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A quando la presidenza dell’Eucaristia da parte di una donna?

di Luigi Sandri

Un vescovo tedesco propone che si ridiscuta sulla possibilità dell’ordinazione sacerdotale delle donne, pur negata dai papi Wojtyla e Bergoglio; una donna si autocandida alla guida della diocesi di Lione; Comunità di base ritengono anti-evangelico proibire alle donne di presiedere la Cena del Signore. Che fare?

 Come fiocchi di neve che, isolati, non contano nulla, ma unendosi possono formare una valanga travolgente, allo stesso modo domande ed esperienze legate alla “questione-donna” – eterogenee ma infine compatte per sfidare lo status quo patriarcale e maschilista – stanno investendo la Chiesa cattolica romana ponendole interrogativi radicali per avviare un cambiamento di paradigma ecclesiale, istituzionale e pastorale.

Aperto in dicembre 2019, il Sinodo tedesco di fatto ha iniziato i suoi lavori a gennaio, riprenderanno in autunno. Esso, composto da rappresentanti del clero e del laicato, ha all’ordine del giorno anche l’ipotesi di ammettere donne al diaconato e, qualcuno spera, pure al presbiterato.

In marzo la Conferenza episcopale tedesca (DBK) ha eletto come suo nuovo presidente il vescovo di Limburgo, monsignor Georg Bätzing (classe 1961), che sostituisce l’arcivescovo di Monaco, cardinale Reinhard Marx (1953), anima “progressista” della DBK. Ora, il neo-eletto, interrogato a fine maggio sulle prospettive del dibattito in atto, ha accennato all’ordinazione sacerdotale delle donne. Seppure i severissimi “no”, in proposito, proclamati da Giovanni Paolo II, e nella sostanza ribaditi, pur soavemente, da Francesco, sembrano aver chiuso la questione, “ciò non significa – ha detto il prelato – che non se ne possa nemmeno parlare. La richiesta è li, nel bel mezzo della Chiesa». Per capire l’audacia di tali parole, sarà bene ricordare che nella lettera apostolica Ordinatio saceridotalis (1994) Wojtyla proclamava che, per difendere “la divina costituzione della Chiesa, in virtù del mio ministero di confermare i fratelli, dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa.”

Come mai Bätzing candidamente relativizza questo magistero? Perché non solo in Germania, ma in tutta la Mitteleuropa, nel Nordamerica e anche nel Sud del mondo, vi sono molti gruppi che vanno nel senso pur stroncato dal papa polacco; e altri che, rifiutando il “sacerdozio”, prospettano una Chiesa ove tutti i ministeri siano aperti a uomini e donne. Incrociando oggettivamente il programma dell’Assemblea tedesca, l8 aprile il papa ha istituto una nuova commissione (la precedente aveva fallito il compitol) per accertare “se” e “quale” ordinazione ricevessero le diacone nell’antichità. Il Sinodo di ottobre sull’Amazzonia Gli aveva espressamente chiesto che nella commissione ci fossero anche “amazzoniche”. Proposta ignorata.

Il 6 marzo il papa ha accettato le dimissioni del cardinale Philippe Barbarin da arcivescovo di Lione- impigliato, seppure infine non condannato per aver “tollerato” un prete pedofilo. In tale contesto, a fine maggio è accaduto un evento mai verificatosi nella storia della Chiesa: una donna si è autocandidata per guidare la diocesi francese. Anne Soupa, 73 anni, ha spiegato: “Da 35 anni sono sul terreno, come studiosa della Bibbia, teologa, giornalista, scrittrice. Tutto questo mi permette di considerarmi capace di candidarmi al ruolo di vescovo, tutto mi legittima. Ma tutto me lo vieta”. E poi: “Da sette anni, nella Chiesa nulla si è mosso. Papa Francesco ha eluso due richieste fondamentali: quella dell’accesso delle donne a responsabilità reali, e quella della distinzione fra gestione e ministeri per ordinazione… La Chiesa di Francia non può continuare ad essere governata da metà dell’umanità.”

Una provocazione? Forse, ma essa rende stridente, nel XXI secolo, il rifiuto di ammettere le donne, in quanto donne, a quelle cariche; del resto, ha commentato il teologo spagnolo Juan José Tamayo, nella Chiesa antica vi sono fatti che demoliscono le basi del “no” vaticano.

La pace nel mondo non può fare a meno delle scuse alle donne da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Cosi si intitola una lettera aperta – resa nota a Pentecoste – le cui prime firmatarie sono Paola Cavallari, dell’Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne; Carla Galetto e Doranna Lupi, ambedue dei gruppi donne Comunità di Base; Paola Morini, dell’Oivd. L’appello finora – primi di agosto – ha ottenuto 478 firme. Direttamente, la lettera è rivolta al presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Gualtiero Bassetti.

Sempre sul tema Chiesa-donna, da leggere è il documento della Comunità cristiana di base di san Paolo in Roma. Tali esemplificazioni, più quelle di Bätzing e Soupa, non esauriscono il “sentire” della Chiesa romana; ad esse se ne potrebbero aggiungere centinaia, tutte convergenti nel dire che essa, così come è strutturata, patriarcale e maschilista, non va. Certo, lo status quo ha dalla sua pile di dichiarazioni di Concili, papi, teologi e santi; ma ha l’Evangelo?

Tutti questi interventi fanno riferimento ad un ampia bibliografia. Qui vogliamo ricordare “Non sono la costola di nessuno”. Letture sul peccato di Eva. Il libro – a cura della Cavallari – oltre ad un’introduzione di questa, e una prefazione di Lilia Sebastiani, riporta saggi di Giancarlo Anderlini, Carlo Bolpin, Lidia Maggi, Paolo Ricca, Brunetto Salvarani e Letizia Tomassone. Un ventaglio ben assortito che esamina, dal punto di vista biblico e storico, il “caso” di Eva, con riflessioni non scontate e prospettive intriganti che illuminano anche il rapporto Donna-Chiesa cattolica e rendono più acute le domande per l’oggi.

Che fare, dunque? Quello che il pontificato in atto non ha osato: sollecitare i fratelli vescovi ad affrontare le citate problematiche nelle rispettive diocesi, per poi convocarli a Roma – o altrove – per gli “stati generali” della Chiesa cattolica, ouverture di un inedito Concilio di “padri” e di “madri” (nubili e sposate, si intende) che affronti la domanda-chiave: “In fedeltà al Vangelo, Maddalena e le altre possono, come gli uomini, celebrare e presiedere la Cena del Signore?” Una certa parte farà muro con un NO granitico; ma, siamo convinti, prevarrà largamente il SI

Il mio parere

di Piero Murineddu

Certo che é impressionante quel no “definitivo” da parte del papa polacco alla possibilitá che le donne possano accedere al sacerdozio ordinato, e questo considerando anche che la Chiesa, nonostante l’apparente staticitá ultra secolare, é una realtá in continuo movimento, o almeno così voglio credere se non si vuole tradire la Sempre Novitá della Proposta Evangelica.

Quindi Luigi, insieme alla sua comunitá romana di cui sotto riporto l’intera introduzione al nuovo volume sull’argomento ” sacerdozio femminile”, immagina e spera in un prossimo Concilio “di padri e madri”, in rappresentanza effettiva dell’intero popolo di Dio, in cui si dice certo che la Questione verrá finalmente risolta a favore dei si.

Ottimista l’amico giornalista, sopratutto in questi tempi di Conservazione a muso duro, se non addirittura di generalizzato dietrofront, a partire da quell’ultimo Concilio voluto da Angelo Roncalli e mai di fatto portato a compimento.

Per tanto tempo si é insistito nel voler tenere separate la “religione” dalla politica, e ancora oggi non é raro sentire un qualunque prete sottolineare imperterrito che lui si deve occupare “solo” di cose spirituali, specie, dico io, se difficilmente lo si sentirá esprimere un’opinione sull’andamento del mondo che non sia strettamente legato al premio del paradiso per i buoni e sfoderare la minaccia della Punizione Divina per chi la domenica non si presenta all’ora stabilita in chiesa per sopportare passivamente la sua noiosa eloquenza.

Mi chiedo tuttavia se siffatti preti e frati si rendano conto che così facendo dimostrano, al contrario di quanto affermano, che non sono affatto coerenti al Messaggio che dice di agire come lievito nella pasta per…..

Preti, frati e naturalmente laici a non finire, tutti attrezzati degli strumenti più adatti per edificare muri di “politica”, quella che impedisce però la promozione e realizzazione delle piena umanitá di tutti.

Lascio spazio alla riflessione fatta in occasione dell’ultima Pentecoste dagli amici e amiche di quel Giovanni Franzoni che fu costretto a dimettersi da abate per le sue idee di apertura al mondo, la cui evoluzione il potere clericale ha spesso voluto impedire.

In fondo alla pagina c’é possibilitá di scaricare in PDF l’intera introduzione

Il nostro pensiero sul sacerdozio femminile

 

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Cercando di vivere in modo consapevole la nostra esperienza cristiana, è stato “inevitabile” imbatterci anche sul significato dell’Eucarestia, su “chi” può presiederla, e dunque sul problema dei ministeri.

Spinti non solo da eventi contingenti che toccavano la possibilità stessa di esistenza della nostra Cdb, ma anche incoraggiati da alcuni imput del Concilio Vaticano II e confortati dagli studi e dalle conclusioni di valentissimi e valentissime competenti dell’esegesi biblica e della teologia, in proposito siamo arrivati a capire che, storicamente e biblicamente, non sono più difendibili la dottrina e la prassi cattoliche ufficiali che escludono le donne, in linea di principio, dalla possibilità di celebrare e presiedere la Cena del Signore.

Eppure… è un dato di fatto che quasi tutte le Chiese, per secoli e secoli, hanno dimenticato il mandato di Gesù a Maria di Magdala (Migdal, in ebraico: villaggio sulle rive del lago di Tiberiade, non lontano da Cafarnao); e, perciò, hanno compiuto una ingiustizia che ha pesato moltissimo non solo sulle donne, ma sull’intera Chiesa – per quanto di ciò a lungo nesciente – , costruita appunto e pensata come maschilista e patriarcale.

