sobria e spontanea, è un costante atto d’accusa ai pomposi prelati, anacronistici faraoni pieni di sé.

Sono delusi i vescovi in carriera, quelli per i quali una nomina in una città era solo il piedistallo per un incarico di maggiore prestigio. Erano pronti a clonarsi con il pontefice di turno, a imitarlo in tutto e per tutto, dall’abbigliamento alla dottrina, pur di entrare nel suo gradimento e ottenerne i favori. Ora questo papa invita gli ambiziosi e vanesi vescovi ad avere l’odore delle pecore… che orrore!

È deluso gran parte del clero. Si sente spiazzato. Cresciuto nel rispetto rigido della dottrina, indifferente al bene delle persone, ora non sa come comportarsi. Deve recuperare un’umanità che l’osservanza delle norme ecclesiali ha come atrofizzato. Credevano di essere, in quanto sacerdoti, al di sopra delle persone, e ora questo papa li invita a scendere e mettersi a servizio degli ultimi.

Delusi anche i laici impegnati nel rinnovamento della Chiesa e i super tradizionalisti attaccati tenacemente al passato. Per questi ultimi il papa è un traditore che sta portando la Chiesa alla rovina. Per i primi, papa Bergoglio non fa abbastanza, non cambia norme e legislazioni non più in sintonia con i tempi, non legifera, non usa la sua autorità di comandante in campo.

Sono entusiasti di lui i poveri, gli emarginati, gli invisibili, e anche tutti quelli, cardinali, vescovi e preti e laici, che da decenni sono stati emarginati a causa della loro fedeltà al vangelo, visti con sospetto e perseguitati per questa loro mania della Sacra Scrittura a discapito della tradizione. Quel che avevano soltanto sperato, immaginato o sognato, ora è divenuto realtà con Francesco, il papa che ha fatto riscoprire al mondo il profumo del vangelo.

E come riparo, il tettuccio d’ingresso della chiesa

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di Piero Murineddu

Emergenza profughi. Si, l’argomento è ancora quello, anche se molti vorrebbero non vedere e far finta che i giorni  filino lisci uno dopo l’altro nella loro poco entusiasmante e normale ripetitività. Almeno coloro che non storcono con fastidio il naso, gesto seguito dai soliti e ripetitivi luoghi comuni (- ci stanno invadendo – ma che se ne stiano a casa loro – bisogna aiutarli nei loro Paesi – non ci bastano i nostri problemi, anche loro ci vogliono…..e così via)  almeno questi, dicevo, avranno saputo o avranno avuto modo di vedere quel gruppo di migranti che a Sassari sono da qualche giorno ( e notte!) stabili davanti alla chiesa di Gesù Buon Pastore, nei pressi della Questura. Qualche giorno fa mi ha chiamato un amico per informarmene e quando avevo già preso la decisione di andarci di persona in compagnia di un giovane amico in grado di tradurre per capire cosa stesse succedendo,proprio ieri su La Nuova ci ha pensato l’ottimo giornalista Luigi Soriga a darne notizie dettagliate. Riassumendo, si tratta di una dozzina di giovanissimi somali, ex ospiti di un palazzo adibito a centro migranti. Tutti hanno avuto lo status di rifugiati politici, che in sé è una cosa positiva, solo che in questo modo hanno perso il diritto di continuare a stare in quel fatiscente palazzo di via Planargia, al Monte. Liberi di muoversi nella Penisola, quindi, ma che di fatto non sanno cosa fare e non hanno alcun mezzo. Come spiega l’articolo citato, a questo punto dovrebbero entrare nei progetti “Sprar” (Sistema di Protezione richiedenti Asilo e rifugiati) gestiti dagli enti locali e finanziato al 95 per cento dallo Stato.Sarebbe la seconda fase, ovvero il passaggio dall’accoglienza all’integrazione, ma Sassari di fatto anche in questo va a rilento. Il Comune non può intervenire, la struttura d’accoglienza della Caritas è al massimo della capienza. Il fatto concreto che rimane è che tu passi, di giorno e di notte, con la pioggia o il gelo, e li vedi ammassati davanti al portone della chiesa, protetti da una piccola tettoia. Tra gli altri, ieri mattina ho telefonato anche al parroco, il quale agitato, mi ha risposto che lui è vecchio è che è tutta una …… vergogna. Io ho cercato di fargli capire che più che un  sentimento di vergogna, dovrebbe suscitare pena e far scattare una reazione “cristiana” di misericordia e di condivisione. Evidentemente, sentendolo ancora agitato, il mio tentativo è andato a vuoto. Uno dei tanti “don Abbondio” moderni che non vogliono seccature e che rimandano tutto alla competenza delle pubbliche istituzioni, lavandosene le mani.  Sempre nell’intera pagina dedicata all’argomento, in fondo vi era una piccola foto, accompagnata da un trafiletto che ricordava l’invito che il Papa ha fatto e continua a fare, in primo luogo alle comunità cristiane: Accoglienza e Misericordia. In pratica, non a parole. Ma lo sappiamo,il più delle volte questo Papa definito “rivoluzionario” viene apprezzato ma spesso snobbato.

