Messaggio più recente

Sulla scuola, ma anche sulla vita

di Piero Murineddu

Siamo tutti in trepida attesa di capire se e in quali condizioni potrá riprendere quella che é sicuramente, con tutti i limiti, la principale esperienza di vita comunitaria per una persona che viene su alla vita, ovvero la scuola. In questi giorni le pagine dei giornali sono comprensibilmente strapiene di notizie e opinioni sull’argomento. La discussione sul luogo fisico, idoneo o meno, prevale sul resto.

In questo modestissimo spazio ospito alcune considerazioni che toccano invece l’aspetto di una scuola realmente Educante perché ancor prima Accogliente dell’unicitá di ciascun alunno/a, quella cosa strana che di tanto in tanto si tenta di affrontare e le cui conclusioni rimangono, salvo l’impegno isolato e quasi eroico di insegnanti di valore, buone intenzioni puramente e desolatamente teoriche.

Nei due testi che propongo, vi é il riferimento a quell’educatore eccezionale che é stato don Lorenzo Milani, del quale tempo fa l’amica di Chieri Rita, in un commento su feisbuk affermava che  l’aveva fatta sempre sentire inadeguata nel suo ruolo d’insegnante, e questo nonostante che da quanto ho letto nel suo volume “Traversata del deserto con oasi” ho constatato che dell’esempio di prete Lorenzo ne ha fatto tesoro e riferimento continuo…

Similmente anche l’autrice del primo testo che propongo ha sempre visto nel prete fiorentino un faro per le sue scelte. Entrambe ora pensionate, credo non sia per puro caso se non hanno mai dismesso l’abito di educatrici impegnate ciascuna, nel modo più congeniale alla loro indole, a rendere migliore e più accettabile la vita sopratutto a chi fa più fatica. É il destino di chi mette passione in ciò che l’esistenza chiede di fare.

Delle interessanti considerazioni fatte nel secondo articolo ho omesso dei giochi d’interazione che incoraggiano e facilitano la conoscenza reciproca, utili nel rapporto tra scolari e anche tra scolari e insegnanti. Ma chi vuole, nella Rete può trovarne a volontá.

FB_IMG_1599119328225

1. Prima di valutare lo scolaro…

di Irene Baule

Sento in tv che alla scuola primaria tornano i giudizi anzichè i voti.

Da bambina ho avuto i voti numerici, a volte giusti, a volte meno.

Da insegnante ho combattuto i voti, dando il voto unico e allegando alla pagella un foglio di valutazione personale.

Sono stata denunciata con due colleghi per omissione di atti d’ufficio, denuncia poi rientrata: avevamo lavorato il doppio.

Nella mia carriera ho poi conosciuto le valutazioni con i giudizi, le lettere, i giudizi, di nuovo i numeri…
Continuo a pensare: che prima di valutare l’alunno deve essere valutata la scuola, come comunità che educa, la classe, e il gruppo degli insegnanti.

Allora ha senso valutare come l’alunno risponde agli input ricevuti e quali sono i suoi progressi rispetto alla situazione iniziale.

Altrimenti numeri, lettere o parole sono solo fare “parti uguali tra diseguali”.

irene

 

2. La scuola che sogniamo

di Margherita Bufi,Franca Carlucci e Anastasia Fracchiolla della  “Casa per la Pace” (Molfetta)

Insieme agli altri educatori, anche noi operatori scolastici siamo chiamati in prima persona a formare le nuove generazioni. Per costruire una società diversa, pacifica e nonviolenta, abbiamo in mente un’idea di scuola, che proveremo a delineare, esplicitando le riflessioni di gruppo e suggerendo alcune indicazioni operative.

La scuola a cui pensiamo, quella che ci piacerebbe realizzare e incrociare ogni qualvolta entriamo in un edificio scolastico o incontriamo le scolaresche e i loro insegnanti, è la scuola dell’accoglienza, dell’inclusione, della valorizzazione delle differenze.

È la scuola in cui ciascun alunno è libero di crescere e di diventare grande, in cui ognuno ha la possibilità di sentirsi amato, di essere ascoltato, di poter esprimere le opinioni personali e il proprio mondo interiore, senza il timore di essere giudicato e la paura di essere deriso o isolato semplicemente perché “diverso”, critico, caratterizzato da pensiero autonomo e “divergente”.

La scuola che sogniamo non è quella della meritocrazia, in cui i più bravi e capaci vanno avanti e gli ultimi restano indietro. Il nostro comune impegno è volto a garantire le pari opportunità, perché – come sosteneva don Lorenzo Milani –

“non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali” e “se si perde loro (i ragazzi più difficili) la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati”.

Non ci devono preoccupare le scelte controcorrente, non lasciamoci intrappolare da una visione del fare scuola in cui dettano legge l’espletamento frenetico della programmazione educativo-didattica e la conclusione, in tempi rigidi, delle unità d’apprendimento pianificate; sposiamo, invece, la filosofia su cui si basa la Pedagogia della lumaca, riappropriamoci della calma e della serenità dell’essere maestri, maestri di vita.

Un domani i nostri ragazzi cosa ricorderanno di noi e della scuola che andiamo loro proponendo?
Basterebbe soffermarsi a rievocare la propria esperienza scolastica per trovare le risposte.

A noi cosa è rimasto di quegli anni? Quali sono i ricordi più cari? Quali gli apprendimenti più significativi?

Forse le proposte didattiche, gli argomenti da approfondire, le esperienze da vivere a scuola dovrebbero seguire più la logica di “Una parte e piano”, piuttosto che quella del “Tutto e subito”.
Non è il caso di effettuare corse per raggiungere i traguardi di sviluppo, di svolgere il programma in fretta, di esaurire prima della chiusura del quadrimestre o dell’anno scolastico la trattazione dei contenuti selezionati.

Le bambine e i bambini, le ragazze ed i ragazzi ci chiedono altro. Desiderano insegnanti disponibili, capaci di ascoltare e leggere i loro stati d’animo, in grado di comprendere le caratteristiche tipiche dell’età che vivono, disponibili a interloquire con loro, pronti ad affiancarli nel processo di crescita cognitiva, ma non solo.

È risaputo e dimostrato oramai dagli studi psico-pedagogici che gli apprendimenti “passano” dalle relazioni interpersonali e che i rapporti sani e positivi facilitano l’acquisizione di conoscenze e abilità.

Un buon clima e un’atmosfera di lavoro serena in classe predispongono gli alunni a un atteggiamento motivante e curioso, basilare per apprendere.

La scuola del nozionismo può essere sostituita dalla scuola delle esperienze significative e dell’apprendimento attivo. La ludicità, l’operatività, l’interazione, la cooperazione possono tranquillamente entrare a far parte delle nostre proposte didattiche quotidiane in ogni ordine e grado di scuola, senza nulla togliere al compito primario d’istruire!

Niente da commentare

Un accorato appello della mia amica Luciana V.

