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Roberto, uomo buono e grintoso

di Piero Murineddu

Roberto Malgesini era nato a Morbegno nel 1969 e nel 1998 divenne sacerdote. Da sempre in prima linea accanto alle persone in difficoltà, schivo e defilato nello stile, non faceva mai mancare il suo sostegno a chi incontrava lungo la strada, costantemente e senza risparmio al servizio di ogni forma di fragilità umana.Da anni assieme a un gruppo di volontari portava i pasti caldi all’alba ai senzatetto e ai poveri della città. Aveva stretto con loro profonde relazioni basate sulla conoscenza e la fiducia cresciuta nel tempo. La mattina del 15 settembre 2020,  alle sette circa di mattina, viene ucciso da uno dei tanti a cui non faceva mancare il suo aiuto. La Vita in Roberto si é così Trasformata. Subito dopo l’uomo si é recato nella vicina caserma dei carabinieri per costituirsi. 

Di seguito, parole sparse di chi lo ha conosciuto e dello stesso Roberto, a dimostrazione che non era tipo d’abbassare passivamente la testa davanti alle ingiustizie….

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Impossibile non volergli bene

“Don Roberto prima di essere un prete era un uomo buono, uno di quelli a cui tutti volevano bene perché era impossibile non volergliene. La sua vita l’aveva dedicata agli altri ed era in quel modo che trovava la sua felicità: aiutare il prossimo era la sua vita. Ha dedicato la sua vita al prossimo e ha costruito negli anni una rete solidale che aveva toccato tutti: dai migranti ai senzatetto, dalle prostitute ai detenuti.Don Roberto aiutava tutti e lo faceva nell’unico modo che conosceva, quello dell’accoglienza. A lui non interessava chi fosse la persona che aveva bisogno di aiuto, lui c’era e basta: le colazioni al mattino, la mensa dei poveri, e quando era necessario caricava in macchina magari chi aveva bisogno e lo accompagnava in ospedale o dal medico. Trasmetteva tranquillità, anche solo il suo tono di voce, la sua pacatezza e tranquillità ti faceva capire quanto amore mettesse in quello che faceva. Insieme a lui e ad un’altra collega preparavamo del tè che mettevamo in alcuni thermos che poi offrivamo insieme con alcune brioche alle ragazze in strada e così le accoglievamo nel nostro camper. Era un modo per farci conoscere e far capire loro che potevano fidarsi. E così anche loro hanno iniziato a voler bene a don Roberto. A volte quando ci vedevano arrivare le ragazze coprivano quelle parti del corpo che erano costrette a scoprire per prostituirsi. Lo facevano in segno di rispetto per lui che invece scherzava e diceva ‘Ragazze ma sono io, don Roberto’. Prego per don Roberto e per l’uomo che ha compiuto questo tremendo gesto.”

Il disagio esistenziale di chi ha ucciso

“Non so cosa sia accaduto ma posso solo immaginare il disagio che spinge un uomo a compiere un gesto del genere e per questo è necessario pregare anche per lui, uno degli ultimi che don Roberto aiutava”

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Un uomo che ha dedicato la propria vita agli altri

“Quanto è accaduto ci priva in maniera così brutale di un sacerdote, di una persona che ha dedicato la sua stessa esistenza, senza risparmio, a quella degli altri. Col lavoro e la fatica, ma sempre con il sorriso, nella continua ricerca di soluzioni comunque sempre perseguite declinando concretamente il Vangelo.Siamo orfani di una presenza discreta, ma sostanziale, che tanto bene ha fatto a tante persone. Si impone, ancora una volta e ancora per questa tragedia, la necessità di rinnovare i nostri sforzi grazie a riflessioni paradossalmente serene, cercando di intravedere nel buio di questo sacrificio, quali siano le ragioni per continuare la strada tracciata da don Roberto, ognuno a modo suo, senza uscire dai binari del comportamento che quest’uomo e questo sacerdote ha sempre adottato nella sua esperienza pastorale. Abbiamo quindi l’opportunità di ritrovarci come comunità solidale avendo l’occasione di partecipare sinceramente al grande dolore dei familiari, della intera Diocesi e facendo proprio il dolore anche di quanti lo hanno sostenuto ed aiutato e di coloro che hanno da lui ricevuto conforto concreto, spirituale e soprattutto amore”.

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La sua profonda umanità 

«Ancora una volta un sacerdote paga con il sacrificio più grande la sua autentica e profonda umanità, la sua instancabile devozione verso gli ultimi. Voglio pensare che questo omicidio irragionevole possa costituire una porta di speranza; che il sacrificio di don Roberto possa diventare un messaggio di carità per ciascuno. Che sappia farci comprendere le conseguenze di una convivenza umana e di una politica che troppo spesso dimenticano gli ultimi, lasciando sole le persone che si occupano dei più poveri e malati, degli esclusi».

 

 

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Non mi sembrava neanche un prete

“Era una persona eccezionale. Gli dicevo sempre che non mi sembrava neanche un prete. Le mie amiche spesso si sono rivolte a lui perchè avevano problemi. Gli procurava cibo e vestiti, tutto quello di cui avevano bisogno”

Vicino a chi era in difficoltà

“Questa tragedia è paragonabile a un martirio, voleva trasmettere un messaggio cristiano attraverso la vicinanza alle persone in difficoltá”

Prossimità che nulla chiede

«Per chi lo ha conosciuto, rimane un uomo, un prete, che ha scelto di testimoniare la mitezza della prossimità che nulla chiede, che nulla pretende. Resta dinanzi a tutti noi la sua immagine, mite e silenziosa, i suoi gesti di gratuita, generosa e affettuosa prossimità a quelle persone che con la loro presenza occupano lo spazio della penombra della nostra società, dove si muove l’abbandono, dove la mancanza di speranza si declina in un quotidiano di espedienti, di rabbia e di desolazione. Si faccia tesoro di quanto ha voluto e saputo insegnarci con la sua vita in mezzo a ciò che papa Francesco da tempo ci indica come lo “scarto” di una società ricca e indifferente».

Il primo ad aiutarmi

“Per me era come un padre. Quando sono arrivato, solo, senza casa e lavoro, è stato lui il primo ad aiutarmi, poi ho trovato un’occupazione ma con lui sono sempre rimasto in contatto, se avevo bisogno di medicine, di essere accompagnato per una visita, chiamavo lui.”

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Cosciente dei rischi che correva

“Era una persona mite, ha votato tutta la sua vita agli ultimi, era cosciente dei rischi che correva. La città e il mondo non hanno capito la sua missione. Questa tragedia è paragonabile a un martirio, voleva trasmettere un messaggio cristiano attraverso la vicinanza a queste persone. E’ una tragedia che nasce dall’odio che monta in questi giorni ed è la causa scatenante al di là della persona fisica che ha compiuto questo gesto. O la smettiamo di odiarci o tragedie come questa si ripeteranno. Spero che questo suo martirio possa contribuire allo svelenamento della società”.

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Ed ecco la Grinta di don Roberto, con parole da lui scritte per una Via Crucis di due anni fa, riportate dall’amico poeta Lino Di Gianni che ringrazio:

Ho visto togliere panchine e sanitari in una piccola piazza della mia città natale dove giovani migranti trovavano un po’ di sollievo durante il giorno prima di essere ingabbiati in centri chiamati di accoglienza durante la notte.

Ho visto togliere la fila di sedie in un santuario detto della Provvidenza per non lasciar più entrare i senza tetto che durante il giorno venivano a riposare davanti al crocefisso che apriva loro le braccia.

Ho visto emettere una ordinanza per scacciare senza tetto che chiedevano un po’ di attenzioni ai turisti e alla gente ricca che festeggiava Natale e il nuovo anno.

Ma ho visto anche dei fratelli continuare ad aiutare gli scacciati, passando silenziosi oltre le minacce delle autorità o della maggioranza del popolo”.

Più di recente…..

“L’inverno è alle porte. Non sono un romantico: siamo persone, siamo cristiani, conosciamo il detto del Signore: quanto hai fatto a uno di questi, l’hai fatto a Me. Io, prete, qui, devo essere, almeno, la Sua Ombra… Non posso barare.E chi, e quale legge ci può impedire di ‘aiutare’ questa gente allo sbando?”

Grazie, carissimo Roberto

L’ Ascolto e il Comportamento in don Pino

di Luigi Ciotti, prete

 

Se era un “rompiscatole”, lo era perché le scatole le rompeva innanzitutto a sé stesso, perché non si accontentava di “fare”, ma voleva fare bene, con rigore, coerenza e serietà. Il primo aspetto che salta agli occhi è quello dell’educatore.

Don Puglisi ( 15/9/1937 – 15/9/1993) aveva un talento raro nell’educare. Il che significa che il suo insegnamento era fondato sull’ascolto e sul comportamento, più che sulle parole. Non gli interessava tanto trasmettere nozioni, quanto che le persone diventassero capaci di scegliere con coscienza e responsabilità. Ossia che fossero libere. In questo senso, educare per lui era davvero accompagnare ciascuno a scoprire la propria diversità, con pazienza e delicatezza, senza pressioni né condizionamenti, stimolando quel confronto con le grandi domande della vita senza il quale la nostra libertà è ridotta a capriccio, arbitrio, semplice sfogo di impulsi.

Che tutto ciò portasse a esiti diversi dall’abbracciare la fede, non era affatto per don Puglisi segno di sconfitta. Per lui contava che le persone imparassero lo stupore e la conoscenza, capissero che è l’io in funzione della vita e non la vita in funzione dell’io. In quella dimensione avrebbero trovato, anche da laici, il loro modo di credere e di vivere. «Nessun uomo è lontano dal Signore – scrisse un giorno meravigliosamente – Lui è vicino, senz’altro, ma il Signore ama la libertà. Non impone il Suo amore, non forza il cuore di nessuno di noi. Ogni cuore ha i suoi tempi, che neppure noi riusciamo a comprendere. Lui bussa e sta alla porta».

Questa ricchezza umana e apertura di vedute don Pino la portò anche dentro la Chiesa. Ancora giovane, negli anni Sessanta trovò nel Concilio la risposta ai sentimenti e alle intuizioni che turbavano il suo cuore. E se la Unitatis Redintegratio del 1964 sottolinea che «la Chiesa pellegrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui essa stessa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno», la vita di don Puglisi sembra incarnare questo spirito inquieto, teso a una continua riforma di sé, disposto ad accettare con fiducia e coraggio le sfide anche ardue che gli si pongono innanzi. Così quando questo vivere la fede ritenuto da alcuni troppo “moderno” costa al giovane prete il trasferimento a Godrano, paesino di mille abitanti a circa 40 chilometri da Palermo, don Pino non si scompone più di tanto. E agli amici che protestano contro un provvedimento sentito come una punizione, risponde col suo sorriso mite: «Non sono figli di Dio anche questi uomini di Godrano?».