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Le Comunità, associazioni, conventi, monasteri…… Ma chi ha seguito le indicazioni del capo della Chiesa? Il vecchio parroco interpellato mi ha dato quella risposta, ma altri farebbero più o meno altrettanto. La vitalità di una parrocchia non dovrebbe essere considerata tale solo se c’è un parroco attivo e dinamico, ma se i parrocchiani si sentono realmente “Chiesa”, mattoni umani che agiscono amando, che seguono la strada tracciata dal Gesù storico. Purtroppo, a volte, troppe volte, chi comanda nella chiesa locale è il prete, e tutto si muove secondo la sua visione. Cosa fanno i parroci per responsabilizzare i propri parrocchiani a questo dramma epocale? Che iniziative concrete son state prese per dimostrare fraternità verso questi fratelli profughi? A Sorso ci sono i frati francescani. Sappiamo quanto sono ascoltati dai fedeli, specialmente nel mese Mariano. Cosa dicono e cosa fanno in proposito, oltre che mettere le videocamere in chiesa per prevenire i furti ….. sacrileghi, davanti ai quali  i devotissimi della Madonna si strappano i capelli e gridano…vendetta, facendo finta d’ignorare che il grave e vero sacrilegio è quando non si rispetta e non si va incontro ai bisogni degli altri, specialmente quelli più sofferenti ed emarginati? A Sorso vi è una numerosa ed entusiasta comunità evangelica. Stesso discorso. Cosa fanno davanti a questa realtà di disperazione e di bisogno?

La vicenda dei profughi che dormono sulla soglia del portone di una chiesa senza potervi accedere, mi ha fatto pensare ad uno degli ultimi film di Ermanno Olmi, “Il Villaggio di cartone“, di cui propongo in fondo uno spezzone recuperato su youtube.

Leggiamo prima la trama e quanto lo stesso Olmi ha detto in proposito

“Una chiesa viene spogliata di tutti i suoi arredi perché non serve più. Ma la chiesa rivive, invasa da un gruppo di clandestini che cercano un rifugio; si forma una specie di presepe contemporaneo, con la natività, la fuga in Egitto, certi re Magi non tutti raccomandabili. «Questo film l’ho molto meditato, nei 70 giorni in cui ho dovuto stare immobile a letto in seguito a una caduta: e ho capito che c’è una sola cosa da fare oggi: cambiare, cambiare il mondo, certo, ma prima di tutto noi stessi. C’è in giro troppo disagio, ci sono troppe differenze, troppa vergogna, troppe cose inutili. Così come stiamo vivendo adesso, anche dentro di noi, si precipita solo in un baratro, a meno che già non sia accaduto».

Il cambiamento può venire da cosa e da chi? «Dal senso di giustizia, dal rispetto dell’altro, dal ritorno necessario all’onestà. Stiamo vivendo in un mondo di cartone. È di cartone il potere, lo sono gli uomini di potere, lo è la finta giustizia, la ricchezza, l’economia: basta un po’ di umidità e il cartone si scioglie, come si sta sciogliendo in questi ultimi tempi tutto ciò che sembrava indistruttibile. Non ne resterà niente se non ce ne spogliamo, come la chiesa del film, se non apriamo gli occhi sugli altri, i meno fortunati. Siamo circondati da uomini che si credevano importanti, e invece oggi sappiamo che sono di cartone, destinati a scomparire. Sono disperati, soli.

Per un cristiano come lei, qual è oggi l’impegno necessario? «La carità, è la storia che lo chiede: se non saremo noi a cambiare la storia, sarà lei a cambiarci». Nel film il prete capisce che quando la carità è un rischio, quello è il suo momento: ed è per questo che accoglie i disperati, contro la legge. I clandestini si disperdono, pagano per raggiungere altri Paesi, c’è chi decide di darsi alla violenza. Chi tra loro si salverà? «Quello che decide di tornare in Africa con il suo bambino: là può esserci un futuro, qui, se non cambiamo, non ci sarà né per loro, né per noi».

