Messaggio più recente

C’é un deserto in ciascuno di noi

di Enzo Bianchi

deserto-sahara

Per noi italiani, che a differenza dei francesi non abbiamo avuto nella nostra storia occasioni di vivere il deserto, esso rinvia a escursioni turistiche di pochi o a libri che ne descrivono il fascino.

Anche il deserto come metafora è poco frequente, eppure nella spiritualità è uno dei temi più esplorati, soprattutto dalla tradizione ebraica e cristiana. Il deserto: spazio inabitato, arido, nel quale la vita è quasi assente; luogo inospitale, che desta paura; spazio pericoloso, da attraversare con prudenza. Nella Bibbia il deserto si oppone alla terra abitata e piena di vita. È un luogo di maledizione, dimora di demoni e di forze oscure che assalgono l’essere umano.

Ben presto il deserto divenne una metafora capace di narrare una situazione personale o collettiva: deserto come solitudine, cammino faticoso, spoliazione dall’inessenziale, lotta contro le presenze mostruose che assalgono il cuore umano fino a farlo disperare. In questo senso, il deserto è anche un tempo di prova per la fede, perché credere a un Dio buono e capace di liberazione, quando regnano l’oppressione e la morte, non è facile. Anzi, l’ossessiva domanda che risuona in chi vive la desolazione del deserto è: “Ma Dio è qui con noi, sì o no?”. Perché il Dio degli ebrei e dei cristiani nessuno l’ha mai visto, non è evidente, non dà segni certi della sua presenza, e chi spera in lui spera in un Dio che appare come un sordo e un muto, quando si è schiacciati da sofferenza e disperazione.

Il deserto è un cammino necessario, che nella vita ognuno di noi deve fare, imparando a vivere senza Dio e senza gli altri. Proprio per questo è un tempo di prova, nel quale siamo spinti a cercare risposte alle domande più essenziali che ci abitano, alle quali tendiamo a sfuggire, perché evocano per noi la morte, la fine, il non-senso. Il deserto è il laboratorio dei nostri sogni e dei nostri fantasmi, spazio che ci denuda con la sua nudità, che non tollera veli né menzogne: è sole accecante o tenebra!

Il deserto, infine, è letto come tempo provvisorio, con un inizio e una fine, è un cammino che solo col senno di poi si mostra liberante: cammino interiore, in uno spazio infinito, solitario, misterioso.

Giovanissimo, ho sostato nel deserto del Marocco e lì ho capito le mie fragilità, le zone d’ombra che mi abitavano, le resistenze in me di fronte alla prospettiva di “vivere insieme” ad altri, di condividere tutto, in trasparenza, piangendo o sorridendo.

I padri del deserto, monaci del IV secolo che, lasciata la città, si rifugiavano in quei luoghi solitari, nei loro detti ci hanno lasciato una vera sapienza pratica. E ci hanno insegnato che il deserto è un’esperienza da cui può scaturire uno sguardo penetrante che vede l’invisibile.

Comprendiamo allora le parole del Piccolo principe di Saint-Exupéry:

«Ho sempre amato il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede né si sente nulla. E tuttavia qualcosa riverbera in silenzio. Ciò che lo rende bello è che nasconde un pozzo da qualche parte…».

Razzismi d’America. “INDESIDERATO!”

di Roberto Verrastro

La storica italoamericana Maddalena Marinari ha studiato le politiche restrittive negli Usa contro l’immigrazione di italiani e ebrei dal 1882 in avanti. E, tra l’altro, ha dimostrato come Trump su questo tema abbia fatto fare all’America un salto indietro di oltre un secolo.

Il democratico Thomas Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti dal 1913 al 1921, osservò nel 1902, nel quinto volume della sua Storia del popolo americano, che all’epoca stava approdando oltreoceano «la classe più diseredata dell’Italia del Sud», italiani talmente privi di capacità e di spiccata intelligenza che «i cinesi erano da rimpiangere».

Wilson enfatizzava il suo disprezzo alludendo all’impopolarità dei cinesi stessi nella politica statunitense, che è tutt’altro che recente. Per loro, le frontiere si erano già chiuse nel 1882 con il Chinese Exclusion Act firmato dal presidente allora in carica, il repubblicano Chester Alan Arthur.

Un’ostilità bipartisan contro gli immigrati ben documentata nel saggio pubblicato negli Stati Uniti, “Unwanted, La mobilitazione italiana ed ebraica contro le leggi restrittive sull’immigrazione 1882-1965”.

staten-island3-350x232d

Tra il 1871 e lo scoppio della prima guerra mondiale, 12,9 milioni di emigrati dall’Europa e dall’Asia sbarcarono negli Stati Uniti e in seguito, negli anni Venti, le comunità più ampie risultavano gli italiani (4 milioni) e gli ebrei dell’Europa dell’Est (2 milioni, per lo più di provenienza russa). In precedenza risiedevano negli Stati Uniti solo 11.725 italiani e circa 150 mila ebrei, la maggior parte dei quali giunti dalla Germania.

«Molti americani di origine europea occidentale e settentrionale giudicavano questi nuovi immigrati come non bianchi, biologicamente e culturalmente inferiori e inassimilabili», scrive nell’introduzione l’autrice, docente al Gustavus Adolphus College di St. Peter, nel Minnesota, chiarendo nel primo dei sei capitoli del volume che, dal 1896 al 1917, gli italiani e gli ebrei «trovarono nel dibattito sul test di alfabetizzazione la prima opportunità di unire le forze per opporsi all’approvazione di nuove politiche restrittive».

Una cooperazione favorita dal fatto che «molti dei consoli e ambasciatori italiani negli Stati Uniti venivano dall’Italia settentrionale e centrale, e spesso condividevano lo sdegno degli americani per l’analfabetismo degli immigrati italiani, in maggioranza meridionali».

staten-island-immigrazione2-350x360k

Nel 1906 un gruppo di influenti ebrei americani di origine tedesca, comprendente l’avvocato Louis Marshall e l’imprenditore tessile Cyrus Leopold Sulzberger (il padre di Arthur Hays Sulzberger, editore del New York Times dal 1935 al 1961), notando la blanda reazione americana ai pogrom nell’Europa dell’Est, aveva fondato l’American Jewish Committee (AJC), per rinsaldare la tradizione degli Stati Uniti come rifugio per gli oppressi.

