Autore archivio: piero-murineddu

Tinochika è tornato

di Gianmaria Testa

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Dopo anni di fatiche e umiliazioni, dopo essere finalmente riuscito a crearsi una nicchia vivibile in Italia fino a esserne diventato cittadino, Tinochika, che qui chiamerò «Tino», si guarda attorno e si rende conto che niente gli assomiglia. Non i colori, gli odori, la religione, le abitudini, neanche i sorrisi delle persone che pure gli sono amiche e che qualche volta frequenta. Non si è nemmeno voluto integrare con la piccola quota di connazionali che come lui si sono stabiliti in questa cittadina della periferia nord-ovest d’Italia e che ogni tanto organizza delle feste per non dimenticare.

Lavora in fabbrica, una fabbrica francese di pneumatici dove si fanno i turni in terza che comprendono anche la notte, e non si trova male. Dopo le prime diffidenze, i colleghi l’hanno accettato come tutti gli altri, l’hanno aiutato quando faceva fatica a capire, gli hanno spiegato come adattarsi ai ritmi di lavoro, gli hanno perfino fatto un po’ di storia del sindacato. Ha partecipato alle assemblee e ha fatto due scioperi di categoria senza esattamente saperne il motivo ma fidandosi delle ragioni dei compagni di reparto. In tutta onestà, quando ci pensa, crede di aver tentato davvero di diventare parte del Paese che con grandissimi sacrifici aveva raggiunto, ma continua a sentirsi straniero, più precisamente estraneo.

Viene da un mondo contadino scandito dai rit. mi larghi delle stagioni, dai contatti umani diver. si e quotidiani di chi condivide un tempo fatto di lavoro e attesa, e anche di abitudini e ruoli consolidati. Era abituato a paesaggi vasti e a una natura protagonista indiscussa e potente, era abituato ai rischi che questo comporta e alla pazienza che questo richiede.

Poi tutto si è infiammato, una questione di predominio tribale, etnie diverse in lotta crudele, vil. laggi assaltati e bruciati, donne violentate e uccise, bambini con il mitra in mano. Non c’è stato scam po, la sua famiglia massacrata e lui che con fortu na e coraggio riesce a scappare, prima un vagare senza meta, poi un’idea precisa: lasciare l’Africa perché tanto non cambierà mai. L’Africa genera da sola questo tipo di tragedie, l’Africa è terra di nessuno e non basta esserci nati, non basta essere africani da mille generazioni per poter pensare di viverci con la normale serenità delle vite normali

Tutto il viaggio fino alla costa mediterranea È stato un calvario che ha cercato di dimenticare ma che si è incrostato da qualche parte nel cervello anche nelle ossa. Quando finalmente ha visto l’acqua del mare sciabordare tranquilla lungo la costa di sabbia, ha pensato che era fatta, che tutto era finito, cominciava un’altra vita.

Insieme con altri in fuga viene fatto salire su un barcone. Sono in tanti, in troppi per quella specie di vecchio peschereccio di legno, ma nessuno protesta, tutti pensano che il viaggio sarà breve, qualche ora al massimo sopra un’acqua amica, e poi l’arrivo inun mondo diverso ma civile dove poter ripartire da capo. Comincia così, in silenzio, la traversata.

È notte, le prime ore passano nell’attesa di vedere qualche luce di terra in lontananza. Il timoniere è armato cosî come il suo socio, nessuno dei passeggeri si stupisce perché tutti vengono da mesi di prossimità con armi di ogni tipo, qualcuno si porta ancora addosso i segni ben visibili di qualche aggressione.

Quando comincia ad albeggiare nessuna luce è stata avvistata, il freddo della notte è entrato sotto l vestiti sottili e contribuisce a creare sconforto, il mare si è ingrossato, qualcuno vomita e chiede acqua ma le scorte di ognuno stanno finendo, il viaggio, quel viaggio, doveva essere breve e senza rischi.

Tino è solo ma come gli altri è insaccato in mezzo ai compagni di viaggio per tentare di difendersI dal freddo, nella cabina di guida i due armati non permettono l’ingresso di nessuno, nemmeno di una madre con un bambino poco più che neonato in braccio. Il tempo passa senza cambiamenti se non il disagio crescente, sempre più spesso il silenzio viene rotto da chi sta male e dalle invettive degli uomini armati.

Tino pensa che avrebbe dovuto saperlo che sarebbe finita così, una lunga traversata in mare senza approdare in nessun luogo, comincia a vedere chiaramente la morte come unico traguardo.

Di fronte a lui, nella confusione di corpi e stracci, c’è una donna. Non saprebbe indicarne l’età, ma sembra sola ancorché intabarrata nell’ammas. so generale, e a Tino pare che quella donna lo stia guardando, proprio lui in mezzo a tutti.

Prova l’impulso di spostarsi vicino a lei ma prevalgono la timidezza e l’enorme fatica di ogni movimento in uno spazio diventato sempre più esiguo. Cominciano un dialogo, soltanto con gli occhi e qualche espressione del viso, ma un dialogo vero quanto impossibile. Lei gli trasmette una specie di calma, una pazienza nuova.

Quando scende la notte Tino continua a guardare in direzione della donna, non la vede ma sente il suo sguardo. Adesso il tempo passa in modo diverso, non fantastica nulla ma non è più solo e schiacciato fra quella umanità alla deriva, non fa programmi di nessun tipo, quella condivisione fatta di silenzio e occhi rende quasi comprensibile tutto il delirio di una vita.

Passano i giorni, qualcuno muore, tutti si stanno disidratando e la fame è una tenaglia allo stomaco. Tino ha smesso di contare il tempo, sente le forze andargli via, spera sempre di arrivare, ma con un animo diverso. Se solo avessero un po’ da bere e qualcosa da mangiare potrebbe immaginare di passare una vita intera a farsi accarezzare da quegli occhi nel rottame di un peschereccio perso per sempre nel Mediterraneo.

Una notte il barcone viene avvicinato da una lancia, i due armati spengono i motori e se ne vanno portati via da un complice. Qualcuno grida, qualcuno piange, qualcuno cerca inutilmente di saltare sulla lancia ma è respinto con brutalità.

Tino non ricorda i particolari, aveva i riflessi appannati e la mente persa in quel filo diretto di sguardi, sa soltanto di aver pensato che fosse finita e di averlo pensato senza particolare terrore, voleva semplicemente avere accesso agli occhi della donna fino alla fine, in qualunque momento fosse arrivata.

Per fortuna il mattino dopo un’imbarcazione della Guardia costiera italiana li ha incrociati e trainati fino al porto di Lampedusa, che a quel punto non era lontana.

Quando sono sbarcati, Tino ha raccolto tutte le forze che aveva per tendere la mano alla donna e aiutarla a scendere. E stato il primo e anche l’unico contatto fisico che abbiano mai avuto. Al centro di permanenza temporanea, dove sono stati condotti, li hanno divisi, gli uomini da una parte, le donne dall’altra. E non si sono più rivisti.

Non ha mai smesso di pensare a lei, forse per questo non si è mai veramente integrato, pur avendo un lavoro e una situazione del tutto simile a quella di molti italiani. È rimasto convinto che quella fosse la donna della sua vita e che tutto quel peregri. nare avesse come unica funzione il loro incontro,

Quando partivano i nostri, e quando partono ì nostri di adesso, lasciavano e lasciano una casa, un indirizzo, qualcuno che li aspetta, che s’informa su di loro, un luogo a cui tornare se il fuori li respinge.

Chi parte come Tinochika non si lascia nulla alle spalle, parte lasciando dietro di sé un bucato in fiamme, come ha detto una volta Erri De Luca, quindi Tino non ha un posto dove tornare, ha una storia naturalmente, ma è stata cancellata.

Per questo, dopo anni di sforzi e d’integrazione, guardandosi indietro per cercare un appiglio alla sua vita presente, l’unica cosa che trova e che continua a essere davvero importante sono gli occhi di quella donna sul barcone della traversata e la sua mano fredda e tremante mentre l’aiuta a scendere a riva sull’isola.