Natale? Un’opportunità per umanizzarci

Si, è oramai cosa rara, ma ha volte capita che aprendo il giornale la mattina non trovi solo notizie che ti fanno rizzare i capelli o che rischiano di farti scoppiare il fegato dall’incazzatura. E’ raro, ho detto, ma capita anche di leggere su fatti che aprono il cuore alla speranza e che ti portano a pensare  che non tutto è intrallazzo politico e che non ci stiamo completamente e inesorabilmente disumanizzando. Vi riporto quanto letto ieri su La Nuova (Piero Murineddu)

Giovani migranti ospitati dalle famiglie di Valledoria

Al via un progetto di coesione sociale rivolto ai minori non accompagnati L’amministrazione favorisce rapporti di amicizia finalizzati all’integrazione

di Giulio Favini

Un ragazzino da ospitare a casa a pranzo o magari per il fine settimana come un nipote, o un amico dei propri figli. Succederà a Valledoria (SS) dove alcune famiglie si sono dichiarate disponibili a intessere un rapporto di conoscenza con uno dei sette minori non accompagnati ospitati nel centro di accoglienza. Uno scorcio di normalità per giovanissimi che di normalità ne hanno conosciuta ben poca. Con delibera della giunta comunale del 2 novembre scorso è stato approvato all’unanimità il piano di coesione sociale predisposto dal settore delle politiche sociali del Comune di Valledoria, in collaborazione con il centro di accoglienza per migranti, gestito dalla cooperativa “Le tre Fontane”, che è rivolto all’accoglienza e all’integrazione dei minori stranieri non accompagnati. Il progetto segue in linea di massima le indicazioni predisposte dalla giunta regionale che con una delibera del 3 maggio scorso aveva approvato il piano regionale per l’accoglienza dei flussi migratori non programmati. Così l’amministrazione comunale valledoriana, rilevato che nel centro di accoglienza per migranti risultano ospiti ben sette profughi minorenni, non ha esitato a predisporre un piano di accoglienza che troverà attuazione presso le famiglie di Valledoria. Infatti saranno queste ultime, a ospitare i minori nelle proprie case. «Il nostro sforzo – dichiara l’assessore ai Servizi sociali del comune di Valledoria Beatrice Serra – è quello di creare un clima di coesione tra i nostri ospiti e la comunità di Valledoria. Diverse famiglie di Valledoria si sono dichiarate disponibili a ospitare i minori almeno una volta a settimana a casa loro». L’assessore Serra spiega che prima di proiettare il minore presso la famiglia che si offre a dare la sua accoglienza, ci saranno degli incontri formativi e conoscitivi tra gli stessi minori e le famiglie. «In realtà abbiamo programmato degli incontri – spiega Beatrice Serra – che si terranno nella biblioteca comunale per fare conoscere i nostro ospiti alle famiglie, che si offriranno per prendersi cura di loro. Successivamente in base a questi incontri si valuterà quali sono le famiglie più in sintonia con le esigenze degli ospiti. Naturalmente anche i ragazzi dovranno dire la loro su dove andare a passare il fine settimana». Insomma, lo spirito dell’amministrazione comunale con l’approvazione di questo progetto è quello di valorizzare il capitale umano e le competenze, al fine di creare così un clima di collaborazione e fiducia con le persone straniere ospitate. Ma con tale progetto si vuole sensibilizzare ancor più la popolazione di Valledoria sui reali problemi e i rischi che i minori corrono se si interrompono le relazioni umane, evitando al contempo di sentirsi emarginati ed estranei alla cultura del luogo di accoglienza.

«Si vuole confidare nell’affidamento famigliare – si legge nella delibera della Giunta comunale – quale forma alternativa alla case di accoglienza, e favorire un ricongiungimento ideale, attraverso internet con la famiglia di origine per far sentire meno soli questi giovani ospiti».( G.F.)

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Un’ottima iniziativa, mi sembra. E questo dopo che tempo fa, nella stessa località, vi erano state delle proteste in prossimità dell’arrivo dell’Uomo Nero, reazione di chiusura purtroppo ancora diffusa. A fianco dell’articolo, nel giornale ve n’è un altro in cui si legge che  “la popolazione locale si è abituata a questa presenza e vorrebbe che i migranti fossero davvero inseriti nel tessuto sociale“. Cosa è questa se non la prova che quando non ci si fa vincere dai pregiudizi (oppure, peggio ancora, si vuole e si riesce a superare l’atteggiamento di rifiuto per dei convincimenti sbagliati formatisi nel tempo !) si cresce in maturità e umanità?