 

All’inizio di questa pandemia, parlavo con la mia dottoressa, che semplicemente mi diceva: navighiamo a vista. È una cosa che non conosciamo, si va per tentativi, sulla base delle conoscenze generali che abbiamo sui virus e che poi devono essere adattate a QUESTO particolare virus. Qui non è questione di punti di vista, la scienza non è un punto di vista, la malattia nemmeno, la vita men che meno. La scienza ha i suoi limiti, soprattutto è meno veloce dei virus, prima di trovare le risposte si lascia dietro una scia di caduti. E allora? E allora negare che senso ha? Negare i morti? Negare gli ospedali al collasso? Negare cosa? Nel paese dove lavoro, che è un comune di 8000 anime, abbiamo pianto una mamma e un papà giovani, e questo solo tra i pochi che conosco io. Mia figlia invece abita a Brescia, e le chiese piene di bare da “smaltire” me le ha raccontate lei prima della televisione!
Questo non vuol dire che con l’autunno debba ritornare tutto come a marzo, per carità, Dio non voglia!

Ma nel frattempo, cosa vi costa tener sul muso questa cavolo di mascherina?

Starmi e starvi a distanza di sicurezza?

Cos’è questo rivendicare il diritto di star senza mascherina?

IL DIRITTO???

Ma questa gente lo sa che cosa sono i diritti?

Limitano la vostra libertà?

Tutta qui la vostra libertà?

Mio marito è in cassa integrazione da marzo, ancora non sappiamo se e quando riprenderà a lavorare (e per fortuna io ho sempre lavorato!), i bambini e i ragazzi hanno bisogno e diritto (loro sì!) di tornare a scuola, se si ricomincia da capo sarà un disastro per molti. Allora, cosa ci costa fare il possibile perché non accada? Se poi saranno state precauzioni superflue, eccessive, se poi il virus si ripresenterà sotto forma di una banale influenza o non si ripresenterà per niente, meglio ancora. Ma intanto, finché non lo sappiamo, cosa ci costa prendere qualche precauzione in più?

Dalla lettera di Flaiano Ennio a chi vuole intendere…ammesso che ne sia capace. Tema: IL FASCISMO

di Piero Murineddu

E quindiequindi Ennio – per essere scrittore e giornalista, drammaturgo, intenditore di cinema le cui sceneggiature venivano richieste da un saccaccio  di registi, e persino o forse più di tutto umorista, ovvero quell’allegrott’arte che fa viver meglio chi la fa e, facendoli pensare sorridendo e non ingrugniti, ancor più gli altri – non ha avuto bisogno di completare gli studi in archittetura ( eh si, a ben sommare anche mezzo architteto) per praticare tutto il gran popó di attivitá. Un diploma al liceo artistico ( ah, ecco…) é stato più che sufficiente per sviluppare l’intelligente ereditá genetica regalata da papá e mammá.

Un’intelligenza che é servita per fargli capire di quale pasta (per me di scarto) fossero fatti i fascisti. Per farne un quadro verosimile al cento e piu per cento, é bastato far con loro, logicamente del tutto casualmente, il viaggio in treno nel lontano addì 27 ottobre del ’22 alla volta di Roma per quella tragica Marcia che sappiamo: lui facendosi gli affari suoi e logicamente osservandosi intorno, quegli altri schiamazzanti e con gli abiti inzuppati di puzzolente vino ossidato, trangugiato in continuazione per aiutarsi a convincersi della bontá di mettersi al seguito del tipo ben mascellato, pettorato e coi pugni ben piantati nei fianchi adiposi. A proposito della sporcizia e odorazzo nauseabondo emanato dagli abiti e dai rutti prodotti senza ritegno, sará mica questo il motivo della definizione LURIDI FASCISTI? No, nessun riferimento alla potenziale dignitá, evidentemente in questo caso non sviluppata, che ha ciascuna persona, quanto alla perversa visione di vita che si accingevano a mettere in pratica, quellilá come gli attuali di nero ma anche di verde incamiciati, compresi gli innumerevoli nascosti dietro una giacca e una cravatta sempre ben stirate. Solo che al tempo in buona parte erano inconsapevoli, mentre questi sanno, oh quanto sanno!

L’acuto ragazzello, ancora senza baffi e appena dodicenne, proveniva da Pescara, dove mamma Francesca e babbo Cetteo (Cetteo? E questo che nom’é?) l’avevano messo al mondo dopo una nidiata di sei figli. A proposito, ah i bei tempi di famiglie numerose quando la prole faceva a cazzotti con se stessa per assicurarsi un pezzetto di pane nero&duro!

Dalla cittá che si affaccia sull’Adriatico per arrivare a Roma, attualmente un treno di media velocitá impiega cinque ore circa (foramari! E noi sardi  pensavamo di essere i piu malmessi tra gl’italiani…). Lo prova questo fermo immagine ricavato da google, per cui non sono fantasie mie…..

Polish_20200831_114234940

 

Ora, presumendo con equilibrato senso delle misure che allora i treni erano mooolto più lenti di adesso e infischiandocene di uno degli innumerevoli e fantasiosi miti che ne esalterebbero la puntualitá in quei lugubri tempacci, l’acutissimo Ennio, seppur frastornato dall’indicibile e rozzo casino provocato dalla patetica esuberanza che ha dovuto subìre durante l’interminabile tragitto, ha avuto tutto il tempo di scrutare e studiare per benino il fascista tipico, e queste che seguono sono le sue lucidissime deduzioni messe a punto una volta diventato adulto.

Grazie Signor Ennio, che ancora oggi ci aiuti a capire la non invidiabile psiche di questa gente di scarsissimo valore, intellettuale e ancor peggio ( mi dispiace sinceramente per i figli) umano….

sketch1598885347016

Questo é ciò che ho sempre pensato del Fascismo

di Ennio Flaiano

Il Fascismo conviene agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odi, rassicura la loro inferiorità.

Il Fascismo è demagogico ma padronale, retorico, xenofobo, odiatore di culture, spregiatore della libertà e della giustizia, oppressore dei deboli, servo dei forti, sempre pronto a indicare negli “altri” le cause della sua impotenza o sconfitta.

Il fascismo è lirico, gerontofobo, teppista se occorre, stupido sempre, ma alacre, plagiatore, manierista.

Non ama la natura, perché identifica la natura nella vita di campagna, cioè nella vita dei servi; ma è cafone, cioè ha le spocchie del servo arricchito.

Odia gli animali, non ha senso dell’arte, non ama la solitudine, né rispetta il vicino, il quale d’altronde non rispetta lui.

Non ama l’amore, ma il possesso.

Non ha senso religioso, ma vede nella religione il baluardo per impedire agli altri l’ascesa al potere.

Intimamente crede in Dio, ma come ente col quale ha stabilito un concordato, do ut des.

È superstizioso, vuole essere libero di fare quel che gli pare, specialmente se a danno o a fastidio degli altri.

