QUANDO AD EMIGRARE – PER LA FAME, NON PER LA GUERRA – ERANO GLI ITALIANI

pagina tratta dal sito della Fondazione Paolo Cresci per la Storia dell’Emigrazione Italiana

 

Partire

La decisione di partire veniva spesso presa su richiamo dall’estero di parenti o amici e trovava conforto anche nelle “guide per gli emigranti” molto spesso prodotte dai paesi che volevano attrarre manodopera dall’Europa. Esse mostravano immagini da paradiso terrestre: sconfinate pianure dall’esuberante vegetazione, case linde, ordinati quartieri cittadini.

Questi sogni su carta venivano esibiti con spregiudicatezza dalle agenzie di viaggio e dagli agenti delle compagnie di navigazione per convincere gli indecisi a partire. Gli agenti erano talvolta veri e propri emissari di società o governi esteri. Tipico il caso del Brasile che, negli ultimi decenni dell’Ottocento, incrementò l’immigrazione dall’Europa offrendo il viaggio gratuito dal porto di partenza sino alla destinazione finale nelle fazendas nelle quali sarebbe stato concesso a ciascuna famiglia emigrata anche un lotto di terreno coltivabile in proprio.

La procedura per l’espatrio prevedeva la richiesta e la successiva concessione del passaporto. Quello per l’emigrante, dall’inizio del Novecento, fu per un lungo periodo caratterizzato da una copertina di colore rosso. Sul passaporto dell’uomo con famiglia al seguito potevano essere iscritti la moglie e i figli e anche gli ascendenti conviventi. Per gli iscritti alla leva serviva anche il nulla osta delle autorità militari.

Si va,ma dove?

In treno si raggiungevano i paesi europei e anche il porto francese di Le Havre da cui era più agevole, per gli emigranti del Nord, imbarcarsi per le destinazioni americane. Il numero delle partenze crebbe – torrenziale – sino alla vigilia della prima guerra mondiale: era “la grande emigrazione”.

Al termine del conflitto e per la progressiva chiusura degli sbocchi americani si rinnovò l’esodo verso le destinazioni europee ma con un numero ridotto di espatri. Agli altri porti si aggiunse Trieste. Nel secondo dopoguerra le partenze verso tutte le destinazioni, continentali o intercontinentali che fossero, ripresero con un notevole incremento numerico.

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L'imbarco dei bagagli degli emigranti sul piroscafo “Tomaso di Savoia” del Lloyd Sabaudo. 1919

 

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             Il viaggio e l’arrivo

A bordo

Almeno sino alla fine dell’Ottocento, gli armatori italiani effettuarono il trasporto degli emigranti con una flotta obsoleta di velieri che furono, a ragione, chiamati “le navi di Lazzaro”. Il viaggio che, ancora nei primi anni dello scorso secolo, poteva durare anche un mese si compiva in condizioni di vita oggi inimmaginabili. La situazione peggiore era quella degli alloggi.

Le cuccette, tutte nella parte bassa della nave, si affacciavano su corridoi che per lo più ricevevano aria soltanto dai boccaporti. In esse mancava letteralmente lo spazio vitale. Di conseguenza, al mattino, qualunque fossero le condizioni atmosferiche, tutti erano costretti a trasferirsi sui ponti: le malattie – polmonari e intestinali specialmente – erano all’ordine del giorno e anche la mortalità era alta.

La valigia è stata a lungo il simbolo dell’emigrazione. Prima della valigia c’era il “fagotto”: un pezzo di stoffa, uno scialle nel migliore dei casi, in cui avvolgere le cose da portare con sé nel nuovo paese. In alcune delle foto sottoi pubblicate si vedono delle donne “infagottate”, sono esse stesse dei bagagli in quanto hanno addosso più abiti, messi a strati, per non lasciare incustoditi nelle stive i propri averi, poveri e perciò preziosi. E nel fagotto, o nella valigia, c’era tutto un “mondo”: ricordi della famiglia ormai lontana, un biglietto per un parente o un compaesano, talvolta una lettera di presentazione per qualcuno che, si sperava, potesse dare un aiuto, cibo, uno strumento musicale… un mondo, appunto. E anche, per i più previdenti, un vocabolario “fai da te”.  Con la costruzione negli anni Venti dei grandi piroscafi da crociera, che trasportavano ancora gran numero di emigranti, la durata del viaggio e le condizioni di vita a bordo migliorarono sensibilmente.

Emigranti sul ponte, inizi novecento

Emigranti sul ponte, inizi novecento
Donne emigranti in coperta. 1900

Donne emigranti in coperta. 1900
Spaccato di un piroscafo

Spaccato di un piroscafo

Arrivati finalmente

Nel paradiso terrestre promesso dalle “Guide” le cose, in realtà, stavano diversamente. Subito dopo l’arrivo gli immigrati cominciavano a rendersi conto di essere giunti nell’America com’era e non come l’avevano sognata. Le immagini da paradiso terrestre di cui si erano riempiti gli occhi e la mente trovavano scarso riscontro nelle pesanti formalità burocratiche cui venivano sottoposti e, almeno negli Stati Uniti, molti erano coloro che venivano respinti specialmente perché affetti da malattie invalidanti. Quelli che venivano ammessi nel paese erano trattati, e contrattati, come a una fiera del bestiame o a un mercato degli schiavi. Inoltre, per restringere la portata delle correnti migratorie furono varati, nel tempo, provvedimenti di vario genere.

