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Voce di chi é costretto al silenzio


“Uno di quelli che anche quando avrebbe avuto l’occasione, avrebbe potuto puntare il dito invece faceva altro”.

“Un prete, vero, uno di quelli che si innamora degli ultimi e che non ha paura di frequentare i cunicoli bassi della disperazione”.

“Lui e i suoi volontari erano stati multati dall’amministrazione comunale perché violavano l’ordinanza contro l’accattonaggio”.

” A Como la politica ha chiuso tutti i centri di accoglienza e ha chiuso gli spazi di aggregazione, ha perfino chiuso i bagni pubblici per motivi di ordine pubblico e ha tolto alla Caritas la gestione della raccolta degli abiti usati in favore di un’azienda privata”

” A Como l’assessora alle politiche sociali era stata ripresa in un video mentre strappava una coperta a dei senza tetto”

“Una polemica che aveva avuto risalto su tutta la stampa nazionale, ma che anche in quel caso aveva visto il prete rimanere in disparte”. 

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Voce di chi é costretto al silenzio

di Piero Murineddu

 

Questi qui sopra sono passaggi di un articolo firmato da Giulio Cavalli all’indomani dell’omicidio di don Roberto a Como.

Un uomo buono don Roberto, “troppo” secondo il comune giudizio di chi sa stare al mondo all’occorrenza pronto a tirar fuori le unghie; un prete mite, tutt’altra pasta degli esperti  conferenzieri da farti rimanere a bocca aperta per gli alti concetti che riescono ad esprimere ( ma anche loro ci vogliono, santiddio…); un ancor giovanotto che traduceva la sua fede spendendo la  vita per tentare di curare le ferite che questa societá (con una violenza spesso mascherata di perbenismo)  provoca nelle persone che essa stessa mette ai margini….

Non poteva non colpire questa morte, e tutti ne abbiamo fatto la particolare lettura secondo la sensibilità che ci caratterizza, oppure, attraverso gli organi di stampa o della politica, secondo gli ordini impartiti da chi ne detiene il comando.

Comprensibilmente il sentire comune ha già decretato che don Roberto é un santo, e in certi casi l’ufficialitá di chi decide queste Cose diviene secondaria

Il “santo subito” é il destino di chi fa il bene e lo fa sopratutto senza attardarsi a “puntare il dito” contro chicchessia. E infatti, con un misto forse di rimpianto che abbiamo tutti per l’innocenza infantile perduta e mai più recuperata che si aveva da fanciulli ma anche d’ IPOCRISIA, a “santificarlo” son stati persino coloro che hanno contribuito a creare quel clima nel quale questa tragedia si é consumata. E si, perché se don Roberto, a motivo anche della sua indole, l’energie le usava prevalentemente per quello che abbiamo saputo, il dovere di prevenire troppe situazioni d’ingiustizia e di sopruso lo dobbiamo portare avanti noi. Così facendo, è molto probabile crearsi dei nemici, ma questo bisogna metterlo in conto.

L’autore dell’articolo da cui ho tolto alcune frasi presentate all’inizio, lo scrittore e attore Giulio Cavalli, attraverso i suoi scritti ma anche con l’ attivitá di recitazione, continua a credere in una societá egualitaria e a motivo di questa “utopia” é stato costretto a vivere con la scorta perché considerato “scassaminchia” da coloro che si sentono da lui infastiditi.

Ben vengano i tanti sconosciuti samaritani, la cui silenziosa presenza impreziosisce il mondo. Nello stesso momento é necessario farsi portavoce del silenzio a cui troppi sono costretti.

Dice il direttore della Caritas di Como:

” É stata una tragedia nata dall’odio, causa scatenante al di là della persona fisica che ha compiuto questo gesto. O la smettiamo di odiarci o tragedie come questa si ripeteranno”

 

La Pazienza è una Scelta

 - gremlin, Getty Images

 

“Ghemm de purtà pasiensa”, diceva mia nonna (curriculum: spedita a lavorare al termine della seconda elementare, epidemia di spagnola, due guerre mondiali, in occasione della seconda guerra casa bombardata e coincidente perdita del lavoro, perché lei e mio nonno facevano i portinai in una cà de sciuri, dalle parti di via Mascheroni a Milano).

La pazienza è una cosa che si porta con sé. Non è una condizione passiva ma, come avrebbe spiegato mia nonna con parole migliori delle mie, anche se in milanese, è una condizione dinamica e operativa.

Porti pazienza quando continui a fare quello che devi fare, anche in condizioni avverse. E anche se ti pesa.

Resistere e modificarsi

Mi sono domandata perché mai, quando ho pensato a questo articolo, la nonna mi è subito tornata in mente, e la risposta è semplice. La pazienza ci sembra qualcosa di antico e del tutto fuori moda. Oggi (e anch’io l’ho fatto) si usa più volentieri il termine resilienza, più tosto – almeno in apparenza – e tecnologico, perché in origine rimanda al mondo dei metalli, e alla loro capacità di resistere ai colpi. Nella sua estensione alle discipline biologiche e all’ecologia, “resilienza” indica anche la capacità di un sistema di resistere alle aggressioni esterne, modificandosi e autoriparandosi.

Eppure.

“La pazienza è potere, altro che dote vittoriana fatta di passività!”, scrive senza mezzi termini Judith Orloff, psichiatra all’Università della California di Los Angeles. Che aggiunge: dobbiamo riportare l’idea di pazienza nel ventunesimo secolo, ristrutturandola. La pazienza è uno stato attivo, che aiuta a gestire lo stress e la frustrazione, a mantenere il controllo anche nelle situazioni sfavorevoli e a rimanere centrati.

La pazienza, insomma, non coincide con un atteggiamento remissivo e rassegnato. Non esprime una vocazione alla mediocrità o all’essere docili. E non è un automatismo, ma una scelta consapevole. “La pazienza è la virtù dei forti”, recita il proverbio, che ha, con patience is a virtue, anche un corrispondente inglese. È Giacomo Leopardi, nello Zibaldone, a sviluppare il concetto: “La pazienza è la più eroica delle virtù, giusto perché non ha nessuna apparenza d’eroico”.

Non è solo questo: la pazienza è la dote dei grandi condottieri. È quella che, durante la campagna di Russia, guida il conte Fëdor Vasilevič Rostopčin a pianificare una guerra fatta di ritirate strategiche, in attesa che sia il generale inverno a piegare, e a sconfiggere, le truppe napoleoniche francesi.

Ed ecco Gandhi: “Perdere la pazienza significa perdere la battaglia”, diceva. E Sun Tzu, nell’ Arte della guerra, il più antico trattato di arte militare, e ancor oggi uno dei più influenti testi di strategia: “Chi è prudente e aspetta con pazienza chi non lo è, sarà vittorioso”.

I bambini che imparano a essere pazienti hanno maggiore autocontrollo da adulti.

Un lungo articolo su Medium indaga il senso, le implicazioni e i vantaggi dell’essere pazienti nel lavoro creativo (l’autore è un musicista). Di mio, vorrei aggiungere che, per esempio, sono una questione di pazienza anche il lavoro della scrittura – con il suo ineliminabile corredo di incertezza, frustrazione e solitudine – e soprattutto la qualità del lavoro di scrittura.

Viviamo in tempi accelerati e vogliamo ottenere qualsiasi cosa subito. Cerchiamo gratificazioni istantanee, soluzioni e risultati immediati. E l’urgenza di consumare (sì, di consumare) non solo beni, ma anche le gratificazioni, le soluzioni e i risultati, ci porta da un lato a trascurare la qualità di quello che otteniamo (basta che arrivi in fretta) dall’altro a esaurire in un battibaleno anche la soddisfazione per quanto abbiamo ottenuto.

Dicevo: vogliamo tutto subito, come se non esistesse un futuro. E comincio a sospettare che il maggior dono dell’essere pazienti, più ancora dell’evitare errori dovuti a fretta e superficialità, più ancora della calma, sia proprio quello di riconsegnarci un futuro.

Di fatto, la pazienza è intrinsecamente ottimistica e proiettata nel futuro. Si nutre di speranza, di lungimiranza e di fiducia. Ci permette di darci obiettivi a lungo termine e di conseguirli (ecco perché è una virtù strategica).

A denti stretti

Volendo cominciare a essere (almeno un po’) più pazienti, potremmo, per esempio, considerare che insegnare o imparare qualcosa, ricordare qualcosa, riparare qualcosa, produrre qualcosa che ha valore, e perfino apprezzare qualcosa (si tratti di un ottimo pranzo, un bel paesaggio, un buon libro o una solida amicizia) chiede tempo. Potremmo anche considerare che, quando siamo in una oggettiva situazione di disagio, l’impazienza brucia energie, accrescendo ulteriormente lo stress e quindi il disagio medesimo.

Un bell’articolo su Avvenire ci dice che non sempre la pazienza è “buona: c’è anche la pazienza a denti stretti, quella che si esercita contro voglia e che lascia trasparire il fastidio che nasce dal non potersi sottrarre; è una sorta di pazienza sacrificale, estorta, che mette sgradevolmente in debito l’altro… Il fatto è che la vera pazienza, quella ‘buona’, è legata alla passione per la vita. Quello che rende buona la pazienza (e dunque utile, talvolta anche allegra) è legato allo scopo per il quale la si esercita; è, ancora una volta, avere lo sguardo puntato fuori di sé, su una meta, su un obiettivo che ha valore per chi lo persegue”.

È anche accertato che l’essere pazienti è un tratto appreso, che i bambini che imparano a essere pazienti hanno maggiore autocontrollo da adulti, e che tutto ciò è a sua volta correlato con minori difficoltà scolastiche e poi con una vita più sana, più piena e più soddisfacente. Per questo, e perfino se pesa un po’, portarci appresso una dose di pazienza può risultare assai utile. Perfino, o forse specialmente, nel turbine del ventunesimo secolo.

La nave di Banksy per i migranti

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di Tomaso Montanari (*)

( storico dell’arte e tanto altro. A suo merito va di esser stato criticato da quel….di Sgarbi, il che é tutto dire )

 

Quasi ogni giorno qualcuno mi rimprovera (in genere lo fanno “potenti” di varia natura): «Ma perché non ti limiti a scrivere di quel che sai, di storia dell’arte?», «ma questa è politica, caspita, non storia dell’arte!», «ma perché buttarla in politica, se l’arte è così bella»? In questi casi, mi viene sempre in mente una frase di George Orwell: «La posizione secondo cui l’arte non dovrebbe aver niente a che fare con la politica è già una posizione politica». In altre parole, chi proclama la neutralità politica dell’arte, lo fa perché ha un’idea politica diversa, o opposta, all’artista o allo storico dell’arte che vorrebbe neutralizzare. Del resto, l’arte è politica: sempre. Nel senso che non esiste arte, per quanto privata e disimpegnata, che non abbia un valore e un rilievo per la comunità, per la polis.

Se c’è un’opera dei nostri giorni che lo dimostra pienamente, la nave “Louise Michel” dipinta dal più importante artista del nostro tempo, Banksy (***), quel nesso è fondante, essenziale, determinante.