In merito, affronteremo in particolare la teoria e prassi della Chiesa cattolica romana che, stando così le cose, è “impossibilitata” ad uscire dalla torre teologica e dogmatica in cui si è rinserrata, a meno che, con un soprassalto di coraggio e di sapienza, non decida finalmente di calare il ponte levatoio che la rinchiude e la difende, per aprirsi alle novità che lo Spirito ispira.

Descriveremo questa torre dalle mura altissime, che non riguardano solo il passato: anche vicende ecclesiali recenti, infatti, lo confermano. A Roma, nell’ottobre 2019, un Sinodo dei vescovi dedicato all’Amazzonia aveva dimostrato una certa audacia perché – partendo dal fatto che, laggiù, comunità ecclesiali disperse nella foresta profonda vedono il prete celibe solamente una volta ogni uno o due anni – aveva dato al papa questo consiglio: «Proponiamo che l’autorità competente stabilisca criteri e disposizioni, nel quadro del n. 26 della Lumen gentium (costituzione del Vaticano II sulla Chiesa), per ordinare sacerdoti uomini idonei e riconosciuti dalla comunità, che abbiano un diaconato permanente fecondo e ricevano una formazione adeguata per il presbiterato, potendo aver una famiglia legittimamente costituita e stabile, per sostenere la vita della comunità cristiana mediante la predicazione della Parola e la celebrazione dei Sacramenti nelle zone più remote della regione amazzonica».

Un testo – rileviamo – teologicamente e sintatticamente travagliato, segno della difficoltà di tener conto di punti di vista assai articolati perché siano ammessi al presbiterato, seppure in presenza di molte condizioni restrittive, diaconi già sposati (viri probati, di fatto). Invece, a proposito delle donne, pur lodando tantissimo il loro decisivo apporto alla vita di quelle comunità, il Sinodo non aveva osato chiedere neanche il diaconato.

Comunque, dopo tante attese, è arrivata l’Esortazione post-sinodale Querida Amazonia di Francesco, datata 2 febbraio 2020 e pubblicata dieci giorni dopo.
Siamo totalmente d’accordo con tale documento quando, con piena solidarietà e grande tenerezza, si schiera al fianco dei popoli originari dell’Amazzonia, affinché il loro ecosistema sia garantito, i loro territori custoditi, i loro fiumi mantenuti potabili: insomma a difesa del loro diritto di vivere in dignità, protetti dalle mani di rapina che vorrebbero saccheggiare quelle terre a spese di chi le abita da millenni.

L’Esortazione sostiene, poi, le ragioni degli indigeni decisi a mantenere la loro variegata cosmogonia e la loro spiritualità. Benissimo. Ma queste parole, purtroppo, sul versante ecclesiale il papa non le ha inverate: egli infatti, bypassando i consigli del Sinodo, “dimentica” la proposta che diaconi indigeni sposati possano essere consacrati presbìteri; inoltre egli non esplicita che anche donne siano ammesse in tutti i ministeri, o almeno nel diaconato; e perché no? Per non volerle “clericalizzare”, precisa.

Ma ci rendiamo conto che, forse, non è un Sinodo dei vescovi, o un papa da solo che possono cambiare profondamente teologie e prassi che durano da secoli: solo un inedito Concilio – di “padri” e “madri”, e dunque non più clericale – potrebbe farlo. Non è in questione, infatti, un dettaglio: si tratta di mettere in discussione dalle fondamenta il concetto stesso di sacerdozio ministeriale (mediazione necessaria tra il popolo e Dio) affidato ai maschi, meglio se celibi, per arrivare a edificare, invece, una Chiesa caratterizzata da ministeri (servizi per il popolo di Dio), tutti aperti a donne e uomini. Ministeri derivanti dal sacerdozio comune radicato nel battesimo, come bene ha messo in evidenza la Riforma.

Il “sacerdozio” ministeriale, se esercitato anche dalle donne, renderebbe ovviamente meno patriarcale la Chiesa, e vi indurrebbe importanti cambiamenti istituzionali e pastorali; ma risolverebbe, in prospettiva e in profondità, i problemi? Esso, infatti, è estraneo al pensiero di Gesù che mai ha parlato di “sacerdozio” per chi Lo avesse seguito, ma di “discepolato” e di “servizio” [diakonìa]; quel “sacerdozio”, d’altronde, perpetuerebbe separazioni e steccati all’interno del popolo di Dio.

Sarebbe l’ora, invece, come molte e molti nell’intera Ekklesia pensano (e anche noi ci inseriamo in questo fiume), di dilatare tutti i “ministeri”, “servizi” possibili sia a donne che uomini se chiamati a compierli in e da una comunità. Si tratterebbe, nientemeno, che di riconoscere: è stata una scelta infelice, infelicissima la costruzione, nei secoli, di una Chiesa dove il carisma della presidenza dell’Eucarestia è stato considerato – ma agli inizi non era così! – privilegio dei maschi.

Oggi, per superare questa ferrea barriera (del “no” alle donne nei ministeri) si dovrebbe, dunque, operare un cambiamento profondo e radicale di paradigma teologico, accettando che il tempo della Chiesa maschilista vada considerato compiuto e chiuso; e che ora, per gli anni e decenni a venire, ci si dovrebbe impegnare perché si dischiuda tra le doglie del parto il tempo della Chiesa dove, come Pietro e gli altri, anche Maria Maddalena e le altre possano annunciare pure nell’Ekklesia l’Evangelo e presiedere la Cena del Signore.

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ASSEMBLEA EUCARISTICA DELLA COMUNITÁ

La Comunità Cristiana di base di San Paolo si riunisce regolarmente ogni domenica alle 11.30 per celebrare l’Assemblea eucaristica presso i locali in  via Ostiense 152/B a Roma

La preparazione dell’Assemblea eucaristica è curata ogni settimana da un diverso gruppo di componenti della Comunità, suddivisi in modo spontaneo per aree territoriali (Montesacro, Roma Sud-Est, Marconi, Grotta Perfetta) o per attività (Gruppo Biblico e Gruppo Donne). I gruppi si incontrano durante la settimana per discutere sulle letture previste dalla liturgia domenicale o per proporne di alternative in modo da preparare gli spunti per la riflessione collettiva della domenica. Il gruppo di turno si preoccupa anche di guidare la celebrazione dell’ Assemblea eucaristica.

Una Segreteria della Comunità, a cui partecipano rappresentanti dei diversi gruppi, ma che è aperta alla partecipazione di tutti, si riunisce periodicamente per affrontare e risolvere i diversi problemi organizzativi e programmare alcune attività della Comunità.
Per discutere questioni od iniziative di particolare rilevanza la Segreteria convoca in assemblea tutta la Comunità.

Alcuni interrogativi sviluppati nel libro

da “Confronti”

All’alba del XXI secolo un’inquietudine percorre il Cattolicesimo: perché mai la Chiesa ha disatteso l’esempio di Gesù verso le donne, che invece le prime comunità cristiane seguivano?

E se il sacerdozio – la mediazione tra la persona umana e Dio – era estraneo al pensiero di Gesù di Nazareth, perché la Chiesa lo ha introdotto, creando una struttura patriarcale e gerarchica?

L’esclusione delle donne dalla possibilità di celebrare e presiedere l’Eucaristia è un problema che riguarda solo l’ambito religioso, oppure, nella nostra società, favorisce una mentalità che porta a discriminazioni e violenze contro le donne?

Vendita di macchine di morte: avanti così….senza vergogna !

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di 7Maurizio Vecchio

La commessa per la vendita di armi all’Egitto di cui si parla in queste settimane è la più grande
ottenuta dall’Italia dalla fine della seconda guerra mondiale, in grado di ribaltare gli equilibri delle
forze militari in Medio Oriente in un momento di particolare tensione tra potenze internazionali e
regionali (come afferma il sito di approfondimento arabo indipendente Noon post). E non è una
novità.

Lo dimostrano i dati. Il Paese destinatario del maggior numero di licenze italiane per forniture di
armi è proprio l’Egitto con 871,7 milioni di euro (derivanti in particolare dalla fornitura di 32
elicotteri prodotti da Leonardo spa) seguito dal Turkmenistan con 446,1 milioni (nel 2018 non era
stato destinatario di alcuna licenza). Al terzo posto si colloca il Regno Unito con 419,1 milioni
complessivi. Fra le prime dieci destinazioni delle autorizzazioni all’export di armi italiane nel 2019 ci
sono quattro Paesi Nato (due dei quali anche nella Ue) insieme a due dell’Africa Settentrionale
(l’Algeria oltre all’Egitto), due asiatici (Corea del Sud insieme al già citato Turkmenistan) e infine
Australia e Brasile. Complessivamente il 62,7% delle autorizzazioni per licenze all’export ha come
destinazione Paesi fuori dalla Ue e dalla Nato. Per quanto riguarda le imprese, ai vertici della
classifica delle autorizzazioni ricevute troviamo Leonardo spa con il 58% seguita da Elettronica spa
(5,5%), Calzoni srl (4,3%), Orizzonte Sistemi Navali (4,2%) e Iveco Defence Vehicles (4,1%). Le
importazioni totali registrate sono state di 214 milioni di euro, per il 68% con origine negli Usa e per. il 14% provenienti da Israele (va notato che in queste cifre non compaiono gli import da Ue e area
economica europea non più soggetti a controlli dell’Unità per le autorizzazioni dei materiali di
armamento).