Per questo Tino decide di fare qualcosa di talmente irrazionale quanto urgente: tornare a Lampedusa.

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Dall’introduzione al volume      “Da questa parte del mare”

 

Babasunde, che ha perso il suo nome. E quella ragazza intirizzita che cammina verso la stazione. Rrock Jakaj, violinista di Scutari. Jean-Claude Izzo, commosso dall’ascolto di una canzone di Murolo. E poi Tinochika detto Tino, che si è aggrappato con tutto se stesso allo sguardo di una donna. Gianmaria Testa ritorna – questa volta non nelle vesti di cantautore ma di scrittore – sul tema delle migrazioni contemporanee. E lo fa senza retorica e con il solo sguardo sensato: raccontando storie di uomini con una lingua poetica e tagliente, insieme burbera ed emozionata. A dieci anni dall’uscita del disco Da questa parte del mare, che ha ricevuto la Targa Tenco nel 2007 come migliore album dell’anno, quelle canzoni così vive e attuali generano qualcosa di nuovo: un altro tipo di scrittura e di voce. «Ho l’impressione che nei confronti del fenomeno delle migrazioni abbiamo avuto uno sguardo povero e impaurito che ha fatto emergere la parte meno nobile di noi tutti, – scrive. – Bisogna avere occhi, cervello e coraggio da spendere».

L’intero album di Gianmaria del 2006

David Maria e don Lorenzo

 

 

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di Piero Murineddu

Come ridare la parola ai poveri,l’argomento che più di ogni altro tormentava Lorenzo”.

Scrive così padre David Maria Turoldo nel suo libretto ” Il mio amico don Milani“, nato da appunti che aveva lasciato dopo la sua morte, all’interno di una cartella con su scritto “Milani”.

Un libretto per me preziosissimo, che non mi stanco di sfogliare e risfogliare, perchè ogni parola, ogni passaggio sono per me nutrimento continuo, e che ora, pensando di fare cosa gradita, decido di condividerlo in questo spazio.

Due uomini di carattere e temperamento diversissimi: diffidente, guardingo e leggermente ombroso Lorenzo, specialmente nel primo impatto, mentre David era si espansivo e solitamente sorridente, ma anche per lui – come scrive nell’ introduzione al libretto Abramo Levi che lo accompagnò a Barbiana nel 1967 qualche mese prima della morte di Milani – non mancavano i momenti in cui aveva il cuore “basso”, anzi, a quanto pare capitava spesso.

Un piccolo volume da tenere nel proprio comodino e da leggere preferibilmente nel silenzio notturno, come ho appena finito di fare, in quei momenti distanti dagli impegni e dal continuo correre quotidiani, quando si ha quella particolarissima predisposizione d’animo in cui ci si trova a tu per tu con ciò che si é nel profondo e quello che si ha realmente a cuore.

In quel particolare spazio in cui si é spogli di tutte le armi difensive e “offensive” con le quali normalmente si affronta una nuova giornata. Senza le solite preoccupazioni di rispondere a dei ruoli o alle aspettative che gli altri hanno nei tuoi confronti.

Occorre intendere bene ciò che David Maria dice di Lorenzo, divenuto prete da adulto perchè aveva intuito quale sarebbe stata la sua principale fatica: contribuire a far si che il povero diventasse una persona libera, in tutti i sensi, e che questa libertà se la dovesse conquistare.

Attenzione a non fraintendere. Libertà dalla miseria principalmente, cosa molto diversa dalla povertà. A stomaco vuoto per “dieta” forzata, non si ragiona e non ci sono le condizioni basilari per pensare ad altre cose.

Lo vediamo ogni giorno che chi si trova nella miseria assoluta spesso non si fa scrupolo ad umiliarsi, rinunciando quasi alla sua dignità. Ecco il motivo per cui don Milani (e molti che lo vedono come esempio o che semplicemente si ritrovano nella sua sensibilità) parteggiava sempre per i più svantaggiati: perchè in fondo sono sempre fatti oggetto di discriminazioni, presenti o passate.

Ma la mancanza di mezzi per vivere non è riferito solo al cibo.E qui veniamo al grande lavoro di promozione umana e culturale che questo prete ha fatto per quei ragazzi di montagna che gli son stati affidati e di cui ha cercato di prendersi massima cura.

Voglio comunque considerare l’aspetto che a me preme maggiormente. Oggi, coloro che in buona fede credono di essere dalla parte dei poveri, la grande moltitudine che patisce qualunque tipo di disagio non solo materiale, vogliono promuoverli o vogliono promuovere se stessi?

Un vecchio interrogativo che forse si dà troppo per scontato o addirittura è stato messo completamente da parte.

L’esempio lampante è il politico che dice di essere “a servizio”: per farsi strada o per migliorare la vita degli altri?

Ma anche per ciascuno di noi: lo facciamo per essere lodati e veder riconosciuto il nostro merito, o perchè abbiamo a cuore il benessere e la felicità altrui, ammesso che tale stato sia possibile?

Detto questo, torno alla fatica quotidiana affrontata da quel prete fiorentino mandato in esilio dal suo vescovo Florit perchè, con la pubblicazione del volume “Esperienze pastorali” , aveva fatto sapere in giro che si occupava troppo delle vicende terrene delle “anime” che gli erano state affidate.

Lui aiutava i ragazzi a diventare persone adulte e consapevoli, e aveva preso la cosa talmente sul serio, che spesso era eccessivamente intransigente con loro, motivo per cui, guarda un po’, scopriremo in seguito il grande amore con cui era ricambiata la sua severità. Non c’era tempo da sprecare nel fare “giochi da oratorio” o per ritemprare il fisico e di conseguenza la mente, come pensiamo che sia cosa giusta un po’ tutti.

No, per don Lorenzo non c’era tempo da perdere. Studiare, elaborare, conoscere, approfondire, confrontarsi…. Erano queste le condizioni perchè i poveri divenissero protagonisti del loro riscatto.

Da qui quanto afferma il suo e nostro amico David Maria:

“Don Lorenzo, un uomo in continua lotta, e non certo perché il povero diventi ricco, ma perché diventi un uomo libero, che conquisti da sé la sua libertà. Per questo egli voleva restituire ai poveri la parola, contro gli uomini dalle mille parole e pertanto sempre dominatori e sfruttatori.”

Buona lettura

Il mio amico don Milani

di David Maria Turoldo

Prima parte

UN UOMO CHE TI PIANTAVA GLI OCCHI IN FACCIA COME DUE PERFORATRICI

 

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La mia conoscenza personale risale addirittura al 1954. Don Milani stava ancora a Calenzano, alle porte di Firenze. Aveva già scritto quasi per intero le sue Esperienze pastorali: era di questo che con Gianni Meucci mi trovavo, nella sua disadorna stanza di Calenzano, a discutere. Una stanza che a lui serviva come studio e scuola e “salotto” per ricevere la gente, un locale tanto spoglio e nudo quanto era nuda e spoglia la sua parola e il suo volto.

Già d’allora ho avvertito l’identità di interno e di esterno, del dentro e del fuori di quest’uomo che ti piantava gli occhi in faccia come due perforatrici, E così già da allora ho cominciato a misurarmi con lui. E pur nella infocata polemica, mi ero con lui impegnato alla pubblicazione di quel libro presso la nostra Corsia dei Servi di Milano, anche se poi questo non è mai potuto avverarsi per via dell’imprimatur che mi è sempre stato categoricamente negato e che invece don Milani assolutamente esigeva. Un fatto cui accenna egli stesso in qualche sua lettera.

Anzi, per questo e altro, anche a me aveva scritto personalmente qualche lettera; purtroppo lettere perse o distrutte a causa dei miei spostamenti e di quanto mi è capitato nella mia avventura. Ne ricordo una particolarmente lunga e impegnata, sempre sull’argomento di come ridare la parola ai poveri, l’argomento che più di ogni altro lo tormentava.