Il Guardian ne ha raccontato la storia. Un giorno Pia Klemp, attivista antifascista per i diritti umani e animali e comandante di navi in missione umanitaria, ha ricevuto la seguente email: «Ciao Pia, ho letto la tua storia sui giornali. Sembri un tipo cazzuto. Sono un artista inglese, e ho fatto qualche opera sulla crisi dei migranti, e ovviamente non posso tenermi i soldi. Potresti usarli tu per comprare una nuova nave, o qualcosa del genere? Ottimo lavoro, comunque. Grazie. Banksy». Nonostante l’apparenza, non era uno scherzo: e oggi la barca esiste, ed è operativa. E la sua intitolazione a Louise Michel (***), straordinaria figura di anarchica francese che spese una vita intera per il diritto all’istruzione delle donne, senza mai piegarsi al dominio maschile, dà un’idea del grado di consapevolezza culturale dell’operazione.

La lettera di Banksy a Pia Klemp dovrebbe figurare in qualsiasi antologia di letteratura artistica del XXI secolo. Lo snodo concettuale centrale è questo: «ho fatto opere sui migranti, e ovviamente non posso tenere quei soldi. Quindi li devo investire per i migranti». In moltissimi murali disseminati in tutto il mondo (il più recente, bellissimo, è a Venezia) Banksy ha rappresentato l’umanità dei migranti, la loro sete di giustizia, la loro persecuzione. Lo scopo di queste opere è profondamente politico: servono a non far dormire le brave persone che sono convinte di vivere in stati democratici e di diritto. Come gli italiani: il cui governo, dove siede la “sinistra” di Pd e Leu, rinnova gli accordi omicidi con la Libia, e si guarda bene dall’abrogare i mostruosi decreti sicurezza Salvini-Di Maio-Conte.

Ma Banksy è un artista che si misura anche col, marcissimo, mercato dell’arte, traendone i fondi per finanziare la sua attività in tutto il mondo, e per vivere. Lo fa con una consapevolezza e un senso critico più unici che rari, che sono emersi in molti modi paradossali, e che ora arrivano al culmine nella dichiarazione per cui i soldi guadagnati con opere sui migranti devono tornare ai migranti. È l’esplicita teorizzazione di una concretissima responsabilità politica dell’arte. Che no, non è riducibile al denaro: una vera bestemmia, per la religione del nostro tempo.

Banksy “restituisce” quei soldi non solo attraverso il vitale soccorso in mare, ma anche rappresentando un’esplicita attuazione del diritto di resistenza: il diritto di resistere ai poteri pubblici che violino diritti fondamentali della persona. Non per caso, sul sito della missione (https://mvlouisemichel.org/) il classico «Search and Rescue» è riscritto in «Solidarity and Resistance». Per questo Banksy ha reso noto il proprio ruolo, e – come comunica sempre il sito ufficiale – ha decorato personalmente la barca, facendone uno straordinario pezzo unico che, tra molti anni, finirà la sua vita gloriosa nella sala di un grande museo.

Così oggi chi vuol vedere, in questo scorcio d’estate, un’opera d’arte vera – in profonda comunione con il mare, con la natura umana e con la Politica con la P maiuscola –, può cercare, nei porti dell’Italia del Sud, la “Louise Michel”. Trovandola, potrebbe capitargli perfino di ritrovare se stesso.

 

(*) https://it.m.wikipedia.org/wiki/Tomaso_Montanari

(**) https://it.m.wikipedia.org/wiki/Banksy

(***) https://it.m.wikipedia.org/wiki/Louise_Michel

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Ricordando Ernesto

di Piero Murineddu

Volevo oggi ricordare quel grande evento di Pace e di Ribellione che é stato il raduno degli oltre diecimila avvenuto nell’Arena di Verona il 22 settembre 1991, alla vigilia del 500esimo anniversario della scoperta dell’America ad opera di Colombo che, considerate le infinite nefandezze compiute in seguito da chi occupò questa parte del pianeta, forse sarebbe stato meglio che il navigatore se ne fosse stato buono a pescare nel mare della sua Genova.

Lo spunto l’avevo preso da un programma televisivo realizzato dall’ottimo Ugo Gregoretti che, con la sua intelligente ironia e armato di microfono, intrufolando intrufolando tra i partecipanti all’evento, inizialmente aveva curiosato tra alcuni cattolici della tradizionecaschilmondo, sempre presenti per creare divisione e alimentare odio, in questo caso “volantinando” e rimarcando che la “vera fede” bisogna necessariamente propagarla anche insanguinando la spada, e di questo “ardore missionario” come ben sappiamo la storia ne é piena.

Giustamente Gregoretti li ha mandati subito e senza esitazione a …….., usando invece il microfono per evidenziare la presenza all’evento di Arturo Paoli ( ” L’utopia che oggi stiamo vivendo qui é il Luogo della Speranza”), di David Maria Turoldo gravemente ammalato e che ci avrebbe lasciati il 6 febbraio dell’anno successivo, e di Ernesto Balducci, anche lui deceduto in un incidente stradale il 25 aprile dello stesso anno, che riferendosi ai buontemponi rimasti all’esterno per volantinare,  testualmente diede questa risposta a una domanda di Gregoretti:

Mi sembra impossibile che esistano questi sedimenti di risentimento, di frustrazione, di rabbia verso tutto ciò che significa Speranza e apertura verso il futuro. Mi fanno molta pena. Io mi sento fraternamente vicino a questi fratelli disperati e inaciditi, resi aspri da nuovi orizzonti del mondo”.

Insomma, per esprimere il suo pensiero questo prete omaccione trovava le parole appropriate, non c’é che dire.

Ho deciso così di conoscere meglio lui quest’oggi, e per fare questo mi servo di qualche paginetta del volume “Il monaco che amava il jazz. Testimoni e maestri, migranti e poeti” scritto da Francesco Comina e trovate nel blog di Paolo Zambaldi che ringrazio.

A conclusione, riporto anche il video sull’evento anti colonialista svoltosi a Verona che dicevo, caricato su Youtube dall’amico Dino Biggio, ringraziando anche lui.

 

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Quello di Gesù non é il Dio ” dell”ordine”

 

di Francesco Comina

 

(….) Dovevamo incontrarci a Fiesole. Ci eravamo dati appuntamento alle 13 del primo maggio 1992 fuori della Badia. Ma il 25 aprile padre Ernesto Balducci moriva improvvisamente in un incidente stradale, all’uscita da un incrocio, vicino a Cesena: una botta alla testa contro il parabrezza, il coma e il giorno dopo l’annuncio della scomparsa. Guidava lui la macchina, accanto aveva un’amica di dieci anni più anziana che uscì incolume dalle lamiere. «Gli avevano detto di fare attenzione – mi fu riferito qualche giorno più tardi da amici di Firenze – di non guidare più la macchina e di prendere meno appuntamenti, ma la sua vita era oramai dedita totalmente agli altri, alle persone che andava a trovare quotidianamente e alle conferenze che teneva in tutta Italia con un ritmo frenetico».

Mi dovevo incontrare con Balducci per definire alcuni punti della mia tesi di laurea che avevo deciso di fare sul pensiero di Raimon Panikkar. Mi ero rivolto a lui per due motivi: perché la sua casa editrice (Edizioni Cultura della Pace) aveva dato alle stampe un libro di Panikkar, La torre di Babele, e perché, nonostante la differenza di prospettiva, ero convinto che fra i due intellettuali vi fosse una convergenza molto più profonda di quanto potesse apparire vedendoli dibattere sui grandi temi come l’uomo planetario, la città pianeta, il governo mondiale.

Anni dopo feci anche un saggio per Testimonianze – la rivista fondata da Balducci nel 1958 con un gruppo di amici, in cui proposi una comparazione fra due impostazioni di pensiero che avevano approcci molto diversi fra loro, però anche orizzonti comuni. Panikkar considerava l’idea di «uomo planetario» come una generalizzazione astratta, mentre Balducci la pensava molto concreta e la inquadrava in una prospettiva in movimento, di uscita dai confini propri di una cultura particolare per abbracciare altri riferimenti culturali e religiosi.

Balducci rispose alla mia richiesta di incontro con una lettera dell’8 marzo 1992: «Per quanto gli sia amico e abbia edito un suo libro, io non sono un competente di Raimundo Panikkar. Ma tra i miei cari amici ce n’è uno che ha già sostenuto una tesi su di lui e lo frequenta con assiduità. Potrebbe esserti utile perché è un sacerdote molto umile e disponibile. Si chiama Achille Rossi … Ti abbraccio e ti auguro un futuro fecondo davanti a Dio e da- vanti agli uomini».Feci come mi disse e trovai la soluzione che cercavo.

La ricerca di un incontro con Balducci andava molto al di là di una richiesta d’aiuto. Era da tempo che volevo passare qualche ora con una persona che consideravo un maestro e un intellettuale che aveva rappresentato mol-to nella mia crescita umana e culturale e che fino ad allora avevo avuto modo di conoscere solo da spettatore in vari incontri e convegni.

Quando seppi della sua fine così improvvisa, rimasi di ghiaccio. Eppure alla Badia passai ugualmente quel primo maggio per incontrare i luoghi, gli ambienti, i volti della sua memoria. Ricordo che in un corridoio campeggia-va una sua foto con alcuni messaggi di amici e discepoli, e lungo le strade di Fiesole erano stati affissi dei grandi manifesti con una sua frase tratta da Testimonianze:

«Per realizzare una civiltà veramente planetaria, senza egemonie coattive, noi dobbiamo risolvere i conflitti non attraverso l’uso della forza, ma cogliendo la verità parziale che in ogni situazione si nasconde».

Andai in municipio e chiesi se ce n’era ancora qualche copia. Me ne dettero tre: una l’ho appesa sopra il letto.

Avevo avuto modo di scambiare con lui due battute durante un pausa caffè ad un convegno alla Cittadella di Assisi nell’estate del 1991.
– «Da dove vieni?» mi chiese.
– «Da Bolzano» risposi.
– «Allora conosci Alexander Langer – continuò con quel faccione grande che ricordava quei volti di montagna molto simili ai volti degli indios – e magari anche l’amico Giuseppe Rauzi. Sai? Ogni tanto qualcuno mi telefona da Bolzano per chiedermi di parlare da qualche parte e non potendo accettare rispondo: “Chiama don Giuseppe ed è come se chiamassi me”. Ma quando posso vengo sempre volentieri a Bolzano perché mi ricorda le vacanze che facevo in estate in val Gardena con gli amici di Firenze».