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È in questo contesto che si colloca l’attuale commessa della vergogna, che ha una storia in
crescendo. Nei primi giorni di febbraio, infatti, le agenzie di stampa economiche hanno annunciato
la richiesta egiziana a cinque banche italiane di un prestito agevolato per un valore di 45 milioni di
euro destinato a coprire l’acquisto di due fregate Frame Bergamini e di una serie di velivoli da
addestramento avanzato e da combattimento leggero realizzati dalla società Leonardo. L’8 giugno, poi, l’Ansa ha comunicato il via libera del Governo italiano per la vendita all’Egitto di due fregate multiruolo Fremm (la Spartaco Schergat e la Emilio Bianchi), originariamente realizzate per la
Marina Italiana e che, pertanto, dovranno essere rimpiazzate

A ciò si aggiungono altre 4 navi e 20 pattugliatori (che potrebbero essere costruiti nei cantieri egiziani), 24 caccia multiruolo Eurofighter e altrettanti aerei addestratori M346. Un contratto che confermerebbe l’Egitto come il principale acquirente di sistemi militari italiani per un complessivo valore stimato tra i 9 e gli 11 miliardi di euro

Eppure in seguito al massacro di Rab’a del 2013, nel quale le forze di sicurezza egiziane hanno
ucciso almeno 1.150 dimostranti, i ministri degli esteri dell’Unione europea si sono impegnati a «sospendere le licenze di esportazione verso l’Egitto di attrezzature che potrebbero essere usate a fini di repressione interna» e a «rivedere la loro assistenza nel settore della sicurezza con l’Egitto».
Da allora, peraltro, almeno 12 Stati membri dell’Ue, Italia inclusa, hanno contraddetto quell’impegno, nonostante non sia stata fatta giustizia per quel massacro e la repressione si sia intensificata da quando al-Sisi guida il Paese.

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Massacro_di_piazza_Rabi’a_al-‘Adawiyya

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Alcune organizzazioni per i diritti umani hanno documentato l’uso di equipaggiamento militare o di sicurezza fornito da Paesi europei per commettere abusi nei confronti di manifestanti pacifici, anche durante la violenta repressione delle proteste di massa del settembre 2019, nonché nel corso di operazioni militari nel Sinai del Nord, durante le quali l’esercito egiziano ha commesso crimini di guerra

Lo scorso febbraio, sette organizzazioni per i diritti umani, inclusa Human Rights Watch, hanno
chiesto all’Ue di adottare misure concrete – tra le quali il rispetto dell’impegno preso nel 2013 –
come risposta alla crisi dei diritti umani in Egitto, associandosi alla richiesta di un «riesame
profondo e completo» delle relazioni dell’Ue col Paese formulata dal Parlamento europeo nel
novembre 2019.

Al contrario l’Italia si è accreditata un ruolo di capofila in un sostanziale allineamento con gli altri
Paesi dell’Unione che, almeno nei fatti, dimostrano di essere indifferenti alle conseguenze della
commessa. E il silenzio vale molto più di ogni parola.

Nonostante la drammaticità della situazione, le voci che, all’interno della maggioranza del nostro
Paese, hanno espresso una timida contrarietà sono state assai flebili e, singolarmente, irrilevanti. Il
Governo è giunto a sostenere che le commesse non influenzeranno l’impegno dell’esecutivo e del
Parlamento sull’affaire Regeni, affermando addirittura che proprio le intese militari potrebbero
favorire gli obiettivi di collaborazione con le autorità egiziane. Peccato che secondo il quotidiano indipendente Al Khalij al Jadid «il Cairo sta cercando di placare Roma sulla questione Regeni con un accordo di alto livello». Il giornale ricorda che, dopo la morte del ricercatore, le licenze per l’esportazione militare dall’Italia al regime di Abdel Fattah al Sisi sono passate dai 7,1 milioni di euro del 2016 a 7,4 nel 2017 fino a raggiungere 69 milioni di euro nel 2018. «Questo numero supera di gran lunga gli acquisti totali di armi nel periodo tra il 2013 e il 2017, secondo un documento rilasciato dal ministero degli esteri italiano», commenta ancora il quotidiano.

La realizzazione delle commesse (quelle già concluse e quella in itinere) non può essere
riduttivamente confinata nell’alveo delle “scelte politiche” che competono, secondo i principi della
Costituzione, al potere esecutivo. C’è, infatti, in tali scelte un vulnus alla nostra Carta molto più
profondo di quanto possa apparire.

Al potere esecutivo competono certo gli atti politici e le commesse militari – quale espressione di
politica estera e di difesa – sono espressione di esercizio di tale potere in conformità alla nostra
Carta Costituzionale. Nondimeno l’atto politico – seppur caratterizzato da larga discrezionalità – ha
dei limiti precisi e disegnati dal Potere legislativo che ne costituiscono contraltare e contrappeso.
Orbene, in materia di autorizzazione alla vendita di armi l’atto politico del potere esecutivo è
vincolato da una rigida normativa, interna e internazionale, che trova fondamento nei precetti degli articoli 10 e 11 della Costituzione. In questo quadro la legge n. 185 del 1990 non lascia spazio ad alcuna speculazione giuridica:

a) non si può commerciare in armi con governi responsabili di gravi violazioni delle convenzioni
internazionali in materia di diritti umani;
b) non si può commerciare in armi con Paesi la cui politica contrasti con i princìpi dell’articolo 11. della Costituzione;

c) non si può commerciare in armi con Paesi in conflitto armato, che pure rispettino i diritti umani,
se ciò non avviene attraverso il parere delle Camere.

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Si tratta di princìpi ulteriormente rafforzati dalla legge 4 ottobre 2013, n. 118 di ratifica ed
esecuzione del Trattato sul commercio delle armi, adottato a New York dall’Assemblea generale
delle Nazioni Unite il 2 aprile 2013.
Nel caso specifico il potere esecutivo ha quindi agito riuscendo, in un sol colpo, a violare l’intera
normativa interna e internazionale vigente.
Ma il concetto di violazione – nel suo significato giuridico – non esprime appieno il vulnus realizzato.
È, infatti, riduttivo e parziale (oltre che ontologicamente errato) qualificare come semplice
violazione di legge l’atto politico dell’esecutivo che si pone in contrasto con la legge e la Costituzione. Nel caso specifico l’atto politico (e stiamo discutendo di un atto strategico e fondamentale per la posizione internazionale del nostro Paese) elude, infatti, i contrappesi che il nostro sistema costituzionale e istituzionale prevede nell’ambito della legittima autonomia di ciascuno dei tre poteri.
Le commesse della vergogna non violano solo la legge, ma «elidono, escludono e ignorano» il
contrappeso, agendo come se esso non esistesse. La violazione determina un mutamento dell’assetto
istituzionale: con esse viene, di fatto, abrogata la legge che ne disciplina i presupposti. Si tratta di un
effetto gravissimo poiché il potere di intervenire sulla legge, anche abrogandola, appartiene
esclusivamente al Parlamento.

Ciò dovrebbe aprire un dibattito (*) capace di coinvolgere tutte le formazioni politiche e le reti che si sono già mobilitate sul versante politico. È indispensabile individuare una reazione di natura
giudiziaria, atteso che l’atto politico mette in gioco non solo scelte politiche ma il “modo” attraverso
il quale quel risultato – politicamente inaccettabile – è stato raggiunto. Non può ammettersi che
proprio quel “modo” – in spregio alla Costituzione e alla separazione dei poteri – possa ritenersi
esente da responsabilità, conseguenze e “sindacato” giurisdizionale. C’è in gioco l’assetto
costituzionale prima ancora che singoli princìpi della Costituzione.

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Aprire un dibattito tra le forze politiche?

Ma figuriamoci! Destra, “sinistra”, centro, su&giù…tutti d’accordo che su certi argomenti non c’é cosa migliore che TACERE. In tempi poi di pandemia e conseguente sconquasso economico, urge riempire le Casse e ogni modo é lecito, anche calpestare i dettami della Costutuzione e permettere che quelle costosiiiiiisime macchine da guerra provochino vittime, lutti e distruzione a non finire. A casa d’altri, naturalmente. Avanti così, ma lontano dalle nostre orecchie a cui non arriverá l’indicibile Urlo di dolore. A meno che i Rumori non si avvicinino troppo, la qual cosa, giorno dopo giorno, é sempre più che una semplice ipotesi. E sia chiaro: sará difficile poter dire che potevamo pensarci prima.(Piero M.)

E dentro le carceri cosa avviene, ammesso che interessi a qualcuno?

di Piero Murineddu

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Dare sepoltura al fratello l’aveva ritenuto un dovere molto più importante del divieto imposto dal re, ragion per cui la ragazza viene condannata a trascorrere il resto dei suoi giorni imprigionata in una grotta. Cedendo alle insistenti richieste, il suddetto incoronato decide di liberarla, ma ormai é tardi, perché l’  “ergastolana” nel mentre si é suicidata. Ma non solo. A seguito di questa triste fine, lo stesso re viene colpito da grave e doppio lutto familiare. Una Tragedia senza fine, insomma.

É rifacendosi a questa vicenda teatrale nata dalla fantasia del drammaturgo greco Sofocle che all’ inizio degli anni ottanta delle persone evidentemente sensibili alla sorte di chi per un qualsiasi motivo viene incarcerato, danno avvio all’associazione “Antigone” che, oltre lottare contro l’insensatezza dell’ergastolo in un Paese la cui Costituzione dice che é un dovere civile permettere a chi viene incarcerato di rimediare allo sbaglio compiuto, si occupa d’informarci cosa avviene dentro le patrie galere e come se la passano chi ci vive dentro, carcerati e carcerieri.

A metà anno, cosa ch’é avvenuta ieri, viene pubblicato un rapporto. Numeri da rabbrividire in questi afosi giorni d’agosto.

Nel video ce ne parla il presidente dell’associazione Patrizio Gonnella…

……mentre nel collegamento che segue, si può conoscere meglio quest’associazione che non ci lascia in panciolle a goderci spensieratamente le nostre ferie, vacanze o semplicemente giornate.

https://www.antigone.it/chi-siamo/la-storia

I “600euroni” d’inciampo

di Piero Murineddu

LINDECENZA-COME-PROGRAMMA-POLITICO

Il battito sui tamburi che sia deciso e con braccio ben muscolato al massimo. E il ritmo,  mi raccomando il ritmo! Non me lo sbagliate altrimenti vi stacco l’orecchione destro a morsi…

Prontiiiiii? Vìììaaaaa…….