Una frequentazione, dunque, e una conoscenza abbastanza coinvolgenti fino al punto di averlo perfino confessato. Ciò è accaduto presso l’Annunziata di Firenze, in uno sgabuzzino dietro la sacrestia, lui inginocchiato per terra, dentro la sua mantella nera e frustra, e io a giudicarlo in nome di Dio (!)

È per tutti questi fatti personali che io ho sempre stentato a parlare di don Milani: per delicatezza, per difficoltà mia personale, per la complessità della sua personalità come io l’ho vista (o credevo di vederla) anche dal di dentro. Avevo paura di servirmi di dati non riferibili, di interpretazioni fasulle; oppure temevo di finire anch’io o in clichè di parte, oppure in astrazioni offensive: tutti atteggiamenti da temere con terrore per chi ha conosciuto personalmente don Milani; atteggiamenti che penso lo fanno rivoltare anche da morto.

Un uomo con cui non si può scherzare; un uomo di denuncia e di rottura radicale e assoluta: denuncia che provoca resistenze a non finire, e condanne a diluvio come tutti sappiamo; una presenza da provocare anche oggi reazioni a catena. Per capirlo bisogna inserirci dentro il suo tempo e il suo luogo: Firenze, la Toscana. E la conversione; la vocazione; l’origine ebraica, l’ascendenza, da parte di madre, fino al grande Guicciardini.

Lui figlio di una casa pregna della più ricca e radicale cultura laica. Sono tutti richiami magistralmente esposti e rigorosamente documentati dalla biografia di lui, scritta da quella grande ricercatrice — tanto devota quanto scientificamente esatta — che è stata la Neera Fallaci, pubblicata col titolo Dalla parte dell’ultimo: un’opera che l’autrice stessa mi ha chiesto di presentare in occasione della seconda edizione. Cosa che ho fatto scrivendo un’introduzione di cui ora non posso non servirmi, e che ognuno può leggere nel libro citato; prefazione che a ragion veduta intitolavo “Santità da grandi tempi”.

Tempo, luogo, vita, scelte, opere: tutto un messaggio unico da giudicare soprattutto alla luce della conversione. Perché è stata la conversione il suo Sinai, o la sua Pentecoste; o l’uno e l’altro insieme. Perciò in lui ci sarà tanto di antico testamento quanto del nuovo, in un intreccio da calvario.

Tempo di guerre, e di dopo-guerre (che forse è peggio); e una vocazione che farà di lui un uomo di lotta implacabile; dentro un tempo di passaggio dalla civiltà agraria alla civiltà industriale; nella esplosione di infiniti problemi di cultura, di società, di religione. Società in sfacelo; moltitudini di poveri senza speranza; tempi di industriali-vampiri; valori e ideali in terribile crisi. Problemi della scuola, del lavoro, del cittadino, del credente: tutto un mondo in ebollizione.

Su tutto campeggiava il protagonista e la vittima: appunto, il povero. Da qui nasce il più grande avvocato dei poveri che io abbia mai conosciuto: lui, don Milani. Anzi neppure “dei poveri”, ma fratello e avvocato spietato del povero al singolare: perciò la Fallaci ha intitolato bene il suo lavoro, scrivendo la sua vita Dalla parte dell’ultimo. Dell’ ultimo, non degli ultimi. Don Milani sarà l’uomo più concreto e incarnato in fatto di fede, quanto a noi è difficile perfino immaginare.

Anche in questo rimarrà un ebreo che non solo odia gli astratti, ma neppure li conosce. La sua fede, proprio perché si tratta di fede adamantina, sarà sempre inserita dentro un contesto culturale da dove nasce il più originale e maggiore educatore del nostro tempo: lui, don Milani, che farà della scuola la sua unica consumante pastorale, la legge del suo sacerdozio, e il suo messaggio più rivoluzionario.

Seconda parte

CONTRO GLI UOMINI DALLE MILLE PAROLE, E PERTANTO SEMPRE DOMINATORI E SFRUTTATORI

 

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Luogo, Firenze; famiglia imparentata con Guicciardini addirittura. Ebreo e cattolico: tanto ebreo quanto cattolico. Anche in questo potrebbe essere di richiamo; per dirci quanto l’antico testamento non va disgiunto dal nuovo testamento; per dire quanto la legge non va disgiunta dallo spirito; la giustizia dalla carità. Per dire come bisogna convertire il sistema: perciò non si può non essere se non “segni di contraddizione e di opposizione per molti”; secondo l’ultima preghiera di Cristo stesso rivolta al Padre, «perché i suoi non siano del mondo»; «essi sono nel mondo ma non sono del mondo»! Per dire quanto Cristo è figlio d’Israele.

Una vita singolare, irripetibile, misteriosa, fulminante. E la sua conversione, che è la chiave per entrare nel suo segreto. Non è precisamente abbandono del suo ebraismo, ma è il substrato e l’humus della sua condizione di cristiano.

È dentro questo quadro che va giudicato anche il suo concetto di chiesa; chiesa che diventa la sua Torah; una Torah comunque da salvare e ricreare continuamente con lo spirito di Cristo. Pertanto una Torah e una chiesa osservata e vissuta fino alla scrupolosità; una realtà da mai più abbandonare, costi quello che costi, anche il martirio se necessario; anche la proscrizione e la condanna, se necessario.

Una fede sempre rapportata al povero; basata sullo stesso istinto ebraico; chiamata a farsi corposità. Appunto, storia. Per questo è importante rifarci alla lettera indirizzata a don Piero dove egli parla della tragedia più grossa del prete:

«Per un prete, quale tragedia più grossa di questa potrà mai venire? Essere liberi, avere in mano sacramenti, camera, senato, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutto questa dovizia di mezzi divini e umani raccogliere il bel frutto d’esser derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti. Aver la chiesa vuota. Vedersela vuotare ogni giorno di più. Saper che presto sarà finita per la fede dei poveri. Non ti vien fatto perfino di domandarti se la persecuzione potrà esser peggio di tutto questo?». (Esperienze pastorali)

Un prete irretito fino alla fobia dal sospetto contro gli intellettuali: e tutto perché visti come responsabili di una cultura astratta; di una cultura imputabile del più grande tradimento: quello appunto di essersi dimenticata dei poveri.

Uomo spietato non tanto contro gli altri quanto contro se stesso. Tanto tenero quanto feroce; tanto obbediente quanto libero; tanto assetato di grazia quanto divorato dal peccato del mondo: peccato che per lui sarà l’ingiustizia; mentre la giustizia sarà la verità. Perciò un uomo in lotta per il povero: non certo perché il povero diventi ricco, ma perché diventi un uomo libero, uno che conquisti da sé la sua libertà. Perciò egli vuole restituire ai poveri la parola: contro gli uomini dalle mille parole, e pertanto sempre dominatori e sfruttatori.

A questo punto mi permetto di utilizzare la mia stessa prefazione, di cui dicevo sopra, sia perché si tratta di cose vissute, sia perché, specialmente a rilettura finita del libro di Neera Fallaci, sento tutta la verità di quanto ho già scritto. Così mi sarà più facile farmi capire, rivelare tutto il mio stato d’animo, dire come la profezia continui nella chiesa. Perché io sono stato testimone diretto, frequentatore di profeti, e tuttavia… Precisamente così ho scritto in occasione di quella presentazione:

«Che vergogna! Essere stati contemporanei di papa Giovanni, di don Mazzolari, di don Milani; anzi, essere stati loro amici e commensali, e non avere imparato. È non esserci convertiti. Ed essere quelli di sempre. Peggio di sempre! Sì, perché si viene dopo un concilio, si viene dopo queste lotte furibonde dei poveri contro i ricchi, lasciando soli i primi e “fornicando” sottilmente, ma poi non tanto segretamente, coi secondi. Si viene dopo quel forsennato 18 aprile dove ci siamo tutti “prostituiti” e ora ne portiamo la colpa e il rimorso!» (Dalla parte dell’ultimo)

Un 18 aprile 1948 certo lontano, preistorico riguardo al tempo, ma sempre operante, sempre corrosivo come un cancro. Un 18 aprile che ha segnato la vittoria della paura, non sulla, ma contro la fede.