Quella conferenza alla Cittadella la ricordo molto bene. Balducci, come sempre, appassionava l’uditorio. Molti lo considerano uno dei più affascinanti oratori che abbiamo avuto in Italia. Parlava chiudendo gli occhi, di tanto in tanto incrociava le mani sull’ampia fronte come per rendere le parole più teatrali, oppure batteva sul tavolo per attirare l’attenzione. Alternava momenti di grandissima intensità a battute ironiche in un toscanaccio tagliente. Gemito dei viventi, silenzio di Dio era il titolo del suo intervento ad Assisi. Balducci parlava di un Dio concreto, un Dio amore, un Dio onnipotente nella sua impotenza. Un Dio che unisce credenti e non credenti. Un Dio che soffre con il povero e libera l’oppresso. Un Dio «sovversivo» che smonta l’ordine delle cose e scrive diritto sulle carte storte: «Ecco perché gli atei spesso hanno ragione a rifiutare Dio – diceva – perché noi ne abbiamo fatto un garante dell’ordine. Ma essi vedono disordine. Gli atei hanno avuto il coraggio di demolire il dio dell’ordine. Come ha fatto Gesù: “Ha bestemmiato!” disse Caifa, tutore del dio dell’ordine. Gesù ha
rivelato un Dio che si compromette con le sorti dell’uomo e in modo particolare con i più deboli e i miti». E chiuse la relazione con un riferimento a quel momento finale della vita, quando l’amore impotente di Dio si troverà faccia a faccia con l’amore disarmato dell’uomo: «Ogni tanto penso a me stesso e immagino quel momento supremo della mia vita quando mi troverò faccia a faccia con Dio. Solo allora mi conoscerò».

Dieci anni dopo l’ho ricordato con la sorella Beppina: «Era molto dolce – mi disse – nonostante fosse quell’omone che era, sanguigno e forte. In realtà era anche molto fragile. Non tollerava l’ingiustizia in qualsiasi modo essa si esprimesse. Metteva la sua voce, la sua cultura, la sua parola al servizio di chi non aveva voce. Ci manca moltissimo».

«Il sogno di una cosa», che nel gergo balducciano significava l’evento aurorale di una umanità riconciliata nello spirito della fratellanza fra gli uomini e i popoli, doveva passare attraverso il rito della morte (anche del cristianesimo, come figura storica oramai consunta e logorata dalle logiche di potere che da Costantino in avanti aveva assorbito in toto; e della civitas, come organizzazione della vita segnata dall’ideologia del dominio e della guerra).

E nel ricordo tornano in superficie gli episodi più significativi della sua vita. Innanzitutto le origini poverissime (Balducci nacque a Santa Fiora, un paesino nell’entroterra grossetano, sul monte Amiata, nel 1922). In vari scritti autobiografici appare il riferimento a don Milani come esperienza di vita opposta: «Lorenzo Milani – scriveva Balducci – proveniva da un ambiente alto borghese. La sua scelta evangelica gli ha fatto fare una calata a picco nel mondo dei poveri. In questa esperienza egli ha portato una volontà autopunitiva, di rigetto quasi furioso di tutto lo schema borghese della vita fino al rifiuto del gioco per i suoi ragazzi. Invece la famiglia in cui io sono na- to è vissuta, fino a che non l’ho lasciata, ai margini fra la miseria e la povertà».

Balducci ironizzava spesso sulla sua «fuga dal mondo» quando, giovanissimo, lasciò il paese natale per entrare nel convento degli Scolopi a Firenze: «Lasciando quella realtà e entrando in convento io sono passato dalla vera po- vertà al mondo organizzato. Prima ero figlio di poveri, vivevo con quello che la natura ci donava, e poi, improvvisamente, ho fatto il voto di povertà per entrare in convento e da allora non mi è mancato più nulla. Non inganniamo l’umanità ma diciamo le cose come stanno: quando si entra in convento non si abbandona un bel niente, anzi, si trova un mondo bene organizzato e strutturato».

In una delle pagine più curiose della sua autobiografia ricorda: «A dodici anni, invece di predicare come Gesù nel tempio, indossai la piccola tuta ed entrai nell’officina di un fabbroferraio. Per sei mesi feci le mie otto ore di lavoro quotidiano: aiutavo a ferrare i cavalli o gli asini, a costruire reti da letto. Feci, insomma, il sacrificio di Abramo. E quei sei mesi furono una scuola straordinaria. Il fabbroferraio si chiamava Manfredi, era un anarchico per- seguitato dal fascismo. Nel gabinetto dell’officina campeggiava una scritta: “Saranno grandi i papi | saran potenti i re | ma quando qui si seggon | son tutti come me”. E bestemmiava con grande fantasia. Mia madre mi aveva premunito contro questo scandalo, ma alla lontana, per merito di Manfredi, sono riuscito a distinguere la bestemmia proletaria, che è un fenomeno religioso, dalla bestemmia borghese, che è ributtante cinismo. Quando gli comunicai che il giorno dopo sarei partito per il collegio degli Scolopi, mi mise le mani sulle spalle e mi disse: “Non ti lasciare imbrogliare dai preti!”.

Trent’anni dopo, quando i giornali parlarono di me condannato in tribunale per aver difeso il primo obiettore di coscienza, incontrai per caso Manfredi, che non avevo più rivisto. Mi batté la spalla come se ci fossimo lasciati il giorno prima: “Ernesto – mi disse – non ci sono riusciti”. La sua fierezza mi toccò nel profondo come una benedizione».
Pochi anni dopo, quando Balducci era già in seminario per essere formato alla nuova dimensione religiosa, avvenne un fatto che segnò per sempre la sua vita.

Nel 1944 un gruppo di 77 minatori, tra i quali alcuni suoi compagni di scuola, furono massacrati dai nazisti presso la miniera di Niccioleta (Massa Marittima). Balducci fu chiamato a officiare la messa funebre. Nel ricordare, tanti anni dopo, quel momento drammatico egli assunse su di sé come un senso di colpa, come un sentimento di tra- dimento verso i compagni uccisi che diventava un tradimento globale se riferito all’atteggiamento con cui si giustificavano le guerre contemporanee: «Quando le bare fu- rono portate al nostro paese io non ero uno spettatore, ero un traditore. Me ne ero andato per una strada dove uno passa per rivoluzionario solo perché scrive un articolo coraggioso, che potrebbe perfino impedirgli la carriera. Ma mentre Eraldo, Mauro, Luigi e gli altri hanno pa- gato con la vita la fedeltà al vero, io, noi sopravvissuti, che andiamo facendo? Celebriamo la Resistenza e nel frattempo lasciamo che i “nazisti dell’anno duemila” vadano disseminando su tutto il pianeta gli ordigni della morte? Questo sì che è un tradimento».

Nel 1963 Balducci iniziò a recuperare il rapporto con le popolazioni dell’Amiata che si era interrotto con la sua attività di insegnante nei licei fiorentini e con i suoi im- pegni religiosi in città. In quell’anno, infatti, avvenne la prima grande svolta della sua vita con l’esilio romano e la polemica col Sant’Uffizio per via della sua attività di collaborazione con l’allora sindaco di Firenze, Giorgio La Pira. Scoppiò il caso di un giovane cattolico, Giuseppe Gozzini, che scelse di sfidare le istituzioni proclamandosi obiet- tore di coscienza. Balducci intervenne pubblicamente in sua difesa con un articolo pubblicato sul Giornale del mattino con il titolo La Chiesa e la Patria. L’articolo provocò un terremoto politico.
Balducci fu accusato di apologia di reato e dovette sostenere un processo. Subì una condanna definitiva a otto mesi di reclusione con la condizionale. Fu emarginato anche dalla Chiesa. Solo pochissimi teologi del Concilio lo difesero. Perfino Yves Congar, uno dei grandi protagonisti del rinnovamento ecclesiale, interpellato sulla vicenda da un giornalista, rispose: «È un problema che non mi sono mai posto».

Quel dibattito alimentò le polemiche. Qualche anno più tardi ci fu il processo a carico di don Lorenzo Milani il qua-le, insieme ai suoi ragazzi di Barbiana, aveva criticato un articolo dei cappellani militari della Toscana in cui si definiva l’obiezione di coscienza una vigliaccata. Don Lorenzo ribaltò le accuse e con i suoi ragazzi formulò una difesa dell’obiezione di coscienza sia in chiave laica (in ragione del diritto all’espressione della nonviolenza), sia in chiave cristiana (questa è la strada tracciata dal Vangelo).

Nel suo testamento spirituale, La terra del tramonto, Balducci cercò di riassumere per intero le coordinate del suo pensiero. L’uomo nuovo, l’uomo «inedito» si impone sul- l’uomo «edito», l’uomo della cultura corrente. È la dialettica che, sulla linea del filosofo marxista revisionista Ernst Bloch, segna un punto cruciale nell’umanesimo balducciano. Uomini inediti sono stati per lui san Francesco d’Assisi e Gandhi, due figure su cui si trattiene per scriverne le biografie. Gandhi era per Balducci, l’uomo delle molte culture, l’uomo che ha trovato il Dio dei teologi nella non- violenza attiva e dinamica. San Francesco, invece, rap- presentava la verità di un cristianesimo sottratto alle durezze della legge, un cristianesimo libero, leggero, danzante: «In quella singolare fase della storia italiana che fu il Duecento – scrisse – il puer Francesco d’Assisi dovette confrontarsi con il senex Innocenzo III e, più in generale, con l’Ordo della società teocratica. Un pericoloso popolo di fanciulli emerse d’improvviso in Europa, ma l’Ordo provvide a riassorbire in sé la minacciosa primavera. La necessità è dalla parte del senex, al puer resta il compito di spezzare, almeno per un attimo, la catena della ne- cessità».

Balducci fu e rimane, nella memoria di chi l’ha conosciuto, un uomo inedito, non esplicitato, un uomo che a settant’anni sapeva ancora emozionarsi davanti a diecimila pacifisti all’Arena di Verona. L’ultima immagine che ho di lui è l’abbraccio con David Maria Turoldo, visibilmente ammalato. In mezzo a quella folla colorata Balducci gli mormorò: «Sono gli angeli che ti annunciano il paradiso». Pochi mesi dopo, Turoldo morì e Balducci celebrò il suo funerale. Ma passarono poche settimane e la forza di Balducci non poté nulla di fronte all’incidente auto- mobilistico che gli accadde nei pressi di Cesena. In uno dei suoi ultimi interventi radiofonici aveva par- lato d’amore «… perché siamo chiamati da una pressante necessità della stessa sopravvivenza del genere umano a sperimentare una forma di amore che arrivi fino ad assumersi il destino degli altri. Mentre parlo, ho dinanzi agli occhi innumerevoli presenze di uomini che vivono così. Ma chi ne parla? Le nostre cronache parlano di bizzarrie altolocate. Ma di questi uomini chi ne parla? È giusto che sia così? Ma in questo Vangelo segreto che continua ad essere scritto, è nascosto il mistero dell’uomo e, insieme, è nascosto il mistero di Dio».

 

Ed ecco il video sull’evento di Verona…

 

Ricordando Eugenio

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di Piero Murineddu

Meglio mangiare una cipolla dividendola con altri che da soli una “fiorentina”. 

Conosciamo tutti questo detto, con tutte le varianti locali, nato dalla saggezza e pratica della povera gente che, se applicato particolarmente nei rapporti tra Paesi e Nord e Sud del pianeta, non avremmo la continua sensazione di esser seduti su una Polveriera che puó scoppiare da un momento all’altro. Perché, stringi stringi, se viviamo in un continuo stato di tensione, il motivo primo é l’ingordigia di certi a danno di altri.

Oggi, 21 settembre, se l’irrimediabile male fisico che l’aveva aggredito da diverso tempo e che ha definitivamente prevalso su di lui lo scorso 27 ottobre, Eugenio Melandri avrebbe compiuto 72 anni, e nella ritrovata veste di prete che era stato costretto a lasciare poco meno di trent’anni fa, il moto che sentiva e vedeva vissuto in casa sin dalla tenera età, avrebbe continuato ad applicarlo in prima persona, oltre che invitare altri a fare altrettanto.