Vergógna! Vergógna!! Vergogna e vergognìssima!!!  Vergógna! Vergógna!! Vergogna e vergognìssima!!!  Vergógna! Vergógna!! Vergogna e vergognìssima!!!  ……..…………….

Bene, bene. Avanti così, almeno fino all’imminente referendum costituzionale, così gli elettori, al momento giusto, sapranno dove  tracciare l’ichisi.

Inevitabile, da parte di “politici” ricoperti di qualsiasi casacca, praticamente tutti, non rendere pubblica la propria indignazione contro i cinque mascalzoncelli dei seicento “euri” rubacchiatti dalle casse del malandato Italico Stato, i cui manovratori – non so più da quanto tempo va avanti la losca faccenda della Difesa&Offesa armata, stranamente (e normalmente!) sempre messa in secondo piano – continuano a destinare somme stratosferiche per le “necessitá” militari, evidentemente considerate da lor signori di vitale importanza, mentre la Saluuuuuteeeee…….ma che vada pure a farsi fottere la salute!

Ore di caccia grossa sono queste!

 

I 5 furbini, furboni e ancor peggio “furbetti”? Che si scusino pubblicamente e vadano penitenti per le strade vestiti di sacco, cenere nel capoccione e autoflagellandosi il corpazzo…..

….che si dimettano se hanno le palline o le ovaiette…

….che vengano sospesi e mandati ai lavori forzati vitanaturaldurante….

….che sia finalmente tolta la praivasi alla scostumata casta….

Naturalmente, il politico che non dice la sua é soggetto ad essere sospettato, per cui tutti a cercare le parole più sdegnate per fucilare i colpevoli di cotanto imperdonabile Reatone.

Certo, la colpa c’é, ci mancherebbe! Il fatto é che secondo l’Ufficio Frodi dell’Inpisi ci sarebbero anche non so quanti mila amministratori regionali e comunali, fors’anche condominiali e ali vari.

Avranno il coraggio tutta questa poco brava gente di tirar su il ditino per ammettere la propria colpevolezza? Mmmmmmmmm…..

Attenzione, occorre distinguere tra chi intasca (legalmente, intendo. Per il “resto” chissáchilosa…) poche centinaia e, al contrario, diverse migliaia altro che semi di zucca abbrustoliti…..

Ma non é tanto questo il punto che volevo rilevare. O meglio, l’occasione della magagna scoperta mi ha portato a pensare al trattamento riservato a chi in questo Paese decide di darsi alla politica. Trattamento economico intendo, per questi bravi ragazzi e ragazze che dedicano il proprio tempo e talento, quest’ultimo chi ce l’ha, per far vivere nel miglior modo possibile coloro da cui hanno ricevuto la delega per essere governati.

Ho accennato sopra al prossimo referendum, pensato perché non troppissimi politici pesino sul Bilancio dello Stato, cioé di ciascuno. Io penso che se la motivazione principale é questa, é tutta una colossale presa per il Culone Nazionale.

Prima di tutto sarebbe sacrificata e persino tradita la rappresentanza di quei 60 milioncini e oltre di esseri più o meno pensanti che ci troviamo ad essere. Siamo o no in una Democrazia Rappresentativa? Sinora si, almeno mi sembra. E allora é giusto che tutti i punti di vista vengano rappresentati tra gli scranni parlamentari. I punti di vista nel senso di opinioni, voglio dire, e non il Fascismo che é un Reato. Questo per fare le doverose distinzioni. Quindi, più rappresentanti delle diverse opinioni ci sono e più viene messa in pratica la Democrazia. Sará per questo motivo pellegrino che la mia delega l’ho sempre data a persone degne si, ma che avevano minimissime probabilitá di figurare tra i “vincitori”? É possibile, é possibile…..

In secondo luogo, se veramente si vuol far risparmiare, per me bisognerebbe agire su di un altro versante, cioé quel trattamento economico riservato a chiunque dedichi il proprio tempo e spenda il proprio talento ( chi ce l’ha, come ho giá detto…) per fare politica, cioé operare per il bene di tutti, e non per le proprie tasche.

Tutte le volte che si é cercato di ritoccare gli emolumenti (e gli scandalosi privilegi!!) di chi occupa Poltrone e poltroncine, non si é mai arrivati ad un risultato. E questo sia durante il periodo di attivitá e sia nel post, ovvero pensioni e vitalizi. Se sbaglio, son felicissimo di ricredermi.

Sulle cifre, chi vuole puó andare a documentarsi, meglio però sui siti istituzionali e non su feisbuk.

In conclusione, escano fuori i cinque signori e forse signore “600euri” ricercati, ma, per favore, mettiamo da parte la Generalizzata Ipocrisia, quella a tutti i livelli di “giudizio”. Ne va, in questo caso si, la personale Dignitá e pure Moralitá, se ancora a Questa diamo valore

 

Prima di pensare ad un museo sul fascismo

di Oiza Q. Obasuyi
(“Internazionale”)

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In Italia il dibattito sul fascismo ritorna ciclicamente e spesso è un segnale evidente del fatto che il paese non è mai riuscito a fare davvero i conti con il suo passato. L’ultimo esempio lo offre la proposta al consiglio comunale di Roma, ad opera di tre esponenti del M5s, per realizzare un museo del fascismo. L’intenzione era quella di dare vita a un istituto di tipo didattico per raccontare il ventennio e attirare scuole e turisti, conferendogli anche una funzione catartica.

Tuttavia, come ha sottolineato l’associazione nazionale partigiani italiani (Anpi), nella mozione non c’era alcuna condanna dei crimini perpetrati dal regime, né si prendeva in considerazione il rischio che l’iniziativa potesse finire per glorificare il regime anziché condannarne le politiche.

Secondo Bruno Astorre, senatore e segretario regionale del Partito democratico (Pd) nel Lazio, la creazione di un museo simile rappresenterebbe uno schiaffo e un insulto a Roma – città a cui è stata conferita la medaglia d’oro per la resistenza – e alle vittime del nazifascismo.

Dopo molte polemiche, il museo non si farà, ma il caso offre uno spunto per affrontare il processo di normalizzazione che ha riguardato e riguarda ancora oggi il fascismo. Questa normalizzazione, per esempio, passa da espressioni razziste che richiamano la violenza e le discriminazioni di quel periodo.

Basti pensare alle parole di Giuliano Felluga, responsabile della protezione civile di Grado, in Friuli-Venezia Giulia, che il 4 agosto ha parlato di “taniche di benzina”, di “forni crematori” e di “squadroni della morte” per sedare le proteste dei migranti messi in quarantena nell’ex caserma Cavarzerani di Udine. O ancora, a quello che ha detto l’esponente della Lega Antonio Calligaris dopo che un gruppo di militanti di Casapound ha fatto irruzione al consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia per leggere un comunicato contro gli immigrati. “Sarei uno di quelli che ai migranti sparerebbe”, ha detto Calligaris.

Il problema non è solo l’evidente razzismo di queste due persone, ma il fatto che questi episodi passino in sordina dopo poco tempo. Felluga si è scusato dicendo che “chi lo conosce sa che non è veramente così” e che si è trattato solo di uno “sfogo”; Calligaris ha affermato di aver esagerato.

Nel 2018 il presidente della regione Lombardia Attilio Fontana ha dato un altro esempio di normalizzazione: “Dobbiamo decidere se la nostra etnia, se la nostra razza bianca, se la nostra società deve continuare a esistere o se deve essere cancellata. Qui non è questione di essere xenofobi o razzisti”. È vero il contrario. In questo caso è evidente l’ideologia nazifascista che considera i bianchi una razza superiore, eppure in queste frasi il razzismo diventa buon senso, e spesso in proposito non c’è alcun contraddittorio su giornali e tv.

Senza un’educazione antifascista – senza quell’approfondimento sull’antifascismo che manca perfino nei programmi scolastici, come ha notato la scrittrice Igiaba Scego – un museo come quello proposto a Roma finirebbe per diventare un’attrazione per nostalgici.

Prima di realizzarne uno sarebbe importante anche un’analisi del colonialismo italiano e una presa di coscienza su quegli anni. Si è visto quello che è successo con il dibattito sulle statue dedicate a personaggi sanguinari come il generale fascista Rodolfo Graziani, fautore del massacro contro gli etiopi ad Addis Abeba nel 1937. Invece di affrontare quel periodo con una coscienza critica, il risultato è stato la sua banalizzazione. Il colonialismo è stato ridotto a un “errore”, per citare le parole che il sindaco di Milano Beppe Sala ha usato per difendere la statua Indro Montanelli. Ma le violenze, gli stupri, le invasioni e gli stermini non sono errori, sono stati l’espressione perfetta dell’imperialismo e del razzismo fascista.

In un paese in cui fino a oggi si è ignorata la storia del partigiano italosomalo Giorgio Marincola, a cui solo di recente è stata intitolata una stazione della metro C di Roma al posto di quella dedicata al massacro fascista dell’Amba Aradam; in cui professori universitari come Emanuele Castrucci si dilettano a fare dichiarazioni antisemite e filonaziste su Twitter; in cui si assiste a manifestazioni di fascisti che negano la verità sulla strage alla stazione di Bologna; insomma, in un paese che minimizza e banalizza la propria storia, il museo del fascismo non ha senso di esistere.

Quello che serve è affrontare la propria storia con rigore e combattere la violenza razzista ogni giorno, non indignarsi per poi passare alla prossima notizia.

Hiroshima,Beirut, 100 mila bambini senza casa

 di Domenico Gallo, magistrato

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Settantacinquesimo anniversario della strage atomica di Hiroshima. Alle 8:16 del 6 agosto 1945 a Hiroshima un lampo accecante vaporizzò in un attimo 140.000 vite umane, condannando i sopravvissuti a sofferenze inenarrabili seguite in molti casi da una morte straziante. L’orrore fu reiterato tre giorni dopo a Nagasaky.