Il fascista è disposto a tutto purché gli si conceda che lui è il padrone, il padre.

Urge rinchiuderlo!

(“Ansa“)

 

Polish_20200901_061808016

 
“Il solo modo per fermare la violenza nelle cittá come Portland guidate dai democratici é attraverso la forza!”

Così twitta Donald Trump sferrando un durissimo attacco al sindaco di Portland Ted Wheleer proprio mentre il primo cittadino sta tenendo una conferenza stampa in diretta tv sui fatti della scorsa notte. “Trump incoraggia la violenza”, ha commentato Wheeler.

“Il presidente Trump gridando ‘law and order” istiga alla violenza. Ora basta!”

Così il leader dei senatori democratici Chuck Schumer commenta le parole del presidente americano, per il quale per riportare l’ordine a Portland e porre fine alle proteste serve l’uso della forza.

Intanto Portland, in Oregon è sempre più campo di battaglia. Da tre mesi, da quando è montata l’onda delle proteste antirazziste per la morte di George Floyd, la città della West Coast statunitense è teatro di disordini. Sabato notte però c’è scappato il morto, dopo gli scontri esplosi tra i manifestanti del movimento Black Lives Matter e i sostenitori pro Trump arrivati in città a bordo di centinaia di furgoni e pickup. Un corteo che ha invaso le strade del centro e organizzato da diverse organizzazioni, alcune di estrema destra. L’ira del presidente americano, che da settimane invoca l’invio della Guardia Nazionale a Portland, esplode su Twitter: “L’unico modo per riportare l’ordine e fermare la violenza in citta’ guidate dalla sinistra come Portland e’ la forza!”.

“Così il presidente istiga alla violenza”, la risposta del sindaco di Portland Ted Wheleer, per il quale Trump porta avanti “una campagna di paura e antidemocratica”.

É proprio ad un gruppo ultraconservatore e di estrema destra, quello dei Patriot Prayer, che apparteneva la vittima della scorsa notte, colpita al petto da un proiettile. Per lui non c’è stato scampo, morto sul colpo. Dalle prime ricostruzioni gli spari sarebbero iniziati dopo che dalla carovana di pickup dei sostenitori del presidente Trump sarebbe partita verso i manifestanti in strada una raffica di proiettili alla vernice. In risposta verso i veicoli sarebbe partito un fitto lancio di oggetti, pietre, bottiglie, bidoni della spazzatura. A un certo punto la tragedia, di cui sia sta tentando di ricostruire la dinamica per individuare i responsabili. Ad indagare insieme alle forze dell’ordine locali anche gli agenti dell’Fbi. Ma la vera preoccupazione ora è che la situazione di Portland, già da settimane degenerata, possa finire del tutto fuori controllo, con una vera e propria guerra tra fazioni opposte.

Così, a due mesi dalle elezioni presidenziali del 3 novembre, la campagna elettorale rischia di raggiungere livelli di tensione mai visti nella storia americana recente. Del resto i fatti di Portland arrivano nel momento in cui il Paese è’ attraversato da una nuova ondata di proteste contro il razzismo e la polizia violenta. A innescarla il caso di Jacob Blake a Kenosha, in Wisconsin.

Qui martedì si recherà Donald Trump: ma, almeno stando all’agenda ufficiale finora diffusa dalla Casa Bianca, non per incontrare la famiglia dell’afroamericano a cui un agente ha sparato sette colpi di pistola alla schiena, ma per portare solidarietà alle forze dell’ordine. Quei “poliziotti eroi” impegnati nel contrastare il piano di anarchici e antifa il cui obiettivo, a dire del tycoon, è quello di mettere a ferro e fuoco le città americane e di farlo perdere nelle urne.

“Il presidente non dovrebbe venire a Kenosha, non é quello di cui abbiamo bisogno in questo momento”, ha commentato il governatore del Wisconsin Mandela Barnes, secondo cui la presenza del tycoon rischia di alimentare ulteriormente le tensioni.

“Se eletto presidente non userò mai la Guardia nazionale per motivi politici o di vendetta personale. Questo non è ‘law and order’, questo è usare l’esercito come una milizia privata violando i diritti dei cittadini”, il commento del candidato democratico alla Casa Bianca Joe Biden. E l’America, in attesa dell’Election Day, si appresta a vivere il suo autunno caldo.

Questo Paese ha bisogno di Maturo Buon Senso. Il resto é (quasi) tutto conseguente

di Maurizio Arnaud

Solo in giardino sulla mia amaca mi abbandono a qualche riflessione e rivolgo un appello ai complottisti, a quelli del covid non esiste, le mascherine non servono, c’è una nuova dittatura, Soros ha organizzato tutto….

Ecco signori, oggi sono sulla mia amaca, ma a marzo ogni mattina mi chiedevo se qualche paziente mi avrebbe infettato, ogni sera mi chiedevo invece se mi avrebbe infettato mia moglie,medico presso un reparto Covid.

Ogni lunedì facevamo a colazione la lista degli amici/colleghi ammalati e magari al venerdì qualcuno di loro era intubato.

Per voi è stata reclusione, per me fatica, tanta e qualche volta sofferenza fisica, quando mi recavo vestito da astronauta a fare una domiciliare alle tre di notte presso un paziente con la febbre.

É vero, oggi i malati son percentualmente pochi e i contagiati asintomatici un po’ di più. Purtroppo avrebbero dovuto essere molti di meno per darci qualche sicurezza in più per l’inverno. É colpa nostra.

Oggi ho fatto due passi al mercatino del’usato, in piazza. Tutti allegramente senza mascherine. Ho anche incontrato un paio di fanciulli rientrati dall’estero. Li avevo messi in isolamento fiduciario. Se ne son fottuti e sono andati a spasso senza mascherina. Tornato a casa li ho chiamati e ho fatto loro per telefono una bella sceneggiata, per chi mi conosce di quelle per le quali mi si accusa di non lasciar parlare.

Mi piacerebbe tanto che avessero ragione gli ufologi che dicono che è più probabile l’atterraggio di un disco volante in Piazza San Lorenzo a Giaveno che una ripresa del Covid in autunno.

In altri paesi la bestia picchia ancora duro e non ci sono muri, flotte schierate sui mari ed eserciti con cannoni ai confini che possano fermarlo.

Molto dipende da noi, anche da chi dovrebbe usare un po’ più di prudenza prima di scrivere di cose che assolutamente non conosce direttamente. Parlo dei compulsivi postatori di dati presi dalla merda web, ma che naturalmente non hanno mai avuto di fronte a se un malato di Covid. Io qualcuno l’ho visto, pochi rispetto ad altri colleghi, qualcuno ho anche provato a curarlo a casa, un paio son anche morti, pochi o  tanti non so. So per certo che son morti male, soli, senza poter vedere un’ultima volta i loro cari. Altri miei pazienti portano sul corpo ancor oggi i segni della malattia di questo inverno.