La cosa mi fa doppiamente piacere perchè è una civile iniziativa partita per volontà dell’ente pubblico, che finalmente capisce che il suo ruolo non è solamente quello di tappare i buchi nelle strade (cosa sacrosanta e doverosa, ci mancherebbe), ma anche quello di far crescere negli amministrati il senso dell’accoglienza e della comunità.

E’ un esempio di buona amministrazione che altri dovrebbero imitare o dal quale prendere lo spunto.

Prendiamo il caso di Sorso, cittadina dove consumo i miei anni terreni. Nell’agro del nostro territorio vi sono due case che ospitano migranti. Nessun minore, perchè la loro presenza richiederebbe da parte della cooperativa o dell’associazione ospitante diverse figure professionali. Tempo fa si prefigurava una collaborazione  con l’ente pubblico, col risultato, purtroppo ricorrente, di non vedere attuarsi alcunchè.

Provo a fare una proposta, un’idea che in verità  già l’anno scorso girava nella testa del mio amico e omonimo Giuseppe senior di Sennori. All’interno della nostra famiglia, col tempo si sta’ sviluppando quella disponibilità a non rimanere indifferenti davanti ai problemi di persone in cui possiamo imbatterci, siano essi locali e non. In diverse occasioni abbiamo condiviso la tavola o fatto qualche gitarella che ha agevolato la nascita d’amicizie nuove e di attenzione reciproca. Sia beninteso che non c’è alcun  scopo di autocompiacimento nel dire queste cose: dove mangiano in quattro, possono mangiare anche in cinque; un giubbotto di cui si può fare a meno nell’armadio si trova sempre; qualche pacco di pannolini si trova sempre qualcuno a donarlo; a venti euro per una piccola spesa facilmente si può rinunciare…….

Ma vengo alla proposta. Si sta avvicinando il periodo natalizio nel quale, volenti o nolenti, il nostro cuore è portato ad ammorbidirsi, seppur momentaneamente:

perchè non prendersi l’impegno d’invitare al pranzo natalizio  uno o due immigrati o altre persone che sappiamo non se la passano tanto bene?

Sarebbe l’occasione per una conoscenza reciproca e l’opportunità per far nascere nuove relazioni.

Se si hanno difficoltà a contattare questi ospiti e possibili nuovi amici, trovate il modo di farmelo sapere e vi agevolerò la strada. Potete farlo di persona, tramite messaggio privato su facebook o mandando un’email a piero.murineddu@libero.it    (Pi.Mu.)

Gesù esclude tassativamente qualunque relazione tra le disgrazie che colpiscono gli uomini e il castigo divino

È una bestemmia pensare che Dio, che ha inviato il suo unico Figlio per salvare il mondo, poi lo voglia distruggere a forza di cataclismi. Gesù esclude tassativamente qualunque relazione tra le disgrazie che colpiscono gli uomini e il castigo divino“. Dopo la tragedia del terremoto nel Centro-Italia,  la riflessione del biblista Alberto Maggi

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IL CASTIGO DI DIO…

di Alberto Maggi

Puntuali, a ogni calamità emergono i tenebrosi necrofori. Sembra che non aspettino altro che le disgrazie, sono il loro abietto alimento. I necrofori sanno che le loro argomentazioni, tremende quanto ridicole, spietate quanto disumane, non hanno alcun fondamento, ma approfittano del momento in cui le persone sono stordite dal dolore e affogate nella disperazione per scagliare le loro inappellabili sentenze, e il verdetto è sempre quello: è il castigo di Dio! E di motivi a Dio per castigare l’umanità non ne mancano, ha solo da scegliere. C’è del sadico piacere in queste persone nell’affondare il coltello sulla piaga del dolore per rivendicare che avevano ragione: l’immoralità della società, la depravazione dei costumi, l’abbandono della pratica religiosa, che cosa altro potevano portare se non terribili castighi divini?

Pur rifacendosi a Dio questi beccamorti mostrano di non conoscerlo minimamente. Dio è Amore (1 Gv 4,8), e nell’amore non c’è alcuna parvenza di castigo. Nel ritratto di Dio che l’apostolo Paolo fa nella Lettera ai Corinti si legge che “l’amore non si adira, non tiene conto del male ricevuto”, che “tutto scusa” (1 Cor 13,5.7), e la buona notizia di Gesù non contiene alcuna minaccia di castighi divini. Il Padre non castiga, perdona, lui è un Dio che nel suo amore arriva a essere “benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35). In nessun brano del vangelo si annunziano castighi per i peccatori, ma si afferma che “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui”(Gv 3,17). È una bestemmia pensare che Dio, che ha inviato il suo unico Figlio per salvare il mondo, poi lo voglia distruggere a forza di cataclismi.