Era a rischio anche la posizione sociale degli ebrei meglio integrati, in quanto i nativisti, convinti che americani non si diventa, «come gli antisemiti non distinguevano tra gli ebrei tedeschi e quelli dell’Europa dell’Est». L’AJC divenne presto un modello per gli anti-restrizionisti di altri gruppi etnici, «per la sua forte leadership, la coesione interna, le sofisticate tecniche di lobbying, gli alleati non ebrei ben scelti e il notevole tempismo».

Da buon avvocato fu proprio Marshall, repubblicano e presidente dell’AJC dal 1912 al 1929, a scovare l’argomento in apparenza decisivo contro il test di alfabetizzazione: una lama a doppio taglio che chiudeva la porta agli immigrati più poveri e illetterati, ma la spalancava agli anarchici e ai comunisti che, al contrario, erano spesso di ottima cultura. Il presidente Wilson, che a fini elettorali aveva inoltre ritrattato le precedenti affermazioni per ingraziarsi gli italoamericani, pose il suo veto al test, che tuttavia entrò in vigore con l’Immigration Act del 1917, perché il Congresso non aveva voluto sentire ragioni: era sensazione diffusa che la guerra in corso avrebbe incrementato a dismisura gli arrivi.

Marshall e l’AJC ottennero comunque l’esenzione dal test per quanti fuggivano dalle persecuzioni religiose. Per gli italiani, la cui attività anti-restrizionista faceva perno dal 1905 sull’Order Sons of Italy in America (OSIA), fondato dal medico siciliano Vincenzo Sellaro, e che contavano anche su Fiorello La Guardia, futuro sindaco di New York (di madre ebrea e padre pugliese), fu una vittoria l’analoga esenzione per i parenti stretti dei connazionali già residenti negli Stati Uniti.

I ricongiungimenti familiari furono in parte agevolati anche nei decenni successivi del Novecento, ma «nel 1918 molti restrizionisti definivano l’Immigration Act del 1917 un grande scherzo, perché era qualitativo e non fissava alcun limite numerico all’immigrazione», evidenzia Marinari nel secondo capitolo.

staten-island-immigrazione-350x183

Nel 1924 il presidente Calvin Coolidge, repubblicano, rimediò firmando un nuovo Immigration Act che bandiva l’immigrazione dall’Asia intera (tranne le Filippine, che erano una colonia statunitense) e introduceva un sistema di quote nazionali, autorizzando flussi annuali quantificati nel due per cento dei residenti della stessa nazionalità rilevati dal censimento del 1890. Poco poterono le lettere di dissuasione spedite al Congresso dai leader dell’OSIA, appoggiati dal governo fascista. E l’avvocato Max James Kohler dell’AJC scrisse sul New York Times che basarsi sul censimento del 1890 serviva a «discriminare gli immigrati dell’Europa orientale e meridionale, mantenendo il profilo razziale e religioso degli Stati Uniti degli anni Ottanta dell’Ottocento».

Sciacallaggio politico, distorsione della realtá e ….ciò che conta !

di Maurizio Ambrosini
(Avvenire del 25 agosto 2020)

Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di Sanità, ha spiegato pochi giorni fa che, a seconda delle regioni, il 25-40% dei nuovi contagi da Covid-19 è ‘importato’ da chi rientra dalle vacanze, mentre tra chi sbarca sulle coste in cerca di asilo non oltre il 3-5% risulta positivo ai test, compresi quanti s’infettano nei centri di accoglienza a causa dell’inadeguatezza delle misure di prevenzione.

Incurante di questi dati, il presidente della Regione Sicilia Nello Musumeci ha lanciato una campagna politico-mediatica contro l’accoglienza dei richiedenti asilo, rivendicando le proprie competenze in materia sanitaria.

La paura dei contagi in crescita diventa, insomma, una clava da usare in modo selettivo contro i più deboli tra coloro che approdano in Sicilia in questo periodo ancora estivo: non contro chi sbarca dagli yacht, dai traghetti e dagli aerei.

Gli ‘untori’, stando a quanto si vorrebbe far apparire, sono i profughi e migranti poveri e chi li trae in salvo, non i turisti più o meno benestanti che arrivano sull’isola. La battaglia lanciata da Musumeci, prontamente appoggiato dai partiti di opposizione, è deprecabile per almeno tre motivi.

Il primo motivo è politico-istituzionale.

Il presidente siciliano ha innescato un grave scontro con il governo centrale, arrogandosi per via sanitaria competenze in materia di politica migratoria. Se ogni Regione fosse titolata a decidere se e come accogliere i richiedenti asilo, si innescherebbe un autentico caos, e in ogni caso l’Italia cesserebbe di avere una politica nazionale su una materia così sensibile, internazionalmente rilevante.

Il governo non è esente da colpe, avendo contribuito per la sua parte a produrre l’immagine del profugomigrante come diffusore della pandemia: dichiarando inagibili i nostri porti durante il confinamento e tardando a trovare alternative all’abnorme concentrazione degli sbarcati sull’isola di Lampedusa.

Non è tuttavia accettabile un fai-da-te regionale su un tema del genere, e la regia delle politiche dell’asilo non può che rimanere saldamente nazionale.

Il secondo motivo di demerito dell’improvvida iniziativa di Musumeci è culturale.

Si innesta nel solco delle politiche locali di esclusione degli immigrati, e negli ultimi anni in modo particolare dei rifugiati: quelle politiche che identificano gli stranieri (poveri) come nemici, spingendo le comunità locali a compattarsi contro la presunta minaccia che arriva dall’esterno. Cercando consenso a basso costo, legittimano sentimenti e comportamenti xenofobi. Preparano così il terreno ad altre e più pericolose manifestazioni di ostilità verso chi è rappresentato come diverso e pericoloso.

Il fatto che questo avvenga in una terra come la Sicilia, che ha dato fin qui numerosi esempi di lucida e generosa accoglienza, suona ancora più inquietante.

Il terzo problema riguarda il contrasto tra i fuochi d’artificio mediatici di Musumeci e l’organizzazione di un serio sistema di protezione per chi sbarca sulle nostre coste.

La collaborazione tra istituzioni centrali e locali, tra poteri pubblici e attori della società civile, tra forze di sicurezza e operatori dell’accoglienza è un requisito indispensabile. La prevenzione sanitaria e la rassicurazione delle comunità locali non sono affatto alternative al dovere di accogliere.

Polemiche sterili come quelle del presidente siciliano allontanano la ricerca di soluzioni praticabili, anziché favorirla. Occorre ancora una volta fare appello alle energie solidali della terra di Sicilia per trasformare questa brutta pagina di speculazione politica in un rinnovato slancio di fraternità, e malgrado tutto di disponibilità a una accoglienza ragionevole e sicura per tutti.

sketch1598453796553~2

E Faraone cosa fa?