Tali pensieri mi ronzano da sempre, ma più alla evocazione di tutta la vita di don Milani: una evocazione da cui nessuno esce immune. E tu ti senti fisicamente al muro, con un dito teso come una canna, ad accusarti su tutto. È una faccia, la sua, quella di don Milani, che ti folgora e ti sorride. Sì, perché aveva anche una faccia sorridente, quasi da fanciullo; pure se, insieme, da implacabile accusatore, da scatenato pubblico ministero.

E una voce che ti inchioda alla croce dei tuoi tradimenti riguardo alla fede in cui dici di credere. E così ti senti dentro. Un colpevole. Chiunque tu sia, prete, frate, vescovo, papa, industriale, professore, giudice, intellettuale:

«lo mi vergogno a scrivere quando so che, poi, mi leggerebbero tutti i borghesi: tutt’al più, per fare quattro chiacchiere da salotto».

Così, specialmente se lo hai conosciuto, senti che è proprio lui, don Lorenzo, una persona che ti denuda. E la voce della coscienza che ti frastuona: perché hai tradito? Tutti abbiamo tradito, e continuiamo a tradire. No, non si può essere cristiani a questo modo: dalla parte dei ricchi, dalla parte dei padroni, dalla parte dei militari, dalla parte degli intellettuali…

Mai sentito un prete così! Ma com’erano gli antichi profeti? Come era Gesù Cristo? Tanto è vero che han dovuto ucciderli! E per Cristo tutto è deciso nel recinto del tempio: in nome di Dio! È chiaro: tanto che la storia continua.

Dunque, tu dal confronto, eccoti al muro: è così la sua stessa testimonianza che ti grida contro. Della sua opera tutto è necessario. E dal confronto io non so come tu ne uscirai, sia che tu sia prete, sia che ti dica cristiano; anzi, pure se appena ci tieni a essere un uomo.

È così, non c’è niente da fare, basta vedere questa società, e anche la chiesa. Del resto l’ha detto: «Questa eretica società liberale» . E già egli ha visto, allo scadere del II millennio, «l’ora della resa dei conti… quando tutto il nostro mondo sbagliato sarà stato lavato in un immenso bagno di sangue…». E ha pensato che avranno imparato almeno loro, cioè i missionari cinesi del vicariato apostolico dell’Etruria «contemplando i ruderi del nostro campanile e domandandosi il perché della pesante mano di Dio su di noi».

Un sogno? Il delirio di un folle? O, non meglio, qualcosa di profetico? Non erano così le profezie bibliche? Vedi appunto la Dedica di Esperienze pastorali e la Lettera dall’oltretomba riservata e segretissima ai missionari cinesi nel medesimo libro.

Egli immaginò, dopo la nostra miseranda fine di chiesa e di cristiani dell’occidente («uccisi dai poveri», «distrutti i templi, sbugiardati gli assonnati sacerdoti»), una rievangelizzazione delle nostre terre, ad opera di missionari venuti dalla Cina. Una continuità dunque di Cristo anche per quelle nostre povere genti sopravvissute, in virtù di una specie di viaggio di ritorno del cristianesimo in occidente.

Quasi paradossalmente meritato dal nostro tradimento. Cioè, egli immagina che possa accadere come per Israele, il quale, avendo tradito, è stato occasione di salvezza per la Cina e per l’Asia. E come, alla fine, si spera nella salvezza d’Israele, così speriamo succeda anche per noi. Questo sarebbe il significato dell’approdo dei missionari cinesi sul suolo devastato dell’Etruria.

Tutto sommato è una visione positiva della storia. Non la disperazione di un vinto, ma la concezione della storia come mistero di salvezza, storia che obbedisce al disegno di Dio! Non incredulità, ma fede: comunque vada la storia per colpa nostra.

«Troppe estranee cause con quella del Cristo abbiamo mescolato. Essere uccisi dai poveri non è un glorioso martirio. Saprà il Cristo rimediare alla nostra inettitudine. E lui che ha posto nel cuore dei poveri la sete della giustizia». (Esperienze pastorali)

 

Terza parte

MI SON FATTO CRISTIANO E PRETE SOLO PER SPOGLIARMI DI OGNI PRIVILEGIO

 

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Nella “Lettera dall’oltretomba” Milani scrisse:

«E stato l’amore dell’ordine che ci ha accecato… ‘segnando ai piccoli catecumeni bianchi la storia del lontano 2000 (cioè questo nostro 2000 che per essi sarà lontanissimo quando verranno: “mille anni davanti a Dio sono come un giorno solo”, secondo la rivelazione), non parlate loro del nostro martino. Dite loro solo che siamo morti e che ne ringraziamo Dio».

Una voce tanto più crudele quanto piu vera e scontata dalla storia. Una voce perfino pietosa che cerca di salvarti e di giustificarti. Sempre rivolgendosi ai missionari cinesi quali testimoni di come la storia, sia pure lentissimamente, sarà cambiata, testimoni di questo continuo sparire e apparire di civiltà, segno che non c’è altra proposta anche per il futuro più impensato, scrisse:

«Sulla soglia del disordine estremo mandiamo a voi quest’ultima nostra debole scusa supplicandovi di credere nella nostra inverosimile buona fede».

Così don Milani amava. Amava anche te. Ma ti amava come Cristo ama il ricco Epulone. Con l’amore che non scherza. È proprio dell’amore non fare un fascio di ogni erba. L’amore distingue, sceglie, divide, denuda: appunto, ti accusa, ti inchioda alla tua croce, perché ti vuole salvo a tutti i costì. L’amore è per la pace, ma non è imbelle. Tanto meno è neutrale. L’amore è lotta fino alla morte. Esigente ed implacabile. Che dà la vita per la verità. E la verità è l’uomo. Così è l’amore.

Ancora, per essere non solo accanto ai poveri, ma “dalla parte dell’ultimo”, scriveva don Lorenzo, sempre a proposito del tradimento dei poveri in seguito al 18 aprile 1948:

«Così stando le cose, è più saggio ridurre i termini a una sola semplicissima scelta. O con Dio contro i poveri, o senza Dio coi poveri. E scegliendo io di star con Dio e con la sua chiesa non resta che pregare per i poveri che calpestiamo e tentare di confessarsi spesso, per essere pronti al severo castigo di Dio che non tarderà a venire e indicarci la strada nuova».

Per riprendere l’immagine del processo, quest’uomo arriva ad accusarti persino attraverso il suo rimorso, per aver sbagliato, benché sia stato costretto a sbagliare! Quella connivenza subita dal prete con le forze della discriminazione e dello sfruttamento! Connivenza chiamata eufemisticamente “buona azione”, perché il prete riesce a trovare lavoro a un disoccupato! Connivenza che egli invece, in Esperienze Pastorali, chiama «un’opera cattiva e perfino illegale»:

«Il fratello Industriale è stato gentile con me. Ha detto alla sorella dattilografa di far la schedina al mio figliolo Franco. Io dovevo essere grato al fratello Industriale. Ma poi è successa una cosa triste: mentre m’alzavo per andare via aveva aggiunto: “Le farò fare una lettera anche dall’officina dove Franco ha lavorato fin ora per dirle quel che sa fare”. Il fratello Industriale mi ha steso la mano con un sorriso d’intesa: “Non importa, reverendo, se me lo raccomanda lei non sarà certo un comunista”. Perché non ho ritirato la mano Signore? Come ho fatto a non capire subito che quella mano e quell’occhiata e quella parola erano uno sputo sul mio sacerdozio che è il tuo sacerdozio, Signore? […] Ho avuto paura per il lavoro del mio Franco […]. Sì, che il mio Franco è un comunista. “E un comunista non deve mangiare?”, ha chiesto Franco […]. Quando, quattro mesi fa, col decreto della mia mamma chiesa, gli ho detto: “Sbagli, Franco, a essere comunista” e tu, fratello Industriale, quella mia parola dolorante di padre l’hai sbandierata festante sui tuoi giornali, e che credevi tu? Che io gliela dicessi per te? Per salvare il tuo capitale e il tuo mondo sbagliato che deve cadere? Tu, Franco, lo sai, vero? che io non sono per loro? Perdonaci tutti: comunisti, industriali e preti. Dimenticaci, disprezzaci, fai quello che vuoi, ma il tuo Signore non lo lasciare, Franco». (Dalla parte dell’ultimo)

Così, dentro il cuore di don Lorenzo continuava a dolorare il rimorso di aver vinto quella funesta battaglia.