Cardenal e Giovanni Paolo II

In seguito, il diverso parere di papa Bergoglio portó a “riabilitare” sia Cardenal e sia, ancor prima, Miguel D’Escoto. A significare che le leggi della Chiesa non sono eterne, a differenza del Messaggio Originario, sempre nel 2019 papa Francesco, prendendogli le mani e riferendosi alla decisione MOLTO COMBATTUTA di accettare la candidatura ad europarlamentare, disse ad Eugenio:

“Hai fatto bene!”

 

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Scrivendo della vicenda, dicevo  tempo fa della reazione oltremodo contrariata avuta dalle numerosissime “sentinelle” della (per loro) intoccabile Tradizione cattolica, schiumanti di rabbia contro Francesco, considerato imperdonabile per tale gesto così in controtendenza con quasi tutti i suoi predecessori, che consideravano ogni dissenso come rottura dell’unitá del Corpo e non come stimolo di purificazione dalle tante sovrastrutture legalistiche e precettuali che nel tempo hanno appesantito l’Insegnamento del Cristo.

Come uso fare quando vengo colpito da particolari passaggi di una certa forza, man mano che si procede nella lettura che segue di quella missiva indirizzata a Giovanni Russo Spena, scritta in linguaggio tuttaltro che politichese da Eugenio, si vedono frasi sottolineate o in grassetto. Ecco, su queste avrei voluto commentare, ma evidentemente le cose andrebbero troppo per le lunghe, per cui mi limito a consigliare di leggere  senza nessuna fretta e con la massima attenzione. Ogni parola e frase di Eugenio riflettono tutto il suo essere, e sono certissimo che hanno da dire molto anche sul tempo attuale.

 

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“I sognatori sanno spaziare anche oltre il visibile”

 

Carissimo Giovanni,

la tua lettera, con la proposta di candidatura come indipendente alle prossime elezioni europee nelle liste di Democrazia Proletaria, ha messo in moto dentro di me tante considerazioni e tanti interrogativi.

La tua proposta infatti, se da una parte mi fa onore, dall’altra scatena in me una miriade di pensieri contrastanti, tante suggestioni.

Cerco di mettere il tutto per iscritto, in modo anche da saperlo ordinare.

Cosa può voler dire per me fare il parlamentare europeo? Cosa, poi, accettando una proposta che mi viene da democrazia proletaria?

E tutto questo che conseguenze può portare nel mio impegno e nella mia testimonianza? La risposta non mi appare chiara, anzi, più passa il tempo e più prendo in considerazione questa eventualità, più diventa problematica.

È vero che ogni scelta non è mai chiara agli inizi.

La vita in fondo è una scommessa sulla quale ognuno è chiamato a giocare se stesso e le sue convinzioni.

Così ogni scelta diventa rischiosa e la si chiarisce solo con il tempo, mentre la si vive. Tu un po’ mi conosci sai che sono. Sono innanzitutto una persona che crede fermamente in alcune cose alle quali è giunto attraverso una serie indecifrabile di circostanze.

Credo sia indispensabile “inventare” una cultura nuova, capace di rispondere in maniera innovativa alle sfide e ai drammi del nostro tempo.

Una cultura quindi che sia elastica, che pure stando aggrappata alla propria identità, sappia mettersi continuamente in questione, per creare quelle condizioni che rendano possibile e vivibile la vita di tutti.

È da questa cultura nuova che deve nascere una politica nuova, un’ economia nuova, un nuovo modo di gestire la propria vita, di vivere sia le scelte piccole nel quotidiano, sia le grandi scelte che chiamano in causa il presente ed il futuro dell’umanità. Ho parlato di “invenzione” perché credo che si tratti di qualcosa di radicalmente diverso.

Non dobbiamo, ho scritto nell’appello per la costituzione di un movimento di disarmo unilaterale, riformare il sistema di guerra ma inventare un sistema di pace.

In questo quadro di riferimento tutti sono posti in questione e tutti siamo in fallo.

In ritardo.

Perché ci sono drammi umani ed ambientali che oggi domandano una totale messa in discussione delle persone verso se stesse, verso la natura, verso altri e, se credenti, verso Dio.

È richiesta una vera propria rivoluzione copernicana.

Non è certo il caso di stare specificare tutto ma la ricerca non può che essere globale e porre le basi di una nuova concezione della vita stessa.

A questo convinzioni io sono arrivato partendo dalla mia fede nel Gesù di Nazareth e dalla scelta di essere padre missionario.

Sono sempre stato convinto che ai credenti tocchi la responsabilità di dire una parola (che poi si fa vita) chiara di fronte alle grandi contraddizioni che caratterizzano il nostro tempo.

Mi è sembrato di capire che la missione oggi è sfida a “fare nuove tutte le cose.”

A rinvenire tutte le schegge di vita che cercano di farsi strada in questa storia tormentata.

A dire una “buona notizia” sul presente e sul futuro del mondo.

A proclamare una speranza, che diviene denuncia di tutto ciò che va contro il progetto di vita che Dio ha pensato per il mondo.

Ciò significa innanzitutto capacità di disobbedire agli assunti su cui si regolano la politica, l’economia, la vita stessa.

Oggi infatti siamo posti di fronte ad alcuni nodi storici che vanno affrontati abbandonando gli schematismi logori del passato. Primo fra tutti quello del rapporto tra il Nord e il Sud del mondo.

Se qui da noi anche tutto andasse bene, saremmo ugualmente in una situazione di peccato perché condanniamo la gente del sud del mondo a vivere in condizioni disumane.

Io non ho la soluzione in tasca ma sono convinto di una cosa: i poveri sono il giudizio vivente che condanna il nostro sistema.

Perché chi crede, sono essi che ci giudicheranno nell’ultimo giorno. Vent’anni fa Paolo VI, nell’enciclica “Populorum progressio”, lanciava un monito molto grave: “Ostinandosi nella loro avarizia i ricchi provocheranno il giudizio di Dio e la collera dei poveri.”

Oggi la minaccia si fa sempre più reale e pone interrogativi di enorme portata a tutte le persone preoccupate di creare un mondo vivibile. Se tra Est e Ovest è possibile trovare, spesso in forme demenziali, penso alla politica del riarmo, forme di coesistenza, tra Nord e Sud non è possibile coesistenza pacifica se non cambiano le regole del gioco

Di qui la necessità di uno “sviluppo sostenibile” che domanda un cambiamento radicale della nostra vita-Contro la fame cambia la vita- e che pone sotto giudizio i rapporti tra le nazioni e lo stesso diritto internazionale, che gioca sempre a favore dei più forti.

È il modello di sviluppo basato sulla violenza che deve essere del tutto reinventato.

Violenza sulla natura, violenza dell’uomo sull’uomo.

Bisogna riscrivere tutte le regole del gioco a partire dai più poveri.

È solo partendo da loro che è possibile riscrivere una politica che non sia sempre a vantaggio dei privilegiati i quali si accorgono dei grandi problemi del mondo solo quando sono posti in crisi i loro privilegi.

Non può esserci pace vera che non parta dai poveri, ne impegno ambientale serio che non parta dai poveri.

Pace, sviluppo e salvaguardia del creato diventano allora – guardati con gli occhi dei poveri – l’unica grande sfida che tocca all’umanità alle soglie del III millennio.

E tutto questo deve essere fatto con una logica nuova.

Quella che assume come metodo di lavoro la non violenza intesa come nuovo modo di affrontare la vita, ricerca incessante della verità, base da cui partire nella gestione di qualsiasi forma di conflitto.

Da queste convenzioni che qui ho riportato schematicamente sono scaturite le mie scelte di questi anni.

Ho tentato di giocare la mia identità e la mia fede nella storia, cercando, come potevo, di interpellare dal basso situazioni e la politica.

Mi sono scoperto così, anche senza volerlo, far politica nella società, fuori dal palazzo.

La cosa bella che ho scoperto in questi anni è stata la mia libertà.

Non essendo di nessuno, ho potuto trovarmi con tutti.

Ho incontrato persone o gruppi di diversa estrazione sia culturale che religiosa o politica.

Con loro ho percorso lunghi tratti di strada, ho condiviso ideali e lotte.

Ho sperimentato quella trasversalità di cui tanto si parla.

Ho capito che nella società non esistono quelle rivalità e quei ghetti che tanto spesso contraddistinguono la classe politica.

Fra questi compagni di strada molti anche di Democrazia proletaria.

Con loro, come con altri, ho condiviso iniziative politiche, momenti di impegno e spesso anche amicizie e ideali.

Tuttavia mai mi sono identificato con D.P. in quanto tale.

Su varie cose, anzi, sono in aperto dissenso, che come può immaginare nasce anche dalla mia provenienza, da quella che mi piace chiamare la mia storia. Che poi è la mia fede.

Non c’è nulla di strano quando ciò avviene in un rapporto non istituzionale.

Qualcosa di strano c’è invece quando ciò si verifica all’interno di un rapporto più stretto come quello che tu mi proponi.

E qui salta fuori l’indipendenza.

Vorrei dirti che per me essa è indispensabile, anche perché io sono tendenzialmente un disobbediente.

Devi sapere, quindi, che fai questa proposta a qualcuno che la propria indipendenza la vivrà sul serio. In una parola, non sarò io che dovrò fare i conti con DP, ma è DP che dovrà fare i conti con me.

Ti dicevo prima che in questi anni ho sperimentato quella libertà che, proprio perché non ero di nessuno, mi ha fatto incontrare con tutti.

So che accettare, anche se come indipendente, la candidatura offertami da un partito, di fatto chiude strade al dialogo, possibilità di incontro.

Questa per me è la più grande remora che mi porto dentro rispetto alla proposta che tu mi fai.

So che dovrò dimostrare con le scelte di avere come mia unica parte solo quella della povera gente.

In proposito voglio dirti anche che sto seguendo molto il dibattito scaturito dall’appello per un’unica lista in occasione delle elezioni per il Parlamento Europeo. Nel mio lavoro di questi anni, come ti dicevo, ho incontrato persone di provenienza diversa, che va ben oltre alle attuali diversificazioni partitiche, tutte impegnate nella stessa ricerca.

Con tutti mi sono trovato bene.

Il fatto stesso che i Verdi mi facciano la stessa proposta fattami da DP mi sembra un segno di questa posizione.

Se alla fine ho deciso di accattare la tua proposta, questo nasce soprattutto da motivi di amicizia.

Ma domani, pur trovandomi in una posizione diversa, vorrei continuare ad essere segno più di unità che di divisione. Anche perché i problemi presenti nella società, quelle sfide di cui ti parlavo prima, chiedono la scomposizione di ogni forma di cristallizzazione e la capacità da parte di tutti di lasciarsi attraversare, quasi di “farsi rifondare”, dalle nuove domande che provengono dalle cose stesse.

Non per niente sopra parlavo di “cultura nuova” che deve stare alla base di una politica nuova.

Ma i problemi non sono finiti.