Da allora l’umanità non ha più sperimentato lo strazio di un’esplosione nucleare a cagione dell’atteggiamento dell’opinione pubblica, animata da un sano tabù (quello che Gunther Anders chiamò la coscienza nucleare), che ha costretto le potenze nucleari a non fare uso dell’arma atomica. Col passare del tempo, però, la memoria si sta indebolendo e si sta affievolendo anche la coscienza nucleare che pure in passato aveva dato luogo a una forte mobilitazione dell’opinione pubblica mondiale.

Tuttavia, proprio in questi giorni abbiamo sperimentato qualcosa di simile a una esplosione nucleare. La terribile esplosione avvenuta il 4 agosto a Beirut è stata di una potenza tale da evocare il disastro che potrebbe provocare una bomba atomica. Si è alzato nel cielo un fungo rossastro simile a quello di Hiroshima e il boato è stato udito persino a Cipro, a oltre duecento chilometri di distanza.

Tutta la zona del porto è stata distrutta e interi quartieri sono stati spazzati via dall’onda d’urto. Centinaia di morti, migliaia di feriti, 300.000 sfollati, tutte le riserve strategiche di grano del Libano andate perdute. La capitale, Beirut, il giorno dopo si è svegliata immersa nel sangue, nel caos e nella disperazione, in un incubo che il governatore, Marwan Abboud ha sintetizzato così: «Sembra quello che è successo a Hiroshima e Nagasaki».

Non si tratta di un paragone peregrino, il disastro di Beirut è stato provocato dall’esplosione di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio stoccate in un magazzino del porto. Proviamo a convertire questa esplosione in kiloton, misura utilizzata per calcolare la potenza distruttrice di una testata nucleare in quantità equivalente di esplosivo (1 kiloton è equivalente a 1.000 tonnellate di tritolo).

È stato calcolato che 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio sono equivalenti a 0,9 Kiloton, cioè a una testata nucleare di potenza medio bassa. Per essere più concreti, la potenza delle testate nucleari che verranno impiantate su bombe atomiche tattiche a gravità di nuova generazione, le B61-12, varia da 0,5 a 50 kiloton. Queste testate, nel silenzio della politica, verranno dispiegate nella base USA di Aviano e in quella dell’Aeronautica Militare Italiana a Ghedi, in sostituzione delle circa 70 bombe atomiche di vecchia generazione.

Pax Christi international ha diffuso in questa settimana un accorato appello sull’urgenza della messa al bando delle armi nucleari in epoca di Coronavirus: «In questi mesi l’intera famiglia umana è stata messa in ginocchio dal Coronavirus. Il bilancio globale delle vittime continua a crescere quotidianamente; la disperazione dell’umanità aumenta; gli effetti fisici, psicologici ed economici aumentano.

Questa pandemia ha raggiunto praticamente tutti: abbiamo capito che siamo tutti vulnerabili e ci rendiamo conto che la vera sicurezza deve essere, in sostanza, condivisa. Le conseguenze dannose della pandemia Covid-19 impallidiscono rispetto a quelle che sarebbero capitate alla famiglia umana, e alla terra stessa, in caso di guerra nucleare.La cosiddetta “sicurezza” offerta dalle armi nucleari si basa sulla nostra volontà di annientare i nostri nemici e la loro volontà di annientarci. Il Coronavirus ha rappresentato un campanello d’allarme per il mondo.

Stiamo sperimentando in prima persona come investire centinaia di miliardi di dollari per lo sviluppo, la fabbricazione, i test e lo spiegamento di armi nucleari non solo non è riuscito a renderci sicuri, ma ha privato la comunità umana delle risorse necessarie per il raggiungimento della vera sicurezza umana: sufficienza alimentare, alloggio, lavoro, formazione scolastica, accesso all’assistenza sanitaria.

Di fronte al Coronavirus, le speranze di sopravvivenza nelle nostre comunità si sono fondate sul sacrificio in prima linea dei soccorritori. Eppure, come ammonisce la Croce Rossa Internazionale, tali soccorritori non ci sarebbero in caso di un attacco nucleare: i medici, gli infermieri e le infrastrutture sanitarie sarebbero essi stessi cancellati. Né soccorritori esterni, nella misura in cui sopravvivessero, potrebbero accedere in sicurezza nelle zone esposte alle radiazioni». In caso di attacco nucleare, prosegue il documento: «Né la terra, né alcuna delle sue creature, sarebbe risparmiata dall’avvelenamento prodotto dalla radioattività risultante da una guerra nucleare, anche se limitata. Le colture appassirebbero e morirebbero mentre la luce del sole sarebbe bloccata dalle nuvole atmosferiche di polvere prodotta. La vita sulla terra sarebbe messa in grave pericolo.

Stiamo imparando delle dure lezioni sulla nostra sicurezza collettiva durante questa pandemia globale. È giunto il momento di affrontare la sfida e di cogliere l’opportunità per apportare le modifiche necessarie a salvaguardia del nostro futuro.

Ma la finestra temporale che ci resta potrebbe essere troppo breve. Se non riusciamo ad agire adesso e con decisione per eliminare le armi nucleari dalla faccia della terra, giochiamo pericolosamente non solo con la pandemia ma anche con la estinzione totale». La richiesta è che l’Italia aderisca al Trattato per la messa al bando delle armi nucleari approvato dall’assemblea generale dell’ONU il 7 luglio 2017, destinato a entrare in vigore quando vi avranno aderito almeno cinquanta Stati (attualmente sono una quarantina).

Conoscendo la fiera opposizione della NATO al disarmo nucleare e la tradizionale subalternità dell’Italia, ribadita anche dai nuovi governanti, non ci facciamo molte illusioni, ma non possiamo chinare il capo: che l’iniziativa di Pax Christi ci aiuti a rompere la cappa di silenzio e faccia emergere lo scandalo di una nazione che nei suoi princìpi fondamentali ripudia la guerra e nella condotta politica dei suoi governi accetta la dislocazione di armi di distruzione di massa che mettono in pericolo la vita stessa dell’umanità sulla terra.

Libano, si teme per oltre 100 mila bambini senza casa a Beirut

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Già prima della tragedia, oltre mezzo milione di bambini nella città stava lottando per sopravvivere o soffriva la fame e la situazione ora non può che peggiorare. Necessario agire subito per ricongiungere le famiglie

Secondo quanto riportato dai media, circa 300.000 persone sono rimaste senza casa a Beirut. Save the Children stima che, tra di loro, oltre 100.000 bambini abbiano perso le proprie case e tutto quello che avevano. Allo stesso tempo, è stato detto loro che non potevano uscire a causa del gas tossico scaturito dall’esplosione, mentre coloro che hanno subito lesioni, tagli ed emorragie esterne non vengono curati negli ospedali, perché quasi tutte le istituzioni sanitarie di Beirut sono già al limite della propria capacità.

In queste ore cominciano ad emergere le storie di bambini separati dai loro genitori dopo l’esplosione di ieri e Save the Children, l’Organizzazione che da oltre 100 anni lotta per salvare i bambini e rischio e garantire loro un futuro, chiede che la sicurezza e il benessere dei bambini e il loro ricongiungimento con i parenti siano una parte fondamentale della risposta.

 «L’esplosione non poteva avvenire in un momento peggiore: le stime diffuse dall’organizzazione appena una settimana fa dimostrano che oltre mezzo milione di bambini a Beirut stavano già lottando per sopravvivere o stavano addirittura soffrendo la fame a causa della profonda crisi economica e questa tragedia non potrà far altro che peggiorare la loro situazione. Tra l’altro, tutto è accaduto appena un giorno dopo la chiusura del lockdown causato dal COVID-19 a Beirut, e poco prima dell’entrata in vigore di una nuova chiusura. Molte persone hanno approfittato di questa finestra di opportunità per andare a correre, o semplicemente per socializzare e stare in riva al mare e sfuggire alle loro preoccupazioni – molto vicino al luogo dell’esplosione».

«Non sappiamo ancora quanti bambini abbiano perso la vita, ma temiamo che ce ne possano essere molti tra le vittime o i feriti. Altri avranno perso i genitori o i familiari nell’esplosione o si sono separeranno da loro nel caos che è seguito. Tutto ciò può essere estremamente traumatico per un bambino ed è vitale in questi momenti che siano tenuti al sicuro e si sentano protetti, che abbiano persone di fiducia con cui parlare. È fondamentale che venga istituito un sistema per riunire i bambini con i loro genitori o altri membri della famiglia, una sfida molto difficile da gestire e a cui la nostra Organizzazione è pronta a dare il proprio contributo, se necessario», ha affermato Jad Sakr, Direttore di Save the Children a Beirut. “La gente ha iniziato a offrire le proprie case agli sfollati e Save the Children è stata in contatto con le famiglie vulnerabili con cui lavora per vedere se sono state danneggiate, ed è pronta ad intervenire per tenere i bambini al sicuro, protetti e nutriti».

Il dovere ( e l’urgenza) di migliorare il mondo

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di Piero Murineddu

Nel giorno dell’addio a Sergio Zavoli, un amico sardo di FB, Pierpaolo Loi, sempre attento alle tematiche di rilievo che muovono questo mondo continuamente messo a rischio dalla Stupiditá Umana, ha pensato bene di rispolverare questo lungo intervento del Giornalista ravennate, esempio rarissimo di capacitá nell’ onorare col massimo rispetto quest’alta e delicatissima professione dell’informare.

L’ analisi, risalente a tre anni fa, quando Zavoli aveva 93 anni, e presentata nell’ambito di un convegno dall’impegnatissimo titolo “Scienza e umanesimo: un’alleanza?”, é una summa, in fondo, della visione di un uomo ultra novantenne che ha vissuto con grande consapevolezza e che, facendo tesoro della sua esperienza, propone delle vie per uscire dal Tunnel che sembra esser diventata la vita sulla Terra.

Preziose considerazioni che son lieto di ospitare nella sorta di archivio qual’é questo blog, dove conservo le cose più valide, secondo il mio punto di vista, dello scorrere del tempo.