«E la storia che mi s’è buttata contro, è il 18 aprile che ha guastato tutto, è stato il vincere la mia grande sconfitta». (Ibidem)

A questo punto non è neppure don Lorenzo che ti accusa, ma è Cristo stesso. Al suo posto si spalanca il Vangelo, letto a Donato dì Calenzano, o a Barbiana, letto oggi. Per dire com’è reale e contemporaneo.E come appunto il vangelo è dimostrato: con queste “esperienze”! Dimostrato che non è una favola. Come non è stata una favola per san Francesco e per papa Giovanni e per Mazzolari, l’uomo di fuoco, e per pochi altri.

Sì, adesso si capisce come don Lorenzo può essere stato di Cristo: al di là di ogni immagine romantica e avvilimento pietistico. Perché anche per san Francesco la vicenda non è tanto idilliaca: su uno che porta le stigmate, c’è poco da fare del sentimentalismo. E anche per papa Giovanni, pur nella pace evangelica dello spirito, nessuno può dire che non sia stato il suo un papato drammatico. La differenza di temperamenti è questione secondaria.

Di una segreta e profondissima gioia, perfino di affabilità e di grazia abbondava anche don Lorenzo, pur sempre disteso sulla graticola delle sue scelte. Ci sono documenti nei quali si manifesta la beatitudine del regno, Non una beatitudine futura, da comprarsi col sacrificio, l’obbedienza ecc., ma una beatitudine presente, viva, sorridente nella situazione di maggiore umiliazione e solitudine.

Ecco un esempio preso poco meno che a caso. Scriveva don Milani quando era già al confino ecclesiastico nella piccolissima parrocchia di Barbiana:

«È triste, è un disonore, è grave, tutto quello che vuoi, ma non è una catastrofe: s’arrangino, vadano al diavolo, pregherò per loro, riderò di loro (…). E poi? Poi andrò tranquillamente a mangiare e a dormire e cercherò di osservare giorno per giorno la legge di Dio e della chiesa e non vorrò smettere di essere una persona sorridente e serena, una persona che possiede la pace e la sa difendere (…). Combattivi fino all’ultimo sangue e a costo di farsi relegare in una parrocchia di 90 anime in montagna, e di farsi ritirare i libri dal commercio, sì tutto, ma senza perdere il sorriso sulle labbra e nel cuore e senza un attimo di disperazione o di malinconia, o di scoraggiamento o d’amarezza. Prima di tutto c’è Dio, e poi c’è la vita eterna». (Lettere)

In fondo è lo stesso spirito che già affiorava in lui nei primi anni di sacerdozio: «Mi godo il mio Dio che m’ha dato finalmente un mestiere col quale posso divertirmi tanto. (…) Mi son fatto cristiano e prete solo per spogliarmi di ogni privilegio» (ibidem).

È il cercatore di perle del Vangelo, che va, vende tutto quello che ha e compera il campo dove è nascosta la perla. Una perla che non perderà più e una gioia che non scambierà mai per nessun’altra cosa.

Così, dunque, Cristo ad ogni svolta della storia trova qualcuno che gli impresta la voce. Così il processo continua per infiniti capi d’accusa, sulla doppia preghiera, quella del curato e la sua durante la processione: «Perdonali che non sono qui con te; perdonaci che non siamo là con loro»; e poi il “tipo di cultura” del seminario e del prete, di questa «gente che si è fatta assorbire». E poi la povertà: non poter parlare sempre come lui «dalla cattedra ineccepibile della povertà». E ancora «i candelabri dorati solo verso la gente e imbiancati da quella parte che guarda il sacramento», cioè il problema dell’apparire e non dell’essere.

Poi, la persona del prete,e il suo servizio sbagliato, e quella discriminazione tra «parrocchiani di prima e seconda categoria»: quante volte il povero viene discriminato e nessuno fa caso alla sua sofferenza! E l’ordine che non è un concetto univoco: «Se lo violano i poveri è un attentato allo stato, se lo violano i ricchi è la congiuntura economica».

E tutto questo come vita vissuta, come cose pagate sulla propria pelle. E il grande dono di “ragionare” nella fede! E l’ora di evangelizzazione come liberazione dell’uomo; l’opera di promozione umana, l’opera della “acculturazione” del povero, perché il povero si difenda da solo.

Soprattutto la giustizia. Solo giustizia! Perché la giustizia è tutto: è prova dell’amore, è garanzia della libertà. Perché non si può essere in pace senza giustizia. E neanche la gioia può essere ingiusta. Non sarebbe più gioia. Questo è il paradiso umano, umanissimo di don Lorenzo. È per questo che, da convertito, penso abbia sofferto di un solo rimorso, per quell’unico peccato commesso quando non aveva ancora capito, fattogli commettere dalla politica ecclesiastica: appunto la bruciante colpa del 18 aprile 1948. Una colpa che non si perdonerà mai.

Alla fine del processo tutti si domanderanno: è possibile essere come don Lorenzo? Che cosa dobbiamo fare? La domanda che si ponevano tanti nel vangelo nell’udire Giovanni il Battista, colui che apriva la strada all’incontro con Cristo.

La risposta la dà un suo figliolo, uno di quelli che l’avevano capito. («Padre, ti ringrazio che hai nascosto queste cose ai grandi e ai sapienti, e le hai rivelate ai piccoli!»).

Essere come don Lorenzo?

«Lui aveva avuto una unzione particolare: non si può essere com’era don Lorenzo, mi permetto di dire, se non c’è un intervento diretto e particolare del Signore. È arrivato qui con questa spinta a fare un lavoro di evangelizzazione, a portare Dio dappertutto». (Dalla parte dell’ultimo)

Certo non è questo che si richiede ad un cristiano, di essere una copia dell’altro. Ognuno ha la sua faccia, e così ognuno ha la sua vocazione e il suo destino. Ma di avere il medesimo spirito, questo sì. Lo Spirito di Cristo: «Riceverete il mio Spirito». Lorenzo, quando stava ancora cercando la verità «era già pieno di Spirito santo»; come è detto di Stefano, il primo martire cristiano. Dunque, posso e debbo imitare Cristo, ma nessuno deve “scimmiottare” né Lorenzo né Francesco. A imitare i santi si può diventare anche matti, ma a “seguire” Cristo non sbagli mai; sempre nuovo e creativo, e adatto al tuo tempo. Perché Cristo è l’infinito di Dio nel tempo.

Quarta parte

HO PAURA CHE SENTENDOMI PARLARE DELLA SUA SANTITÀ, LORENZO MI DIREBBE “SMETTILA, BISCHERO!”

 

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Partiamo dall’interrogativo: quale la spiegazione del fenomeno don Milani? Il fenomeno don Milani non si spiega che con il segreto della santità.

Ciò vuol dire che si deve uscire dalle nostre logiche, qui c’è il mistero di Dio. E però, con questo, non si vuole evadere: Dio non è fuori della storia, né fuori della vita dell’uomo. Si tratta di credergli e di rispondergli. E nella misura in cui si dice di sì, allora si diventa esplosivi e rivoluzionari. Cioè si entra in un’altra logica, che è appunto la logica di Dio. Basti guardare all’evento di Cristo! Per queste logiche la santità è un assurdo, non ha spiegazioni. Tantomeno quella di don Milani. Perfino per il “cattolico” tradizionale e conformista; e per questa chiesa che egli chiama la sua “ditta”.