Cosa andrei a fare al Parlamento Europeo? Tu sai molto bene che io non ho alcuna esperienza di politica a livello istituzionale.

Certo, se fossi eletto, studierei la situazione e cercherei di fare con assiduità il mio dovere.

Ma devi sapere che “il lupo perde il pelo e non il vizio” per cui, in fin dei conti, continuerei a fare le stesse cose di prima. In una parola, sarei più un parlamentare di strada che di palazzo, cercando di approfittare di quella posizione per fare meglio, con più competenza, il lavoro svolto finora.

E qui si inserisce un’altra esigenza.

So che il Parlamento Europeo mette a disposizione molto denaro e lo ritengo un fatto scandaloso.

Ci sono persone che si arricchiscono facendo politica. È un insulto alla gente, soprattutto ai poveri del mondo.

Io vorrei “restituire” questo denaro, usandolo per un progetto di lavoro rivolto soprattutto di terzomondiali che bussano alla porta del nostro paese.

Si potrebbe, ad esempio, pensare ad una casa di prima accoglienza, dove io stesso potrei vivere con loro.

Accanto a questa casa potrebbe sorgere un centro di aiuto legale e di studio accurato del fenomeno.

È un progetto embrionale che dovrà essere studiato meglio e potrebbe partire subito dopo le elezioni.

Caro Giovanni, nella tua lettera scrivi che ci sono dei momenti in cui bisogna scommettere.

Sai che questa scommessa per me rappresenta un salto notevole che può mettere in discussione tutta la mia vita.

Io sono un prete e sono missionario e non vorrei in nulla mettere in questione la mia identità.

So che la mia scelta porrà a tanti dei problemi e che non sarà certo priva di conseguenze.

Le ho valutate.

Credo tuttavia che ci sono dei momenti in cui ognuno è solo con se stesso ed è chiamato a scegliere rischiando anche tutto.

Io sono convinto, infatti, che oggi uno dei luoghi da evangelizzare sia proprio la politica ed è con questo intendimento che sono pronto ad accettare questa scommessa.

Il mondo che spesso sogno e per il quale vorrei spendere la mia vita non è un mondo di uguali.

Sarebbe noioso e privo di movimento.

E’ un mondo fatto invece di tanta gente diversa che sa vivere questa diversità come ricchezza e sa metterla a disposizione della costruzione di una vita più umana per ogni donna e per ogni uomo, in questa terra che secondo il progetto di Dio è la casa di tutti.

Avrai capito che non mi piacciono le “chiesucole” e che invece mi pare indispensabile lanciare ponti di dialogo e di collaborazione con tutti.

Ogni persona umana, al di là delle provenienze diverse, è una ricchezza. D’altra la sfida che oggi ci è posta davanti è quella di una società solidale dove “tutti siano veramente responsabili di tutti”.

Con questo spirito, vorrei che la mia candidatura rappresentasse un momento unitario e fosse motivo per richiamare sia la cosiddetta maggioranza che la cosiddetta minoranza, di un piccolo partito come DP, a cercare le vie migliori del dialogo e della collaborazione, cercando di far leva sui punti di incontro per superare i punti di divisione.

Caro Giovanni, nella tua lettera mi chiedi di “sognare” con voi.

I sognatori, lo sai, sono pericolosi, non sono funzionali al sistema, perché si ostinano a sperare contro ogni speranza, a credere altro, a pensare altro.

I sognatori sanno spaziare anche oltre il visibile, sanno vedere i frutti già presenti nei piccoli semi.

I sognatori non si adattano a piccoli compromessi di bottega e, anche quando fanno delle piccole scelte, tengono sempre presente il punto d’arrivo.

Queste settimane sono state per me è difficili.

Ho, in un certo senso, ripreso in mano tutta la mia vita.

Ho cercato di fare il punto su me stesso, sui miei ideali e sui motivi che mi hanno spinto, ormai 15 anni fa, a diventare prete e missionario.

Mi sono accorto che in questi anni nessuno di quegli ideali è venuto meno. Che il sogno che avevo allora lo conservo ancora intatto dentro il cuore.

Se accetto questa tua proposta è per portare avanti quel medesimo sogno su una strada difficile che forse molti non comprenderanno.

Ma la vita è rischio e accetto, con un po’ di paura ma anche con tanta voglia di dare voce a tutti quei sogni che mi porto dentro.

So che, condividendoli con altri, sapremo trovare insieme la strada perché diventino davvero realtà.

Ti ringrazio

Eugenio Melandri

 

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Un mesetto dopo il decesso, venne creato a Roma un opportuno convegno, dall’atmosfera molto “famigliare”,  dove, membri di associazioni, amici, compagni di scuola e persino il fratello, parlarono di Eugenio dal loro punto di vista. Tre ore di registrazione che sicuramente quanto prima prenderò in considerazione. Un’occasione forse unica per conoscere quel che é stato questa veramente Onorevole persona. Dal video ho tolto a parte in cui viene riportata la lettera in questione. Copia e incolla questo collegamento:

http://www.radioradicale.it/scheda/590876?i=4065718

Anni venti, complicati e promettenti

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di Marco Tarquinio

 

Tra oggi e domani mattina si vota. Nonostante il coronavirus. Con quali impacci e quali esiti vedremo. Siamo convocati ai seggi per un referendum costituzionale sul “taglio” dei nostri rappresentanti alla Camera e al Senato. Insieme milioni di noi voteranno per assemblee e organi di governo in sei Regioni e in 962 Comuni. È una nuova festa della democrazia. Ma i calanti indici di partecipazione di questi anni ci dicono che tanti non si sentono invitati e non la vivono più così. Brutto segno. Quando in una società sempre più persone si sentono spinte ai margini, ininfluenti, indifferenti, arrabbiate o comunque disilluse dal serio gioco democratico c’è da preoccuparsi. E parecchio.

Stiamo infatti entrando in Anni Venti che si annunciano complicati e promettenti come tutti i tempi di crisi. I nostri nonni li vissero un secolo fa, e quelli furono durissimi. Anche allora tanti non parteciparono (le donne neanche potevano). Alcuni marciarono, altri ci marciarono, e il mondo finì in un incubo totalitario. L’immane tragedia che cominciò nel momento stesso in cui la democrazia sembrò a troppi non il migliore ma il peggiore dei sistemi possibili per dare risposte alle domande di sicurezza e di benessere. Un incubo nero, nel cuore dell’Occidente europeo. E insieme un incubo rosso, alla sua grande periferia d’Oriente.

Stavolta abbiamo davanti una prospettiva che non è sogno, ma che è segno e sfida. E che forse ci porterà a non ripetere errori e orrori e a soccorrere miserie e insicurezze. È una prospettiva verde. Verde come i piani «green» che l’Europa e le sue principali nazioni – Italia inclusa, Germania in testa – devono saper realizzare per ricominciare la propria storia sociale ed economica con generoso realismo e secondo giustizia per persone, comunità e ambiente. Verde come il colore delle tasche vuote dei milioni di “scartati” nel rovinoso trionfo delle disuguaglianze frutto delle logiche di un capitalismo predatorio e, per sovrappiù, sotto i colpi di maglio della pandemia più annunciata e meno attesa.

Che c’entra questo con il voto di oggi e domani? C’entra come ogni occasione da non perdere per fare più forte la nostra democrazia, senza dare per scontato che sia salda ed eterna. Certo, non pochi dicono che questo voto deciderà la sorte del governo Conte. Troppo e niente. Questo voto dirà di certo una parola sulle riforme sinora impossibili (perché abortite o bocciate) in un’Italia che merita nuovo equilibrio nelle proprie istituzioni. Cominciare con meno rappresentanti del popolo è giusto o no? E dirà una parola sull’amministrazione di territori importanti, non su chi sta governando mesi cruciali da Palazzo Chigi. Teniamolo a mente, dando corpo e senso alla partecipazione. Ognuno faccia, in coscienza, quel che deve. E accada quel che di buono può.

Don Roberto sta tutto nelle sue braccia spalancate e nel suo sorriso

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Ascoltando la notizia rimbalzata sulle pagine di tutti i media, mi sono venute alla memoria le parole di Don Enzo Boschetti fondatore della Casa del Giovane di Pavia… “la strada rappresenta il nuovo e il rischio: vi si incrociano il bene e il male, l’aggressività e la violenza, la benevolenza e l’amicizia, la povertà più miserevole e la ricchezza più sfacciata, l’accoglienza più aperta e lo scherno più ironico. Vi si trovano gli imprevisti, gli incidenti e gli incontri più veri”.

Con queste poche righe voglio ricordare un mio caro confratello che per la sua passione per le persone ha veramente dato tutta la sua vita.

Lo ricordo giovane ragazzo quando anche io fui destinato al paese di Regoledo. Per poco tempo in verità, solo due anni. Un periodo breve ma intenso in cui Roberto era molto assiduo nel frequentare l’oratorio e nel darmi una grande mano.

Molto timido lui e molto riservato anche io, al punto tale che non abbiamo mai fatto delle grandi riflessioni insieme sulle nostre scelte. Anche se uguali, e dico uguali perché tutti e due, lui in quel di Como ed io in Valtellina, abbiamo scelto quelle persone che stanno ai margini, che vivono sulle strade delle città e della vita. Quelle persone che nessuno accoglie, quelle per le quali varrebbe la pena ripensare le modalità di accoglienza: forse questo prete lo abbiamo lasciato troppo solo in un compito così grande.

Don Roberto è sempre stato testimone dell’amore che riscontriamo nel Vangelo, un amore radicale anche a rischio della vita e così è stato. Forse qualcuno dovrà chiedersi: ma di chi è la colpa di questo omicidio? Perché anche da parte di noi preti dovrebbe esserci una maggiore solidarietà e una riflessione più seria a livello politico e sociale sulle problematiche legate alle persone fragili. Perché ci troviamo tutti d’accordo sull’accogliere ma l’accoglienza deve essere responsabile e intelligente.

Questo omicidio senz’altro ci richiama a un pensiero più serio e a decisioni più credibili e spero che nessuno usi questa situazione per farne un cavallo di battaglia per i propri interessi. Don Milani direbbe a questi tali: “Fa strada ai poveri senza farti strada con i poveri”. Purtroppo non sempre è così!

Ho letto tante cose sui social, alcune non sono degne neppure di essere ricordate ma di altre è bene fare tesoro tutti, perché alla fine tutti abbiamo bisogno di convertirci.

Vorrei anche prendermi la responsabilità di dire che Don Roberto era sì un prete di strada, o di una chiesa in uscita come dice Papa Francesco, ma è pur vero, e preferisco questa definizione, che è stato un prete che ha vissuto radicalmente il Vangelo e ci esortava ad andare incontro ai poveri, a chi ormai aveva perso la dignità di persona.

Un altro aspetto che mi fa pensare all’amore che Don Roberto aveva per questa Chiesa sono proprio quelle braccia spalancate. Come a dire: ci sono per tutti e nessuno può essere escluso da questo abbraccio. Questo abbraccio è come quello del Cristo sulla croce.