Per loro invoco rispetto, ed invoco pietà anche per il sottoscritto,che questo inverno per tre mesi ha dovuto rinunciare al momento più bello della sua giornata, l’infilarsi sotto le coperte con le sue bambine e alzarsi lasciandole addormentate, un atto d’amore che rischiava di trasformarsi in una fonte di malattia e di dolore.

Vi ho spaventato? Me ne frego! Questo inverno non ci devono essere eroi grandi o piccoli. Disse qualcuno : ”Povero il paese che ha bisogno di eroi”. Dico io che società di stupidi ha bisogno nuovamente di eroi dopo quello che tutti abbiamo vissuto l’inverno del 2020.

Polish_20200901_112809648

Qualche considerazione

di Piero Murineddu

A fare questa toccante riflessione é un medico di famiglia che vive e opera a Giaveno, cittadina piemontese della seconda “cintura” torinese. Riflessione ma anche decisa e forte denucia da parte di una persona che ha vissuto direttamente il dramma quotidiano del periodo che abbiamo alle spalle ma che rischiamo di ritrovarci di nuovo ad affrontare e subìre, questa volta combattendo anche contro la diffusa Stupiditá di chi si ostina, infantilmenre e colpevolmente, a non ammettere l’Evidenza, siano essi sconosciuti ripetitori belanti di imbecilli luoghi comuni oppure vip che, con non ammessa e pericolosa responsabilità, condizionano il pensiero di apparenti adulti mai cresciuti di cui l’Italia é strapiena.

Ho sentito altri appelli di medici, a volte fatti con delicatezza per non urtare la fragilitá emotiva dell’ uditorio. Ho deciso di pubblicare questo del dottor Maurizio perché vedo che é una persona a cui non piace addolcire la pillola per renderla più accettabile. Ascoltandolo anche nel video che segue, non manca neanche di denunciare con fermezza tutto il sistema sanitario italiano, spesso improvvisato a causa di scelte come sempre politiche, e non potrebbe essere altrimenti dal momento che sono “loro” nella Stanza dei bottoni.

Un professionista il dr Arnaud, come leggo nelle note di presentazione del filmato, che ha preso molto seriamente il suo lavoro, ma questo l’avevo capito da quella telefonata, come letto su,  fatta ai “fanciulli” che hanno tradito l’impegno d’isolamento “sulla fiducia”. Fiducia tradita, ennesima prova di quanto, per oggettiva immaturitá a tutti i livelli, si abbia bisogno del “carabiniere” che ci stia col fiato sul collo per costringerci a fare il nostro dovere, che il più delle volte si traduce nell’avere Rispetto per il prossimo.

Aspettando gli inevitabili nodi al pettine, non solo sanitari, che verranno in questo mese che si avvia, ringrazio il dottor Maurizio, dichiaratamente antifascista e venuto al mondo, evidentemente non solo per caso, il 25 di Aprile.

Donazione organi, in crescita quelle da stranieri

È un dato che cresce quello dei soci di Aido che sono nati all’estero. Sono il 2,4%, pari a 33.585 su un totale di oltre 1 milione e 400mila soci.

«Da alcuni anni stiamo facendo sensibilizzazione nelle comunità straniere e realizzato anche degli opuscoli multilingue», spiega Aurelio Navarra della segreteria nazionale Aido.

Nella classifica dei possibili donatori nati all’estero i primi posti sono occupati da cittadini di origine europea (Svizzera, Francia, Germania, Romania, Belgio…). I primi extraeuropei sono gli argentini (1.240), per quanto riguarda il Nord Africa sono nati in Libia poco più di mille soci Aido, mentre 312 sono quelli nati in Marocco.

E del Marocco è originaria la famiglia delle due bambine che hanno perso la vita per un albero abbattuto dal vento che è caduto sulla tenda in cui dormivano nel campeggio a Marina di Massa.

Esce dalle pagine di cronaca la storia di Malak (14 anni) e Jannat (quasi 3 anni) per entrare in un racconto di solidarietà grazie alla decisione dei genitori, Fatima e Hicham Lassiri, di donare gli organi della figlia Malak.

«Quello dei due genitori di origine marocchina è un bell’esempio di integrazione sociale. È un segno del loro riconoscimento nella comunità in cui vivono», commenta Flavia Petrin, presidente nazionale dell’Aido – l’Associazione italiana per la donazione degli organi in questi giorni impegnata in una campagna di sensibilizzazione al Giro d’Italia Giovani under 23. «La solidarietà è un valore che va al di là di ogni confine nazionale».

«Sono due genitori straordinari» conclude Petrin «Come Aido vorrei ringraziarli anche a nome di quelle famiglie che grazie al loro dono potranno avere la gioia di vedere i lofo figli crescere. È un grazie che va a tutti quei genitori che scelgono il dono in un momento così drammatico e doloroso».

La volontà di donare gli organi può essere espressa solo dai maggiorenni, mentre per i minori, secondo la normativa, la scelta spetta ai genitori che devono essere concordi.

Andiamo sul personale….

di Piero Murineddu

L’anno scorso avevo pubblicato su feisbuk, stimolato da questa prova visiva di un passato che noi altri incamminati verso la vecchiaia ci chiediamo spesso se é veramente esistito o altro non é che un complicato sogno, questa mia sorta di autopresentazione.

A futura memoria me la copioincollo qui, non mancando di precisare che in dodici sempre più corti mesi, sono molto, ma mooolto peggiorato. Lo ammetto:  il mio caratteraccio si va sempre più e irrimediabilmente cronicizzando. Che dire, poveretti quelli a cui é toccata la malasorte di vivermi accanto! Vado…..

FB_IMG_1598786681016

Quindi,  vediamo. I due col teschio nella maglietta sono un attuale prete e un ex prete. All’estrema destra il caro amico Claudio, natio di Sinnai nel cagliaritano, l’amico robusto che da piccoli si è sempre voluto perché non si sa mai.

Il piccoletto è uno che conosco mooooolto bene, e più passa il tempo e più continuo a conoscerlo meglio e a sopportarlo meno. Difetti? Uuuhhh…Pregi? Mah… La cosa più certa é il carattere un poooo…diciamo caratteraccio,  di quelli ch’é meglio asso-lu-ta-me-nte evitare. Indole verso l’Intro? Sicuramente, e vado subito ad esplicitare…

Per niente espansivo. La caciara di gruppo l’ha sempre respinta. Nel dialogo a due si è sempre trovato a suo agio. In tre per lui si è già in troppi.Inutile insistere: uno per volta è la sua preferenza.

Ha sempre cercato di mettere a punto il pensiero prima di esternarlo. No, non per la bella o brutta figura, cosa che per lui è del tutto ininfluente e l’ultima delle preoccupazioni. Lo sforzo per togliere parole sensate, e di conseguenza pensieri con senso compiuto (seppur per molti fastidiosi!) è unicamente per l’alta considerazione che ha per l’Onorevole Rispetto: per lui, per l’altro e per il Buonsenso in sesesé (pausa) peperepé.