Inevitabile il richiamo alle parole che don Milani scrisse alla madre da Barbiana: «Non c’è motivo di considerarmi tarpato se sono quassù. La grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, e neanche le possibilità di fare del bene si misurano sul numero dei parrocchiani».

Le due situazioni presentano però una differenza di fondo. Se infatti a Barbiana don Lorenzo trova una comunità da condurre con totale dedizione sul cammino della conoscenza e del riscatto sociale, a Godrano don Pino s’imbatte in una realtà chiusa, diffidente, segnata da una lunga e sanguinosa faida fra famiglie. In quel paesino incastonato nelle Madonie sperimenta sulla propria pelle la forza di una mentalità – quella della vendetta e di un malinteso senso dell’onore – che, anche quando è strettamente legata alla mafia, le offre un terreno fertile per radicarsi. E che può trovare indiretta sponda in forme di religiosità confinate nel «chiuso della sacrestia e di pratiche devozionali e bigotte».

Per don Pino, tuttavia, è una ragione di più per rimboccarsi le maniche, e anche a Godrano saprà stanare la speranza in cuori induriti dall’odio e dal pregiudizio, suscitando negli adulti il desiderio del perdono e della riconciliazione, nei giovani un’idea di convivenza non riducibile alle mura di casa o all’appartenenza al proprio clan. Ecco allora che il rientro a Palermo e il successivo ritorno nella natia Brancaccio sono per Pino l’occasione per continuare con maggior forza il cammino intrapreso: da un lato i percorsi educativi «perché con i bambini e gli adolescenti si è ancora in tempo» – dall’altro il concepire la parrocchia, prima che come un luogo di culto, come uno strumento di promozione umana e sociale, strumento di una Chiesa più aperta, più “periferica”, più vicina ai poveri, più attenta alle questioni sociali. I cui pastori non dimenticano certo la dottrina, ma sanno che essa non può sostituire la costruzione del bene e la ricerca impervia della verità.

«Il sacerdote di domani – ha scritto Karl Rahner, il grande teologo conciliare che fu uno dei riferimenti di Puglisi – sarà un uomo che sopporta la pesante oscurità dell’esistenza con i suoi fratelli e sorelle. Il sacerdote di domani non sarà colui che deriva la propria forza dal prestigio sociale della Chiesa, ma che avrà il coraggio di far sua la non-forza della Chiesa». Il libro racconta nei dettagli le tante iniziative che questo piccolo grande prete ha saputo mettere in piedi negli anni del suo ritorno a Palermo, il suo affanno e la sua costante rincorsa al tempo, rubato al sonno e perfino al cibo (se non riusciva quasi mai a essere puntuale, don Puglisi, era perché prima lo era stato con tante, con troppe persone…). Racconta il suo caricarsi delle speranze e delle istanze di giustizia di tanta gente ma anche il suo promuovere l’impegno collettivo, la collaborazione con altre realtà ecclesiali e civili, perché «se ognuno di noi fa qualcosa, allora si può fare molto». E ci si chiede, leggendo queste pagine, come un’attività così frenetica e incisiva (e tuttavia discreta: Puglisi era un uomo schivo, che rifuggiva ogni protagonismo) potesse non finire nelle mire dei boss e di quanti vogliono mantenere le comunità sotto una cappa d’ignoranza, di miseria, di fatalismo. Mire – duole dirlo – che si sono avvalse nel passato anche di sottovalutazioni e perfino compromissioni in ambito ecclesiastico, prima che le nette parole di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, i martiri di don Puglisi e di don Peppe Diana, evidenziassero l’incompatibilità della mafia con lo spirito del Vangelo, con l’amore di Gesù per i poveri, i miti, i perseguitati.

Molti hanno cercato di dare una definizione all’attività pastorale di don Pino. Nel mio piccolo voglio sottolineare come la definizione “prete antimafia” sia sbagliata non solo perché ogni definizione, sia pure attribuita con le migliori intenzioni, impoverisce la complessità di una vita. Ma perché Puglisi aveva capito che il problema non è tanto la mafia come organizzazione criminale (se così fosse basterebbero la magistratura e le forze di polizia) quanto la mafiosità, il mare dentro cui nuota il pesce mafioso. L’assassinio di don Pino Puglisi ci ricorda che sconfiggeremo le mafie solo quando saremo capaci di fare pulizia attorno e dentro di noi, quando supereremo gli egoismi, i favoritismi, i privilegi e l’inevitabile corruzione che questo modo d’intendere la vita porta con sé. Solo quando avremo il coraggio di riconoscere anche le nostre responsabilità, responsabilità non solo dirette ma indirette, riferibili a quel peccato di omissione che consiste nell’interpretare in modo restrittivo e puramente formale il nostro ruolo di cittadini.

In tal senso la beatificazione di don Pino Puglisi è, paradossalmente, una “spina nel fianco” per tutti noi. Non solo per una Chiesa chiamata più che mai, nell’attuale crisi mondiale, a saldare il Cielo e la Terra, la dimensione spirituale con l’impegno per la giustizia sociale. Ma per chiunque, cristiano o laico, si senta chiamato a contribuire alla costruzione della speranza già a partire da questo mondo.

 

(dalla prefazione scritta da don Luigi Ciotti per il libro “Pino Puglisi il prete che fece tremare la mafia” di F.Deliziosi )

ETICHETTEcheDIVIDONO

di Beppe Pavan

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Ho trovato molto stimolante la riflessione di Stefano Allievi su “Confronti” di febbraio 2020. É un pensiero che mi accompagna da molto tempo, insieme alle sue contraddizioni, come quella che mi fa tifare Italia nelle competizioni sportive. Ma anche questo tipo è in crisi, in verità.

Scrive Allievi: «Lo Stato-nazione è in crisi, come ogni cosa, vive dei cicli: nasce, cresce, si sviluppa, muore. Anche le istituzioni (…) Con la crisi dello Stato-nazione si è persa anche l’idea di patria come di una comunità-rifugio che identificherebbe il nostro noi di riferimento. (…) Probabilmente è un bene: si perde il suo aspetto burbero, severo, un po’ ottuso, minaccioso e talvolta impietoso – patriarcale, paternalistico e padronale a un tempo. Ma siamo rimasti orfani. (…) Non sappiano dove stiamo andando, né se stiamo veramente andando da qualche parte, o semplicemente le cose accadono, senza che alcuno le progetti o le persegua. (…) La patria è morta: pace all’anima di chi è morto per essa. Ora ci tocca trovare con cosa sostituirla (…)».

Gli Stati-nazione, con i loro egoismi intrinseci, sono quelli che impediscono all’Onu di realizzare l’ideale per il quale è stata pensata e creata: mettere pace tra le Nazioni, gestire pacificamente gli inevitabili conflitti, ecc.

Anche nelle Organizzazioni sovranazionali, come la Comunità Europea e l’Organizzazione degli Stati americani, continuano a dominare i “più uguali”, i prepotenti, come succede tra gli adolescenti ancora immaturi e tra gli animali della fattoria di Orwell. Anche dove sembrano regnare le migliori intenzioni, come nel cuore e nelle parole di Sergio Mattarella, persistono il culto e la retorica della Patria e i sovranisti hanno buon gioco (non sempre facile, in realtà) a proclamarsi difensori dei confini della Patria perchè cercano di impedirne l’invasione da parte dei disperati della Terra, delle vittime della nostra secolare occidentale prepotenza.

Io so dove voglio andare, con che cosa sostituirla: con la comunità umana, universale e meravigliosamente variegata, con l’amor di comunità. Quello che “ci tocca” fare è cominciare ciascuno e ciascuna di noi a parlare così, a cambiare linguaggio, formule, riti e celebrazioni; a praticare celebrazioni e ricorrenze alternative, ad esempio la “festa dell’Europa”, la “festa dell’Onu”… nelle giornate in cui ricorrono le date delle loro fondazioni. E, insieme, in ogni celebrazione nazionale riflettere e promuovere i passi avanti verso il superamento del nazionalismo.

La urgente necessità di avviare la “pianificazione ecologica” ci impone di pensare la politica e l’economia a livello davvero globale, planetario: persistere nei particolarismi è sempre più masochistico.

Io non mi sento affatto “orfano”: mia madre è la Terra, fratelli e sorelle mi sono tutti gli uomini e tutte le donne che la abitano. Se resistiamo nel parlare così il nostro linguaggio sarà sempre più inclusivo e ci aiuterà a consolidare un nuovo simbolico, che darà vita e forma a una vera comunità umana.

In questo senso il “Regno di Dio” ci è vicino, ci accompagna nel nostro qui e ora di uomini e donne che cercano la felicità. Non è millenarismo… non è “vicino” nel senso che “presto verrà”, ma nel senso che ci “vive già accanto”, è “vicino” a noi: è nelle persone e nelle pratiche che promuovono l’amore universale, la solidarietà e la condivisione, la sobrietà di tutti e tutte come mezzo per garantire a ogni uomo e a ogni donna una vita dignitosa.

Ci sarà sempre vicino e ci accompagnerà nei nostri tentativi di abbandonare i muri, le discriminazioni, il sessismo, l’omotransfobia, le differenze tra ricchi e poveri, le gerarchie di stampo patriarcale… per imparare a vivere sempre in cerchio, come intorno alla mensa insieme a Gesù, imparando a spezzare tutti e tutte la nostra vita per vivere la reciprocità sempre, in gioia e semplicità.

Ancora uno spunto, suggerito dall’articolo di Pier Giorgio Ardeni che, su Il Manifesto del 15 luglio scorso, riflette sui recenti dati Istat relativi ai movimenti demografici in Italia, che lamenta ignorati dalle Istituzioni. Cito un dato solo, significativo: «Nell’ultimo quinquennio sono 766mila gli stranieri “naturalizzati” [che hanno, cioè, ottenuto la cittadinanza italiana], il che vuol dire che, se non fosse stato per loro, la popolazione residente in Italia sarebbe calata di 1milione e 600mila unità. (…) Ma le cifre non solo dovrebbero servire come base per il decisore politico, ma alimentarne la discussione, indicarne le priorità…».

«Ma il Palazzo – prosegue Ardeni – con la classe politica che lo abita, stabilisce le sue priorità guardando altrove… I media italiani guardano ai “social” – quelli sì che fanno notizia – e a come questi interagiscono con il Palazzo. L’Italia vera, quella di cui parla l’Istat nei suoi comunicati, sta altrove».

Allora – tornando al nostro tema – se abolissimo gli Stati-nazione e le relative frontiere il problema si risolverebbe da sé: l’umanità si dislocherebbe a vivere dove può, senza etichette identitarie. La Terra diventerebbe un vero villaggio globale.