“A Dio”, quindi, a una Persona di grande valore umano e intellettuale, che non a caso ha chiesto e ottenuto di essere sepolto vicino alla tomba dell’amico riminese Federico Fellini.

Questo mondo ha bisogno di essere cambiato e ci chiede di farlo

di Sergio Zavoli

Stiamo misurandoci, con diverse opinioni, sui fattori cruciali che tengono in vita, e minacciano di aggravarsi, le temperie in atto nel lontano Oriente, dove è riapparsa la debolezza di non riuscire a respingere la totalità di un orrore che l’umanità sta vivendo con una febbrile alternanza di ipotesi. Porre domande a chi più sa è un modo per inoltrarsi efficacemente nella conoscenza dei problemi. Non sempre, però, è un percorso agevole: alcune domande – tra queste alcune cruciali – ritornano di secolo in secolo mantenendosi impervie. Le questioni, infatti, continuano a nascere dal contrapporsi a un insieme complesso di interrogativi.

I trionfi della scienza e della tecnica, con la caduta dei Muri, contribuirono a far nascere l’idea che potessimo affidarci alla prospettiva di un processo da governare senza sconvolgimenti drammatici. Ma 1’11 settembre del 2001, con il rogo delle Torri Gemelle, ha costretto tutti a capire che nulla, ormai, sarebbe stato sicuro per sempre.

La storia ci ha colto, imprevedibile e feroce, costringendoci a fare il punto, a tracciare mappe e rotte. Nascono così le domande che aspirano a essere puntuali e rigorose sempre più frequenti quando è così diffuso lo scontro con la realtà, e si è tentati anche di aggirarla e ridurla. Oggi, per i grandi accumuli delle questioni irrisolte nel passato, e insorgenti dal presente, stiamo vivendo un passaggio cruciale della nostra complessa vicenda umana. L’abbiamo ereditata da un secolo definito breve e feroce, ai cui piedi, con la caduta dei suoi totem reali e simbolici, troviamo le macerie di due immani promesse: il trionfo della giustizia, affidato dalla Storia alle nostre azioni, e l’altro, quello dell’amore, eletto al di sopra di ogni altra virtù e consegnato al più equo dei poteri, lo spirito. Due indicibili prove, sebbene avessimo alle spalle una guerra avvezza a milioni di croci, presero il nome di due lampi, Hiroshima e Nagasaki, il più tragico e severo monito di questa modernità. Scienza e umanesimo, ragione e fede, in definitiva la Storia e Dio, hanno preso a misurarsi con un uomo indiviso, cresciuto al di là di ogni ipotizzabile arditezza, ma destinato a soccombere quando sulla solidarietà prevaleva l’egoismo, contro la pace vincevano le divisioni e il sangue, e la giustizia finiva spesso sconfitta, prima ancora della libertà.

Ai problemi ricevuti dal passato – guerre, razzismi, dittature – si aggiungevano terrorismo, carestie, migrazioni; alla ferocia della Shoa succedeva la scoperta del genoma; ai raid aerei sulle risaie del sud-est asiatico si accompagnava il “viaggio verso la luna”; ai conflitti per un tratto di confine, in una savana, irrompeva la libera navigazione elettronica di Internet; e accanto ai saperi conquistati i valori manomessi, agli indomabili pregiudizi le liberazioni raggiunte: economiche e sociali, culturali e ideali. Tutto strappato, e ancora conteso, una temeraria sorta di eclisse pareva gravare sulle giurisdizioni di Dio e della Storia, l’una e l’altra assediate dalla comparsa di realtà non più strettamente riferibili ai loro distinti domini. Scienza e umanesimo, persino ragione e fede, infatti, si dividono ancora sui grandi principi, la sconfitta delle ideologie libera le dinamiche della politica, lo stesso concetto di destra e sinistra subisce molte varianti. Ai criteri di appartenenza e di militanza si affianca la richiesta del pluralismo come bene comune; alle gelosie identitarie subentra il concetto di coalizione; alle intolleranze religiose si pone l’alternativa dell’ecumenismo, a quelle etniche si oppongono i diritti umani. Si ritorna alla lezione millenaria dell’etica per definire e regolare la disputa tra il dovere di cercare e di agire, da una parte, e quello, dall’altra, di scegliere e rifiutare, facendo valere il principio secondo cui tutto ciò che è possibile non è sempre, per ciò stesso, anche lecito. Si ripresenta il confronto tra Bene e Male, da sottrarre a ogni genere di fondamentalismo.

Tale preminente “questione” aveva e ha sullo sfondo la vita che si organizza tra le pieghe della quotidianità, cioè il suo farsi comportamento, usanza e costume; fino a rispecchiare la vita reale di una società. Di qui il nostro indugiare, ogni tanto, anche sugli aspetti minori del vivere singolo e collettivo per confrontare idee ed esperienze, lontane e vicine, tra loro, ben più del tempo che le divide. Chiedendo alla memoria di assisterci – non di rado dovrà ammonirci – per il presente e il futuro. Ciascuno alle prese con la più reputata delle saggezze, quella del dubbio; l’ultima delle quali, la più ardita, si riassume in questa drammatica domanda: se l’uomo fallisse, il fallimento sarebbe anche della Storia, e persino di Dio? Non avrebbe vinto l’eclissi? Non è dunque per amore di tesi che non può esaurirsi nell’11 settembre del 2001. Il numero degli attentati nel mondo – dopo l’inizio della “lotta al terrorismo” – è aumentato del 400%; un piccolo Paese, la Corea del Nord, ha ingrandito l’arsenale nucleare e sperimentato la bomba atomica; altri Paesi coltivano l’idea di poter fare altrettanto. Abbiamo saccheggiato le risorse del pianeta, e compromesso il clima, senza porre rimedio alle piaghe che tormentano l’umanità: si combatte, si tortura, si muore di fame e di sete, il pregiudizio condanna milioni di donne, c’è ancora chi è ridotto in schiavitù, dignità e diritti sono calpestati, moltitudini di migranti si mettono in mare, a rischio della vita.

Scienza e tecnica pongono una quantità di problemi etici che fino a ieri non conoscevamo, o rimanevano insoluti. Dio stesso è chiamato in causa da chi – su vari fronti antropologici e culturali, con diverse fedi, e in base a differenti ideologie – afferma di agire in suo nome. “Non si può chiedere alla Chiesa di tacere”, si dice da una parte; e, dall’altra, “ma uno Stato non si identifica con nessun credo”. E’ la storia dei gay e delle “coppie di fatto”: “Una prova di civiltà”, da una parte, un “attacco alla famiglia”, dall’altra. Ritorna il problema dei confini: i cattolici più aperti dichiarano che sono stati respinti “il fondamentalismo laico e l’integralismo radicale”, ma le posizioni istituzionali sono più prudenti. Si ripropongono, insomma, scelte espresse nei tanti interrogativi, grandi e piccoli, che questo seminario ha messo in fila secondo l’ordine e l’approssimazione di un viaggio testimoniale; cercando le espressioni più gravi, ma anche i minimi e più sottesi segnali del cambiamento; e richiamando anche le circostanze personali, cioè seguendo una scia rimasta nei diari perché, ripercorsi, potessero chiamare a testimone la memoria di molte lezioni lontane, altrimenti perdute. Può darsi che il porre domande, per provocare risposte, sia rimasto il modo migliore di conoscere, o intanto di conoscersi. Interrogarsi e rispondersi significa far posto alle cose che restano da discutere, da capire, soprattutto per i giovani, i più privi di memoria, vissuti fino a ieri in una sorta di irrilevanza sociale.

Oggi sappiamo che ondate di religiosità, e i contemporanei flussi di secolarizzazione, hanno portato con sé anche pregiudizi, intolleranze e fanatismi, non di rado sfruttando il nome di Dio per incitare alla violenza e all’odio. L’immagine di una eclissi è tornata, così, nelle parole simboliche; e persino temerarie, di Benedetto XVI: “Dio non si rivela più, sembra nascondersi nel suo cielo, quasi disgustato dalle azioni dell’umanità”. Ma la chiave del rapporto con Dio, cioè la scelta di illuminarne l’immagine o di oscurarla, è nella condotta dell’uomo, non fuori di lui. Non c’è eclissi di Dio se non nella coscienza dell’uomo. Né può darsi neppure come metafora, un’eclissi della Storia, ma soltanto dell’uomo nella Storia, quando per ignavia, stanchezza e delusione si illudesse di potersene separare con il silenzio sul passato e la rinuncia ad agire per il futuro. Uno psicologo ha detto: “C’è nel mondo una solitudine che rischia di trasformarci in tanti attori di altrettanti, unici destini. Fate caso a quante realtà sfuggono le parole tratte da una complessità ancora ingovernata, per esempio la pace, in tre quarti del pianeta?”. Come si incontreranno i nuovi cataloghi dell’umanesimo e delle scienze? Così andando le cose, cambierà anche la natura della storia perché non troverà più le parole per dirci chi siamo stati e cosa abbiamo voluto, insieme, di volta in volta”.

Nelle società industrialmente sviluppate – pur considerando l’enorme accumulo delle informazioni e dei processi formativi legati allo sviluppo delle scienze umane e dei relativi strumenti di massa – era rimasta intatta la qualità della parola soprattutto nei linguaggi del solidarismo; la cui caratteristica principale deve poter conservare l’attitudine a comunicarci qualcosa di inedito, libero, arricchente. In un convegno veneziano di tanti anni fa Jean Baudrillard, con la verosimiglianza dei paradossi, disse che proprio i Paesi di antica civiltà non hanno più niente da dire soltanto con le parole semplicemente perché stentano a vivere un naturaliter universo della trascendenza; e, per effetto del grande lascito dei media, si affidano all’immanenza; ma va da sé che il “grande mare dell’oggettività”, come Io chiamava Italo Calvino – riduce sempre più i margini dell’approfondimento attraverso gli spazi della parola non solo comunicativa, ma anche e soprattutto chiarificatrice e creativa.