(Livesicilia.it)

Il presidente dei senatori di Italia viva, Davide Faraone, ha denunciato il leader della Lega M.S. e il presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci per procurato allarme, abuso d’ufficio e diffamazione.

“Ho presentato un esposto alla Procura di Agrigento per difendere la Sicilia dagli sciacalli – dice Faraone -. Perché l’ordinanza del presidente della Regione Siciliana e le parole del segretario della Lega nuocciono gravemente all’economia della Sicilia e alle tasche dei siciliani. Alla fonte primaria della ricchezza dell’isola: il turismo”.

“Presentare al mondo la Sicilia come un lazzaretto – aggiunge – come il campo profughi d’Europa, affermare che ‘i migranti passeggiano tra i turisti che poi portano il Covid nelle loro regioni’ e scrivere un’ordinanza farlocca e disumana, non solo va contro i principi di accoglienza e di solidarietà ma mette in ginocchio un pezzo importante del Pil della Sicilia – sottolinea Faraone -. In un momento, tra l’altro, di crisi profonda dell’economia siciliana che determina il più alto tasso di disoccupati post-covid e una situazione d’emergenza per le imprese che con il turismo e la cultura ci mangiano e fanno mangiare i siciliani”.

Questa propaganda distruttiva di questa classe dirigente irresponsabile e in un momento in cui, grazie ai nostri imprenditori alberghieri, ai ristoratori, a tutti gli operatori del comparto dell’enogastronomia, stiamo finalmente ripartendo con la giusta marcia dopo il lockdown – conclude – occorre rispondere con parole chiare e nette per non vanificare gli sforzi dei siciliani”.

Le “ragioni” della politica? Pa cariddai!

di Piero Murineddu

L’ esposto di Faraone, opportuniiiiissimo, é motivato principalmente (principalmente!) dal fatto che “… l’ordinanza del presidente della Regione Siciliana e le parole del segretario della Lega nuocciono gravemente all’economia della Sicilia e alle tasche dei siciliani”.

In secondo ruolo (secondo!) perché l’ordinanza – “farlocca e disumana“, va be’ … – “va contro i principi di accoglienza e di solidarietà

Capito?

Prima la tasca e poi tutto il resto….
Prima la tasca e poi tutto il resto….

Prima la tasca e poi tutto il resto….

Prima la tasca e poi tutto il resto….

Prima la tasca e poi tutto il resto….

Prima la tasca e poi tutto il resto….

 

Riuscirò prima o poi a farmi entrare nel duro zuccone che ciò che conta nella vita sono li diná?

Ho finito

Semi di cooperazione che fanno ben sperare

unnamed (2)
di Diletta Grella

«Coltivare la dignità delle persone, nel cuore della nostra terra». Capisci quanto Angelo Santoro creda nel suo progetto di agricoltura sociale, dal modo in cui scandisce il motto della cooperativa sociale Semi di Vita di Bari, di cui è presidente.
Siamo a Japigia, un quartiere difficile della città. Qui, nel 2014, Santoro, insieme ai soci della coop riceve dall’Opera Pia Maria SS. Del Carmine, in comodato d’uso gratuito, un orto di due ettari in mezzo ai palazzi della città, dove inizia a coltivare varietà locali di ortaggi. Non è però il primo orto urbano che Santoro si trova ad avviare. Già nel 2011, collaborava con un’associazione di famiglie di ragazzi disabili di Casamassima, che era riuscita ad ottenere dal comune un terreno di 2.500 metri quadrati e aveva capito il grande ruolo educativo che l’agricoltura può avere.

«Japigia è un quartiere complesso, che è stato spesso legato alle attività di clan malavitosi» continua il presidente. «Con l’orto vogliamo portare valori positivi in questo angolo di città. Le persone vedono finalmente un luogo curato, all’interno di un’area urbana dove regna la trascuratezza. Entrando nell’orto, che è biologico, si avvicinano ai valori e ai ritmi della natura, che spesso in una periferia come questa risultano sconosciuti. Abbiamo deciso anche di dare in gestione alle famiglie del quartiere alcuni piccoli appezzamenti di terreno: le persone che vengono qui a coltivare la terra, trovano un punto di aggregazione».

Mentre parliamo, arrivano due signore che vogliono comprare «quella favolosa marmellata di peperoncino». «Qui affianco dell’orto» chiarisce Angelo, «abbiamo un punto dove vendiamo le nostre verdure e i prodotti trasformati (conserve, marmellate…) che produciamo insieme ad altre cooperative».

A qualche chilometro di distanza da Japigia, si arriva al quartiere Mungivacca, dove c’è l’istituto superiore Gorjux. Appena gli studenti intravedono Santoro, gli corrono incontro e gli raccontano che i funghi sono diventati enormi. «In questa scuola abbiamo una serra di cinquanta metri quadrati» spiega il dirigente scolastico, Donato Ferrara.

«Dall’anno scorso, grazie alla collaborazione con gli operatori di Semi di Vita, abbiamo avviato la coltivazione di funghi cardoncelli. L’attività è a cura delle professoresse Francesca Campa e Chiara Paulicelli, coadiuvate da altre docenti ed educatrici. Sono coinvolti 20 studenti, di cui una decina con disabilità. Si tratta di un progetto importante di alternanza scuola-lavoro, innanzitutto perché favorisce l’integrazione degli studenti speciali. E poi perché i ragazzi gestiscono la serra come fosse una piccola impresa. Si occupano della coltivazione e della raccolta dei funghi, ma anche del confezionamento e dello studio del packaging, del marketing e della gestione contabile».

«A me questo progetto piace molto», dice Miroslav, 16 anni, «perché tra di noi si crea un grande spirito di gruppo. Alcuni dei ragazzi disabili, anche quando finiscono la scuola, continuano a collaborare. E poi, quando entro nella serra, mi sento a casa. Io vengo dalla Bulgaria: dove vivevo, c’era molta umidità e spesso il mattino uscivamo a raccogliere i funghi».
Un’altra cardoncelleria verrà aperta a breve all’interno del carcere minorile Fornelli, dove Semi di Vita, già da diversi anni, promuove, insieme all’ente di formazione Abap, progetti di avviamento al mondo del lavoro. «Nel 2017 abbiamo vinto un bando del ministero della Giustizia:», prosegue il cooperatore, «grazie ai 150mila euro che abbiamo ricevuto, potremo realizzare una serra di 400 metri quadrati e un laboratorio di confezionamento di circa 70 metri quadrati. I lavori di sistemazione inizieranno a breve e il nostro obiettivo è quello di poter assumere presto alcuni giovani detenuti all’interno di questa impresa».