Il Perdono, tutt’altro che debolezza

Paolo Zambaldi, giovane prete di Bolzano, rientra nell’elenco di coloro che hanno dedicato un sufficiente spazio durante la settimana, concentrandosi sul passo evangelico, per trarne insegnamenti che servano ad arricchire la propria e l’altrui vita, e di questo li ringraziamo.

Don Paolo ha capito che la Rete, se usata con intelligente criterio, é un mezzo che offre l’opportunità, almeno nel suo caso, non tanto per gongolarsi nel conteggiare i propri seguaci, cosa provata dai “mi piace” nella piattaforma sociale qual’ é FB, quanto nell’aprire ad altri il proprio pensiero che rispecchia senz’ombra di dubbio la sua normale vita quotidiana.

Cura uno spazio definito “Leggere i segni dei tempi” don Paolo, e i “segni” comprendono qualunque ambito che riguarda le persone, non solamente quello strettamente ecclesiale. Diciamolo chiaramente che di troppi preti, fuori dai temi “di Chiesa” non se ne conosce il punto di vista sulle svariatissime vicende che riguardano la vita sulla terra. Sembra quasi che, per una distorta  lettura di alcuni passaggi biblici, loro si debbano occupare ESCLUSIVAMENTE delle Cose Alte, “spirituali”. Se lo facessero in modo un tantino edificante ancora ancora, ma non sempre é così. Ho paura che molti lo facciano per non rischiare d’inimicarsi chi la pensa diversamente. A me tale atteggiamento sembra troppo comodo e se vogliamo pure vigliacchetto, oltre che rivestito di quella vomitevole ambiguitá, questa si condannata nelle Scritture. Oggi più che mai, riguardo a molti temi, É NECESSARIO PRENDERE POSIZIONE, e chi non lo fa, qualuncqe ruolo ricopra, manca ad un preciso DOVERE.

Nel suo blog, scrivendo di proprio pugno o riportando scritti di altri, don Paolo affronta diverse tematiche e su ciascuna non manca di far conoscere il suo pensiero. Compresa certamente la politica, quella locale sopratutto, con cui ovunque molti preti e frati di dubbio valore umano sopratutto,  fanno di tutto e anche di più per esibire un “buon” rapporto chenonsisamai, e di conseguenza, facendo ben attenzione a non pestare i “suscettibili” piedini di chi ha influenza sugli altri.

Bolzano é cittá dove chi ha i mezzi vive bene. Chi ha i mezzi. No, non come dappertutto, perché negli agglomerati urbani considerati ricchi, e Bolzano lo é, l’egoismo si rende piu evidente, diversamente da quelli più modesti, dove l’attenzione verso chi fatica si concretizza maggiomente. Anche la colorazione “politica” é molto ricca. Oltre la territoriale SVP, nel Consiglio comunale siedono anche i Verdi ( si, esistono ancora, meno male…) e addirittura un terzetto di Casapound.

Il Perdono, Forza capace di trasformare il mondo.

 di Paolo Zambaldi

Il tema del perdono ( Mt 18,21-35)  è quanto mai inattuale in un’epoca in cui l’odio, la violenza e la collera sembrano essere una risposta legittima alle difficoltà della vita. Quasi che odiare fosse un diritto. Un’arma per tacitare la paura. Per affermare i propri diritti.

Eppure è solo “perdonandoci” che ci salveremo .

Il perdono nasce da una percezione amorosa dell’altro, nasce come partecipazione e interesse per la sua vita. E’ la conseguenza di quello che dice oggi S.Paolo ”Nessuno di noi vive per se stesso e muore per se stesso…”

Noi viviamo per gli altri, con gli altri. La relazione è la chiave della felicità, è ciò che condiziona la nostra vita. Se l’odio prevale non c’è che separazione, infelicità, tempo sprecato.

Questo vale a livello individuale. Pensiamo ai fallimenti di coppia, alle insanabili liti tra fratelli, amici, conoscenti, vicini, figli… Quanto tempo sprecato, quanta vita sprecata.

Vale anche a livello sociale e politico dove l’odio, l’egoismo, l’interesse, inquinano e paralizzano ogni riforma produttiva, ogni dialogo, ogni rivendicazione di giustizia.

Il perdono è un tema fondamentale del messaggio evangelico. Anche se mai valorizzato abbastanza, anzi spesso ridotto a un vuoto buonismo, o a un ideale per pochi illusi.

Il perdono proposto e testimoniato da Gesù ha una caratteristica che spaventa: è senza limiti. Non fa distinguo di nessun genere. E’ l’espressione di un amore paziente, benigno, privo di invidia, umile, disinteressato, che non tiene conto del male ricevuto che “tutto crede, tutto spera, tutto  sopporta”(S.Paolo, nella prima lettera ai corinzi).

Pietro infatti, spaventato (come noi!) dalla proposta di Gesù, vuole quantificare.

“Quante volte? sette volte sette?” E’ tantissimo per lui reduce da una cultura dell’occhio per occhio/dente per dente…

“Quante volte”. L’uomo ha bisogno della regola. Ha paura del tutto e del sempre. ”Quante volte” ricorda tristemente la confessione (e spero che sia solo un ricordo!). “Quante volte” come se il numero determinasse la gravità del fatto, come se “vuotato il sacco” tutto fosse a posto.

Quella confessione era infatti il riflesso di una lettura giuridica del rapporto con Dio (colpa, confessione, pena = perdono). Una lettura consona al nostro bisogno infantile di rassicurazione.

Ma il perdono come Gesù (e Dio) lo intende,   è un approccio al mondo, un modo di stare al mondo. E’ un approccio amoroso senza limiti, senza esclusioni, senza giudizi.

Non possiamo tuttavia, non cogliere una contrapposizione/contraddizione che ci inquieta e ci interroga. Quella tra perdono e giustizia.

Dobbiamo perdonare l’assassino?

Lo sfruttatore, il politico disonesto, il ladro che affama i poveri?

Sarà Dio, che alla fine dei tempi, farà strage dei cattivi?

Spesso, come ho già detto, si è affidato a Dio il compito di giudice, commettendo due gravissimi errori:

Il primo è stato quello di ridurre la fede a un rifugio, a un’ alienazione, a un oppio che ha impedito qualsiasi reazione/rivendicazione, lasciando che l’ingiustizia prevalesse.

Il secondo è stato quello di applicare a Dio categorie umane talmente umilianti, che alla fine Egli ne è uscito privo di qualsiasi credibilità. Fare di Dio la proiezione dei nostri bisogni umani è senza dubbio una delle cause dell’atesimo e della perdita di significato delle religioni storiche .

Gesù, azzera queste visioni.

Egli pone il perdono alla base di ogni relazione.

Quanto? Sempre, per sempre.

E allora tutto è permesso?

Ognuno è responsabile di ciò che fa innanzitutto davanti alla sua coscienza. A lei deve rispondere in prima istanza.

Esiste poi la legge umana che, per quanto limitata, fa rispettare il diritto dei singoli.

E’ infine chiaro che la colpa esiste e rimane tale.

Ma noi come cristiani, nelle nostre relazioni, abbiamo scelto questa cosa forte, questo scandalo, che è il perdono senza condizioni.

Come ben ci insegnano le parabole evangeliche, Gesù vive immerso in questo perdono che include, senza eccezioni, ogni essere umano. Anche i suoi aguzzini: ”Perdona loro perché non sanno quello che fanno!”

E la lotta per la giustizia?

Le lotte si devono fare. La religione ha spesso confuso il perdono con la rassegnazione, ha anteposto l’amore di Dio all’amore per l’uomo, ha confuso la rivendicazione di diritti con la colpa, l’obbedienza con la virtù.

Ma le lotte devono essere sempre non-violente.

Le costituzioni democratiche (dove sono rispettate) ci concedono diritto di sciopero, di parola, di resistenza, di voto.

Naturalmente bisogna utilizzarli con un’assunzione di responsabilità (mi interessa il bene comune, mi occupo del mio vicino, della mia categoria, dei più poveri e dei più fragili, mi informo, prendo parte…)

Bisogna riappropriarsi della politica nel suo significato profondo che è come diceva don Milani “L’arte dell’uscirne insieme”. E’ un’utopia? No è una necessità se riflettiamo su quanti uomini e donne siano stati crocifissi dalla violenza, dall’odio, dalla guerra, dal razzismo, dalla povertà, dalla mancanza di diritti… dall’indifferenza!

Dunque il perdono non è buonismo, debolezza, illusione…

E’ una forza capace di trasformare il mondo.

La speranza smarrita nell’isola di Lesbo

Il campo profughi di Moria dopo l’incendio, il 10 settembre 2020. - Annalisa Camilli

“Non siamo animali”, grida un ragazzo, mentre un poliziotto gli intima di tornare indietro. A fianco a lui un gruppo di uomini trascina un carretto carico di valigie. Una bambina si è addormentata sul cumulo di sacchi. “Ma dove dobbiamo andare? Stiamo sulla strada da tre giorni”, dice qualcuno di loro. “Abbiamo fame, lasciateci andare almeno in paese a comprare del latte per i nostri figli, altrimenti finisce che qui muore qualcuno”, urlano gli uomini in inglese.

Un altro ragazzo si avvicina a un giornalista e gli chiede di aiutarlo a comprare qualcosa da mangiare. Ha i soldi, ma la polizia non gli permette di muoversi. Migliaia di persone sono ammassate lungo la strada che collega il campo profughi di Moria, il più grande d’Europa, distrutto da un incendio divampato nella notte tra l’8 e il 9 settembre, e la città di Mitilene, sull’isola di Lesbo. Lo schieramento di poliziotti in tenuta antisommossa impedisce ai profughi di raggiungere la città e ogni tentativo di rompere il blocco è respinto dagli agenti, che sono arrivati a sparare i lacrimogeni sui profughi. Dall’hotspot di Moria continua a salire una colonna di fumo nero provocato da un secondo incendio e per ore un elicottero dei vigili del fuoco vola basso sulle teste degli sfollati. Sono stati giorni di vento e di caldo afoso.

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Gli incendi appiccati in diversi punti del campo nella notte dell’8 settembre sono divampati velocemente, inghiottendo la baraccopoli e il centro di detenzione costruito nel 2015. Quello che resta è un cumulo di cenere, gli ulivi carbonizzati, gli scheletri delle tende e un odore acre di carbone e di gasolio. All’interno del centro di detenzione le strutture di ferro si sono piegate per il calore, le lamiere si sono deformate. Il paesaggio è quello di una città esplosa. Il giorno successivo all’incendio, i rifugiati sono tornati in piccoli gruppi a vedere cosa resta di quella che per mesi o per anni è stata la loro casa. Alcuni hanno provato a recuperare qualche oggetto personale risparmiato dalle fiamme: delle bombole del gas, delle bottiglie d’acqua.