Costretto spesso ad apparire, a non rimanere in penombra, quando invece lui avrebbe preferito starsene alla larga da tutto, vagare senza una meta ben programmata, per il semplice gusto di camminare, convinto che il bello è nel tragitto più che nell’arrivo.

Ha sempre preferito sentieri secondari e possibilmente solitari. Fermarsi spesso e abbassarsi per seguire con meravigliata attenzione la lunga fila di formichine che, ancora a fine estate, vanno avanti e indietro per riempire i magazzini sotterranei in previsione della sempre troppo lunga stagione invernale.

Il bastone è sempre compagno nel suo procedere. Tre gambe danno più sicurezza di due (!?).

Ancora oggi, che il piccoletto è cresciuto, molto in anni e forse meno in altro, imperterrito continua a scrutare tutto con estrema attenzione, dentro e fuori di lui.

Sempre graciletto di salute, e col tempo, anche l’emotività è aumentata. Spesso qualche lagrimuccia vuole uscire, nonostante lo sforzo di trattenerla. Succede quando vede, con rinnovata e commossa meraviglia, che in mezzo a tanta cattiveria umana, gesti e sentimenti di bontà continuano ad esserci, nonostante tutto.

Quando vede qualcuno che ha il coraggio e la forza di andare contro la corrente comune spesso fatta di stupidità e di violenza senza necessità, quando vede che c’è ancora chi non vuole portare il proprio preziosissimo cervello all’ammasso.

Ecco, in questi momenti gli occhi di quel lontaniiiiissimo “piccoletto” divenuto ormai anzianotto, s’inumidiscono particolarmente e…. gioiosamente.

Mi chiedo: ma cosa stavamo cantando in quel lontano dì per avere le bocche così spalancate? Allovedete? Anche la memoria sta’ evaporando…

 

Aggiornamento al 31 agosto 2020, ore 3,14 circa

 

Considerando lo sconquasso epidemico nel mentre avvenuto e tutt’ora in corso, in realtá il tutto abbisognerebbe di un urgente e doverosissimo aggiornamento, ma occorrendo scavare troppo nel profondo e ritrovandomi le vesciche alle mani (e alla mente) doloranti, sarei tentato di rinviare a tempi meno dolorosi. Ma il futuro, lo si sa, é sempre in forse, per cui…

No, non voglio dilungarmi troppo, anche perché preferisco concentrare l’attenzione su quella benedetta – almeno qui, meno per quello che sta causando altrove nella penisola…- pioggia che sta confortando il mio sempre insufficiente sonno, dovuto a quell’incipiente vecchiaia che dicevo all’inizio.

Il copiaincollo, con qualche ritoccatina, terminava sul cosa i quattro cantavano a bocche spalancate.

Riguardando ora la foto con più attenzione, mi accorgo che a differenza del primo a sinistra che guarda avanti, gli altri tre lo sguardo l’hanno rivolto verso l’alto, e siccome si é detto che il piccoletto a braccia conserte ha sempre avuto tendenze introspettive, qualche ipotesi bisogna pur farla.

Il primo, attualmente prete, aveva ben chiaro il futuro che l’attendeva, appunto di pretare vitanaturaldurante…almeno finora?

Il terzetto insuguardante, si chiedeva al contrario in che modo avrebbe impostato la propria vita, a che cosa e a quali prioritá dedicarla?

Ammettiamo che così sia.

Sul terzo a partire da sinistra qualcosetta potrei dirla, ma non ora che sono appena le 3,36.

Dell’amico forzuto le tracce son rimaste a quando, tanti, tanti e tanti anni fa dal sud della Sardegna venne qui al nord per propormi di diventare testimone di tal Geova. Declinato l’invito, ci salutammo cordialmente dopo un scarsino e per niente soddisfacente pranzo e ciascuno per la propria strada. Spero che stia bene in salute.

Dell’ottimamente schitarrante col teschio in petto le tracce son ferme a quando andai a presenziare per la morte della cara mamma, di cui mi son rimaste impresse la tantissima e sincera cordialità e gentilezza, insieme al senso di accoglienza pieno di calorosissimo affetto ogni qualvolta andavo a trovare la per me sempre cara famiglia nel paesino oggi impreziosito da bellissimi e significativi murales. Per il resto so che ha svolto attivitá d’insegnamento, e conoscendone il gran cuore, ho la certezza che abbia curato nel miglior modo possibile i suoi discenti. C’é cosa più importante per chi nella vita svolge un ruolo così delicato e importante?

Sento che continua a piovere. Chissà dove ho messo l’ombrello. O dovrò uscire con la barchetta rattoppata che tengo giù in cantinetta, sempre che non sia tutta bell’allagata e non possa manco entrare?

Che pena il “popolo” cocciutamente smascherinato !

In “margine” (ma non troppo) all’articolo che segue

 

di Piero Murineddu

 

Condivisibile e interessantissima l’analisi fatta nell’articolo che propongo di seguito circa il diffuso rifiuto d’indossare la mascherina, oltre gli altri accorgimenti, protettiva principalmente per gli altri, in questi tempi che, e ce ne stiamo sempre più rendendo conto per i numeri quotidianamente in rialzo, col coronavirus bisogna imparare a conviverci, altro che negarne l’esistenza per chissá quali misteriose strategie complottistiche.

In margine all’argomento, come faccio normalmente quando incappo in qualche testo che attrae la mia attenzione, vado a cercare qualche notizia sull’autore dello stesso. In questo caso, Donatella Di Cesare, si tratta di una filosofa che tra le altre cose ha affrontato studi approfonditi sull’Olocausto, e come capita quando la circolazione d’odio non solo mediatico é molto aggressiva, dal 2015, a causa di ripetute minacce di impronta antisemita, dagli organi competenti le fu affidata un’auto non blindata e uno o due agenti come scorta di quarto livello.

Per l’assegnazione c’é un criterio ben preciso. É il Prefetto locale, dietro segnalazione delle forze di polizia, a prendere la decisione sulla scorta.

Nel luglio del 2018, cioé un mese dopo la nascita di un Governo in cui Chisappiamo si ritrovò incredibilmnte a ricoprire la delicatissima carica di Ministro dell’Interno, la scorta alla signora fu revocata, e questo in coincidenza con la “minaccia”, ad opera dell’Esperto in Odio Vendicativo, di revocarla anche a Roberto Saviano, che come sappiamo, con Costui non é stato mai tenerino. E a ragione, santiddio!

Tornando alla mascherina si mascherina no, che stringi stringi corrisponde all’uso o meno dell’intelligente Buon Senso, l’ex ministro, che persiste in ciò che gli é più congeniale, cioé distribuire odio a piene mani e a piena lingua, é manco a dirlo uno dei profeti che con la mascherina (pretettiva principalmente per gli altri!) vorrebbe fare la stessa cosa che un dì voleva e sicuramente ha fatto col Tricolore.