Infine, c’è il progetto più impegnativo, la Fattoria dei Primi. Nel 2018 Semi di Vita ha vinto un bando di gara per l’assegnazione di 26 ettari di terreno confiscati alla mafia, nel territorio di Valenzano, da destinare a progetti di agricoltura sociale. «Si tratta di un appezzamento di terreno che è in stato di abbandono da oltre trent’anni», spiega Matteo Anaclerio, agronomo collaboratore di Semi di Vita. «Qui erano state riversate tonnellate di rifiuti edili, che recentemente sono state portate via e smaltite. Vogliamo realizzare un pollaio per la produzione di uova biologiche, con 1.500 galline. Pianteremo anche varietà locali di ortaggi e frutti, sempre secondo le regole dell’agricoltura biologica, nel pieno rispetto della natura e dell’uomo. Abbiamo già seminato un ettaro di fave, a breve pianteremo 600 melograni, poi inizieremo la coltivazione del pomodoro regina».

Per far tornare a nuova vita tutti i 26 ettari, serviranno dieci anni e un milione di euro. Semi di Vita sta cercando di reperire lentamente i fondi attraverso la partecipazione a bandi pubblici e privati, nazionali e internazionali. Fondamentale il supporto della Fondazione Casillo di Corato. In questo progetto di riqualificazione sono coinvolti anche gruppi e associazioni come Libera, Agesci e alcune parrocchie. «Puntare sull’agricoltura sociale» continua Francesco Pignatelli, referente di Libera a Valenzano, «significa usare l’agricoltura per ricostruire una comunità. Valenzano è un paese bellissimo ma complesso. Abbiamo avuto parecchi episodi di criminalità e il nostro comune è stato commissariato per sospette infiltrazioni mafiose. Grazie anche a questo progetto, noi crediamo nel sogno di un futuro migliore».

La Fattoria dei Primi conclude Santoro «ha un nome significativo: laddove c’era un luogo degradato, che faceva credere ai cittadini di essere gli ultimi, sorgerà qualcosa che li farà sentire i primi. Creeremo occasioni di incontro, organizzeremo laboratori di agricoltura per bambini, adulti, persone con disabilità».

Sguardo sul mondo infiammato. Reportage dalla Repubblica democratica (!) del Congo

mappa Kongo

La pace? Oltre le nuvole…

di Flavio Fusi

 

Dopo un placido volo l’aereo frena e stride sulla pista sconnessa, infine si arresta in mezzo al nulla. Camminare – sì camminare – fino al Terminal dentro una nuvola rovente, sotto un vento di fuoco che scuote le palme scheletriche all’orizzonte. Sull’asfalto che ribolle, la preda è nuda: bianchi e giornalisti, europei con valige e borsoni: troppo bello per non approfittarne.

Così un manipolo di individui in uniforme ci circonda appena entrati nel soffio ristoratore dell’aria condizionata. «Apri la valigia, dammi il passaporto, fammi vedere». E ridono, ti strattonano, chiedono a gesti: «souvenir, souvenir…» Soldi, mancia, dolars, dinero… siamo perduti. Massimo urla qualcosa in francese e si aggrappa alla telecamera, io provo a divincolarmi. Ma loro hanno i nostri passaporti, cercano tra i nostri documenti e frugano i portafogli, poi chiudono alla meglio le valige trascinate a terra e ci accompagnano quasi a spintoni dentro un ufficietto.

Dietro la scrivania, il piccolo funzionario ci scruta con sospetto, sfoglia le carte e non dice nulla. Io in inglese e Massimo in francese cerchiamo di spiegargli che ci hanno appena derubato: «Proprio loro, sir, quelli che sorridono alle nostre spalle». L’uomo fa una smorfia mesta, un gesto come a scacciare una mosca e ci restituisce i documenti senza una parola: siete liberi, potete andare.

L’incidente è subito dimenticato: il più grosso mi prende sottobraccio e trascina la mia valigia. All’uscita, nel riflesso del sole che acceca e tra soffocanti sbuffi di combustione, ci accompagnano così i nostri stessi aguzzini in divisa, sorridenti e gioiosi come vecchi compagni di bevute. Taxi? ah, il taxi è già pronto per voi. Quella vettura rattoppata con fogli di cartone che si pianta a lato del marciapiede sbrecciato è di un amico del mio nuovo protettore: un ragazzo mingherlino e loquace che sa già dove deve portarci.

A Gombe ci porta, e dove se no? Gombe: il quartiere esclusivo delle ambasciate, degli Hotel di lusso e degli uffici governativi. L’auto fila e tossisce e si divincola nel traffico infernale. Lungo il tragitto mi vengono in mente le minacciose raccomandazioni lette sul sito dell’Ambasciata: «Non possono escludersi anche barricate improvvise, in particolare lungo l’asse stradale tra il centro città di Kinshasa e l’aeroporto».

Aspettando dunque l’intralcio imprevisto di qualche barricata, affrontiamo il caotico paesaggio umano – un impasto infernale di suoni colori odori u fino a quando un bell’albergo in stile coloniale ci apre le sue braccia generose. Nella hall, una grande targa in ottone mette le cose in chiaro. Più o meno: «La sicurezza di questo edificio e delle aree circostanti è assicurata 24 ore su 24 dalla nostra Pcm (Compagnia militare privata). Per qualunque servizio in città vi preghiamo di rivolgervi ai nostri uffici».

Bastano poche ore per capire che siamo in trappola. L’albergo è come una lussuosa nave da crociera che naviga su un oceano di merda infestato da squali affamati. Se esci come semplice turista ti spogliano nudo, se esci con la telecamera ti tirano il collo. La città è un lazzaretto a cielo aperto che di giorno ronza come un alveare impazzito e di notte si serra in un minaccioso silenzio di tomba. Il tam tam ripete: Mobutu ha i giorni contati, Kabila è qui.

In breve: Laurent Kabila, il capo clan che nel lontano 1965 fece perdere la pazienza e la guerra ai cubani del Che Guevara sbarcati in Congo per innescare una rivoluzione africana, è di nuovo in pista, alleato questa volta con gli ex nemici del Burundi e del Ruanda. Nell’estremo est, il sud Kivu è ormai nelle mani dei rivoltosi e il morbo della rivolta si allarga a infettare tutto il corpaccione dello Zaire.