In Argentina e Brasile, paesi che hanno accolto grandi masse di emigranti italiani, anche lo sbarco non era facile. Dalla nave si raggiungeva la terra ferma dopo il trasbordo su barche e barchette (in Argentina l’ultimo tratto d’acqua veniva attraversato su carretti trainati da cavalli mentre in Brasile, dal porto di Santos, si raggiungeva San Paolo in treno). Una volta sulla terraferma si veniva alloggiati in strutture che potremmo definire di contenzione – l’Hotel e l’Hospedaria degli immigranti. I governi dei due paesi offrivano informazioni generali su usi e costumi locali oltre l’aiuto di uffici del lavoro che, però, operavano senza alcuna forma di selezione dei nuovi arrivati in base alle competenze lavorative. In realtà il punto di forza dell’emigrante era la “catena migratoria”, la rete di parenti, amici, compaesani che, avendo già vissuto l’esperienza dell’esodo, lo guidava in ogni fase dell’espatrio e ne facilitava l’inserimento nel paese di destinazione.

New York, Appena arrivati

New York, Appena arrivati
USA, New York, Banchina d’approdo della Navigazione Generale Italiana

USA, New York, Banchina d’approdo della Navigazione Generale Italiana
Argentina, Buenos Aires, 1900 circa. Carretti che trasportano gli emigrati sulla terraferma

Argentina, Buenos Aires, 1900 circa. Carretti che trasportano gli emigrati sulla terraferma
L’arrivo al porto di New York

L’arrivo al porto di New York

La “Merica”

 

Negli Stati Uniti, all’arrivo nel porto di New York, gli emigranti venivano sbarcati e costretti a Ellis Island dove i controlli erano molti e severi.

Tutta una serie di norme operavano una prima, drastica selezione. Esse spaziavano nei più disparati campi: si veniva respinti per malattia (per esempio, i tracomatosi erano al più presto reimbarcati per il paese di origine), per indigenza estrema, per età giovanile o troppo avanzata, per stato civile (donne e orfani che non avevano nel paese chi li soccorresse e li aiutasse a trovar lavoro).

Nel 1917, dopo averlo preannunciato per più di vent’anni, fu varato il Literacy Act, una legge sull’analfabetismo che impose un’effettiva stretta all’immigrazione e colpì tantissimi italiani specie meridionali.

Ulteriori restrizioni si ebbero con l’approvazione delle leggi, nel 1921 e nel 1924, dette Quota Act che permettevano annualmente l’ingresso di immigrati di una qualsiasi etnia in numero molto limitato.

USA, New York.	 Appena sbarcati ad Ellis Island

USA, New York. Appena sbarcati ad Ellis Island
USA, New York, Il salone di Ellis Island dove gli immigrati sostavano in attesa dell’espletamento delle pratiche di controllo e di accettazione

USA, New York, Il salone di Ellis Island dove gli immigrati sostavano in attesa dell’espletamento delle pratiche di controllo e di accettazione
USA New York. Veduta di Ellis Island

USA New York. Veduta di Ellis Island

Miss Liberty

La Statua della libertà – chiamata da sempre Miss Liberty – fu donata dalla Francia agli Stati Uniti in segno d’amicizia e si legò strettamente al fenomeno dell’emigrazione solo dopo che furono incisi sul suo basamento i versi di Emma Lazarus: “Tenetevi, antiche terre, i fasti della vostra storia… Datemi coloro che sono esausti, i poveri, le folle accalcate che bramano di respirare libere, i miseri rifiuti delle vostre coste brulicanti: mandatemi coloro che non hanno una casa, che accorrano a me, a me che innalzo la mia fiaccola accanto alla porta d’oro”.

Quella bella signora sembrava essere grande come l’America e come i sogni degli emigranti di “fare la Merica”.

Invece, all’arrivo nel porto di New York, dopo aver contemplato con la dovuta meraviglia la maestosa signora, gli emigranti venivano sbarcati e costretti a Ellis island dove tutta una serie di norme operavano una drastica selezione.

Eppure, nell’immaginario di molti immigrati la Statua della libertà è diventata l’America pur con tutte le sue contraddizioni. Essi scoprirono che le strade non erano pavimentate di oro e addirittura che quelle strade sarebbe toccato a loro costruirle.

E la speranza di vivere in uguaglianza e in libertà si sarebbe presto dissolta.

L’immagine della Statua della libertà è quella che gli emigrati negli Stati Uniti hanno più inviato a famiglia e amici rimasti in Italia
QUANDO AD EMIGRARE – PER LA FAME, NON PER LA GUERRA – ERANO GLI ITALIANIultima modifica: 2016-12-14T19:11:59+01:00da piero-murineddu
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