Gesù esclude tassativamente qualunque relazione tra le disgrazie che colpiscono gli uomini e il castigo divino. Nel vangelo di Luca il Signore, commentando il crollo della torre di Siloe sotto le cui rovine morirono diciotto individui, e nel quale le persone religiose erano certe di aver visto il giudizio di Dio, afferma: “Credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?” (Lc 13,4). Ugualmente nell’episodio del cieco nato, Gesù esclude qualunque relazione tra la cecità e il peccato dell’individuo (Gv 9,3). A quanti vedono una relazione tra peccato e castigo, Gesù annuncia che l’azione di Dio con i peccatori non è punitiva, ma vivificante, e in polemica con Giovanni Battista che aveva annunciato sicuro che “ogni albero che non porta buon frutto, sarà tagliato e buttato nel fuoco” (Lc 3,9), Gesù risponde che lui presta tutte le cure all’albero sterile, e zappa attorno per far prendere ossigeno alle radici, lo concima.

Dio crea, non distrugge.

Nel mondo primitivo ogni cataclisma era considerato sicuramente un castigo da parte della divinità offesa, e ogni dio aveva la sua specializzazione, c’era il dio dei fulmini (Zeus) e quello delle tempeste (Baal), il dio dei vulcani (Vulcano) e quello dei terremoti (Poseidone). Ma già nel Libro della Genesi viene smentita l’idea del castigo divino. Con la narrazione del diluvio, infatti,l’autore vuole correggere la credenza che metteva in relazione fenomeni atmosferici con l’ira divina, e il Signore stesso assicura che “Non sarà più distrutto nessun vivente dalle acque del diluvio, né più il diluvio devasterà la terra”(Gen 9,12). A riprova della verità della sua dichiarazione, il Signore depone le armi: l’arco di guerra, lo strumento che serviva a Dio per lanciare le saette e punire gli uomini, viene definitivamente deposto. L’arco del Signore non solo non servirà più per punire le persone, ma diventerà il segno dell’alleanza tra Dio e l’umanità: “Pongo il mio arco sulle nubi ed esso sarà il segno dell’alleanza tra me e la terra”(Gen 9,13).

Pertanto non c’è da temere alcun castigo da parte di Dio, ma collaborare con la sua azione creatrice per rendere il creato sempre più espressione del suo amore, ponendo il bene dell’uomo come unico valore supremo.

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L’AUTORE – Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» (www.studibiblici.it) a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Ha pubblicato, tra gli altri: Roba da pretiNostra Signora degli ereticiCome leggere il Vangelo (e non perdere la fede)Parabole come pietreLa follia di Dio e Versetti pericolosi. E’ in libreria con Garzanti Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vita.

FIGLI E GENITORI SEPARATI: Novità legislativa

 

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di Piero Murineddu

Ne convenite che molto spesso uno dei genitori continua “a palesare la sua disapprovazione in termini screditanti nei confronti dell’altro genitore”? In altre parole, si continua a sfogare l’odio verso l’ex coniuge strumentalizzando il figlio, ancora una volta principale vittima del disaccordo fra i due genitori Ed ecco che finalmente viene fatta una legge ce può mettere un argine a questo infantile e immaturo modo di comportarsi, e se la legge tocca la tasca, è possibile che venga presa in considerazione. Purtroppo ancora non si è presa piena consapevolezza   di quanti danni possono derivare nella mente di un bambino il mettere in cattiva luce il proprio genitore da parte dell’altro genitore. E ‘ possibile che esempi ve ne siano un po’ in tutte le famiglie, e sappiamo della rabbia accumulata in tanti figli che inevitabilmente manifestano nei riguardi di se stessi e nei confronti della vita che   scorre loro intorno.Il genitore “ferito” dal comportamento dell’ex fa di tutto per mettere dalla sua parte il figlio o i figli, cogliendo tutte le occasioni per,appunto, buttare discredito verso l’ex partner. Il bambino in crescita, non essendo in grado di razionalizzare gli eventi e giudicare i comportamenti con obiettività, accumula turbamenti, aggravati da senso di inadeguatezza e magari sentendosi anche in colpa per il rapporto fallito delle due persone che lo hanno messo al mondo. Molti psicologi dell’età evolutiva possono spiegare sicuramente meglio tutto ciò che avviene. Sappiamo che le piccole e grandi vendette verso colui che, a torto o a ragione, non ha risposto alle nostre aspettative relazionali, non aiutano i figli a crescere in modo equilibrato.Oggi c’è anche la sanzione pecuniaria che ce lo ricorda.

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