Che ne sarà di noi?
Altri sono venuti solo a vedere cosa resta del campo di Moria, la baraccopoli-fortino, simbolo dell’inasprimento delle politiche europee dell’immigrazione a partire dal 2015. Hassan Mohammed si è avvolto un fazzoletto intorno alla testa e alla bocca per ripararsi dal sole, ma anche per proteggersi dal coronavirus. “Che ne sarà di noi?”, chiede, mentre guarda spaesato il campo distrutto. Non era certo un luogo bello, anche prima dell’incendio: le baracche del cosiddetto olive grove, l’uliveto, non avevano accesso all’acqua corrente né all’elettricità ed erano circondate da immondizia. Le tende, molte artigianali, erano insicure e inadeguate, ma ora la situazione è ancora più grave e le prospettive incerte.

Mohammed, originario della Somalia, ha perso i suoi documenti nell’incendio e teme che il processo per chiedere l’asilo possa diventare ancora più complicato. Negli ultimi due giorni non ha mangiato e ha dormito in un campo di sterpaglie. “I volontari distribuivano i pasti, ma ora da due giorni non viene più nessuno e noi abbiamo fame”, afferma. Le sue preoccupazioni sono legate anche al coronavirus perché alcuni ragazzi somali che vivevano nella sua stessa tenda sono risultati positivi al test del covid-19. “Non avevano sintomi”, racconta.

Ma poi sono risultati positivi al test. Mohammed è negativo, ma gli mancano informazioni sulla malattia e teme che siano state proprio le tensioni dovute alla situazione sanitaria a scatenare il panico tra gli abitanti di Moria. Nelle ultime settimane, infatti, almeno 35 persone erano risultate positive al covid-19 ed erano state messe in isolamento, ma tutto il campo profughi era in lockdown da 179 giorni. Per il governo greco sarebbero stati alcuni dei residenti del campo ad appiccare l’incendio, come era già successo in passato, per protestare contro la situazione nel campo durante la lunghissima quarantena.

Senza trasferimenti
Il 10 settembre il portavoce del governo greco Stelios Petsas ha annunciato che gli sfollati di Moria non saranno trasferiti sulla terraferma, accusandoli di aver provocato l’incendio: “Alcune persone non rispettano il paese che le sta ospitando, sembra che non vogliano ottenere un passaporto, né una vita migliore”. Il 9 settembre 400 minori non accompagnati sono stati trasferiti sulla terraferma, ma il governo ha annunciato che tutti gli altri sfollati rimarranno sull’isola, nonostante il campo sia stato distrutto e che saranno alloggiati temporaneamente a bordo di tre navi: due militari e un traghetto, che tuttavia non sono ancora arrivate a Lesbo.

Il timore che il campo profughi venga ricostruito ha alimentato anche le proteste degli abitanti di Lesbo che il 10 settembre hanno bloccato tutte le strade per accedere al centro del paese di Moria. Come avevano fatto lo scorso febbraio hanno usato camion, auto, massi per bloccare il traffico e impedire ai mezzi governativi e non governativi di raggiungere i profughi che dormono sulla strada e il centro di detenzione distrutto. “Non vogliamo che il campo sia ricostruito, negli ultimi cinque anni è stato tutto sulle nostre spalle, ora è arrivato il momento di evacuare l’isola”, afferma Lefterios, uno dei manifestanti del check point allestito sulla strada che collega il paese di Moria al campo profughi.

Migranti parlano con la polizia fuori dal campo di Moria, Lesbo, il 10 settembre 2020. - Annalisa Camilli

“Negli ultimi giorni abbiamo vissuto una situazione senza precedenti con incendi quotidiani”, ha aggiunto Yiannis Mastroiannis, uno dei leader delle proteste. “Abbiamo raggiunto il limite”. Da gennaio in Grecia è entrata in vigore una nuova legge sull’asilo che rende ancora più difficile ottenerlo, inoltre il governo guidato da Kyriakos Mitsotakis all’inizio dell’anno aveva sospeso i trasferimenti sulla terraferma, rendendo la situazione sulle isole greche ancora più insostenibile, annunciando il progetto di costruire nuovi campi. Dopo le proteste degli abitanti, a fine marzo i trasferimenti erano ripresi, ma il campo profughi era arrivato a ospitare in ogni caso 13mila persone, sei volte di più della sua capienza, stimata in duemila ospiti.

L’hotspot di Moria era stato costruito nel 2015 per volere dell’Unione europea nell’ambito dell’Agenda europea sulle migrazioni che prevedeva che nel centro le persone arrivate dalla Turchia via mare rimanessero solo per pochi giorni, per essere identificate prima di essere trasferite sulla terraferma e in altri paesi dell’Unione europea attraverso i ricollocamenti. Nel 2017 tuttavia il programma di reinsediamento dalla Grecia e dall’Italia è stato sospeso e le isole greche si sono trasformate in carceri a cielo aperto. La crisi sanitaria ha solo detonato una situazione che era già al collasso, nell’indifferenza delle autorità europee.

Proviamo a ribaltare il modo di vedere le cose

di Piero Murineddu

Violenza “bestiale”. Come al solito, figuriamoci. É uso, tradizionale  e del tutto fuori luogo, paragonare a quello che é solo istinto di sopravvivenza degli animali ben regolato dalla Natura, ogni atto di efferata crudeltá che solo gli uomini son capaci di compiere. E conseguentemente, reazione divenuta oramai scontata e resa pubblica attraverso i mezzi di comunicazione di questa strana modernità –  “leoni”? Più che altro coglioni da tastiera.. –  dove ci si sente autorizzati, con la scusa della comprensibile e doverosa indignazione, a costruire col proprio distorto pensare gogne se non addirittura ad ergersi ad implacabili giudici e contemporaneamente a boia col cappio o la mannaia in mano, pronti ad applicare la “giusta” sentenza.

E in questa sete di giustizia fai da te, ci passano anche gli avvocati, minacciati di morte perché si permettono di assumere la difesa degli “indifendibili”. Una Collettiva Smemoratezza che porta il Pensiero comune – solitamente diviso in tutto ma in certi casi divenuto Unico e concorde nel NON riconoscere a chiunque il diritto alla difesa ne tanto meno all’Appello – a scordare che viviamo in uno stato di diritto, diversamente dai regimi dittatoriali e tirannici.

E poi ci sono i soliti sciacalli della politica, quelli pronti a cavalcare qualsiasi evento per assicurarsi ciò che per loro conta maggiormente davanti a tutto il resto, cioé il consenso che faccia sperare nel più possibile  avvicinamento ai posti di comando o garantisca il loro  perpetuarsi se già li si occupa.

E ancora, guai insinuare che certe manifestazioni di violenza son maturati in un clima dove la forza muscolare la fa da padrona incontrastata, declinata in infinite forme, e quindi il prevalere di chi, invece dello sforzo di ragionare, toglie sguaiatamente parole, esse si di fine o rozza Violenza, che allisciano viscidamente la pancia dell’uditorio, irrimediabilmente sordo e insensibile ad ogni altro tipo di stimolo.

Un giovanissimo di origine capoverdiana a cui, per la testarda convinzione che il dialogo può ancora essere l’insostituibile Forza che può far incontrare gli esseri umani, é stata strappata la vita.

I soliti (purtroppo) conosciuti e per me innominabili li abbiamo visti affannati a dire che il colore della pelle, per i giovani probabilmente convinti che le arti marziali servano principalmente a farsi temere più che rispettare e amare, non abbia influito nella scomposta reazione. Visto il clima d’odio che c’é in giro, personalmente ho grossi dubbi.

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Mentre guardo in lontananza quell’ arcipelago in mezzo all’oceano Atlantico, non proprio vicinissimo alla costa senegalese e che nonostante la grande povertà la gente ci vive senza essere afflitti da tensioni sociali o politiche, mi viene da pensare che oggi Willy, nel pieno dei suoi vent’anni, con molta propabilità starebbe felicemente programmando il suo avvenire, sereno nell’animo perché pieno di sentimenti d’attenzione verso il prossimo.

Voglio essere vicino al dolore dei familiari e allo smarrimento di una comunitá, espresso con parole appropriate dal giovanissimo sindaco di Colleferro Pier Luigi Sanna (“Teniamo la barra dritta anche nel momento del dolore più abbacinante, altrimenti sarà stato tutto vano”). 

Per aiutarmi nella necessaria obiettività di giudizio, rileggo con molta attenzione quanto uno che si sforza di capire la psiche umana ha scritto sull’argomento.

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Proviamo a ribaltare il modo di vedere le cose

di Massimo Recalcati

Si dice “violenza bestiale”, si pensa infatti che nella violenza cieca l’umano regredisca alla bruta istintualità dell’animale.

Ma è veramente così?

Non dovremmo invece, anche di fronte a questo ultimo tragico fatto di cronaca a Colleferro, che ha visto la morte del giovane Willy, provare a ribaltare scabrosamente il nostro modo di vedere le cose?

Non dovremmo provare a pensare che nessun animale sarebbe capace di raggiungere la ferocia alla quale può giungere la violenza umana?

L’animale agisce mosso dalla legge dell’istinto che prevede la sopravvivenza della specie, dunque la difesa del territorio, la necessità di procurarsi cibo, ecc. Ma l’essere umano?

Il suo esercizio della violenza non riflette affatto una legge istintuale, ma un godimento pulsionale. É questo godimento che può sprigionare la sua violenza sanguinaria.

Un ragazzo leale e altruista interviene per difendere un amico provocato da un gruppo di giovani uomini minacciosi.

Quale è stata la sua colpa che ha meritato una punizione così atroce? La sua colpa imperdonabile è stata probabilmente quella di aver provato a portare la pace, di avere introdotto al posto della Legge dei pugni quella della parola.

La sua colpa è stato il suo tentativo di evitare lo spargimento del sangue. Ma per l’umano, quando è preda al godimento della violenza, la parola suona sempre come un’offesa. Nel duello mortale, nella lotta spietata dei corpi, nello scontro fisico, nell’esercizio della violenza la parola è costretta a tacere. Anzi, si potrebbe dire che è proprio l’assenza della parola che fa sorgere la violenza. Il giovane Willy ha probabilmente provato a ricordare ai suoi assassini che l’umano è innanzitutto parola e dialogo. Costoro, invece, gli hanno voluto dire che la parola non conta nulla, che è nulla, che è nulla come era nulla la sua stessa vita.

La violenza non accetta la pazienza del dialogo e gli equivoci della parola. Mira drasticamente a raggiungere il suo obbiettivo il più direttamente possibile. Quale? Annientare l’avversario, distruggerlo, sopprimerlo senza lasciargli scampo.