Santità in don Milani – ho quasi paura a continuare, paura che mi dica precisamente dal paradiso: «Smettila, bischero!» E sarebbe la prima volta che forse una tale parola risuonerebbe da lassù, ancor più acutizzata da un’eccezionale intelligenza: un’intelligenza fiorentina che è intelligenza dell’intelligenza – santità, dicevo, riuscita a sposarsi a una autentica dialettica vissuta addirittura sul piano della “cultura”. Una santità che finalmente non è solo “bontà”, come si usa giudicare da parte degli intellettuali, forse per legittimare la loro viltà e i loro compromessi. Qui non siamo di fronte solo a un convertito, qui c’è qualcosa di più. In antico si sarebbe detto che qui siamo davanti a un “predestinato”. Di fronte a un segnato, certo! Il “predestinato” lasciamolo stare, perché potrebbe indurci a un fatalismo, a un determinismo.

Mentre qui c’è un uomo che liberamente sceglie, un uomo che lotta e rischia e “sbaglia”, per troppa bontà, anzi per una “sbagliata” obbedienza: ma sarà il solo caso! Poi sarà lui, più tardi, a dire che «l’obbedienza non è più una virtù». Lui, obbedientissimo e fedele, sempre, perfino delicato verso la stessa chiesa che lo colpiva. E Lorenzo paga di persona, non fa pagare i poveri.

Fin quando la chiesa, una certa chiesa, non trova il coraggio di dire che arche don Lorenzo Milani è un santo, questa chiesa non impara. Vuol dire che non cambia, non si converte, neppure di fronte alla “lezione” di Dio; vuol dire che non ha compreso i segni dei tempi; anzi, non ha “temuto Dio che le attraversava la strada”. Papa Giovanni, don Mazzolari, don Milani… Certo, non è la santità formalistica. Non è una santità alla Pio XI e neppure alla Pio XII e tantomeno alla san Luigi Gonzaga, quale i “detrattori”, che sono i suoi agiografi, ce lo hanno descritto: un vero malato. Poveri santi! Comunque, chi ha detto che Dio si esaurisce solo in questi santi?

Certo, qui ci troviamo di fronte a una santità da grandi tempi, da ultimi tempi. Vorrei dire, da veri e soli e autentici rivoluzionari, anzi le rivoluzioni degli altri spesso finiscono per essere appena delle successioni: delle prese di potere; poi tutto è finito. Ma che qui di santità si tratti, c’è da scommettere qualsiasi cosa. Ripeto, non è una santità “tridentina”.

C’è stata la rivoluzione liberale, c’è stata la rivoluzione russa, c’è stato il concilio vaticano secondo, e altro. Ma è una santità secondo la tradizione, nel senso maiuscolo del termine: l’uomo contro il tempio, contro la legge e contro il potere. Per la libertà dell’uomo!

O comunque: non si dichiara santo uno che abbia esercitato le virtù teologali e morali in grado eroico? Uno che sia un modello di fedeltà a Cristo, alla sua chiesa, ai poveri? Allora c’è da sfidare chiunque a trovare altri che sia più fedele, nei nostri tempi, di don Lorenzo Milani. Chi può essere un esempio più efficace ai nuovi credenti, ai giovani inquieti che cercano il regno più di quanto noi conformisti riusciamo a immaginare? Ma lasciamo: oggi, per fortuna, lo stesso popolo cristiano è sempre meno interessato a una “canonizzazione”, mentre è sempre più attento alla vera santità. Il fenomeno di papa Giovanni parla da sé.

Ancora due note prima di concludere. Una, precisamente a proposito di papa Giovanni.

In una lettera in data 1 ottobre 1958, papa Giovanni, allora cardinale di Venezia -importante rilevare che era ancora cardinale: perché sarà il papato a “liberarlo completamente, sia pure nella fedeltà; a liberarlo cioè, pur perseverando egli nell’essere se stesso, uomo della più rivoluzionaria tradizione; come appunto sarà don Milani, in tempi e temperamenti diversi – il cardinale Roncalli, dicevo, esprimeva dei giudizi negativi su don Milani per via di Esperienze pastorali, libro pubblicato allora e che aveva suscitato roventi polemiche in tutti gli ambienti.

Il fatto può sorprendere solo chi non ha familiarità coi santi. I tipi più difficili nella chiesa sono i santi. Qualcuno ha scritto di loro che sono “testardi” come nessun altro. E si capisce perché: è Dio stesso che se li lavora, e Dio è uno che non è mai contento. E, se non fa un uomo uguale a un altro uomo, tanto meno fa un santo uguale a un altro santo. La santità è libertà e anti-conformismo; la santità è tutto il contrario dei nostri “uniformismi ideologici”. Appunto, perché Dio è infinito. Perciò i santi, più sono tali, più sono inconfondibili, cammini diversi, sensibilità contrastanti e acutissime, come non succede per noi uomini comuni, ed è accaduto che anche dei santi si siano scontrati “a fuoco”; come ad esempio Ippolito e papa Damaso per via dell’integrismo (come è vecchia questa questione!); oppure Cipriano e papa Stefano, per l’autonomia delle varie chiese (niente di nuovo sotto il sole’); e non sono mancati tra loro né giudizi amari né insulti. Non parliamo di san Girolamo con i suoi critici !

L’altra nota riguarda il linguaggio di don Milani: il problema delle cosiddette parolacce! Pure in questo non mancano precedenti nell’agiografia: com’è il caso di san Bernardino da Siena sul latte della Madonna «che non è una vacca», oppure di sant’Antonio da Padova che accosta i cardinali ai tacchini quando «mostrano il culo». Solo uno che non è puro ha paura a chiamare le cose con il loro nome, mentre don Milani era tanto puro che non si è mai permesso una barzelletta equivoca, e si permetteva invece di chiamare tutto col suo vero nome ed è una sua ulteriore testimonianza di verità e di carità. I suoi ragazzi infatti, anche se raggiunti da certe sferzate verbali, sapevano benissimo di essere amati da lui come da nessun altro.

Da ricordare che don Lorenzo è un toscano, poi, e la grazia rispetta sempre il …materiale d’origine.

Quinta parte

NO, DON MILANI NON ERA COME DITE VOI

Articolo di Turoldo pubblicato su “La Domenica del Corriere” il 7 luglio 1977
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Scrive don Milani a Gianni Meucci in una lettera in data 12 dicembre 1956: “Mi pare di averti già detto che don Bensì mi ha consigliato di non farmi presentare in nessun posto dal p. David e non per disistima di lui (tutt’altro), ma perché gli dispiace che io sia accompagnato al primo incontro da un nome sul quale ci son già prevenzioni e giudizi già dati. La cosa mi pare giusta e penso che la condividerai anche tu. Spero che tu sia sufficientemente convinto del bene che mi farete ecc.”.