Brutta, bruttissima notizia. Con la guerra civile alle porte e con Kabila che prepara la marcia su Kinshasa insieme ai suoi alleati Tutsi ruandesi, nessun aereo decollerà mai dall’aeroporto N’Djili in direzione di Kigali.

Così la nostra misera strategia giornalistica è fallita e noi stessi siamo ostaggio di una complicata crisi internazionale: sul bordo di una piscina e con bottiglie di vino al ristorante, ma pur sempre ostaggi.

Steso sul lettino sotto le palme, il mio impagabile amico e cameraman Massimo – detto “o’ barone” – segue alla lettera la regola ferrea delle missioni all’estero: in caso di intoppi il giornalista è tenuto a scervellarsi per risolvere la questione, nulla è invece richiesto all’operatore che lo accompagna. Dunque: la notte o’ barone ronfa nella camera accanto, mentre io mi abbandono a terribili incubi sotto le candide lenzuola di un letto king size.

Obiettivo: tornare a Nairobi, subito. I servizi dell’hotel sono perfetti: l’aereo c’è, il biglietto anche, ma il volo parte alle quattro di notte, e infilarsi a notte fonda nella trappola dell’aeroporto di Kinshasa equivale al suicidio. Così bussiamo alla porta del lussuoso ufficio dei contractors della sicurezza, dove risulta che la Private Military and security company dell’albergo è formata da ex militari israeliani. «Yes, sir, possiamo organizzare: un servizio di quattro uomini armati, secondo tariffa notturna».

Notte sotto cattivi auspici. Il cielo è nero come la pece, una brezza che odora di petrolio soffia dai quartieri della città addormentata. Nel posteggio dell’albergo – a bordo di una sfolgorante camionetta – ci prendono in consegna senza una parola quattro giganti bianchi ben nutriti e armati di Ak47.

Tutto si svolge come in sogno: con piglio militaresco attraversiamo indenni la grande sala d’aspetto trasformata in un gigantesco bivacco. Al primo controllo il funzionario sorridente chiede un souvenir, e mi tira per la manica: niente mancia niente passaggio. Mi rivolgo al mio angelo protettore e lui spiega paziente: «Sir, noi siamo incaricati di garantire la vostra incolumità, non possiamo interferire sulle procedure di imbarco». Così, l’incubo ricomincia. I controlli sono due, poi tre, e a ogni controllo dobbiamo sganciare. Noi furiosi e impotenti, i nostri accompagnatori con volti impenetrabili. Ci spennano, sì ci spennano ancora una volta, finché – prima dell’ultimo gate – restiamo di nuovo soli e abbandonati. Tra noi e l’imbarco rimane solo una bella ragazza in uniforme. Sorride, io sorrido, mi sento finalmente libero. Lei mi guarda in faccia e con il passaporto ben stretto in mano sussurra dolcemente: «Souvenir si vous plait…».

Quando si spalancano le porte di vetro sulla pista ci accorgiamo che sopra Kinshasa si sta abbattendo una tempesta tropicale. La pioggia crepita sull’asfalto, le luci dell’aereo lampeggiano fioche in lontananza. A piedi dobbiamo farcela, con bagagli e tutto. Massimo bestemmia, io pure. Alla fine della marcia ci attendono cinque minuti di sosta sotto la scaletta, per consegnare i bagagli fradici. Ma che importa? ormai siamo ascesi a un insensibile nirvana.

Dentro la pancia fredda dell’aereo ci accorgiamo di essere zuppi e puzzolenti come cani bagnati. Uno strappo, la pioggia furiosa riga i finestrini, nel rombo dei motori Kinshasa è una bassa costellazione di luci nell’ oscurità. Infine un bip e una lucina rossa che si accende: le nuvole sono sotto di noi, tra i sedili si allarga un silenzio di culla. E la pace ci accoglie.

africapolitica

Per sapere qualcosetta su cosa accade da quelle parti:

http://www.conflittidimenticati.it/conflitti_dimenticati/conflitti_nel_mondo/00004090_Repubblica_Democratica_del_Congo.html

20congo1-articleLarge

Referendum del quale occorrerebbe occuparsi…

 

Ci sarebbe anche referendum costituzionale del quale occuparsi in questi giorni d’agosto. Tra qualche settimana gli italiani dovranno decidere se confermare o respingere il taglio di deputati (dagli attuali 630 a 400) e senatori (da 315 a 200) votato dal parlamento nell’ottobre del 2019 dopo un lungo e non sempre lineare iter politico e legislativo. Eppure, nella distrazione collettiva di questa strana estate, se ne sta discutendo – quando se ne discute – soltanto a rimorchio di altre questioni.

Ci si indigna per il bonus covid chiesto da alcuni parlamentari, e va bene. Ma inquietano certi toni che trascinano ogni cosa in un baratro di rabbia e recriminazioni, alimentando la recrudescenza di un clima antipolitico. E tutto ciò cammina in parallelo con il disinteresse che sembra accompagnare il paese verso il voto di settembre, quando potrebbe essere ridimensionato il parlamento non solo nei numeri ma anche nella sua capacità di rappresentare la volontà popolare.

Se infatti il taglio dei parlamentari fosse confermato, in Italia si passerebbe dai circa 96mila abitanti per deputato a circa 151mila per deputato, e il nostro paese finirebbe all’ultimo posto in Europa per quanto riguarda la rappresentatività della camera bassa, che in Italia è la camera dei deputati.

In mancanza di una riforma complessiva della rappresentanza, o almeno dei correttivi al taglio che facevano parre del governo tra M5S e Pd – che però, a partire dalla nuova legge elettorale, sono rimasti sinora lettera morta – il risultato sarebbe quello di sterilizzare in parte la capacità del parlamento di rappresentare il popolo. E il parlamento è l’unico organo dello stato che il popolo lo rappresenta direttamente poiché dal popolo è eletto. Se questo sia un bene o un male è uno dei temi sui quali si dovrebbe riflettere adesso. Ma ciò non accade.

Così non si può non notare che, di fronte a una evidente e ormai quasi strutturale incapacità della politica di dare risposte alle questioni aperte nel paese, quella stessa politica invece di migliorare se stessa – per esempio scegliendo meglio chi mandare in parlamento – decida di smantellare parzialmente il parlamento stesso.

Ciò che insomma succede è che, di fronte a una propria carenza, la politica reagisce diminuendo la capacità dell’istituzione che rappresenta il popolo, garantendosi di fatto ancor più potere di oggi. E ciò accade paradossalmente sull’onda di un sentimento antipolitico che in molti – inclusa una parte della stampa più influente – hanno alimentato in questi ultimi due decenni. Così, se il taglio fosse confermato dal voto popolare, sarebbe davvero un successo per quella che in altri tempi si sarebbe detta partitocrazia.