Questi giovani criminali, riportano i giornali, sono dediti alle arti marziali e a sport violenti. Ma la prospettiva dello sport anche quando è violento – un incontro di pugilato o di lotta non sono forse violenti? – non educa necessariamente alla violenza.

Anzi, conosciamo molte storie che raccontano di come lo sport violento sia stato un modo per canalizzare un’inclinazione alla violenza che sarebbe stata altrimenti distruttiva. Il rispetto dell’avversario e la disciplina severa dell’allenamento non sono di per sé incubatrici della ferocia. Anzi, si dovrebbe dire probabilmente il contrario. Sono modi per simbolizzare una violenza che altrimenti potrebbe trovare espressioni apertamente criminogene. Ricordiamo che Platone – il filosofo della teoria delle idee – fu pugile e lottatore e dovette il suo nome alle sue “spalle grosse” da atleta.

Diverso è l’episodio che ha coinvolto il povero Willy. In questo caso nessun rispetto per l’avversario se non il probabile disprezzo per la sua pelle scura e per la sua credenza ingenua nella legge della parola. I suoi carnefici lo hanno colpito senza essere fermati da nessun arbitro e da nessuna regola.

Semplicemente nessun rispetto è dovuto per quelli che non appartengono al loro mondo. In questo senso l’uso della violenza è sempre razzista. Rifiuta la differenza, il pluralismo, l’esistenza difforme dell’altro. A fondamento di questo episodio non c’è alcuna educazione sportiva, ma solo l’uso criminogeno e militarizzato di tecniche letali scorporate dalla loro finalità agonistica. Allora il corpo diventa un’arma di combattimento priva di etica e pietas. È quello che tutti i regimi fascisti hanno enfatizzato colpevolmente condividendo il disprezzo della cultura e della parola.

In questa esaltazione paramilitare e fascistoide del corpo forte e vigoroso lo sport non appare come esperienza del superamento dei propri limiti, della cura del proprio corpo, del rispetto del rivale, del controllo di se stessi, ma viene subordinato ad un’altra logica: quella della sopraffazione razzista e del rigetto della parola. Anche in questo caso il problema non sono le arti marziali o gli sport di combattimento in sé, ma l’uso che se ne fa, dunque la cultura che li sostiene e li sponsorizza. Questa può essere una cultura del rispetto dell’avversario e del confronto con i propri limiti e con le proprie paure, oppure una cultura che alimenta il culto dissennato per la propria potenza e per la propria capacità di distruzione, dunque il godimento della violenza fine a se stesso.

Succede a Capo Delgado, Mozambico

  di  Edegard Silva *

La provincia di Cabo Delgado, nell’estremo nord-est del Mozambico, ha come capitale Pemba, situata a circa 2.600 km a nord di Maputo. La Provincia ha una superficie di 82.626 km2 e una popolazione di 2,3 milioni di abitanti. È divisa in 17 distretti e cinque comuni. È in questa regione, una delle più povere del paese, che dall’ottobre 2017 è in corso una guerra che ha lasciato più di 1.500 morti e migliaia di sfollati.

 

Il primo attacco da parte di gruppi armati, precedentemente sconosciuti nella provincia di Cabo Delgado, ha avuto luogo il 5 ottobre 2017, nella città di Mocàmboa da Praia. Nel novembre dello stesso anno, alcune moschee sono state chiuse perché, inizialmente, si sospettava che gli attacchi fossero stati pianificati in loro. Tuttavia, le motivazioni di questa guerra e i suoi rappresentanti non sono mai stati sufficientemente presentati. A causa della realtà in cui viviamo, presupponiamo le ragioni, ma si rende necessaria una spiegazione da parte dello Stato. Dopo quel primo attacco, la situazione sembra aver perso “controllo”.

La regione colpita da una violenta aggressione comprende nove comuni o distretti: Palma, Mocàmboa da Praia, Nangade, Mueda, Muidumbe, Macomia, Meluco, Quissanga e Ibo Island. Circa 600.000 persone vivono in questa zona. Sono piccoli semplici agricoltori, artigiani, per lo più senza alcun coinvolgimento ideologico o senza alcun conflitto religioso. Tutti questi luoghi hanno sofferto e continuano a soffrire di attacchi da parte di insorti o terroristi. È necessario chiarire che non si tratta di una guerra tribale o di gruppi etnici.

Il Vescovo della Diocesi di Pemba, Dom Luiz Fernando Lisboa, C.P., ha assicurato la presenza di missionari in tutte le comunità di questa regione. Attualmente, la Diocesi ha mantenuto sacerdoti e religiosi in tutti questi distretti. Questi missionari hanno seguito da vicino la situazione della guerra e il dramma vissuto dalle comunità.

Gli attacchi o le azioni terroristiche sono aumentati gradualmente. Le strategie sono cambiate nel tempo. Inizialmente, usavano armi più leggere e attaccavano in piccoli gruppi. Quando gli insorti arrivano nei villaggi, in realtà attaccano persone innocenti e indifese. Le vittime sono i poveri che vivono molto semplicemente, in case di fango, coperte di paglia. Abbiamo una strategia: quando arrivano, se c’è tempo, qualcuno della comunità fa suonare la campana per segnalare il pericolo alla popolazione (ma non sempre questa tattica è efficace e di successo). A quel punto, ogni famiglia sa già dove correre, sempre dirigendosi verso la boscaglia. Loro bruciano le case e tutto quello che c’è dentro. È anche successo che alcune persone sono state bruciate vive o addirittura decapitate. All’inizio degli attacchi, questo è stato fatto usando soprattutto il machete (strumento molto comune nelle attività rurali).

Da queste parti, tutti i villaggi sono interconnessi con membri della famiglia e conoscenti presenti nei vari distretti. Anche con poche risorse, la comunicazione avviene rapidamente. In questo modo, quando si verifica un attacco, la notizia si diffonde in ogni villaggio. Questo fa vivere l’intera popolazione nella paura, incidendo fortemente sulle loro abitudini quotidiane. Ad esempio, l’orario delle celebrazioni nelle chiese e quello delle scuole sono cambiati. Le persone si chiudono in casa presto, e spesso hanno anche paura di andare a lavorare da soli in giardino o nei campi. Lo scenario è spaventoso: tutti vivono nel terrore, sempre in attesa di dove e come sarà il prossimo attacco.

Come ogni guerra, le tattiche degli attacchi sono cambiate. Dall’attacco ai villaggi, sono passati ad attaccare auto, pullmini e autobus sulle strade. Se prima la nostra paura era limitata solo a rimanere nei villaggi, ora questa paura si estende al viaggiare, data la necessità di prendere trasporti per muoverci. Diversi attacchi sono stati segnalati con molti morti e con auto bruciate.

Abbiamo realizzato, valutando le tattiche e rapporti, che il gruppo degli insorti sta aumentando. Abbiamo sentito parlare di reclutamento giovani attraverso l’offerta di denaro. In una realtà di disoccupazione e abbandono, molti tendevano ad accettare questa proposta.

Sottolineiamo che finora non abbiamo informazioni chiare su chi è responsabile, né che ci sia un’azione chiara del governo per controllare le azioni terroristiche. Di conseguenza, ci rendiamo conto che, da un «piccolo esercito» armato di machete stiamo passando ad un terrorismo armato di armi pesanti e moderne. Basti dire che in uno degli attacchi al distretto di Mocàmboa da Praia, i terroristi sono entrati via terra e via mare armati con un forte arsenale di guerra, e lo stesso è accaduto nel distretto di Quinga.

Gli attacchi aumentarono e circolarono informazioni che l’interesse del gruppo sia quello di attaccare gli uffici distrettuali, in particolare gli edifici pubblici. Così, ogni giorno c’era una successiva ondata di attacchi contro “edifici ufficiali”. Molte cose sono state distrutte e bruciate: tribunali, scuole, ospedali, banche, case, uffici, sedi amministrative. Purtroppo, la gente è stata lasciata nella boscaglia senza acqua né cibo. In tutti i distretti, il commercio è stato compromesso in quanto la strategia degli insorti è quella di bruciare ogni piccolo negozio. Alla fine del 2019 e nella prima metà del 2020, alcuni chiese cattoliche sono state violate e bruciate.

Tuttavia vogliamo far notare che pastoralmente la diocesi di Pemba è presente nella regione settentrionale con un team di 35 missionari:missionariesacerdoti mozambicani e missionari e  provenienti da dieci paesi diversi. Queste presenze garantiscono l’assistenza religiosa e sociale in queste località. Nei nostri incontri con gli operatori pastorali o attraverso i social network ci chiediamo sempre: chi sono questi malfattori? Cosa vogliono? Perché uccidono gli innocenti? Pensiamo che questa guerra abbia un “volto nascosto” (un occulto esplicito). Abbiamo iniziato a parlare delle possibili “ipotesi” che configurano questo “volto”.

Abbiamo qualche ipotesi per spiegare questa guerra che va avanti da quasi tre anni. Alcuni parlano in diversi scenari per capire questa situazione. D’altra parte, la popolazione si sente inquieta di fronte a una certa “indifferenza” del governo mozambiano sulla realtà degli attacchi. C’è poca copertura mediatica giornalistica. Questo è in una regione in cui il governo ha una delle sue più grandi basi politiche. Oltre a questi attacchi, la regione di Cabo Delgado ha affrontato, allo stesso tempo, altre calamità. Tra questi, il ciclone Kenneth e le forti piogge iniziate nel dicembre 2019 che hanno lasciato la regione isolata per quasi cinque mesi.

Ma quale organizzazione terroristica ha dato sostegno economico e militare a questa guerra, il cui costo è sempre molto alto? Chi ha allenato gli insorti con tattiche militari? In realtà, non abbiamo parole ufficiali in grado di rispondere a queste domande. Assumiamo che sia la presenza di gruppi che sostengono la radicalizzazione islamica, compreso il gruppo Al-Shabab.

A un certo punto, l’orientamento era quello di non formalizzare gli attacchi come derivati da motivi religioso, anche perché questa guerra, come tutte le altre, sembra essere più motivata da interessi economici che religiosi.

Nell’attacco di Quissanga, sono stati trasmessi alcuni video e, in essi, i terroristi parlano chiaramente degli obiettivi religiosi e del loro desiderio di attuare lo Stato islamico nella regione. Questi filmati sono stati registrati da discorsi e dall’innalzamento della bandiera di questo movimento. In un mondo segnato da “fake news“, dobbiamo controllare e mettere in discussione alcune immagini che ci arrivano attraverso i social network, ma comunque quelle immagini ci hanno fatto molto preoccupare.

Un altro punto è che non ci sembra molto chiaro che c’è un legame tra questa guerra e le precedenti. Se guardiamo alle “tre guerre” affrontate dal Mozambico, questa ha un volto molto specifico, perché sembra puntare più alla concentrazione di ricchezza della regione e al suo possibile controllo.