E poi ancora quel sorriso così sereno, non un sorriso ostentato ma sincero. Perché per lui fare quello che faceva era non un obbligo ma la sua vocazione, era la gioia per quell’ultimo del banco. Un sorriso che resterà per sempre nella mia mente e nel cuore di tante persone che l’hanno amato, aiutato, alcune volte deriso per la sua generosità e altre volte contestato per la sua disponibilità. Magari le stesse che ora però lo ricordano con affetto.

Mi chiedo sempre perché solo quando una persona ci lascia, allora comprendiamo la bellezza della sua amicizia. Il valore della perdita ci colpisce al punto tale che anche chi fino a ieri l’ha contestato oggi siede nei primi banchi a pronunciare parole di elogio.

Questo mi fa tanto pensare. Voi non so cosa pensiate ma forse è meglio agire, ancora una volta agire perdonando ogni atteggiamento e andando avanti verso i poveri.

Mi piacerebbe che questo sangue versato nella terra comasca potesse far fiorire tante persone che sull’esempio di don Roberto si impegnino a vivere prima di tutto da veri fratelli. Da uomini che vogliono creare un mondo diverso dove tutti si sentano accolti, perdonati, valorizzati nella loro diversità perché comunque questa è la vera richiesta di questa umanità. Per questo la nostra Chiesa deve essere sempre in cammino verso questa povera umanità portando condivisioni di giustizia e onestà. L’esempio di don Roberto non ci lascerà dormire notti tranquille se non avremo durante la giornata della nostra vita fatto qualcosa per il nostro fratello.

*Responsabile Comunità pedagogica La Centralina e amico di don Roberto

“Il dono di don Roberto a noi giovani”

Tanti giovani in questi anni hanno seguito don Roberto Malgesini sulle strade di Como. Due sere al mese, 130 ragazzi si trovano a pregare insieme e poi partono per i tanti letti a cielo aperto della città, col solo desiderio di incontrare e amare. Lo chiamano semplicemente “il giro”. Sedersi per terra, guardarsi negli occhi, chiamarsi per nome. Uno di loro, Samuele, ricorda don Roberto: «Ci ha mostrato cos’è una vita immersa nell’amore. Lo stile che don Roberto ci ha insegnato nello stare con le persone è questo, defilato, non da prima pagina. Lui è morto come è vissuto, come un totale dono di sé. Non poteva darci testimonianza più bella, quella di un padre che dà totalmente la vita per i suoi figli e in questo dono fa scoprire al mondo e agli altri che cose è l’amore e – paradossalmente – qual è il senso della vita: amare attraverso il dono di sé».

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Samuele Casartelli pronuncia ogni parola con cura e con amore. Ha 24 anni e quando ne aveva 15 proprio insieme a don Roberto Malgesini ha iniziato a fare volontariato. È uno dei membri di “Legàmi”, un gruppo di giovani e giovanissimi che ogni primo venerdì e ogni terzo sabato del mese, da anni, fa “il giro” della città di Como per incontrare persone senza dimora e migranti.

Ci si trova nella chiesa di Santa Cecilia, accanto al Liceo classico di Como, il Volta, e dopo un primo momento di incontro ci si divide in piccoli gruppi, ciascun gruppo ha un accompagnatore e una meta: si visitano le strutture di accoglienza cittadine ma anche i rifugi di fortuna e i letti a cielo aperto. Si va con una fetta di torta e un bicchiere di tè. Si va per incontrare e dare risposta al bisogno universale di umanità. Sedersi per terra, guardarsi negli occhi, chiamarsi per nome. Legàmi – i ragazzi hanno scelto un logo semplice, una scritta nera con la A scritta a mano, accentata, «che rappresenta quel valore unico che ciascuno aggiunge: perché ciò che conta è l’amore che ci si mette nel fare le cose», spiegano sul sito – è partito una decina di anni fa e oggi sono una quarantina i giovani del gruppo organizzativo, con 120/130 ragazzi coinvolti ogni mese, dai 16 anni in su.

Samuele oggi vive a Casa Legàmi, nel quartiere di Camerlata, un’esperienza di abitare generativo nata a marzo dello scorso anno per fare dell’accoglienza la dimensione centrale del quotidiano.

I suoi primi passi accanto a don Roberto li ricorda così: «Avevo qualche amico che già faceva volontariato. Le colazioni al mattino, la mensa serale in via Tommaso Grossi, il dormitorio, l’unità di strada… Per me la sua persona è stata molto importante, mi ha aiutato a imparare uno stile nello stare con le persone che è lo stile che ora tutti riconoscono in don Roberto: dritto al cuore delle persone ma allo stesso tempo semplice, defilato, non da prima pagina. Infatti sono un po’ imbarazzato a fare questa intervista, che spero davvero non venga travisata. Quello che don Roberto ci ha lasciato, come Legàmi, è stato prima di tutto la testimonianza di una vita immersa nell’amore. È come se lui avesse conosciuto e gustato l’amore che scaturiva dall’incontro con le persone più povere e volesse ogni giorno entrare sempre più nelle profondità di questo amore per condividerlo anche con noi giovani. Voleva, con la sua vita, farci scoprire come sia proprio l’amore che riempie la vita e le dà un senso. Questa è la cosa più bella e più grande che ci ha dato».

Insieme alla certezza che solo l’amore riempie la vita, c’è la forza della testimonianza della sua morte: «Noi non crediamo che la morte di don Roberto – pur rimanendo una tragedia che si poteva e si doveva evitare – abbia l’ultima parola sulla sua vita. Vediamo già dei frutti buoni che stanno nascendo nelle persone che raccontano la sua storia, che hanno reagito in modo forte e bello. Speriamo che davvero questa morte non sia invana anche dal punto di vista delle politiche sociali cittadine, speriamo che la sua testimonianza non venga lasciata cadere nel vuoto», dice Samuele. «Ora però è ancora il tempo del silenzio e dell’ascolto, per capire come ricominciare al meglio a patire dalla testimonianza che don Roberto ci ha dato. È il tempo di metterci umilmente in ascolto tutti insieme, come ha detto anche ieri Roberto Bernasconi, il direttore della Caritas, perché se restiamo divisi e frammentati non potrà nascere gran che di buono».

 

Referendum: perché l’Espresso dice NO

 

di Marco Damilano

Un lettore ci scrive:
«Caro direttore, mi chiamo Giorgio Pregheffi e sono un abbonato dell’Espresso da oltre 40 anni. Le confermo la mia stima, tuttavia in questo caso la mia voce è critica. Sul referendum L’Espresso ha preso posizione per il No, perché? Qui non siamo in presenza di un referendum come quelli per l’aborto e il divorzio, dove prendere posizione era una battaglia di civiltà. Qui è un esercizio di democrazia ed è giusto che un grande settimanale si limiti a registrare le varie posizioni. E basta. Anche perché l’ipotesi che il Movimento 5 stelle ne faccia una battaglia per chissà quali reconditi motivi è farlocca. Si attribuisce a un movimento che ha dimostrato di non avere abbastanza intelligenza una strategia sottile che è pura fantasia. La verità è che ridurre i parlamentari è un’operazione meritoria, tanto è vero che illustri giuristi e costituzionalisti (Cassese e Onida, tanto per fare due nomi che sono più quotati di chi dice No) la sostengono. E lasciamo perdere la storia del risparmio di un caffè al giorno (fra l’altro è qualcosa in più perché i costi indotti nessuno li ha calcolati), perché è solo una sciocchezza, uno spreco è uno spreco e vale sempre la pena eliminarlo. Oltretutto le argomentazioni da voi riportate a favore del No non è che siano così precise. Cuperlo, ad esempio, dice: “Oggi per eleggere un deputato servono 96 mila cittadini, dopo la riforma ce ne vorrebbero 151 mila”. È una bestialità: oggi per eleggere un parlamentare possono bastare anche 3.000 voti (dipende dal collegio e dal partito), semmai quei numeri si riferiscono alla rappresentanza. E a proposito della rappresentanza, le Sardine dicono che la Basilicata rischia di non avere un proprio rappresentante. Dispiace, ma mi chiedo: dov’è il problema? Ogni parlamentare rappresenta tutti gli italiani e fa gli interessi di tutti. In passato sono stati tanti i danni prodotti da parlamentari preoccupati di fare solo gli interessi dei propri elettori. In buona sostanza, votare Sì o No, è un libero esercizio di democrazia e come tale va rispettato. Vorrei poi sottoporre a lei direttore una domanda: quale è stata la percentuale media di presenze alla Camera e al Senato negli ultimi anni? Se la risposta è quella che io temo, ridurre il numero dei parlamentari è un atto dovuto. E per favore, smettiamo di dire che si vuole difendere la Costituzione. Per me la Costituzione italiana è un vero capolavoro, ma tanti, troppi parlamentari nei fatti non l’hanno mai difesa. Per cui evitiamo la retorica e la demagogia».

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Così mi ha scritto il 7 settembre Giorgio Pregheffi, appassionato e fedelissimo lettore di Reggio Emilia. Non è stato l’unico a manifestarmi il dissenso per la posizione presa dall’Espresso già il 28 giugno di voto contrario al referendum costituzionale sul taglio del numero dei parlamentari, in largo anticipo rispetto al dibattito di queste ultime settimane. Lo ringrazio in pubblico, dopo averlo fatto in privato, e con lui tutti i lettori che ci hanno scritto per esprimere simili perplessità sul nostro schierarci (non moltissimi, in verità).

Dico subito che non è una novità, in 65 anni di vita (li compiremo il 2 ottobre!) L’Espresso ha sempre preso posizione: in difesa dei diritti civili, delle libertà, della Costituzione. Lo dimostrano le copertine che pubblichiamo in questa pagina: non solo il referendum sul divorzio (1974) contro il fronte clericale, o quello sull’aborto (L’Espresso si fece promotore di un referendum per abrogare le norme che punivano l’interruzione della gravidanza, prima che il Parlamento approvasse la legge 194 nel 1978), o quello per cancellare la legge sulla fecondazione assistita (2005), oggi smantellata dalle sentenze delle corti nazionali e europee dato che quel referendum non raggiunse il quorum. L’Espresso si è schierato sulla responsabilità civile dei magistrati (1987), sul nucleare (1987 e 2011), sull’acqua pubblica (2011). E sul referendum sulla preferenza unica per l’elezione dei deputati del 1991, il primo di quelli promossi da Mario Segni, quando Bettino Craxi consigliò di far mancare il quorum e di andare al mare, con lui c’erano i leader di quasi tutti i partiti (compresa la Lega di Umberto Bossi, all’epoca una novità per la politica italiana), quasi ventisette milioni di elettori votarono Sì e cambiarono la storia. Ma ancora di più, a ripensarci, vanno ringraziati quegli elettori (un milione e due) che votarono No: non erano d’accordo con il referendum, ma lo manifestarono con il voto, con la partecipazione, vincendo la pressione di chi li voleva far restare a casa.