Così, non avendo potuto presentare mentre era in vita le prime fatiche di don Milani, le famose “Esperienze Pastorali”, sono ora lietissimo di parlare di lui a dieci anni dalla sua morte. E lo faccio anche per un dovere, perché quando si sentono ritratti edulcorati come quelli che ho sentito in questi giorni a certi telegiornali, non si sa neanche se sia maggiore l’indignazione o l’avvilimento che ti fa reagire fino alla sofferenza. Proprio l’altro giorno mi sono detto: va che finirà male anche don Milani; finirà peggio di sant’Antonio! Infatti pochi sanno che sant’Antonio era uno dei santi più scatenati che sia mai esistito; molti lo paragonavano a un san Giovanni Battista con la scure in mano; e predicava in modo tale che fino a ora non sono ancora pubblicati in italiano i suoi “Sermones Domini”; e perché un tempo quando li volevo pubblicare io, mi sono sentito rispondere da quelli dell’Imprimatur, “che avrebbero potuto scandalizzare la gente”. Capite? Le prediche di sant’Antonio che scandalizzano! Infatti è vero che non risparmia nessuno, neppure i vescovi (del suo tempo si capisce); dice che “a volte nelle vesti rosse dei monsignori e dei vescovi cola il sangue dei poveri”; dice che “a volte certi vescovi sono peggio dell’asina di Balaam: almeno questa si era accorta quando passava l’angelo del Signore invece i vescovi…”. Così anche i santi devono essere purgati. E poi sant’Antonio era brutto, finito per idropisia; sformato ad appena trentasei anni di età, dopo essere passato sull’Italia per dieci anni come un uragano, come un temporale di Dio; ed era Antonio che san Francesco chiamava “mio Episcopo”… Guarda cosa ti hanno fatto di sant’Antonio: un santo per fidanzate, una specie di efebo che se la gioca con quel Gesù bambino sulle mani. Qui bisognerebbe certamente aprire un capitolo sulla patologia degli agiografi e sul destino dei santi. Ho già scritto un piccolo opuscolo dal titolo “Povero sant’Antonio”…

Avrà la stessa sorte anche don Milani? Già l’altra sera al telegiornale pareva quasi un santino da prima comunione: naturalmente “prete obbedientissimo”. Così come tutti i famosi proscritti: obbedientissimo Manzoni, obbedientissimo Teilhard, obbedientissimo don Mazzolari; e ora obbedientissimo don Milani. Mai che si domandino costoro a chi e a che cosa obbedivano questi grandi uomini. E perché sono rimasti dentro la Chiesa: liberi e fedeli fino alla morte! Loro li chiamano obbedientissimi: magari dopo averli fatti sputare sangue. Così come è successo per don Mazzolari da parte di un vescovo che in vita lo additava come il “più grave pericolo per la Chiesa”, e dieci anni dopo portava i seminaristi sulla sua tomba a Bozzolo scongiurando i giovani di essere “obbedienti” come don Mazzolari. Così ora anche per don Milani? Dopo neanche 10 anni dalla sua morte; quando dal cardinale Florit e da molti altri preti tuttora viventi era stato giudicato “un bubbone pestifero” da tagliare subito, e perciò era stato confinato da San Donato di Calenzano vicino a Prato a Barbiana nel Mugello: come dire l’isola di Pianosa per i più pericolosi criminali.

L’altra sera mi è toccato di sentire il panegirico di lui come di un esemplare del non-dissenso (a parte che poi non si sa chi più dissenta nella Chiesa; perché ve li raccomando questi lefebvriani!, questi “devoti del papa”, a una condizione, che il papa la pensi come loro; diversamente, per esempio, anche papa Giovanni non va bene). E ho sentito dire come un elogio che è “rimasto sempre prete”… Sarebbe stata bella: che non fosse rimasto prete! Questa gente non capisce come uno che crede non può non rimanere fedele, succeda qualunque cosa. Uno può essere cacciato, ma non può andarsene! Contrariamente a quanto è scritto in un documento dei vescovi lombardi dove si dice ai cattolici inquieti e scontenti “di andarsene”… San Bernardo dice che “chi crede nel regno di Dio è sempre un inquieto”. Nella Chiesa uno ci sta perché ci crede, perché c’è Gesù Cristo: perché c’è lo Spirito santo e i sacramenti e la liturgia. E i sacramenti e la liturgia e lo Spirito santo sono cose infinitamente più grandi di noi tutti, compresi i preti. Diversamente l’invito potrebbe essere valido anche per quelli che l’hanno scritto. E poi don Milani si era appena convertito, ed era appena entrato nella Chiesa, si era appena fatto prete. E quando uno si converte, non scherza.

Così l’altra sera mi sono sentito un don Milani che non riconoscevo più. Non una parola circa le sue “Esperienze Pastorali” che sono una gettata di lava incandescente; e lui già che si rivela in quel libro come un cratere in eruzione nella chiesa di Firenze, un punto dove la “crosta terrestre” ha ceduto. Quanto era soffocato dal sistema, lì si è coagulato e ha fatto colpo. Ed è scoppiato un autentico terremoto; tanto che il Sant’Uffizio interviene con forza per ritirarlo dal commercio. Niente, non una parola sulla “Lettera ai giudici”, sulla “Risposta ai cappellani militari”, sulla difesa degli obiettori di coscienza, per le quali cose ha dovuto subire perfino un processo da parte del tribunale. Non una parola sulla sua amarezza per come si è votato il famoso 18 aprile: vittoria che egli chiama “la più amara sconfitta dei poveri”. Non una parola sul suo confino, eccetera eccetera.

Certo che è un santo! Ma non è che i santi debbano essere delle mezze cartucce? Anzi, io che l’ho conosciuto, col quale ho passato i più infuocati incontri del mio sacerdozio, tenendogli appunto testa per via di quella giustizia al grado di furore di cui è stata divorata la sua vita più che dalla leucemia, dico che solo quando la Chiesa avrà il coraggio di riconoscere la santità di don Milani senza togliere neppure una parola (tanto meno le sue parolacce!) alla sua esperienza -tale e quale egli l’ha vissuta – allora dico che avremo una Chiesa veramente nuova; e una nuova santità muoverà il mondo. Sono perfino lieto della sua citazione dove dice: “Sto pensando di scrivere a p. David per il libro. Non sono punto convinto delle cose che urlavate domenica scorsa. Spero di poterle riurlare presto insieme…”. (Barbiana, 1 luglio 1955.)

Così eravamo amici, fino a urlare insieme là dove non eravamo d’accordo. Ma grandi amici: senza bisogno di ridurlo alla nostra misura! Senza dire poi che quando qualche volta mi è capitato di confessarlo, allora veramente ho sentito, per merito di lui, quanto grande e misterioso è questo sacramento della fraternità e del perdono. Cose troppo delicate per dirle in un qualsiasi articolo. Anzi, è questa una delle ragioni per cui io su don Milani ho preferito piuttosto tacere. E però questa volta, davanti a certe manipolazioni e storpiature, il silenzio poteva essere anche una colpa.

Sesta parte

LORENZO NON AVREBBE MAI PENSATO CHE “ESPERIENZE PASTORALI” SAREBBE DIVENTATO UN FATTO CULTURALE

 

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Ho conosciuto don Milani ai tempi in cui era ancora a Calenzano, in quella povertà quasi squallida, ma non disonorevole. Era un uomo molto solo, confinato in una sorta di “deserto”, al punto che attorno a lui pareva sparisse perfino il senso della comunione ecclesiastica. Fu poi il gruppo degli amici a rappresentare il suo aggancio con l’esterno. Insieme a Meucci, Gozzini, Vannucci e altri ancora, sono stato anch’io tra i suoi amici, e anzi, amico fraterno, da quando veniva all’Annunziata, nel convento dei frati Servi di Maria a Firenze, per confessarsi.

La mia amicizia e il mio rapporto con don Milani, pur nella reciprocità, è stato per fortuna più un ricevere che un dare. Con lui ho mantenuto i contatti fino a venti giorni prima che morisse. L’ultima volta andai a trovarlo a Barbiana con don Abramo Levi passandovi l’intera giornata. Lui era a letto. Era felicissimo di averci come ospiti insieme con i suoi ragazzi. Aveva appena finito di far trascrivere la sua “Lettera ad una professoressa”; ce la diede da leggere e poi ne discutemmo con lui fino a sera. Dopo neppure un mese morì.

A Calenzano aveva iniziato a scrivere le sue Esperienze Pastorali, ed è soprattutto per questo che avevo preso a interessarmi di lui. Ci fui accompagnato proprio perché vedessi il libro che egli stava scrivendo, perché lo leggessi, lo giudicassi e me ne interessassi. Ebbi dunque l’occasione di vederlo nascere, in un certo senso. Ho visto come si è architettata l’opera. Avrei perfino dovuto presentarla io stesso e pubblicarla nelle edizioni della Corsia dei Servi, a Milano. Ma se don Milani era stato esiliato a Barbiana, io, prima, ero stato cacciato da Milano per via del mio impegno per Nomadelfia. Mi impegnai comunque e per questo ritornai a Milano, dove, nel frattempo, era giunto il card. Montini. Avevo infatti rapporti molto amichevoli con Montini. Anche lui era un “cacciato” da parte di Roma. Eravamo tutti segnati.