Da un punto di vista religioso, gli ultimi attacchi portano alcuni elementi. Ci saranno un sacco di informazioni che non sapremo fino a dopo la guerra. Ci sarà bisogno di fare un discorso più accurato e ascoltare le persone. In questo momento è impossibile saperlo, perché molti villaggi sono abbandonati e in molti ci è proibito entrare.

Alcune morti che si sono verificate sono legate al rifiuto di aderire alla proposta religiosa dello Stato islamico. Al più presto, dovremmo chiarire l’attacco alla Comunità di Xitaxi. In questa comunità, l’8 aprile, c’è stato il massacro di 52 giovani. Si sostiene che questi giovani si siano rifiutati di accettare le proposte dei terroristi di entrare nei loro ranghi. C’è stata anche la violazione e la profanazione di diverse chiese cattoliche. Tuttavia, è necessaria molta cautela prima di affermare che gli attacchi sono mirati alla creazione dello Stato islamico in questa regione.

Un altro aspetto molto chiaro per noi: la provincia di Cabo Delgado è una delle più ricche del paese. Questa regione è ricca di gas naturale. È la provincia dove la Total ha fatto il più grande investimento in Mozambico, per la costruzione della “Città del Gas”, sulla penisola di Afungi. Le risorse petrolifere di Cabo Delgado sono sfruttate dalle multinazionali, mentre la popolazione vive in povertà, senza accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria e al lavoro. Così, possiamo dire che questa disuguaglianza economica può favorire i predicatori del fondamentalismo islamico, che hanno visto qui un terreno fertile per la sua espansione o anche gruppi locali che vogliono garantirsi una fetta. Si parla di un controllo della regione in considerazione della ricchezza del suo suolo e del suo oceano. Di conseguenza, attaccare i villaggi sarebbe un modo per spopolare la regione al fine di avere un migliore “controllo” di queste ricchezze. Ci può anche essere un interesse religioso, la cui missione sarebbe quella di impiantare lo Stato Islamico. Ma queste sono solo ipotesi.

La nostra missione è anche quella di difendere i diritti umani. Non si tratta di prendere ogni articolo in dettaglio. Citiamo solo i primi: “ogni essere umano ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale”. Per questo motivo, questa diocesi, con i suoi missionari e animatori, ha sofferto e pianto di vedere tante morti, ingiustizie con i poveri, soprattutto perché questa guerra ha causato più di 1.000 morti e più di 200.000 persone sono state sfollate. A questo quadro si aggiunge il numero di persone torturate, sottoposte a crudeli punizioni, detenute e prigioniere. Siamo anche preoccupati per il numero di persone rapite, violando così la sopracitata Dichiarazione dei diritti dell’uomo.

Abbiamo sperimentato molte conseguenze, tra queste: a) villaggi abbandonati; b) la fame che è aumentata, perché la terra non viene coltivata; c) la perdita del poche risorse (case, vestiti, cibo, ecc.); d) la destrutturazione delle famiglie, costringendone i membri a disperdersi ovunque; e) la vita comunitaria è distrutta: nessuno sa dove siano i catechisti, gli animatori, i ministri di molte comunità; f) l’anno scolastico è stato compromesso; g) la paura attanaglia le persone e c’è sfiducia e diffidenza per l’arrivo di qualsiasi persona sconosciuta nel villaggio.

Pensando alla sicurezza e garantendo la presenza dei missionari e dei missionari, Don Luiz Fernando ha riunito gli agenti pastorali nella diocesi. A giugno, i missionari della regione settentrionale hanno inviato un messaggio alle comunità: “Come molti di voi, la maggior parte dei missionari ha dovuto lasciare i propri luoghi di missione. Speriamo di essere di nuovo insieme presto. Questa semplice lettera è quella di dire a tutti che noi Missionari e Missionari preghiamo ogni giorno per tutte le persone e le comunità! Che cii manca tantissimo lo stare con voi! Che speriamo che tutto questo passi presto in modo da poter servire di nuovo tutti, come abbiamo sempre fatto!

 A nostro avviso, è più che necessario far conoscere questa guerra sulla scena internazionale in modo che le persone e le organizzazioni internazionali abbiano accesso alle informazioni e alle situazioni del paese. Un altro passo è il coraggio di denunciare, in un linguaggio ecclesiale, come esercizio di profezia.

Da un punto di vista politico/militare, alcuni parlano di cooperazione tra paesi alleati che agiscono in questa regione. Tuttavia, abbiamo poche informazioni sulle azioni che vengono eseguite dalla forza di sicurezza. Ogni tanto sentiamo che l’esercito ha combattuto i terroristi, tuttavia, in un’altra parte della regione, siamo colti alla sprovvista dalla notizia di ulteriori attacchi.

Questa guerra ha generato grande angoscia emotiva, sia nel nostro vescovo, come nei missionari e residenti situati nella regione settentrionale e in tutta la diocesi. Le nostre attività quotidiane si rivolgono alle azioni più urgenti: aiutare le persone in fuga dalla guerra, sostenere e confortare i familiari che hanno perso le loro famiglie, fornire cibo, organizzare luoghi di accoglienza. In questo senso, è importante riconoscere l’efficace lavoro della Caritas diocesana in collaborazione con le nostre attività. Inoltre, dobbiamo riconoscere le azioni di molte organizzazioni internazionali: le Nazioni Unite (ONU), il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF), tra gli altri.

Questo atteggiamento serve a dire che la nostra attenzione si rivolge puntualmente a questa situazione. Tuttavia, siamo stati costantemente bombardati da rapporti totalmente stravolti, bugiardi, con notizie di tendenziose che attaccano soprattutto la persona di Dom Luiz Fernando. Il Vescovo di Pemba è stato vittima di calunnie e di dure e menzogne. In un primo momento, diversi settori della diocesi hanno cercato di rispondere. Poi facciamo conoscere gli articoli e li lasciamo liberi per le dimostrazioni. Uno di questi articoli che ha calunniato Dom Luiz ha stimolato l’iniziativa di diverse organizzazioni, a Maputo, la capitale del paese, per creare una campagna di sostegno con firme digitali. In cinque giorni, questa petizione aveva migliaia di firme.

Sappiamo che il continente africano non suscita l’interesse di molti paesi, né dei media tradizionali. Pertanto, uno degli ordini del giorno che dobbiamo assumere nelle nostre azioni pastorali e nei media che abbiamo è quello di diffondere tutto ciò che possiamo sull’Africa, in particolare la situazione di Cabo Delgado in Mozambico. Qualsiasi azione di solidarietà – che sia il gesto minimo, o un’azione politica – organizzata dal punto di vista politico – in questo momento è di fondamentale importanza. Auguriamo urgentemente pace a Cabo Delgado; speriamo che le persone tornino alle loro case, villaggi e comunità, che i nostri missionari possano tornare all’opera di evangelizzazione in un ambiente sicuro, rispettando e valorizzando le singolarità del nostro popolo africano. In questo momento di fragilità, quando i missionari sono lontani dalla missione come misura di sicurezza, qualche parola o azione che viene da qualsiasi organizzazione, ecclesiale o sociale, è un gesto evangelico. Ogni azione di solidarietà dimostra la nostra umanità, ogni gesto di condivisione mostra il Vangelo vissuto nella pratica, incarnato nell’esperienza del popolo.

In questo clima di guerra e Covid-19, attività pastorali poi nelle dinamiche della “nuova normalità”. È un tempo di tristezza, di famiglie separate, di comunità tutte distrutte… in questo momento la solidarietà, le parole di conforto e di incoraggiamento sono importanti per noi per continuare il nostro cammino. Essi vengono attraverso diverse “porte” e provengono da vari luoghi.

Tra questi gesti di solidarietà, si evidenzia quella di Papa Francesco.  Questo riconoscimento del Papa è importante per noi perché indica che non siamo soli in questa ardua missione. Nella recita dell’Angelus della Domenica di Pasqua, il 12 aprile 2020, Francesco ha menzionato la guerra di Cabo Delgado. Cinque mesi dopo, in occasione della sua visita in Mozambico a Maputo, ripete ancora una volta la sua preoccupazione.

Più tardi, Don Luiz scrive personalmente a Papa Francesco riportando ciò che sta accadendo. Il 19 agosto 2020, alle 11:29, Dom Luiz riferisce:“Con mia grande sorpresa e gioia, ho ricevuto una chiamata da Sua Santità, Papa Francesco, che mi ha molto confortato. Ha detto che è molto vicino al Vescovo e a tutto il popolo di Cabo Delgado e segue con grande preoccupazione la situazione vissuta nella nostra Provincia e che ha pregato per noi”. Don Luiz continua e descrive il suo colloquio con il Papa: “finalmente, il Papa ha detto che è con noi e ci ha incoraggiato: adelante!”, che significa: in avanti! coraggio!…

Nella stampa spesso media e calunniosa, c’erano anche coloro che dubitavano della veridicità della telefonata. Per queste menti, la risposta è arrivata in soli quattro giorni quando, nella recita dell’Angelus del 23 agosto 2020, Papa Francesco ha detto: “Vorrei ribadire la mia vicinanza al popolo di Cabo Delgado, nel Mozambico settentrionale, che soffre a causa del terrorismo internazionale. Lo faccio nel ricordo vivente della mia visita in quell’amato paese circa un anno fa”.

Pertanto, in questo momento di sofferenza, in cui la fragilità umana aflora, ogni parola o gesto ha un grande significato. Vorremmo finire dicendo che questo racconto è riassunto in una parola così semplice e piccola, ma al momento è ancora lontano da una pratica: vogliamo PEACE! La gente di Cabo Delgado vuole PACE! La gente vuole tornare alle proprie comunità e vivere in PACE! I missionari vogliono tornare nelle parrocchie e vivere in PACE!

Secondo ACLED, acronimo di Location of Armed Conflicts and Event Data, dal 2017 ci sono stati 823 conflitti armati in Mozambico, 534 dei quali si sono verificati a Cabo Delgado (396 direttamente contro i civili). Durante questo periodo, dei 1678 ucciso nei conflitti nel paese, 1496 erano nella provincia di Cabo Delgado.


* Edegard Silva Jànior è un missionario brasiliano salettiano che lavora nella Missione di Muidumbe nella diocesi di Pemba.

Fiammeamericane

 

United States of America - Highly detailed editable political map with labeling.

  L’ondata di incendi peggiore della storia sta devastando California, Oregon e altri stati. Tra Covid e cieli alla Blade runner in fumo un’area grande come metà del Belgio. Per gli scienziati il nesso con il cambiamento climatico è ormai inequivocabile. E peggiorerà

Un uomo tenta di salvare la sua casa nella Napa Valley, in California di Luca Celada

(” ilmanifesto”)

Una California già sull’orlo della sostenibilità, con i suoi 40 milioni di abitanti concentrati prevalentemente in zone semiaride, dipendenti da un complesso sistema di acquesdotti (come anche l’agricoltura intensiva, pilastro fondamentale dell’economia), somiglia sempre di più, in quest’estate rovente, alla distopia mai lontana dall’immaginario collettivo e hollywoodiano.