Questo referendum sul taglio dei parlamentari mi sembra abbia lo stesso valore: si vota su un aspetto in apparenza marginale e scontato, portare i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200, e con tutti i principali partiti schierati ufficialmente per il Sì a un cambio della Costituzione che è stato votato dal 97 per cento dei deputati nell’ultima votazione della Camera. Fino a qualche settimana fa il referendum sembrava un passaggio scontato: chi avrebbe potuto immaginare che qualcuno si sarebbe opposto a una scelta così banale? Ecco il primo merito di chi come noi si è schierato per il No. Senza qualcuno che dicesse No, il referendum sarebbe passato in silenzio, i sostenitori del Sì non hanno fatto campagna elettorale. Il taglio del 36,5 per cento dei parlamentari, il cambio della Costituzione, sarebbe stato approvato con un plebiscito, senza discussione. Uno scenario da brivido.

Sono le ragioni del No che hanno permesso anche alle ragioni del Sì di esprimersi. Si possono legittimamente avere posizioni diverse, condivido l’opinione di chi sostiene che in questo voto non c’è nessun scontro epocale. È vero, semmai è un dibattito tipico di questa stagione fredda, chirurgica, cui ai politici è stata attribuita la responsabilità di ogni male, mentre i tecnici o i professionisti come il premier Giuseppe Conte – acclamato alla festa dell’Unità senza che abbia mai manifestato un principio o una scala di valori che motivi le sue scelte – si auto-attribuiscono ogni merito.

Ai cittadini interessano l’inizio delle lezioni scolastiche, la messa in sicurezza del proprio posto di lavoro, la crescita mancata dell’Italia negli ultimi decenni. Ma ogni votazione in democrazia è un’occasione, non un atto dovuto. E anche in questa occasione, come nelle precedenti, un grande settimanale come L’Espresso non può limitarsi a «registrare le posizioni». Un giornale non è un semplice barometro, il giornalismo deve avere l’ambizione di dare strumenti di informazione e di critica, di interpretare l’opinione pubblica e a volte di anticiparla, di incidere. In questo caso L’Espresso ha avuto il merito, insieme ad altri, di aver contribuito ad aprire un dibattito sul cuore della questione che non è il numero degli eletti, una concezione contabile della politica, ma il ruolo del Parlamento e delle istituzioni e la parola magica di ogni democrazia, la rappresentanza. Mortificata, offesa, ferita a morte. Prima di tutto dagli stessi rappresentanti del popolo che hanno fatto di tutto per tradirla: indifferenza e disprezzo per la parola data agli elettori, promesse capovolte, asservimento a poteri occulti e criminali, corruzione. Nonostante questo, la rappresentanza resta essenziale per la vita democratica di un Paese.

“No taxation without representation”, ricordate? Non c’è tassazione senza rappresentanza, è la sintesi che la rivoluzione americana fece secoli dopo del principio fissato una volta per tutte dalla Magna Charta Libertatum, 1215! Nessuna imposta può essere applicata dal Re se non è approvata dal Concilio del Re, ovvero da una camera di rappresentanza, l’embrione dei futuri Parlamenti nelle democrazie moderne. Oggi quel principio è calpestato. Dalla trasformazione dei partiti in macchine di privilegi, dall’inutilità delle assemblee legislative, dalla preminenza degli esecutivi, esaltata anche dall’emergenza covid. E dallo spostamento delle decisioni negli organismi sovranazionali: l’Europa dove, va detto, il prestigio e l’influenza del Parlamento europeo sono aumentati anche per merito dell’attuale presidente David Sassoli. E cresce nei cittadini, non solo in Italia, la spinta a rappresentarsi da soli, la voglia di fare da soli. In materia di sicurezza, giustizia, in materia di tasse, con il rifiuto delle imposte, il boicottaggio, la rivolta fiscale, l’evasione diffusa che si giustifica con l’alibi dello Stato sprecone, lo Stato che è il problema e non la soluzione come disse giusto quaranta anni fa Ronald Reagan (salvo poi, in tempo di covid, ritrovarci tutti a reclamare una sanità e un’istruzione pubblica pienamente funzionante, sussidi per le imprese e per i lavoratori). E c’è la richiesta di democrazia diretta che dovrebbe consentire ai cittadini di intervenire su tutte le questioni sensibili, senza delegare a nessuno le decisioni.

Il mio No al referendum è un Sì alla democrazia
Nella realtà, si rischia di allargare la lacerazione, l’impossibilità di riportare a un filo comune il mosaico degli interessi particolari, sempre più feroci, sempre meno disponibili a conciliarsi con gli interessi degli altri. Risultato: la Res Publica, la Cosa di tutti, si avvia a diventare una Selfie-Repubblica, una Repubblica del Selfie, dove ognuno si rappresenta da solo, ognuno fa l’autoscatto della propria urgenza particolare o addirittura individuale. Gli amministratori sul territorio lo sanno bene: ristoratori contro commercianti, insegnanti contro genitori, è una guerra civile quotidiana. In cui il compito dei rappresentanti, se proprio devono ancora esistere, sembra essere rimasto quello di eseguire plasticamente i voleri dei cittadini che si esprimono sulla Rete o chissà dove e come. Ma in questo modo la politica democratica perde il senso, la sua ragione d’essere, che è quella di trovare un equilibrio tra le spinte contrapposte, una direzione di marcia. Anche la politica, come il giornalismo, non può limitarsi a «registrare le posizioni». Perché altrimenti, lo sappiamo bene, a essere registrate saranno soprattutto le ragioni dei più forti.

Il taglio dei parlamentari, nel pacchetto originario presentato nel 2018 da Riccardo Fraccaro dei 5 Stelle, oggi sottosegretario di Giuseppe Conte, all’epoca ministro per i Rapporti con il Parlamento e, attenzione, per la democrazia diretta, era esplicito: «La volontà popolare ha sancito chiaramente il passaggio verso la Terza Repubblica, nella quale è essenziale riconoscere la centralità dei cittadini sul piano delle forme di partecipazione alla vita politica», dichiarò il ministro in audizione alla Camera (12 luglio 2018). Il capo dell’associazione Rousseau, Davide Casaleggio, fu più esplicito: «Oggi grazie alla Rete e alle tecnologie esistono strumenti di partecipazione decisamente più democratici ed efficaci in termini di rappresentatività popolare di qualunque modello di governo novecentesco. Il superamento della democrazia rappresentativa è inevitabile». Alla fine di quel pacchetto è rimasto in piedi soltanto il taglio dei parlamentari, ma dopo il 20-21 settembre la giostra è pronta a ripartire. Il deputato 5 Stelle Francesco D’Uva, questore della Camera, annuncia già il taglio dello stipendio dei parlamentari. Un altro deputato, Manuel Tuzi, ha detto che con la riduzione di numero i parlamentari diventeranno di meno e saranno più controllabili. Più esplicito di tutti, il capo Luigi Di Maio che ha scritto su Facebook: «Sanno di non rappresentare più nessuno e 345 poltrone gli fanno comodo. Se non è la politica a voler dare un segno, il 20 e 21 settembre possiamo darlo noi». Ma noi chi? E che cos’è uno che ha occupato quattro poltrone contemporaneamente e che ora fa il ministro degli Esteri, se non un politico? Uno dei massimi esponenti di quella politica che chiede al popolo di eliminare?

Nella legge elettorale in discussione alla Camera finora non è stato specificato se i cittadini potranno tornare a scegliere loro i parlamentari. Si capisce il motivo: le liste bloccate piacciono moltissimo a tutti i capipartito, è irrefrenabile la pulsione a designare a piacimento tutti i deputati e i senatori, pochi o tanti che siano. E qui si svela il meccanismo infernale che fa da sfondo al referendum: prima tolgo dignità e ruolo ai parlamentari e ai politici, li metto all’indice come scrocconi fastidiosi, sconosciuti sui territori. Assenteisti e fannulloni, come si è detto, anche autorevolmente. Tito Boeri e Roberto Perotti hanno calcolato che nella passata legislatura il 40 per cento dei deputati e il 30 per cento dei senatori hanno disertato un terzo delle sedute e che la maggior parte dell’attività legislativa si concentra sul dieci per cento dei parlamentari (“L’economia del referendum”, 11 agosto). Ma allora perché tagliare solo il 36 per cento? Tanto vale eliminare il 90 per cento dei parlamentari. E trasformare il Parlamento in un consiglio di amministrazione, come sognava anni fa Silvio Berlusconi.

Pochi parlamentari, impauriti, controllabili e ricattabili, dispersi in una terra di nessuno dove comandano non i buoni cittadini senza potere, ma al contrario i poteri forti, le lobby, le organizzazioni mafiose e la criminalità organizzata, spesso purtroppo più organizzata e radicata di chi dovrebbe contrastarla. Sono di meno e saranno più fedeli ai capi da cui dipendono. I partiti tagliano i parlamentari per non riformare se stessi. Il Sì si rivela così una macchina celibe, non ha altro fine se non il movimento, la dispersione di energia, la distrazione, un trenino che non va da nessuna parte perché non tocca nessun problema reale. Oppure un puro atto politicistico, di Palazzo. Il “pacta sunt servanda” di Dario Franceschini, seguito da Nicola Zingaretti, il patto di governo con M5S da rispettare, s’intende, lo stesso patto che al contrario il partito di Luigi Di Maio e di Vito Crimi rigetta nelle regioni che vanno al voto. È il risultato delle elezioni regionali, non del referendum, a far tremare il governo.

Può darsi che anche il No sia a sua volta una macchina celibe. Lo temo e lo sospetto anch’io, caro signor Pregheffi, non sono queste due parole, il Sì e il No, a racchiudere la verità, a ricostruire un’identità e una cultura politica, come non lo erano nel 2016 all’epoca del referendum Renzi. E sono più indignato di lei se penso ai tanti parlamentari che hanno tradito la Costituzione invece di difenderla. Ma resta da compiere un laico e disincantato atto di fiducia. Nelle istituzioni da cambiare radicalmente per rafforzarle, non per indebolirle. Meno parlamentari ma più forti e autorevoli, più rappresentativi dei loro territori, un Parlamento con due Camere che fanno lavori diversi, ma decisivi per il funzionamento dello Stato. E la ricostruzione dei partiti. Questa sarebbe una riforma seria. Un atto di fiducia nella capacità di immaginare un’altra politica, come la definì Stefano Rodotà, l’opposto dell’anti-politica che non crede a nulla se non alla pura e nuda perpetuazione di sé e della avvilente mediocrità che è il tratto di questa stagione. Il sogno di ripensare le categorie di sovranità popolare e rappresentanza dentro l’Europa che è il nostro destino, il nostro futuro spazio democratico, l’unico possibile. Per questo abbiamo buone ragioni per un No il 20 settembre, il No è una buona ragione.

I pesticidi non minacciano solamente la salute

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L’agricoltura intensiva e l’uso massiccio di pesticidi sono un problema per la salute e l’ambiente. I veleni utilizzati vengono dispersi e trasportati dal vento anche a chilometri di distanza e si depositano sui campi coltivati con metodi biologici, campi giochi, piste ciclabili, abitazioni, giardini e perdino in valli lontane”

di Piero Murineddu

Questa é la parte iniziale di una lettera di solidarietá – letta su un’intera pagina de La Repubblica di ieri martedì 15 – verso chi sta affrontando un processo per aver pubblicato i rischi di una produzione agricola gravemente dannosa per la salute non solo delle persone, sottoscritta da poco meno di un centinaio di sigle e associazioni ambientaliste che chiedono il ritiro della denuncia da parte di enti statali e che finalmente si affronti un dibattito pubblico e aperto sull’Agricoltura.