Coincidenze? Ma si, dai…. Vogliamo dare i pieni poteri, sfacciatamente richiesti, ad un simile individuo? Ma si, dai…..

 

04534048-9325-11e8-8c02-559dd2886235

 

Fenomenologia triste del popolo no-mask

PDF

Stampa

di Donatella Di Cesare

(L’Espresso del 25 agosto 2020)

 

La realtà non mi piace, quindi fingo che non esista. Un’Apoteosi di inconscio e di ottusità. “Qui non c’è virus!”. Un sorriso sfacciato e uno sguardo spavaldo accompagnano le parole del no-mask. “Qui non c’è virus! Dov’è? Dov’è? Tu l’hai visto?”. Infatti, no – nessuno l’ha visto. Perciò si è detto che il coronavirus, così invisibile, impalpabile, quasi astratto, avrebbe rappresentato un pericolo ulteriore, potenziato. Perché sarebbe stato la fonte inesauribile di fantasie complottistiche.

Ma chi avrebbe potuto immaginare una rimozione così massiccia dopo più di trentacinquemila morti e un drammatico problema sanitario? Una rimozione esibita senza nessun pudore, ostentata fino a diventare la bandiera del nuovo partito trasversale No-Mask?

La parola d’ordine “post-covid”, che ha chiuso il lockdown, è stata interpretata non come l’inizio della coabitazione con il virus, bensì come il ritorno alla normalità. Faciloneria, frenesia vacanziera, semplice voglia di lasciarsi alle spalle quel che è accaduto. Certo, capita a tutti, ormai, di vivere una schizofrenia quotidiana: si dimentica il virus, come se non esistesse, per rammentarsene d’un tratto, in una sorta di ripetuto, amaro risveglio. Ecco la difficoltà. Ma non si può far nulla, se non indossare la mascherina e compiere quei gesti necessari per gli altri prima ancora che per sé stessi.

Chi rimuove – ce lo insegna la psicanalisi – semplicemente rifiuta una realtà divenuta inaccettabile. Qui non c’è risveglio, non c’è coscienza; è l’apoteosi dell’inconscio, il trionfo degli istinti. “Il virus non c’è”. Perché mi fa comodo così, perché “l’estate viene solo una volta”. Ma la fenomenologia del no-mask, che ha molte facce, è molto complessa. Accanto a chi rimuove inconsciamente c’è chi si crogiola nella diffidenza, ma anche chi nega armato di certezze. I confini sono labili. Per non parlare poi di quei politici meschini, sovranisti incalliti, negazionisti del coronavirus che, un po’ ovunque nel mondo (e da noi in modo eclatante), seguitando a fomentare l’odio per gli stranieri, tentano di far leva sull’insofferenza alle regole anti-covid. “Il problema non sono i ragazzi che ballano, ma quelli che sbarcano”, così S******.    Il fine non troppo recondito è la chiusura immunitaria di una comunità passiva e sempre più depoliticizzata.

Qualcuno ha scritto che la responsabilità sarebbe delle istituzioni incapaci di comunicare con gli irriducibili della movida. Eppure tutte le più alte cariche, a cominciare dal presidente Mattarella, hanno parlato con chiarezza. Semmai si dovrebbe puntare l’indice su quei media che si fermano alle porte degli ospedali, che non raccontano il dolore, che non fanno vedere l’angoscia e il tormento di chi non riesce a respirare. Troppa fatica emotiva. E così si asseconda l’equivoco della morte anonima: si muore, ma è come se nessuno morisse. Tocca agli altri, non a me. E che dire poi dei talk show dominati da personaggi pagliacceschi, magari considerati intellettuali, che disprezzando pubblicamente la mascherina si fanno beffe di ogni senso civico?

Per una volta, però, diamo la responsabilità a chi ce l’ha. A quei cittadini che si sentono vittime, della casta, del governo, del complotto, che cercano smaniosi un colpevole, che urlano a chi porta la mascherina “siete un popolo di schiavi”. Pseudopaladini di una fraintesa libertà che non guarda in faccia a nessuno, schiavi – loro sì – dei propri fantasmi elevati a dogmi. Triste menefreghismo, ottusità cialtrona, minorità civica. Ecco perché la rimozione è spia del grande problema culturale.

Quella volta in cui Francesco fu avvelenato, da Riccardo e da tanti altri

di Piero Murineddu

D’inciderla su disco non aveva proprio intenzione, ma poi, dopo averla cantata in un primo, secondo, terzo concerto e divenuto in seguito perché richiesto uno di quei brani conclusivi che invitano quasi ad alzarsi tutti in piedi per cantare insieme ma sopratutto per sgranchirsi le gambe dopo esser state costrette, se trovato posto in prossimitá del palco, a tenerle  due ore e più incrociate all’indiana, la canzone divenne una traccia di “Via Paolo Fabbri 43“, che oltre ad indicare il nome di un partigiano, sindacalista e naturalmente antifascista perito nel febbraio del ’45, il titolo del 33 giri uscito nel ’76 indica la via e il numero civico di Bologna dove Guccini ha vissuto per tanti anni, la cui facciata é attualmente abbellita, lo giuro perché vista coi miei malmessi occhi non molto tempo fa, da una vite che, maledizione, io non son mai riuscito a fare altrettanto a casa mia.

sketch1598640361703

L’avvelenata“, scritta durante un viaggio in treno e incazzatissimo sfogo di un periodo, quello dei “Movimenti” e dell’espropriazione proletaria, nello specifico pretesa di non pagare il biglietto, in cui ai cantautori si richiedeva ( leggi pre-ten-de-va) un impegno esplicitamente “politico”. Diversamente, si rischiava di esser giudicati dai Tribunali di piazza, come avvenuto a De Gregori durante un concerto a Milano, oppure etichettati come “fascisti” se non facevi canzoni “impegnate” che contribuissero alla Rivoluzione in atto, com’é successo per Lucio Battisti.

Dietro sua ammissione, Francesco si sentiva costretto ad inserire il brano –  considerato da lui poco più di una canzoncina di scarso valore –  in scaletta, cedendo unicamente all’insistente pressione del pubblico che voleva squarciagolare “…e un c…. in culo”  e “..comprate il mio didietro”, offerto a prezzo di svendita. Metaforicamente, si capisce…..

Nel brano, che propongo al termine per gli ignari, viene nominato un certo Bertoncelli che, sinceramente, fino all’altro giorno non ho mai saputo chi fosse. Capitatomi un articolo in proposito, vengo a sapere che trattasi di un critico musicale un lustro più vecchio di me, Riccardo di nome, che in occasione del precedente  “Stanze di vita quotidiana“, sfornato nel ’75 e che a suo giudizio metteva in risalto l’insulsaggine dei testi, criticò negativamente  anche Vince Tempera i cui arrangiamenti non migliorarono la pochezza musicale. In definitiva, con parole ben scritte in italiano, invitava Guccini a ritirarsi perché intanto diceva sempre le stesse cose. Su altri passaggi del pesante articolo sorvoliamo.