Su San Francisco  grava da giorni una cappa cremisi.

Nel vicino Oregon la situazione è ancora più inquietante: un crepuscolo sanguigno e permanente oscura da giorni il cielo – una notte permanente di fumo e ceneri sopra a Salem, Eugene, Medford e altre località. Ora si teme per la periferia di Portland.

L’Ovest americano è nuovamente nella morsa delle fiamme – la «fire season», la stagione degli incendi, è ciclica e stagionale come nel clima mediterraneo ma c’è ora, dopo quattro anni di incendi record per danni ed estensione, il senso netto di una tendenza più grande verso una situazione sempre più drammatica per gli stati che si affacciano sul Pacifico e quelli a ridosso: Arizona, Nevada, Utah, Colorado.

In California quest’anno sono già andati distrutti 10.000 Km2, 2.000 nello stato di Washington e altrettanti in Oregon.

Più di quanto è bruciato nel 2017 quando andarono in fiamme 2.000 case e 22 persone morirono a Santa Rosa e Sonoma.

Più del 2018 quando è stata rasa al suolo la cittadina di Paradise con 85 morti. E si è solo agli inizi di una stagione che può durare fino a dicembre e oltre, quando si levano i venti Diablo (nord) e San Ana (sud) capaci di soffiare letteralmente sul fuoco.

Quest’anno gli incendi in California sono esplosi soprattutto dopo due giorni di anomale tempeste elettriche nel centro dello stato durante le quali sono caduti oltre mille fulmini in 24 ore. Senza una goccia di pioggia.

In prima linea negli stati del West sono attualmente impegnati oltre 20.000 pompieri, comprese unità provenienti da Australia e Canada, su 25 focolai principali.

Sono state distrutte migliaia di abitazioni e si registrano le prime vittime, come le 7 salme rinvenute ieri fra le macerie carbonizzate in Oregon, ma la situazione permane fluida e c’è la consapevolezza che il bollettino potrebbe peggiorare ancora di molto: «Potremmo vedere la peggiore perdita di vita provocata da incendi boschivi nella storia del nostro stato», ha detto martedì la governatrice dell’Oregon, Kate Brown.

A Los Angeles vivono col fiato sospeso gli abitanti di alcuni quartieri settentrionali, Pasadena, Arcadia, Monrovia, dove 20.000 persone sono state preallertate per una possibile evacuazione nel caso un’inversione della rotta dei venti dovesse sospingere verso quelle zone le fiamme che bruciano da giorni nelle foreste di conifere sulle alture San Gabriel a nord della città.

Fanno parte delle centinaia di migliaia di persone che hanno ricevuto ordini di evacuazione nelle ultime due settimane a seconda dello sviluppo degli incendi.

Si sono registrate operazioni di salvataggio drammatiche come il ponte aereo di elicotteri che la scorsa settimana ha trasportato 200 campeggiatori intrappolati dalle fiamme nella Sierra Nevada, non lontano dal parco nazionale di Yosemite.

Il governatore ha successivamente chiuso tutte le aree di ricreazione (le «national forest») che solo da poco erano state riaperte dopo le serrate per il Covid.

La pandemia, infatti, complica non poco le operazioni dei vigili del fuoco ma soprattutto la gestione degli sfollati. Normalmente sistemati in centri di accoglienza allestiti in arene sportive, scuole e palestre requisite, oggi sono costretti dalle norme di distanziamento a venire dirottati in stanze di albergo spesso non prontamente disponibili, da cui lunghe attese nei centri di smistamento della protezione civile.

In questa estate di Covid, gli incendi hanno contribuito a rendere l’aria davvero irrespirabile. In ogni senso: la polizia tenta di smentire voci che si propagano su Facebook ancora più veloci delle fiamme sulla presunta origine dolosa degli incendi, appiccati – a seconda dei fake – da Antifa o dai fascisti di Proud Boys.

E nell’angoscia esasperata dalla retorica elettorale, specialmente quella del presidente, le immagini degli incendi boschivi si fondono a quelle dei negozi bruciati nelle città trasmessi dalle emittenti di destra per seminare il panico e compattare la base trumpista.

Ogni fenomeno naturale intanto sembra ingigantito e i numeri (di vittime e di estensione) sono in crescita drammatica negli ultimi anni: sembrano inequivocabilmente gli effetti di un clima più instabile e imprevedibile.

O forse fin troppo prevedibile, stando agli avvertimenti ormai costanti degli scienziati che trovano sempre più ampi riscontri empirici alle loro previsioni.

In Colorado – anche questo uno stato interessato da incendi – questa settimana un’escursione termica record ha fatto passare il meteo dall’afa di 30 gradi a una (provvidenziale) nevicata settembrina. Sbalzi ed estremi che incidono su fenomeni come gli incendi.

Le previsioni di esperti come Park Williams del Earth Observatory della Columbia university parlano di un quadrante occidentale del paese destinato a diventare progressivamente più caldo e più arido.

L’incremento attuale degli incendi è effetto di un mutamento climatico «che è solo nelle fasi iniziali», ha dichiarato Williams al New York Times, sintetizzando l’opinione della comunità scientifica.

In quest’ottica, gli sfollati e ancor più le persone obbligate a lasciare per sempre le loro abitazioni per l’impossibilità di acquistare polizze di assicurazione sono da considerarsi a tutti gli effetti «profughi climatici». Gli effetti del mutamento climatico, ricordano gli studiosi, non sono progressivi ma esponenziali.

I pronostici per il 2050 varierebbero dunque da «peggio» a «molto peggio».

La vera storia di “Faccetta nera”

di Igiaba Scego

Se sei donna e nera in Italia un riferimento, anche casuale, a Faccetta nera ci scappa sempre. Da piccola me la cantavano spesso all’uscita di scuola per umiliarmi, e in generale la canzoncina aleggia nell’aria come quei microbi da cui non ci si salva. Sono in tanti ad averla come suoneria del cellulare e a considerare la canzone come la quintessenza più pura del fascismo. Ma anche chi non si professa apertamente fascista è sedotto da questa marcetta. Basta canticchiarla un po’ per vedere le braccia agitarsi a ritmo battente.

Emblematica è la scena contenuta nel docufilm di Dagmawi Ymer Va’ pensiero, dove un gruppo di mamme canta la nota canzonetta a Mohamed Ba, mediatore culturale e attore senegalese. Ba ha appena lavorato in classe, proprio sugli stereotipi, con i figli di queste signore. Quando le sente cantare quasi non ci crede. È sconcertato e triste. Tenta di spiegare che Faccetta nera è una canzone del ventennio, ma le signore non ascoltano, perse nel ritmo indiavolato dello zumpapà. Quella canzone gli piace, provano quasi un gusto trasgressivo nel cantarla e continuano imperterrite, incuranti di ferire i sentimenti di Ba.

Chi la canta sa cosa significa? Sa da dove viene quella canzone? Com’è nata? Capisce tutti i riferimenti?

Al mercato, 1930 circa. - Enrico De Seta, Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore dell'Esercito

 

Personalmente considero Faccetta nera un paradosso italiano. Ogni anno, quasi sempre d’estate o all’inizio dell’autunno, scoppia una polemica che la riguarda. O perché la cantano o perché qualche professore (di recente è successo con delle suore) la fa ascoltare in classe ai ragazzi. E giù fiumi di inchiostro che oscillano dall’aperta condanna all’ammiccamento solidale. E tutto si perde in un bla bla che spesso ci lascia indifferenti. Il video della canzone è disponibile in rete in varie versioni e basta fare un giro turistico tra i commenti su YouTube per capire che chi la canta non sa la sua storia.

Si sprecano infatti i vari “Orgoglioso di essere fascista” e “Viva il Duce”. Ma queste persone sanno che Benito Mussolini odiava Faccetta nera? Aveva addirittura tentato di farla bandire. Per lui era troppo meticcia: inneggiava all’unione tra “razze” e questo non era concepibile nella sua Italia imperiale, che presto avrebbe varato le leggi razziali che toglievano diritti e vita a ebrei e africani. Oggi però, ed è qui il paradosso, il regime fascista è ricordato proprio attraverso questa canzone che detestava.

I giornali erano pieni di immagini di donne e uomini etiopi schiavi: ‘È il loro governo a ridurli così’, scrivevano, ‘andiamo a liberarli’

Ma facciamo un passo indietro. Faccetta nera, non molti lo sanno, nasce in dialetto, in romanesco. La scrive Renato Micheli per poterla portare nel 1935 al festival della canzone romana. Il testo assorbe tutta la propaganda coloniale dell’epoca. Di Africa si parla tanto nei giornali e nei cinegiornali. Gli italiani sono bombardati letteralmente di immagini africane dalla mattina alla sera. I bambini nelle loro tenute balilla conoscono a menadito le città che il fascismo vuole conquistare. E così nomi come Makallè, Dire Daua, Addis Abeba diventano familiari a grandi e piccini.

Il colonialismo italiano non nasce con il fascismo, ma con l’Italia liberale postunitaria, tuttavia negli anni trenta del secolo scorso si assiste a un’accelerazione del progetto di conquista. Mussolini vuole l’Africa, il suo posto al sole, e per ottenerlo deve conquistare gli italiani alla causa dell’impero. Dai giornali satirici come Il travaso delle idee al Corriere della sera sono tutti mobilitati. Uno degli argomenti preferiti dalla propaganda era la schiavitù. I giornali erano pieni d’immagini di donne e uomini etiopi schiavi: “È il loro governo a ridurli così”, spiegavano, “è il perfido negus, andiamo a liberarli”.

La guerra non viene quasi mai presentata agli italiani come una guerra di conquista, ma come una di liberazione. Il meccanismo non è molto diverso da quello a cui abbiamo assistito nel novecento e a cui assistiamo ancora oggi. Andiamo a liberare i vietnamiti! Andiamo a liberare gli iracheni! Andiamo a liberare gli afgani! Per poi in realtà, lo sappiamo bene, sfruttare le loro terre.

Faccetta nera nasce in quel contesto come una canzone di liberazione. Una canzone, nell’intenzione dell’autore, un po’ spiritosa che inneggiava a una sorta di “unione” tra italiani ed etiopi. Però, dal testo, si nota subito che l’italiano non vuole andare a liberare i maschi etiopi, bensì le donne (un po’ come è successo di recente in Afghanistan, dove si è partiti in guerra per liberare le donne dal burqa). E l’unione vuole farla con l’africana e solo con lei. Un’unione sessuale e carnale.