La vicenda riguarda il territorio all’estremo nord est dell’Italia dove, essendo oltre la metà del suolo costituita di rocce, laghi, ghiacciai e distese boschive a perdita d’occhio, l’agricoltura di concentra prevalentementel sui frutteti e non per niente vi é lì la maggior produzione di mele del Paese. Purtuttavia, sopratutto per quanto riguarda le produzioni agricole industriali, la tentazione di far uso più del necessario di quelli che sono veri e propri veleni é forte dappertutto, e conoscendo l’insaziabile sete di guadagno che c’é in giro, niente di strano che a questa tentazione si ceda. Che poi, anche le quantitá consentite per legge bene non fanno sicuramente. Comunque, in certi casi, ci ha pensato il TAR a proibire certi anticrittogamici che ti ammazzano, si fa per dire, al solo guardarne la confezione. Come in questo caso…

http://www.ruralpini.it/Commenti22.01.12-Storica-sentenza.htm

La richiesta di ritirare la denuncia verso i “colpevoli”, come ben spiegato nell’articolo che segue, la vedo del tutto legittima dal momento che la Salute é un Bene primario. La legge del Mercato, spesso ingannevole, non può sempre e comunque prevalere su tutto il resto e sarebbe anche ora che ciascun cittadino consideri con decisa serietà e responsabilitá tale problema. Per fare pressione affinché vengano presi i necessari provvedimenti, certamente, ma anche perché ci si decida a diventare consumatori maturi e consapevoli, e smettiamo di farci abbagliare dalla mela bella grossa. Piaccia o meno, tutti i nodi prima o poi vengono al pettine, per ciascuno e ancor più per coloro a cui teniamo maggiormente, sopratutto se bambini.

Per quanto possibile, dell’orto, del frutteto, della vigna e dell’oliveto continuiamo ad occuparcene, almeno chi può, ma quanto introduciamo nell’organismo non proviene esclusivamente dalle nostre scrupolose premure, e questo lo sappiamo anche troppo. Per cui, mi sembra, la “Partecipazione Attiva” oggi é ancora più doverosa. Siamo noi i primi curatori della nostra salute.

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I pesticidi minacciano la libertá di stampa

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I prodotti chimici usati in agricoltura avvelenano la libertà di espressione: l’Alto Adige/Südtirol fa causa all’Umweltinstitut München e all’autore Alexander Schiebel. Sotto accusa le coltivazioni intensive e l’uso di anticrittogamici. 

Presso il Tribunale  di Bolzano, in Alto Adige/Südtirol, il processo a carico di Karl Bär, referente per la politica agricola e commerciale dell’Istituto per l’Ambiente di Monaco di Baviera. Querelato per diffamazione dall’assessore all’agricoltura della Provincia Autonoma di Bolzano, Arnold Schuler, e da oltre mille agricoltori locali, Bär ha sensibilizzato l’opinione pubblica sul largo impiego di pesticidi in Alto Adige/Südtirol.

A subire la stessa denuncia anche lo scrittore e cineasta austriaco Alexander Schiebel, autore del libro «Das Wunder von Mals» (Il miracolo di Malles). A parere degli imputati e dei loro avvocati le querele e le accuse costituiscono un grave attacco alla libertà di espressione.

In Alto Adige/Südtirol oltre diciottomila ettari di terreno agricolo sono utilizzati per la melicoltura. Ogni anno vengono raccolte oltre novecentomila tonnellate di mele, quantità che corrisponde a quasi la metà della produzione italiana e a circa il 10 per cento di quella dell’Unione europea.

L’alta intensità della melicoltura (che predilige poche varietà di mele fortemente soggette a malattie, come la Golden Delicious e la Gala, presenti su quasi la metà della superficie) comporta l’impiego di grandi quantità di pesticidi.

Secondo i più recenti dati Istat nella Provincia Autonoma di Bolzano la vendita di pesticidi in rapporto alla superficie trattabile supera di oltre sei volte la media nazionale.

«Appare evidente che in Alto Adige/Südtirol, oltre ad un problema ambientale legato all’uso massiccio di pesticidi in agricoltura, ci sia un problema di democrazia — sostiene Karl Bär, referente per la politica agricola e commerciale dell’Umweltinstitut München —. Le denunce e le azioni legali contro l’Umweltinstitut e le tante persone coinvolte in questa vicenda sono prive di fondamento e hanno un solo obiettivo: silenziare il dibattito pubblico sull’uso dei pesticidi, sostanze riconosciute come dannose per la salute e l’ambiente».

Le accuse contro Karl Bär e Alexander Schiebel si inseriscono in una strategia attuata sempre più spesso in Europa (e ampiamente diffusa in Italia in particolar modo nei confronti dei giornalisti) per mettere il bavaglio ad attivisti, organi di informazione e voci critiche. Mediante accuse mirate e strategiche, esponenti governativi, imprese e singole persone influenti cercano di ridurre al silenzio le voci critiche intimidendole con accuse infondate e annosi procedimenti giudiziari.

Questi specifici casi sono entrati a far parte della letteratura specialistica internazionale con il nome di Slapp «Strategic Litigation against Public Participation», acronimo che richiama il termine inglese «slap» cioè prendere a ceffoni. Ed è proprio questo l’intento di chi querela: silenziare con veri e propri «ceffoni giudiziali» chi osa criticare.

Come emerge dalle ricerche condotte dall’Academic Network on European Citizenship Rights e da studi condotti da Index, realtà no profit impegnata nella difesa della libertà d’espressione a livello internazionale, i casi di Slapp nell’Unione europea sono in aumento. In Italia, in particolare, è proprio la libertà dei media a essere minacciata da quelle che nel nostro Paese sono chiamate querele temerarie.

In Italia la durata media di una controversia civile è pari a 8 anni, un tempo quasi quattro volte superiore alla media Ocse, e ad aggravare la situazione interviene la possibilità per i querelanti di ottenere l’anonimato a difesa della propria reputazione.

Tali specificità hanno l’effetto di inondare la magistratura italiana di insussistenti cause legali di diffamazione e di rendere efficace ai fini del querelante la semplice minaccia di intraprendere un’azione legale. Un preciso sabotaggio al diritto all’informazione.

A seguito delle querele presentate dall’assessore Arnold Schuler, la Procura della Repubblica di Bolzano ha avviato indagini che sono durate più di due anni e per le quali ha anche chiesto assistenza giuridica alla Procura di Monaco, ma senza successo: l’Oberstaatsanwaltschaft München si è infatti rifiutata di prestare collaborazione richiamandosi alle norme tedesche e invocando il diritto alla libertà di espressione sancito dall’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Ciononostante la Procura della Repubblica di Bolzano ha deciso di incriminare Karl Bär per diffamazione.

«Questo processo è solo la punta di un gigantesco iceberg fatto di azioni legali infondate contro attivisti, giornalisti e voci critiche — continua Bär —. In Italia e in tutta Europa sono sempre più frequenti i casi in cui aziende ed esponenti politici cercano di ostacolare, attraverso le vie legali, chi esprime il proprio dissenso e porta alla luce scomode verità. È arrivato il momento di dire basta. Non ci faremo intimidire da chi usa la legge a scapito della nostra salute e di quella del Pianeta».

In caso di condanna, gli accusati rischiano la pena detentiva e la rovina personale a causa di possibili richieste di risarcimento di danni astronomiche. Persino in caso di assoluzione saranno costretti a sostenere personalmente cospicue spese processuali e legali.

«Arnold Schuler abusa della sua posizione politica prostrandosi agli interessi della potente lobby della mela altoatesina — denuncia Alexander Schiebel, autore del libro “Das Wunder von Mals” (Il miracolo di Malles) —. La Giunta provinciale e gli agricoltori tradizionali pensano di poter nascondere sotto il tappeto il massiccio uso di pesticidi nelle monocolture altoatesine, comprese le conseguenze per l’uomo e l’ambiente. Oggi, chi si oppone all’uso di pesticidi chimico-sintetici sul territorio provinciale viene attaccato duramente e prevale un clima di paura. Non riusciranno a zittirci».

Nel libro «Das Wunder von Mals» (edito dalla oekom verlag, la maggiore casa editrice di lingua tedesca nel settore dell’ecologia e della sostenibilità) e nell’omonimo film, Schiebel presenta gli ideologi, gli attivisti e gli agricoltori biologici del Comune altoatesino di Malles Venosta e racconta la storia della loro lotta pionieristica, iniziata nel 2014, per liberare il Comune dai pesticidi. Dalla sua pubblicazione, nel 2017, il libro ha incontrato una notevole attenzione pubblica e mediatica influenzando in maniera decisiva la narrazione del caso di Malles in Germania, Austria e Italia; ed è proprio nel 2017 che l’assessore provinciale all’agricoltura Arnold Schuler ha presentato querela contro l’autore Schiebel e l’editore Jacob Radloff, amministratore delegato della oekom verlag.

Sempre nel 2017, al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica tedesca sul largo impiego di pesticidi in Alto Adige, l’Umweltinstitut München realizza la campagna provocatoria dal titolo «Pestizidtirol» ed espone per qualche giorno un manifesto di denuncia nella fermata della metropolitana monacense di Karlsplatz. Nello stesso anno l’assessore Schuler querela l’iniziativa per diffamazione.

I due attivisti sono rappresentati dagli avvocati italiani Nicola Canestrini e Francesca Cancellaro, già impegnati nella difesa di Carola Rackete e degli altri membri dell’equipaggio della nave di salvataggio e soccorso in mare Juventa.

«Secondo la legge italiana dire la verità non è un crimine — sostiene l’Avvocato Canestrini — bensì una componente fondamentale della democrazia e una delle armi più potenti contro l’abuso di potere. Essere accusati per aver esercitato un diritto fondamentale basilare è un chiaro segnale d’allarme per lo stato di diritto. Per questo affronteremo il processo a Bolzano a nome di tutti gli attivisti ambientali e dei giornalisti che lavorano con dedizione e coraggio nell’interesse pubblico. Dimostreremo che in Alto Adige/Südtirol esiste un abuso nell’utilizzo di pesticidi in agricoltura e che questi sono pericolosi per l’uomo, gli animali e l’ambiente».

I casi Bär/Schiebel pongono l’urgenza di poter contare su una direttiva anti-Slapp europea che tuteli concretamente tutti coloro che si esprimono nell’interesse pubblico. «Poter criticare apertamente e senza timore ciò che non va è una componente fondamentale di ogni democrazia funzionante. Per questo chiediamo all’Ue e all’Italia di intervenire a tutela di tutte le vittime di Slapp. Per l’Italia è arrivato il momento di attuare la tanto attesa riforma sulla depenalizzazione del reato di diffamazione. Mentre alla Commissione europea chiediamo l’introduzione di una direttiva che metta fine all’abuso di giustizia contro i giornalisti e le organizzazioni non governative di tutti gli Stati membri. Una chiara attribuzione della giurisdizione penale, conferita al Paese dell’imputato, contribuirebbe significativamente a reprimere fin da subito rivendicazioni infondate e sanzioni pecuniarie da parte di chi abusa della giustizia», conclude Bär.