Tutto ciò non accade adesso e dal nulla, ma trova la sua radice all’inizio degli anni novanta. Fu allora che i grandi partiti popolari vennero spazzati via, alcuni dalle inchieste sulla corruzione e altri invece dalla storia. Si affermò allora un genere di organizzazione politica più liquida e legata alla figura del leader, per la quale la comunicazione ha avuto un ruolo fondamentale e che alle idee ha sostituito l’appartenenza a vere e proprie consorterie. È lì, nella chiamata diretta del leader al popolo, senza più la mediazione dei partiti, che sta l’origine dell’ondata populista che negli anni successivi si è andata ingrossando. Non a caso, negli stessi anni la democrazia parlamentare venne di fatto “presidenzializzata”, anche se la costituzione non era cambiata.

Tutto ciò, insieme a molti altri elementi come la progressiva devoluzione di porzioni della propria funzione verso l’Europa o verso le regioni, contribuì alla costante erosione del ruolo del parlamento come legislatore e come luogo della politica. Lo dimostrano il ricorso sempre più massiccio ai decreti da parte del governo e l’intervento, anch’esso sempre più frequente, della magistratura come legislatore indiretto attraverso l’interpretazione della legge. La via giudiziaria ai diritti civili rientra, in questa prospettiva, nel grande racconto del malfunzionamento della politica; malfunzionamento della politica, appunto, e non del parlamento, che però alla fine è stato colpito da questo processo.

Se è così, allora a preoccupare sono anche alcune conseguenze di natura strettamente politica che un eventuale taglio dei parlamentari potrebbe avere. Già adesso, per esempio, il potere delle leadership è politicamente enorme. E, al di là della scarsa capacità di autonomia intellettuale che è da tempo molto evidente nella pancia dei partiti, diminuendo il numero dei parlamentari quel potere crescerebbe ancor di più. Si ridurrebbe così a poca cosa la libertà dei singoli parlamentari, rendendo anche più difficile l’affermazione di una dissidenza interna e di un pensiero non allineato.

In questo modo si finirebbe sempre più per trasferire indebitamente sul parlamento un rapporto di forza che, pur legittimo all’interno dei singoli partiti, non lo è più quando riguarda soggetti, come i parlamentari, che dovrebbero rappresentare ciascuno l’intero paese. In termini costituzionali significa che c’è il rischio di realizzare nella sostanza, o quanto meno si rischia di rendere più facile, una elusione del divieto del vincolo di mandato. Un risultato che probabilmente non dispiacerebbe ai leader politici che, in forme diverse, lo hanno cercato in passato, da Berlusconi a Renzi fino a Grillo.

In termini assoluti, ciò potrebbe finire per incidere negativamente perfino sull’equilibrio, già manomesso da tempo, tra i poteri dello stato. Basti pensare al rapporto tra governo e parlamento che, come prevede la costituzione, si regge sulla fiducia che il secondo accorda al primo. In futuro i parlamentari potrebbero trovarsi a dover rispondere con sempre meno possibilità di dissentire agli ordini del presidente del consiglio, che di norma è anche il capo del partito di maggioranza. Si finirebbe insomma per consolidare un parziale rovesciamento di quel rapporto, pericolosamente già in corso da tempo.

Non sembra esserci una contropartita sufficiente per giustificare tutto questo. Non c’è dal punto di vista funzionale e neanche da quello del risparmio economico. Il risparmio, infatti, sarebbe risibile sia in termini assoluti sia in rapporto a ciò che si rischia di compromettere sul piano politico e istituzionale.

Quel che resta sul tappeto, alla fine, è il tentativo di conseguire un risultato squisitamente politico da parte del Movimento 5 stelle, che ha voluto quel taglio come provvedimento da sbandierare. E quel risultato si manifesta sin dall’origine come un segnale esemplare che si vorrebbe dare alla politica e che però colpisce ancora una volta soprattutto il parlamento. Questo anche perché restano ancora aperte alcune questioni, come la nuova legge elettorale che avrebbe dovuto accompagnare il taglio dei parlamentari o il rischio piuttosto grave che la diminuzione di un terzo del numero degli eletti lasci alcune aree del territorio nazionale prive di rappresentanza parlamentare.

Nei primi tre passaggi alle camere il Partito democratico si era espresso contro il taglio. Poi, al quarto e ultimo voto parlamentare, ha dato il via libera in cambio della promessa strappata al M5s dell’introduzione di una serie di correttivi per mitigare le distorsioni causate dalla riforma. Ma di tutto ciò non si è mai avuta traccia nella realtà, nonostante il forzato ammorbidimento del Pd in questi mesi su molte questioni care ai cinquestelle.

Si è arrivati così al referendum, con un M5s pronto a festeggiare e un Pd che, alla ormai conclamata incapacità di elaborazione politica, ha mostrato anche una punta di ingenuità sconcertante. Non è un caso se anche Goffredo Bettini, uno dei sostenitori dell’accordo col M5s all’interno del Pd, ha dovuto ammetere che, stando così le cose, il taglio dei parlamentari “può essere perfino pericoloso per il regime democratico”.

Ecco, sarebbe stato meglio pensarci prima.

Sulle accuse al sindacato riguardo alla riapertura delle scuole

di Roberto Mania (La Repubblica del 23/8/2020)

 

«Sono accuse inaccettabili e sbagliate», dice Maurizio Landini, segretario generale della Cgil mentre legge e rilegge l’intervista che la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina ha rilasciato a Repubblica nella quale parla di un sabotaggio in atto da parte dei sindacati per impedire la riapertura delle scuole.

Polish_20200824_072641134

Landini, ma voi volete che si riaprano le scuole o preferite la conferma della didattica a distanza, certamente più sicura per i professori e il personale scolastico?

«Guardi, è da aprile che, subito dopo la firma del protocollo sulla sicurezza nelle fabbriche, insieme a Cisl e Uil abbiamo chiesto al governo di definire le modalità per riaprire le scuole in presenza e in sicurezza. Siamo da sempre per la riapertura senza se e senza ma».

E allora come spiega le accuse così gravi della Azzolina, che è la ministra dell’Istruzione, non una cittadina qualsiasi?

«Con sincerità non ne capisco il senso e neanche l’obiettivo. Il sabotaggio è un reato, se la ministra ha elementi per parlare di una cosa del genere faccia nomi e cognomi e indichi episodi concreti. Sono accuse del tutto generiche».