La rivoluzione, del resto, non è più il cambiamento, ma la velocità del cambiamento. Lo stesso concetto di tempo – nell’era elettronica – muta sempre più in fretta. E’ già in crisi l’idea stessa di attualità. Non a caso lo storico Biagio De Giovanni, anni fa, scrisse che, così andando le cose, presto avremmo fatto della cronaca la nostra storia. Non si possono negare le conseguenze che potrebbero determinarsi se il prodigioso sistema dell’intelligenza artificiale, e dei linguaggi comunicativi in essa impiegati, venisse utilizzata, a regime, per i controlli della legge, dell’attività culturale, dei canali dell’informazione, dei codici diplomatici, delle pratiche educative, dei processi di socializzazione, ecc. Dell’umanesimo, insomma. A patirne sarebbe una civiltà, che non è più un potere perché dev’esserne una sintesi, che impregni di sé ogni forma del vivere in circostanze e dimensioni racchiuse in un modo che segni la qualità del vivere anche etico e morale. Se l’uomo cresce in misura dei problemi che è chiamato a risolvere, perché non credere che, per ciò, debba essere il nostro “viaggio” a orientarci? Non può esservi ostacolo che induca a rinunciare a sé stessi.

Oggi, al pari di Ulisse, ognuno è in pericolo, ma Itaca non rappresenta la fine di un rischio, bensì la scelta concettuale del nostro sterminato cammino; magari ricominciando da una cattedra che ci aspetta nel cosmo dove – senza provocare alcuna emozione – si è recentemente scoperto che un gruppo di pianeti ha le stesse caratteristiche della Terra, per esempio l’acqua e l’ossigeno. Ma come rifare l’uomo se il big-bang ci ha assegnato uno degli universi con i quali, chissà tra quanto, dovremmo imparare, per esempio, che solo la pace può vincere la guerra. Un Verbo che si rivela facendosi parola ci ha portato sin qui con qualche miliardo d’anni di ritardo. Può darsi che qualcosa di mercuriale stia lavorando per togliere a queste parole l’ansia di non amarci abbastanza l’un l’altro per chiamarci “l’umanità”. Eppure va creduto che vincerà la vita, perché ne abbiamo il privilegio, non soltanto la facoltà. Potrebbe bastare, ogni giorno, quella parola corta, benefica, innocente: pace, che rimpiangiamo soprattutto nelle lapidi. Ma la vita ha già raggiunto millenarie vittorie, e continuerà lo stesso prodigio della nascita? E’ lecito chiederlo qui, agli studiosi di questo tempo. A quanti nuovi millenni spetterà il destino di ogni uomo, ogni razza, ogni popolo, ogni cultura, ogni interesse di vivere in comune una sorte e un ruolo, una speranza e una certezza, non solo per sopravvivere?

Siamo nati per essere l’umanità. Il compito cruciale dovrà essere quello di conciliare e sciogliere le diversità per unirle, spenderle nel nome delle condivisioni, non delle separatezze. Fu lo storico-strutturalista Braudel a inoltrarci, con largo anticipo, nella drammatica avvisaglia di un fenomeno che avrebbe investito la storia di un pontificato, quello di Francesco, da cui sarebbe scaturita una lettura del Vangelo che avrebbe offerto una visione nuova del ruolo della Chiesa in un tempo dedito a una delle più tremende violenze apparse sulla Terra. Mezzo secolo fa, Braudel si spinse a dire “Il destino dell’Africa è d’invadere l’Europa. E quello dell’Europa di accoglierlo”. L’importante non sarà più esagerare”. Ci aspetta forse una qualità comune, saper mettere insieme le parole! Che cosa potremmo sacrificare, se davvero dovessimo farlo, sull’altare della produzione e del mercato? Quale spazio riservare all’interiorità, e come riuscirvi in un mondo che fosse tutto regolato dal circuito chiuso lavoro-benessere-consumo? Quanta presenza garantire a quei modi di conoscere l’universo della bellezza, che genera l’arte, la letteratura, la poesia, il pensiero filosofico? Quanta alla religione e alla morale? E quanta all’urbanistica, alla psicologia, alle scienze sociali?

Di fronte a un “ingorgo di futuri possibili”, ha detto Habermas, aumenta il rischio di essere trascinati dagli eventi senza poter scegliere dove vogliamo andare. Sfidati da troppi domani, ogni decisione può celare altri dilemmi. Essi stanno, principalmente, nell’umanesimo che ci rappresentiamo: o si considera l’umanità il fine unico della creazione, oppure è un aspetto della materia, una forma di vita pari a tante altre, e allora bisogna accettare il principio dell’indifferenza della natura anche nei nostri confronti. Quanto a manifestare il senso della vita, non potranno essere solo le realtà biologiche, oggettive, irriducibili a speranza; esse esistono in sé, prive di intenzioni, senza bisogno di valori; la vita, invece, è qualcosa di rivoluzionario proprio nella sua capacità di ricerca e di conversione, di rifiuto e di scelta. Ma saremo “noi” a scegliere?

Grandi portenti, e molte inquietudini, continuano a segnare il futuro. A sentire chi se ne intende, una sorta di scetticismo nuovo sta insidiando il nostro pensiero. L’idea che le risorse del pianeta si esauriranno, che il disastro ecologico ci punirà, che il clima, il terremoto, gli uragani aumenteranno in progressione geometrica, tutto ciò va nutrendo le idee di tanta gente. Cosi, la domanda se il mondo finirà in fuoco o in ghiaccio, in un’esplosione o in un gemito, non è più soltanto letteratura. Che cosa ci riservano, per esempio, le grandi migrazioni? E dove fermeremo la violenza che esplode ormai ovunque, all’interno delle società progredite come di quelle più arretrate, nelle lotte intestine, etniche, sociali? Ne usciremo, e come? In altri secoli un’ipotesi disastrosa provocava una speranza radicale, miracolista che oggi per fortuna non si coglie; la speranza odierna non ha nulla, o ben poco, dell’attesa che ardeva nei foschi, terribili millenaristi di altre epoche. Anche ciò che nella visione cristiana rimanda al giorno del giudizio ha riverberi meno corruschi. Sperare non significa più consegnarsi a qualcosa che dovrà accadere senza di noi. Scrive Abraham Heschel: “Non c’è nascita, e quindi speranza, in cui l’uomo e Dio non siano coinvolti insieme. Per realizzare il suo sogno, Dio deve entrare nei sogni dell’uomo, e l’uomo deve poter sognare i sogni di Dio”. Come dire che tutto è partecipe della nostra storia, che ogni evento registrato dalla storia prende il volto delle nostre azioni, che carne e spirito, desiderio e progetto, sono una cosa sola in qualunque luogo e momento; che niente e nessuno, dunque, può separarci dalla nostra attualità. Perché qui si gioca tutto: per chi crede, anche il dopo. Teìlhard de Chardin, parlava di una trascendenza anche verso il basso, verso quella che chiamava la “santa materia”. Non a caso oggi è una materia meno estranea al pensiero laico.

“Soltanto la scienza è ormai in grado di assumere tutto l’ottimismo umano per trasformarlo in qualcosa di certo. Logorato dalla sua capacità di dubitare, l’uomo contemporaneo vuole essere in grado di produrre certezze”, disse il filosofo marxista Gyorgy Lukàcs, Come dire che o ci incarniamo tutti nella delusione, andandola a provocare dentro la storia, oppure, per avere troppo accettato d’essere delusi in nome di una naturale debolezza, consentiremo che le certezze siano prodotte al di fuori del nostro consenso.
Sarebbe ragionevole non offrire la delusione a nessuno, ma uscirne. Tra le due sponde cruciali, passato e futuro, tra “fides et ratio” c’è un’umanità che continua ad arrovellarsi nella ricerca di un bene da vivere insieme. Spesso, in questi ultimi anni, ci siamo comportati come se non potesse che succedere quanto stava avvenendo, e fossimo condotti per mano dalla televisione a vedere i risultati di una storia che esisteva in quanto ci veniva mostrata, e diventando oggetto di sorpresa, di curiosità, anziché essere letta come il frutto della decisione di produrla. Si è scritto che, cambiata la natura della storia, non poteva non mutare, di conseguenza, il modo di comunicarla e di riceverla. Un’intera generazione di giovani saprà dalle statistiche che tra militari e civili della Seconda guerra mondiale sono rimaste milioni di croci. Si era spento un naturale tutt’uno della cronaca e della storia.

Per dirla con John Naisbitt, fu come se un’intera generazione fosse vissuta nel “tempo delle parentesi”; e infatti sembrò di “mettere tra virgolette il presente, tra passato e futuro, perché non erano stati né qui né altrove”. Ne derivò una sorta di neo-realtà, quasi l’ombra proiettata dalla realtà vera. Ma è possibile, domanda Fausto Colombo, “un’etica dell’ombra”?
Si è fatto il tentativo di esprimere in cifre la qualità della vita: ne è nato l’indice di sviluppo umano, che tiene conto non soltanto del reddito prodotto, ma anche di fattori come l’istruzione, il servizio sanitario, il potere d’acquisto, l’incidenza della criminalità e della droga, la crisi del libro, la disparità tra uomo e donna, e altri ancora. Il risultato è una graduatoria per noi sconsolante, che pure si confronta con altri, innegabili e sorprendenti successi. Ci si chiede se per non essere i “pali”, anziché i protagonisti, del nostro futuro, non dovremmo appropriarci del presente e farne la base della prossima storia; cosi consiglierebbe una concreta saggezza. Ma come liberarci dal sospetto che il più accadrà al di fuori di noi, senza l’incomodo di dover dire la nostra?