Francescone non reagì bene, e sfogandosi con qualcuno disse che il suddetto giornalista non capiva un c…. ( per rimanere in tema).

Venutolo a sapere, il Riccardo contatta Guccini e combinano un appuntamento. Dopo la conoscenza diretta e il reciproco chiarimento, agevolato sicuramente da qualche bicchiere e la dovuta strimpellata proprio del brano in questione, tra i due si sviluppó un’amicizia e Bertoncelli insistette perché nei concerti il suo nome non fosse sostituito, come solitamente veniva fatto, da quel loscone del Berlu, quadrisillabe anch’esso.

Se qualcuno ha curiosità di conoscere i particolari di questa favola a lieto fine, faccia la fatica di frugare in Rete come ho fatto io.

Pensandoci, la vicenda richiama l’importanza, quando é possibile, di parlarsi faccia a faccia, e se uno dei due non ce l’ha da culo (eia,per rimanere in tema), é possibile si arrivi a dei punti comuni su cui ci si può incontrare. Insomma, tutt’altra cosa di come avviene per esempio nei moderni e già invecchiati social dove sempre più spesso prevale quel che si sa, oppure quando all’eventuale contrapposizione assiste un qualsiasi pubblico a cui ” doverosamente” occorre dimostrare che la ragione é senz’ombra di dubbio ( eggià!) dalla propria parte. Nel confronto diretto a due, oltre la possibilitá che il dialogo voluto porti ad un accordo, possono cadere anche certi pregiudizi, quelli che fanno scadere la vita ad una lotta continua.

La prima volta che sentii l’Avvelenata – avevo una ventina d’anni – fu durante un Festival dell’Unitá in cui anch’io occupavo uno spazio sul palco per cantarmi due o tre brani che nel contesto forse c’entravano niente (su questo mi é rimasto peró sempre il dubbio!), ma che furono ugualmente applauditi, sopratutto dalla claque d’amici sistemati sotto il palco. Ad un certo punto e forse fuori programma, imbracciata una chitarra, un giovanotto coi capelli più lunghi dei miei (maledetto!), introducendosi con gli accordi di RE LA SI- FA#- SOL LA RE LA , partì con queste parole che, amplificate dagli altoparlanti e imitando la voce del Guccio, fecero accorrere incuriosite anche le coppiette pomicione opportunamente appartate nei vari angoli della piazza e viuzze limitrofe. Ecco, giá d’allora quello che colpì era il c…. che si trovava dove non doveva trovarsi e il buco racchiuso tra le due focaccine flaccidesode chissà perché messo in vendita. Sempre metaforicamente, si capisce…

A distanza di decenni, persino negli ultimi concerti, i passaggi cantati in coro dal pubblico sono stati specialmente quelli. Immagino il rotolamento irrefrenabile dei cosiddetti dell’invecchiato Francescone. Conclusioni e commenti da fare? Come no: BOH !

Ed ecco la canzone, dove neanche l’autorevolezza del Comunicatore sul palco (altra Cosa dalla Pena provocata da certuni politicanti di questi tristi tempi) riesce a placare certa esuberanza da piazza…

 

Il testo sarebbe tutto da considerare, ma non la smetterei piu. Eccolo…

Ma se io avessi previsto tutto questo,
dati causa e pretesto, le attuali conclusioni,
credete che per questi quattro soldi,
questa gloria da stronzi, avrei scritto canzoni?

Vabbè, lo ammetto che mi son sbagliato
e accetto il Crucifige e così sia.
Chiedo tempo, son della razza mia,
per quanto grande sia, il primo che ha studiato.

Mio padre in fondo aveva anche ragione
a dir che la pensione è davvero importante.
Mia madre non aveva poi sbagliato
a dir che un laureato conta più di un cantante.

Giovane ingenuo, io ho perso la testa,
sian stati i libri o il mio provincialismo,
e un cazzo in culo e accuse di arrivismo,
dubbi di qualunquismo son quello che mi resta.

Voi critici, voi personaggi austeri,
militanti severi chiedo scusa a Vossia.
Però non ho mai detto che a canzoni
si fan rivoluzioni, si possa far poesia.

Io canto quando posso, come posso,
quando ne ho voglia, senza applausi o fischi,
vendere o no non passa fra i miei rischi:
non comprate i miei dischi e sputatemi addosso.

Secondo voi ma a me cosa mi frega
di assumermi la bega di star quassù a cantare?
Godo molto di più nell’ubriacarmi
oppure a masturbarmi o, al limite, a scopare.

Se son d’umore nero allora scrivo
frugando dentro alle nostre miserie;
di solito ho da far cose più serie:
costruir su macerie o mantenermi vivo.

Io tutti, io niente, io stronzo, io ubriacone,
io poeta, io buffone, io anarchico, io fascista,
io ricco, io senza soldi, io radicale,
io diverso ed io uguale, negro, ebreo, comunista!

Io frocio, io perché canto so imbarcare,
io falso, io vero, io genio, io cretino,
io solo qui alle quattro del mattino,
l’angoscia e un po’ di vino, voglia di bestemmiare.

Secondo voi ma chi me lo fa fare
di stare ad ascoltare chiunque ha un tiramento.
Ovvio, il medico dice: “sei depresso”:
nemmeno dentro al cesso possiedo un mio momento.

Ed io che ho sempre detto che era un gioco
sapere usare o no d’un certo metro,
compagni, il gioco si fa peso e tetro:
comprate il mio didietro, io lo vendo per poco.

Colleghi cantautori, eletta schiera
che si vende alla sera per un po’ di milioni:
voi che siete capaci fate bene
ad aver le tasche piene e non solo i coglioni.

Che cosa posso dirvi? Andate e fate.
Tanto ci sarà sempre, lo sapete,
un musico fallito, un pio, un teorete,
un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate.

Ma se io avessi previsto tutto questo,
dati causa e pretesto, forse farei lo stesso.
Mi piace far canzoni e bere vino,
mi piace far casino e poi sono nato fesso.

E quindi tiro avanti e non mi svesto
dei panni che son solito portare.
Ho tante cose ancora da raccontare,
per chi vuole ascoltare, e a culo tutto il resto!