La ministra parla di “diffide, minacce di scioperi, richieste di aspettative”. Se non è sabotaggio, poco di manca. Le risultano anche a lei?

«Insisto, quel che pensiamo lo diciamo alla luce del sole. Siamo abituati così: ad assumerci le nostre responsabilità, noi non siamo il sindacato dei ricorsi e delle diffide. Tanto che a giugno le nostre categorie hanno scioperato proprio contro i ritardi nell’avvio della messa in sicurezza della scuole e nel processo di regolarizzazione del personale precario. E non a caso abbiamo appena firmato i protocolli sulla sicurezza per la riapertura delle scuole di ogni ordine e grado»

Per il sindacato vengono prima gli interessi dei lavoratori della scuola, insegnanti compresi, o quelli degli studenti e delle loro famiglie?

«Questione mal posta. Noi rappresentiamo tutti o abbiamo l’ambizione di farlo: le persone che lavorano nella scuola, i lavoratori che mandano i propri figli a scuola e gli studenti. Sono interessi convergenti, non contrapposti perché il buon funzionamento del nostro sistema di istruzione è un interesse generale. L’obiettivo comune è che la didattica riparta in presenza e in sicurezza per tutti».

Ma i giovani, non iscritti al sindacato, forse contano di meno per voi. O no?

«Assolutamente no. Questa volta noi non difendiamo l’esistente; questa volta pensiamo che vada colta un’occasione irripetibile per cambiare da cima a fondo, radicalmente, il nostro sistema di istruzione per garantire il diritto universale e pubblico alla conoscenza. Le risorse messe a disposizione dal Recovery Fund devono essere utilizzate anche per questo obiettivo. La scuola, il diritto all’istruzione e alla formazione permanente di tutti, giovani e meno giovani, devono essere al centro di quella che mi piace chiamare “la rinascita del Paese”, non una mera “ricostruzione”. La pandemia ha solo accentuato le gravi lacune del nostro sistema scolastico dovute anche ai tagli effettuati in questi anni. Dobbiamo voltare pagina, investendo sull’intelligenza di chi lavora e sulla qualità delle relazioni sindacali».

Quali sono le cose da cambiare?

«C’è una grave situazione dell’edilizia scolastica: metà degli edifici sono stati costruiti prima degli anni Settanta, il 43 per cento si trova in zone ad elevato rischio sismico. L’emergenza c’era già, la pandemia l’ha accentuata. Dobbiamo ripensare il sistema di istruzione con l’obbligo scolastico dai tre ai diciotto anni, raggiungere l’obiettivo europeo per gli asili nido, estendere il tempo pieno, riconoscere il diritto soggettivo alla formazione permanente per ridurre il rischio che parte del mondo del lavoro resti fuori dai processi di trasformazione tecnologica. Davvero, non credo che questo sia il momento delle polemiche ma quello in cui si risolvono i problemi. È inutile cercare capri espiatori».

Resta una situazione di forte incertezza per le famiglie. Di chi è la colpa?

«Il governo, non solo la ministra, dovrebbe riconoscere che, purtroppo, si è accumulata una serie di ritardi. E non per responsabilità del sindacato. Si deve recuperare».

Al di là dei grandi obiettivi, forse anche condivisi, lo scontro con il governo riguarda la stabilizzazione del personale precario. La ministra, però, ha detto che si faranno i concorsi.

«I concorsi devono avere cadenza regolare per dare certezza a tutti, anche ai giovani. Siamo contrari a una scuola che si è trasformata negli anni in una fabbrica di precariato. Ci sono ogni anno decine di migliaia di posti in organico di fatto che rimangono precari. Sono sempre più convinto che i nostri ritardi nella crescita dipendano in larga misura dall’abnorme precarietà nel mondo del lavoro. Ma così non ci sarà alcuna “rinascita”».

 

Sulla riapertura delle scuole

di Concita De Gregorio (La Repubblica del 21/8/2020)

Lucia Azzolina assicura che le scuole riapriranno dal 1 settembre nonostante «sia in atto un sabotaggio da parte di chi non vuole che ripartano». Un mese fa il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, in sua presenza e di fronte a un piccolo gruppo di giornalisti e commentatori chiamati a Palazzo Chigi a discutere di scuola, aveva parlato di «inaccettabile ricatto del sindacato che minaccia di paralizzare la ripresa scolastica». Alla ripartenza mancano dieci giorni. Quello che serve, dice Azzolina, è che «si prenda a remare tutti nella stessa direzione».

azzolina-foto-1

Le scuole riapriranno per tutti, in presenza, anche se i dati del contagio dovessero peggiorare?

«Ad oggi sì. Tutti ci auguriamo che i dati migliorino. Dipende dai comportamenti. E’ una questione di responsabilità: individuale e collettiva. Gli esami di Stato si sono svolti in sicurezza, nessun ragazzo si è ammalato. I nuovi contagi sono avvenuti in vacanza, non a scuola».

Quindi riapertura il 1 settembre per chi deve recuperare e il 14 per tutti. In presenza. Otto milioni di studenti in classe.

«Si, tranne Calabria Puglia e Sardegna che hanno deciso di riaprire dopo le elezioni. Tornare a scuola è fondamentale soprattutto per i ragazzi di famiglie fragili. Non farlo significherebbe lasciarli per strada: le criminalità e le mafie non aspettano altro».

C’è un rapporto sulle “Indicazioni operative per la gestione di casi e focolai di Covid nelle scuole”. Da 3 a 18 anni. Dice che se c’è un solo caso accertato tutta la classe deve stare in quarantena. La preoccupa?

«Bisogna rispettare le regole. Un metro di distanza. Se non ci sono le condizioni, nel rapporto spazio/numero di studenti, bisognerà usare le mascherine. “In via provvisoria, per garantire l’avvio dell’anno scolastico”, questo dice l’ultimo rapporto del comitato tecnico scientifico. Ne daremo 11 milioni al giorno. Nulla vieta poi che il dirigente scolastico disponga – solo per la secondaria di secondo grado – la didattica a distanza per alcuni gruppi. Non c’è la scuola, ci sono le scuole: ogni situazione è diversa e l’autonomia dei dirigenti molto ampia».

La ricreazione? In classe?

«Dipende dalle situazioni. Scaglionati, con percorsi di entrata e uscita, se c’è lo spazio. Tutto si può fare nel rispetto del distanziamento».

Se i ragazzi – minori – stanno a casa, in quarantena, dovrà stare qualcuno con loro. Avete pensato a nuove misure a sostegno delle famiglie? Le donne, che spesso guadagnano meno anche per via delle disparità salariali, sono più facilmente indotte a restare a casa.