Premono, fra tanto minimalismo, anche idee forti. Ecologia, pace e moralità sono alcuni dei nuovi capisaldi della qualità della vita che vanno sostituendo antichi valori, di destra e di sinistra. D’altronde, senza nulla togliere al primato della politica, va detto che il tempo ha reso indispensabile un diverso modo di concepirla e attuarla. I referendum sono stati un nuovo segnale. Ora, alle stanchezze identitarie dovrà subentrare i1 dinamismo della concretezza. E senza indulgere all’idea assurda della fine dei partiti – nessun partito vorrebbe dire un solo partito – bisognerà capire che il nuovo si è annunciato con la proposta di leggere la politica in un modo diverso, dandole persino un altro lessico: dovremo assuefarei a privilegiare parole come “programma”, “aggregazione”, “alternanza”. Il rinnovamento investirà anche un ceto politico divenuto, contro ogni avvedutezza, professionale e di massa; ma in pari tempo non si potrà assolvere la società civile dall’esser stata, anch’essa, il cosiddetto sistema: non a caso, infatti, ha partecipato al voto per quasi cinquant’anni come poche altre nell’Occidente producendo, tuttavia, il minimo cambiamento. Si fa strada una cultura specialmente giovanile che non assegna più al domani compiti palingenetici, i quali vengono giudicati utopici, fondati sul sogno. I giovani si aspettano dal domani solo risposte, diciamo, tecniche: conferme o smentite, cioè la verifica di un trend. Del resto, non era mai successo che gente di ogni estrazione e cultura fosse tanto a disagio in un mondo che pure ha espresso un numero vertiginoso di opportunità.

Questo mondo, così ricco di conquiste, resta non di rado talmente privo del nostro consenso interiore da diventare, per paradosso, una confezione dorata di soluzioni obbligate; se non anche, in qualche modo, ricattatorie. Ma, in generale, incalza la voglia di esistere secondo noi stessi, immaginando un senso della vita che le società più appagate, e quindi ormai conservatrici, sembrano non saper garantire. “Quasi che un mondo sazio non possa avere anche un’anima. Fattori di movimento, paradossalmente, sono le minoranze non ancora integrate, che dalla loro marginalità ascoltano esterrefatte questo nostro gran dire sul benessere distribuito e sull’equità raggiunta: non è vero che “stiamo tutti bene”. È vero che siamo generalmente “più ricchi, anche se più malinconici”, precisa il Censis. Del resto, questo Paese che, seppur lentamente, progredisce in ogni campo è a crescita demografica zero: un misto di sfiducia, di egoismo e di prudenza. Stiamo meglio, insomma, ma forse ci piacciamo un po’ meno. Investiti da una crisi che è la più grave da quando, nella riconquistata libertà, nacque la nostra Repubblica, dobbiamo rigenerare le istituzioni assicurando ad esse il nutrimento vitale delle virtù civili. La corruttela diffusa, la violenza contro le donne, e le collusioni con l’Antistato a lungo protette dall’omertà, dagli occultamenti, dalle deviazioni, pronte a perderci nell’ignominia; la realtà ci impone di dare un senso a ciò che rifiutiamo e a quello che abbiamo deciso di volere.

Siamo a un confronto difficile: l’”io” di ieri s’incontra con il nuovo, ancora un po’ estraneo, un po’ deluso, un po’ in attesa. Di gran lunga più sicuro per quanto materialmente ha conquistato, ma consapevole di ciò che, dentro, è venuto meno. Non si tratta soltanto di essere culturalmente pronti a ciò che cambia, ma anche eticamente capaci di adeguare le scelte ai principi. Disponiamo di mezzi sempre più idonei al mutamento, lo si vive con orgoglio ogni giorno, stentando però a trovare il profondo e complesso disegno che lo giustifichi. E tuttavia continueremo a crescere in misura dei problemi che dovremo risolvere. Non saranno dunque le parvenze a farei diversi, ma la percezione e la coscienza di ciò che, cambiando, ci cambia; e sapendo che domani si potrà ancora cambiare questo mondo cambiato. Si potrà affrontare un viaggio intorno alla qualità della nostra vita solo camminando nel segno della consapevolezza e della trasparenza, del coraggio e della responsabilità: i nomi nuovi della speranza. Ma occorrerà concepire, studiare e mettere in opera una sorta di cooperazione e lealtà, se saremo capaci di fondare una solida amicizia tra scienza e umanesimo in nome della nostra partecipazione al progetto, ben più grande, di tenere in vita una realtà cosmica. A noi oggi, basterebbe occuparci del nostro pianeta.

Coi nostri soldi

di Paolo Lambruschi (“Avvenire”)

Nuove foto mandate dagli stessi criminali documentano le torture sui profughi subsahariani nei lager dei trafficanti, inaccessibili all’Onu e alle agenzie umanitarie. Ancora orrore senza fine dalla Libia: immagini di pistole puntate alla testa, corpi in catene macilenti e annichiliti come bestie. E vergogna per l’indifferenza dei governi europei. È una delle tante prove della catastrofe umanitaria in Libia, denunciata da Acnur e da diverse organizzazioni per i diritti umani.

Le immagini provengono direttamente dall’inferno di Bani Walid, distretto di Misurata, circa 150 chilometri a sud-est di Tripoli. Sono state mandate ai familiari dai trafficanti di esseri umani per indurli al pagamento del riscatto per rilasciarli. Da sei mesi ogni giorno i detenuti subiscono minacce, percosse, torture e le donne spesso vengono stuprate dai guardiani. Tutti hanno cicatrici e bruciature per la plastica fusa gettata su arti e schiena. Ma la cifra chiesta dai libici – 4 o 5mila dollari – è troppo alta perché i parenti hanno già dovuto pagare le diverse tappe del viaggio e ora stanno chiedendo aiuto ai conoscenti. Come ha scritto di recente anche il Corriere della Sera, nel caos libico lo scontro tra il governo centrale di Serraj e quello di Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, ha lasciato senza paghe i dipendenti pubblici, tra cui i guardiani delle galere.

Questa situazione, particolarmente in Tripolitania, ha dato impulso ai sequestri di migranti e alle torture per in- cassare in fretta i soldi della liberazione. Sono circa 150 i profughi eritrei da circa sei mesi nelle mani di un clan di trafficanti libici guidato da un tale Abdellah. Sono entrati all’inizio del 2017 nel Paese nordafricano dal Sudan, partendo da Khartoum e attraversando il Sahara pagando quattro trafficanti loro connazionali, in gruppi, tempi e circostanze diversi. I criminali, probabilmente parte dell’organizzazione di Abduselam Ferensawi, detto ‘il Francese’ – trafficante eritreo tra i più potenti sulla rotta africana orientale sia per le alleanze in Sudan che con i clan libici – li hanno rapiti una volta varcato il confine.

Un giovane eritreo minacciato con la pistola da un trafficante di esseri umani dopo esser stato ridotto in catene. Queste immagini vengono inviate dagli schiavisti ai parenti dei detenuti nel lager di Bani Walid per ricattarli Le pubblichiamo per documentare l’orrore che si consuma in quei campi libici

Un giovane eritreo minacciato con la pistola da un trafficante di esseri umani dopo esser stato ridotto in catene. Queste immagini vengono inviate dagli schiavisti ai parenti dei detenuti nel lager di Bani Walid per ricattarli Le pubblichiamo per documentare l’orrore che si consuma in quei campi libici

La costa era già stata sigillata dagli accordi con il governo italiano, quindi hanno cercato di ‘massimizzare’ i profitti. Li hanno tenuti prigionieri per oltre un anno in località diverse. Per liberarli i banditi chiedevano alle famiglie fino a 6mila dollari. Ma queste non riuscivano a pagare e verso la fine dell’estate 2018 i trafficanti eritrei hanno ceduto i 150 profughi – pare in cambio di una cifra non alta – a una gang di libici. La vicenda è stata seguita e denunciata in Italia da Abraham Tesfay, giovane rifugiato e attivista per i diritti umani. Tesfay è in contatto con alcuni familiari dei rapiti – una parte sono in Africa, altri profughi in Israele o rifugiati in Europa – e sta cercando di convincerli a testimoniare davanti a un giudice. «Secondo i prigionieri – racconta Tesfay – sono libici i miliziani di guardia e il capo.

Del resto, una volta finiti nelle mani di questa nuova organizzazione, i 150 sono stati subito trasferiti a Bani Walid». Luogo sinistro. Un anno e mezzo fa la Corte di Assise di Milano ha condannato all’ergastolo Osman Matammud, il somalo 23enne accusato di aver torturato per oltre un anno a Bani Walid 17 persone che lo hanno poi riconosciuto e fatto arrestare il 26 settembre 2017 a Milano. L’Asgi, i giuristi che assistono i migranti, ha pubblicato sul suo sito le motivazioni della sentenza. Il somalo usava le stesse modalità: torture in diretta telefonica con i parenti cui mandava le foto per indurli a pagare. «I mercanti di esseri umani – prosegue Tesfay – probabilmente tengono i 150 in gruppi separati in una struttura collegata al centro statale di detenzione noto per la brutalità. Infatti nella tarda primavera scorsa ci fu un’evasione in massa e le guardie spararono ad altezza d’uomo.

Un massacro, si salvò chi riuscì a raggiungere il presidio ospedaliero di Medici senza frontiere o chi trovò rifugio nelle case del villaggio». Gojtom, eritreo di 27 anni e nome di fantasia, è uno dei 150 prigionieri dei trafficanti a Bani Walid. Ha uno smartphone e parla inglese. Via whatsappracconta la sua vita quotidiana nel lager: scarse razioni di cibo (pessimo), acqua razionata, mancanza di servizi igienici e di assistenza. «Le guardie di sera sono spesso ubriache, picchiano e sparano a chi reagisce o protesta o anche per capriccio ». Lavora gratis per i banditi libici, come altri, tutti schiavi. Traslochi,edilizia, lavori nei campi.

«Almeno mi conoscono e mi trattano meglio». Ha trascorso oltre un anno tra Kufra e Sebha, è arrivato qui a fine estate. Nel suo hangar ci sono 19 detenuti, tra cui 8 ragazze. Tre di loro hanno figli piccoli. «Faccio una vita brutta perché non ho i soldi per andarmene e raggiungere mia moglie e mio figlio a Tripoli. Ma le donne qui stanno peggio». Secondo i testimoni, nel gruppo sarebbero morte di stenti 5 persone, tra cui un bambino. I corpi dei cristiani sono stati fatti sparire nel Sahara.