Bielorussia: “Quando una donna che ama scende in piazza…”

Si danno appuntamento ogni giorno per chiedere al regime di Lukashenko stop alle violenze

Le “Donne in Bianco” è un movimento spontaneo nato per protestare contro le violenze subite nelle carceri dai dimostranti arrestati, chiedere il rilascio dei detenuti ancora in prigione e notizie dei manifestanti scomparsi. Organizzano quotidiane catene umane. Vestono di bianco e portano dei fiori per simboleggiare che alla violenza e agli abusi delle forze di sicurezza rispondono pacificamente.

di Rosalba Castelletti
(“La Repubbblica” del  25 agosto 2020)

 

Mappa-Bielorussia

 

Sono apparse la prima volta la mattina del 12 agosto davanti al mercato Khamarovskij. Un centinaio di donne coraggiose in abito bianco e con un mazzo di fiori in mano. Una protesta silenziosa e pacifica per condannare la violenta repressione delle forze dell’ordine che nei giorni precedenti aveva traumatizzato il popolo bielorusso sceso in piazza contro le contestate presidenziali. Il pomeriggio un’altra catena umana di sole donne sventolava nastri bianchi e intonava la ninna nanna Kalyhanka sotto l’Obelisco della Vittoria.

Da allora, migliaia di donne si danno appuntamento ogni giorno lungo gli ampi viali del centro di Minsk per chiedere il rilascio di tutti i detenuti politici, la verità sui dimostranti scomparsi e che, dopo 26 anni al potere, Aleksandr Lukashenko lasci il posto a Svetlana Tikhanovskaja. “Donne in Bianco”, le chiamano, come il gruppo delle “Damas de Blanco” cubane.

Dietro quelle due azioni che hanno ispirato il Paese da nove milioni e mezzo di abitanti e ispirato il mondo intero ci sono due giovani di nome Marina e una manciata di loro amiche.

«Abbiamo avuto la stessa idea contemporaneamente », spiega Marina P., una trentenne ancora troppo traumatizzata per divulgare il suo cognome quando la incontriamo in un bar del centro dopo l’ennesimo corteo. La sera del 9 agosto, come migliaia di bielorussi, era andata davanti al suo seggio per conoscere i risultati elettorale, ma gli scrutatori si sono defilati e sono arrivati gli Omon, gli agenti anti-sommossa. Marina ha provato a fuggire, ma non ha avuto scampo. È così che sono iniziate le sue 36 ore di umiliazioni e violenze.

«Ti gettavano dentro al blindato e ti bastonavano, ti tiravano fuori e ti bastonavano, camminavi nel cortile del carcere e ti bastonavano. Ci hanno tenuto tutta la notte in piedi faccia al muro, fatto bere l’acqua nello stesso secchio che ci avevano dato per i nostri bisogni. Ho ancora nelle orecchie le grida, i lamenti, i pianti di noi detenuti e le risa isteriche delle guardie che ci massacravano».

Rilasciata il 10 agosto, il giorno dopo Marina ha meditato quella che definisce la sua «vendetta senza armi».

«Insieme ad altre due amiche ci siamo chieste fino a che punto si sarebbe spinto questo sistema patriarcale e autoritario davanti a una cordata di sole donne. Abbiamo aperto un canale Telegram chiamato “Girl Power” e invitato altre conoscenti. Da tre siamo diventate 8mila in poche ore».

Per tutta la notte hanno discusso su dove incontrarsi, che cosa indossare, quali simboli usare. E infine hanno deciso di radunarsi davanti al mercato Khamarovskij perché lì le avrebbero viste anche le persone meno coinvolte nelle proteste: “babushke”, pensionati, casalinghe, per «dimostrare che i manifestanti non sono né drogati né alcolisti come li dipinge la propaganda statale». E hanno scelto di indossare abiti bianchi e di portare fiori per «simboleggiare al massimo il concetto di pace».

Il raduno davanti all’Obelisco della vittoria è nato parallelamente.

«Volevamo dimostrare che le donne non sono meno forti degli uomini», racconta Mentusova, l’altra Marina. Dopo aver trascorso diverse notti insonni vedendo i corpi martoriati delle vittime della repressione, ha lasciato la figlia Vera di sei mesi con il marito a Mosca dove vive da diversi anni per tornare in Bielorussia.

«Avevo lasciato il Paese perché non potevo cambiarlo e non so stare in un angolo. Ma quando la gente della mia città natale, Gomel, è scesa in piazza, ho visto che per la prima volta c’era la possibilità di lottare per la libertà. Una possibilità di cambiamento. Non potevo restare indifferente».

Insieme ad Anastasja Kostjugova ha coinvolto un gruppo ristretto di amiche e tenuto l’appuntamento in piazza della Vittoria segreto fino all’ultimo per timore di rappresaglie.

Fino a quel mercoledì chiunque era un bersaglio della brutale violenza degli Omon, il pensionato uscito a fare la spesa, l’automobilista che tornava a casa, il giornalista con l’accredito al collo e persino l’uomo che gridava: “Ho votato Lukashenko”.

Ciononostante si sono presentate «vulnerabili » a piedi nudi, con abiti bianchi, «il colore della purezza e dell’innocenza », e i nastri col disegno tradizionale biancorosso bielorusso e hanno intonato la ninna nanna Kalyhanka «perché la violenza — spiega Anastasja — cadesse in letargo e la gente si svegliasse».

In piazza, come al mercato, c’è stato chi ha avuto parole di gratitudine, chi ha applaudito e regalato fiori e chi invece ha fatto commenti sprezzanti. Tante donne si sono unite anche se non c’entravano nulla o sono arrivate alla spicciolata perché avevano visto le immagini sui social.

«Abbiamo capito che non potevamo più fermare questo movimento », dice Marina P.. «Siamo confluite in un unico canale “Donne della Bielorussia” che oggi conta quasi 14mila partecipanti. Non riesco ancora a credere che si sia allargato così tanto ».Non sarebbe mai successo, ammettono le giovani organizzatrici, senza l’esempio del cosiddetto “triumvirato”. Dopo che i “tre grandi” oppositori candidati alle presidenziali sono stati arrestati o sono fuggiti, le loro mogli o strette collaboratrici hanno proseguito la loro campagna elettorale. Svetlana Tikhanovskaja si è candidata al posto del marito e Maria Kolesnikova e Veronika Tsepkalo l’hanno affiancata ai comizi. «Lukhashenko ha lasciato che Tikhanovskaja partecipasse alle elezioni solo perché la sottovalutava in quanto donna. Ha detto che la nostra Costituzione non è fatta per le donne e che una donna dovrebbe fare le polpette», racconta la 28enne Aleksandra Kostenko, che ha preso parte sin dall’inizio a tutti i raduni delle “Donne in bianco”.

«Oggi invece tutti vogliono Svetlana come presidente. In questa casalinga che chiudeva i comizi dicendo “Vado a fare le polpette” per ribattere a Lukashenko, hanno visto le loro madri e le loro mogli».

La paura, ammette Marina Mentusova, c’è:

«Abbiamo paura di essere picchiate, ma abbiamo ancora più paura di dover vivere in uno Stato dove saremo sempre picchiate. Scendiamo in piazza per i nostri mariti, figli e fratelli. C’è molta rabbia in questo, ma anche amore. E quando una donna che ama scende in piazza, può resistere a tutto»

 

Polish_20200827_181353845