«Proprio di questo ho discusso ieri con alcuni colleghi di governo. Mi piacerebbe che si studiassero modi per incentivare la funzione di cura da parte degli uomini, la turnazione».

Come?

«Ci stiamo lavorando. Le donne sono state le più penalizzate, anche nel lockdown, e siamo tutti d’accordo che non possa passare dall’emergenza il ritorno a vecchi schemi, la retorica degli angeli del focolare».

Si è parlato tantissimo di banchi con le ruote. Sono indispensabili alla ripresa della scuola?

«Si parla moltissimo a sproposito. La disinformazione è capillare e temo, strumentale a seminare incertezze e paure. Abbiamo comprato due milioni di banchi tradizionali e 450mila con le ruote su precisa richiesta dei dirigenti. Il commissario Arcuri ha curato la gara: sono stati stanziati 300 milioni. No, non sono indispensabili. Sono molto migliorativi, però: sono più piccoli, funzionali, moderni. Favoriscono la didattica di gruppo, non frontale. Non ci trovi sotto il chewingum di tuo nonno. Arredi nuovi inducono a prendersene cura, come sempre si dovrebbe».

Parliamo delle “forze che remano contro”, i “sabotatori”. Chi sono?

«Ho collaborato io stessa con un sindacato della scuola fino al 2017. Non c’è dubbio però che in questo ruolo mi sia trovata di fronte a una resistenza strenua al rinnovamento. Non è un mistero che i sindacati siano contrari al concorso con prova selettiva: vorrebbero stabilizzare i precari, immissione in ruolo per soli titoli. Ma sa la sorpresa qual è? Per 80 mila posti sono arrivate in totale 570mila domande. Di queste solo 64 mila sono di docenti con almeno 36 mesi di servizio. Le altre 506 mila sono di neolaureati o giovani docenti. I precari hanno diritti acquisiti, ma i giovani hanno diritto di accesso. I concorsi sono indispensabili. Formazione del personale e digitalizzazione passano anche dall’immissione di energie nuove nella scuola».

Sono già certe le date dei concorsi?

“La prima settimana di ottobre lo straordinario, con una sola prova. A seguire l’ordinario, con la prima prova preselettiva, visto il numero di domande».

C’è dunque accordo con le forze sindacali?

«Le istanze in campo sono moltissime, tutte legittime, e la volontà di accoglierle, fin dove possibile, assoluta. Ciò che non è ammissibile sono atteggiamenti che mirano a conservare potere e rendite di posizione nell’interesse non di tutti ma di alcuni. Molti dirigenti scolastici mi raccontano di diffide che ricevono in questi giorni, poi le minacce di sciopero, di richieste in massa di aspettativa: viviamo un momento in cui come mai prima dobbiamo collaborare. Io sono dalla parte della scuola. Vorrei tornarci avendo fatto il possibile per migliorare quel che ho trovato».

Dice questo perché pensa al rimpasto di governo? Il suo ministero sembra molto ambito.

«Non me ne occupo, glielo assicuro. Solo, vedo dalle foto, sono sempre donne le rimpastabili. Mi sbaglio?».

Lei è oggetto di critiche molto pesanti, anche personali.

«Quando dicono che sono impreparata non me ne curo. Ho due lauree, ho insegnato molti anni, amo il mio lavoro e ci voglio tornare. Quando parlano del rossetto o delle unghie penso che viviamo una società profondamente sessista. Anche per questo che la scuola è un investimento fondamentale. È a scuola che si impara a stare insieme nel rispetto. Storia diritto matematica letteratura, ma prima di tutto dialogo e rispetto».

Aggiornamento riguardo le elezioni in Sardegna, con coda pseudoculturale penosamente popolare

di Piero Murineddu

Si, giusto in riferimento a quanto ho scritto lo scorso 19 agosto sulle imminenti consultazioni elettorali, con particolare riferimento alla mia isola, la Sardegna, e una patetica coda pseudoculturale riguardante Sossu, paesotto romangiate conosciuto universalmente per quel povero balenotto lasciato marcire per mesi sulla battigia.

Per quanto concerne le “Suppletive”, la Sinistra si é ulteriormente frantumata. Leggo che il PSI ha schierato un altro professionista della Medicina, tal Gian Mario Salis. Ciò a riprova del sempre più cronico masochismo di chi in politica crede di viaggiare a mano manca, non so se con la retromarcia perennemente inserita.

Le Amministrative invece nell’isola si terranno il 24 e 25 ottobre, giusto per regalare qualche giorno di vacanza in più ai ragazzi…..visto che quest’anno ne hanno avuto poca!

Per quanto riguarda l’alta cultura donata gratisi al mio paesotto sardo dal per me indefinibile Sgarbato Nazionale, leggo anche che nella serata del plaudente tripudio di venedi scorso é stata strumentalizzata l’ingenuitá di un tredicenne locale, invitato poi sul palco a tener compagnia per tutto il tempo al “docente”, produttore – cosa risaputa e lo si vede dalle comparsate televisive – di eccessiva salivazione causa “barra”, il quale gli ha fatto dire che, esclusi naturalmente lui e gli altri politici presenti, tutti gli altri sono degli emeriti stronzi. Grande lezione di civiltá impartita al ragazzino e inevitabilmente al pubblico, in buona parte smascherinato. Ma su questo si poteva stare tranquilli, in quanto il ravennate “filosofo” prima di fare la lectio sull’esaltazione alcolica e quindi “salutare” del vino, strumentalizzando l’arte pittorica come usa fare e della quale dicono sia esperto, ha rimarcato che Virusincoronato é ormai un esserino innocuo ininfluente, e verosimilmente lo é sempre stato. Come previsto, insomma.

Il tutto con l’inorgoglito patrocinio dell’Amministrazione di Sossu, paesotto dove invecchio sognando le Alture. In tutti i sensi voglio dire.

Ps. Una zoomata sulla prima foto potrebbe aiutare a riconoscere l’autore della divertita risata, dato più che é sprovvisto di mascherina, cosa voluta e fors’anche…esibita. Dei due che si trovano a lui affiancati nel divano buono di rappresentanza, sindaco e presumo assessora alla cultura ( cultura? Mah…) , la mascherina impedisce di capire se anche loro sono divertiti da cotanto…squallore.

Boh, ho finito. Punto

WhatsApp-Image-2020-08-22-at-15.09.54-1-777x437~2


WhatsApp-Image-2020-08-22-at-17.18.33-777x437