Per i colonizzatori l’Africa era una terra vergine e disponibile e questa disponibilità si traduceva nel possesso fisico delle donne del posto

D’altronde lo stereotipo circolava da un po’ nella penisola. Il mito della Venere nera è precedente al fascismo. L’Africa è sempre stata vista dai colonizzatori (non solo dagli italiani) come una terra vergine da penetrare, letteralmente. O come diceva nel 1934 lo scrittore coloniale Mitrano Sani in Femina somala, riferendosi alla sua amante del Corno d’Africa: “Elo non è un essere, è una cosa […] che deve dare il suo corpo quando il maschio bianco ha voglia carnale”. Una terra disponibile, quindi. E questa disponibilità si traduceva spesso nel possesso fisico delle donne del posto, attraverso il concubinaggio, i matrimoni di comodo e spesso veri e propri stupri.

Basta farsi un giro su internet o al mercato di Porta Portese a Roma o in qualsiasi altro mercatino delle pulci per ritrovare le foto di questo sopruso. Di recente ne ho vista una nel libro di David Forgacs Margini d’Italia (Laterza), dove una donna eritrea viene tenuta ferma in posizione da “crocifissa” da alcuni marinai italiani sorridenti che probabilmente l’hanno stuprata o si stanno accingendo a farlo.

Faccetta nera in questo senso è una canzone sessista, oltre che razzista. Una canzonetta che nasconde dietro la finzione della liberazione una violenza sessuale. Non a caso il suo testo a un certo punto dice: “La legge nostra è schiavitù d’amore”. Temi che si ritrovano in altre canzonette dell’epoca come Africanella o Pupetta mora. Ma anche nella più colta (e precedente) Aida di Verdi: anche lei, come faccetta nera, è schiava e solo diventare l’oggetto del desiderio di un uomo la può redimere dalla sua condizione.

Armamenti, 1930 circa. - Enrico De Seta, Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore dell'Esercito

Faccetta nera, una volta scritta, non ha pace. Micheli non riesce a portarla al festival della canzone romana. Viene musicata più tardi da Mario Ruccione e cantata da Carlo Buti, che la porterà al successo. La prima apparizione però è al teatro (oggi cinema) Quattro Fontane a Roma. Lì una giovane nera viene portata sul palco in catene e Anna Fougez, una diva della rivista di allora, pugliese con nome d’arte francese, avvolta da un tricolore, la libera a colpi di spada. La canzone da quel momento in poi decolla.

La cantano i legionari diretti in Africa per la guerra di Mussolini e diventa uno dei successi del ventennio insieme a Giovinezza e Topolino va in Abissinia. Ma il testo iniziale di Micheli non piace al regime, che vi rimette mano più volte. Viene subito cancellato il riferimento alla battaglia di Adua. Per il regime era intollerabile ricordare quella disfatta italiana, che fu la prima battaglia vinta da un paese africano contro l’imperialismo europeo. Saltò anche un’intera strofa che definiva faccetta nera “sorella a noi” e “bella italiana”. Una nera, per il regime, non poteva essere italiana. Sottointendeva dei diritti di cittadinanza che il fascismo era lontano dal riconoscere agli africani conquistati. Diritti di cittadinanza che, per perfida ironia della storia, latitano pure oggi.

Nonostante i rimaneggiamenti, la canzone continua a non piacere al regime, ma è troppo popolare per poterne impedire la circolazione. Il fascismo provò a farla sparire e in un goffo tentativo si inventò una Faccetta bianca scritta e musicata dal duo Nicola Macedonio ed Eugenio Grio. Una canzone dove una ragazza saluta sul molo il fidanzato legionario in partenza per l’Africa. Una faccetta da focolare domestico, sottomessa e virginale:

quoteFaccetta bianca quando ti lasciai
quel giorno al molo, là presso il vapore
e insieme ai legionari m’imbarcai,
l’occhio tuo nero mi svelò che il core
s’era commosso al par del core mio,
mentre la mano mi diceva l’addio!

Chiaramente il paragone non reggeva. Gli italiani erano attratti dalla disponibilità sessuale che l’altra canzone prometteva. La libertà e la rigenerazione del maschio attraverso l’abuso di un corpo nero passivo. Faccetta nera fu anche al centro di un’accusa di plagio. La faccenda finì persino in tribunale.

Ma questa canzone ci dice molto anche dell’Italia di oggi. Il corpo nero è ancora al centro della scena. Un corpo vilipeso, spesso presentato come fantasma e cadavere invisibile dei mari nei telegiornali della sera. Ma è anche un corpo desiderato, inafferrabile. Un corpo che vediamo nelle bustine dello zucchero e che ammicca da uno studio televisivo fasciato in una tutina in lattice nero. Un corpo usato e abusato. Un corpo che deve essere sempre bello.

L’abissina non può essere altro che la bella abissina. Non può essere brutta, menomata, malata, non disponibile. Il suo corpo vive più paradossi. È da una parte desiderato, dall’altro oltraggiato, negato, imprigionato. Le faccette nere oggi in Italia non hanno solo la pelle nera: basta discostarsi da quello che la società considera “normale” per venire considerati facili, accessibili, stuprabili. Sei bissessuale, transessuale, sei punk, sei vintage, sei fuori dai codici? Allora il tuo corpo diventa di tutti. Corpo da liberare con lo stupro, con la sottomissione.

Ed è forse in questo sottotesto la chiave del continuo successo di questa canzone. La società italiana si porta dietro vecchi retaggi maschilisti di cui non è riuscita a liberarsi, e di cui spesso non riesce nemmeno a parlare.

E invece dovremmo parlarne, soprattutto a scuola.

Discuto spesso dell’opportunità di far ascoltare ai ragazzi questa e altre canzoni fasciste. Sono sempre più convinta che solo lo studio approfondito del fascismo, con tutto il suo carico di miserie, stereotipi, propaganda e sessismo, vada affrontato perché non si ripeta. Il pericolo vero è l’oblio. Attraverso una serrata analisi di Faccetta nera si potrebbe destrutturare il testo, decolonizzare le menti, defascistizzare la società, educare la nostra politica che ormai ha fatto dell’altro il capro espiatorio per eccellenza, lo sfogatoio di tutti i mali. Sarebbe davvero un grande passo in avanti riuscire a parlarne con serenità. Un passo in avanti per questa Italia che raramente affronta se stessa.

“E i politici han ben altro a cui pensare” (F.Guccini)

 

Nemmeno dopo la pandemia la politica affronta il fine vita

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di Mina Welby*

L’Espresso, 6 settembre 2020

 

Il Parlamento continua a evitare di discutere un tema che riguarda tutti. La sentenza della Corte d’ Assise di Massa, che ha assolto Marco Cappato e me per aver accompagnato in Svizzera Davide Trentini con la motivazione che “il fatto non sussiste” per l’istigazione al suicidio e che “il fatto non costituisce reato” per l’aiuto fornito, non ha fatto iscrivere all’ordine del giorno della Camera la legge sul fine vita.

A niente sono serviti gli appelli di tutti, dal Presidente Roberto Fico in giù: il Parlamento è andato in vacanza senza decidere. Nei momenti più difficili della quarantena abbiamo riscoperto l’importanza dell’aiuto, della cura, della generosità, del volontariato, del soccorso – di quello immediato come di quello “vitale” – ci siamo confrontati con la necessità di avere qualcuno al nostro fianco per respirare così come per fare la spesa. L’emergenza che ci aveva trovati impreparati ha rilanciato e rafforzato lo spirito di corpo, la solidarietà. Abbiamo ringraziato, giustamente, “eroi” e dappertutto si è scritto “niente sarà mai più come prima”. Ma davvero le cose sono cambiate?

Se dovessimo prendere come metro di paragone il fine vita la risposta è no. E questa decisione va colta per riflettere su quanto abbiamo visto accadere e capire di quali e quanti di questi soccorsi continueremo ad avere bisogno per vivere degnamente e dignitosamente e di come ce li dovremo garantire. Aiutare le persone è da sempre ritenuto un valore nelle nostre società; aiutare le persone che soffrono, i malati – in qualsiasi condizione – un impegno civile, per alcuni religioso, ma soprattutto un obbligo costituzionale.

L’Associazione Luca Coscioni da anni fornisce vari tipi di soccorso civile, spesso in vera e propria supplenza istituzionale, a chi in scienza e coscienza, e disperazione, fa richieste di ogni tipo. Per certi versi anche Luca Coscioni si rivolse a Marco Pannella e ai Radicali per chiedere “soccorso” affinché anche in Italia si promuovesse la libertà di ricerca scientifica sulle blastocisti per cercare cure a malattie come la sua, la Sla, che purtroppo restano incurabili.

Da allora, grazie all’avvocato Filomena Gallo, un “soccorso legale” viene offerto non solo per favorire il progresso scientifico, ma anche per consentire il ricorso alla procreazione medicalmente assistita ostacolata da norme imposte senza alcuna motivazione scientifica. Anche mio marito Piergiorgio chiese soccorso per porre fine a una vita non più degna di esser vissuta. Prestare soccorso a chi sceglie di porre fine a sofferenze, a volte letteralmente atroci, e a chi vuole avere figli, con tutte le gioie che ne conseguono, vuol dire andare incontro a richieste espresse da persone capaci d’intendere e di volere che non per colpa loro, ma spesso per norme imposte arbitrariamente, non possono esser liberi di scegliere. Prestare soccorso è in linea con la Costituzione.

E lo è talmente tanto che quando si “disobbedisce” la Corte Costituzionale concorda con l’affermazione della necessità del soccorso. Non passa settimana che non si venga raggiunti dalla notizia del deposito di progetti di norme, preparazione di decreti legge, annunci di dpcm per regolamentare qualsiasi cosa tranne questioni che hanno a che fare con le libertà.

Non solo la libertà di scegliere – come, quando e dove morire o avere figli o fare ricerca – ma anche la libertà di poter aver accesso a terapie (come quelle con la cannabis), di studiare il genoma umano o vegetale, di liberare la salute dalle sovrastrutture della sanità, di poter vivere una vita indipendente se portatori di disabilità. Su tutti questi temi si invoca la “libertà di coscienza” ma non si procede. Contro questo disinteresse occorre la mobilitazione civica.

Da oltre un mese Maurizio Bolognetti, un dirigente dell’Associazione Luca. Coscioni, è in sciopero della fame affinché il consiglio regionale della Basilicata applichi una norma che consenta alle persone disabili di poter vivere appieno la loro vita con gli ausili necessari. Che fine hanno fatto gli appelli alla coesione sociale e alla solidarietà se, al momento di far rispettare una legge, o vederne adottata un’altra che interessa tutti, le istituzioni abbandonano i cittadini?

*Copresidente dell’Associazione Luca Coscioni