In un nostro incontro, che gli avevo chiesto per il libro di don Milani e per altre questioni, mi disse: «Padre, tempi difficili corrono. Tempi in cui non basta neppure la prudenza, ma bisogna diventare astuti». Evidentemente alludeva al Vangelo, che parla della semplicità della colomba e dell’astuzia del serpente. Avevo dei libri da pubblicare, sia di don Milani che di Jacques Maritain, ma lui mi disse: «Prima bisogna sentire Roma. Vada a Roma a parlare col tal personaggio». Andai anche a Roma, ma l’esito di quell’incontro fu la risposta che ricevetti quindici giorni dopo: «Padre, non voglio neanche sentir parlare né di Maritain, né di Milani. Assolutamente!1».

Con questa risposta è chiaro che a Milano non si poteva fare niente, e che il libro non avrebbe mai potuto essere pubblicato dalla Corsia, perché non mi avrebbero dato l’imprimatur, e non perché si trattasse di me, ma proprio perché erano quegli anni particolari. Erano infatti gli anni di Pio XII, di Gedda, dell’integrismo più feroce. Stavano per sorgere i baschi verdi, quelli dell’Azione Cattolica, dai quali nascono poi i comitati civici.

È chiaro che non avendo la possibilità di pubblicare e sapendo don Milani di queste difficoltà (il mio esilio, Nomadelfia, i controlli continui, ecc.), lui possa aver scritto, in quella lettera a Meucci del 1956: «Mi pare di averti già detto che don Bensi mi ha consigliato di non farmi presentare in nessun posto dal padre David e non per disistima di lui (tutt’altro), ma perché gli dispiace ch’io sia accompagnato al primo incontro da un nome sul quale ci sono già prevenzioni e giudizi già dati. La cosa mi pare giusta e penso che la condividerai anche te».

Le Esperienze pastorali di Milani furono dunque presentate alla Libreria Editrice Fiorentina che si impegnò per la pubblicazione. Fu un successo, anche grazie alla polemica che ne seguì.

L’imprimatur fu ottenuto dal card. Elia Dalla Costa. Dissero che gli era stato carpito approfittando della sua tarda età. Non è esatto. Il cardinale, un grande cardinale, fu sempre libero da Roma e mantenne sempre questa libertà e indipendenza. Non aveva mai condannato nessun prete della sua diocesi. Non so fino a che punto stimasse don Milani, ma è sicuro che la sua posizione era in un certo senso di controbilanciamento rispetto a quella di Florit. Sta di fatto che concesse l’imprimatur. E don Milani fu conosciuto a livello nazionale.

Le mie discussioni con don Milani riguardo ad Esperienze pastorali si concentravano su un punto che definirei in questi termini. Egli era di origine ebrea, un uomo ancora da vecchio testamento, sebbene fosse illuminato, grazie alla grande cultura sua personale e della famiglia da cui proveniva, oltre che per la sua particolare intelligenza. Ma al fondo era un convertito con radici ancestrali ebraiche.

Quel tanto di nuovo testamento che compare nel libro è venuto fuori dalle nostre discussioni. Io gli facevo notare che l’importanza della giustizia andava salvaguardata, ma occorreva stare attenti, perché la giustizia può anche diventare crudeltà, disumanità. Occorre che la giustizia diventi amore e che l’amore sia giustizia. Il mio apporto, dunque, fu quello di aiutarlo ad umanizzare il messaggio biblico.

Ancora un particolare. Quando conobbi don Milani le Esperienze pastorali erano ancora in fase di progettazione e dovetti spingerlo io perché continuasse a scrivere. È infatti il rovescio della medaglia della persona intelligente, che ha il complesso della sua intelligenza e con difficoltà si espone al pubblico. Lui scriveva, ma non aveva ancora la sensazione netta che potesse servire a molti altri, cioè che quel suo libro potesse diventare un fatto culturale. Per questo era incerto. Allora lo spingemmo ad umanizzarsi, nel senso evangelico del termine, e a decidersi a pubblicare. E lui si appoggiava a noi, perché aveva bisogno di confrontarsi, al punto che si serviva quasi brutalmente e crudelmente, sebbene non strumentalizzasse  mai, degli amici.

Il suo cruccio principale riguardava il linguaggio e la comunicabilità di quanto scriveva.

Settima parte

LORENZO ERA SEVERO, ERA UMANO. ERA VERO, ECCO:VERO!

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Nel rapporto con gli altri in genere, don Milani denunciava quello che definisco il suo legame profondo con l’antico testamento. Chi non lo conosceva lo considerava quasi disumano, crudele, duro. Nel primo approccio era di una grande violenza, poi invece si ammorbidiva. Era, infatti, anche un uomo umile. Con lui si leggeva, si discuteva, si scambiavano idee. Ed è stato Meucci a portare quel dono smaliziato del cattolico fedelissimo e, nello stesso tempo, arricchito da quell’immensa cultura, o meglio, dall’immensa intelligenza fiorentina. Anche Meucci ha contribuito, dunque, a smussare gli spigoli del suo carattere.

Per quanto fosse prima a Calenzano e poi a Barbiana, non era comunque un isolato, proprio grazie a questi amici che lo avevano scoperto e ne percepivano il grande valore. Senza di loro don Milani poteva rischiare di diventare un disperato, un credente disperato.

La sua personalità non era semplice. Non era un uomo semplice. È difficile dire quale fosse la dominante del suo carattere. Mostrava lati molto diversi, a seconda di chi aveva davanti.

Il rapporto con la madre credo debba essere considerato come fosse per lui un’oasi a sé, un luogo di riposo. Con i suoi ragazzi, invece, si dimostrava come un padre severo e persuasivo; si faceva amare e si faceva ubbidire, perché si donava e il ragazzo sapeva che si donava. Difficile definirlo dolce.

Era severo. Era umano. Era vero, ecco. Vero! Non era sdolcinato, da buon toscano. Non era romantico, né sentimentale. Almeno a me sfuggì il suo aspetto sentimentale.

Con gli amici aveva sempre una prima e una seconda fase. Nella prima era quasi polemico. Cercava la polemica per sviluppare tutta la sua dialettica. Poi si sentiva invece in lui, al di là della polemica, un calore tutto particolare. Io posso dire veramente che lui mi era amico, un sincero amico. E io pure gli ero amico, ma in questo non c’era nulla di romantico.

Non posso dire che fosse orgoglioso, o altezzoso, né superbo, semmai un aristocratico, ma un aristocratico dello spirito.

Con chi poi contava politicamente o economicamente era perfino crudele. Ma anche nel rapporto con la contessa Pirelli, ad esempio, ci furono due fasi. All’inizio direi proprio che la macerò: “Che cosa viene a fare lei qui? Cosa vuole? Io non ho tempo da perdere”. Ma poi entrarono in sintonia: io so che addirittura erano arrivati a una autentica, intensa amicizia, in un rispetto profondo. Però l’approccio con lui era sempre e comunque difficile, anche se forse questo nascondeva una sua enorme timidezza, come se si fosse messo addosso una corazza. E infatti l’aggressività di colui che è timido va sempre oltre: il coraggio del timido fa paura.

Ottava parte

IL RAPPORTO CON L’AUTORITÀ E IL POTERE

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C’è ora da considerare il rapporto di Lorenzo con l’autorità, che ha la sua espressione più forte nella battaglia che condusse con i militari, che sono l’aspetto grottesco dell’autorità. Ma, come nel rapporto con l’autorità religiosa, bisogna fare una distinzione, perché don Milani riconosceva l’autorità, ma non il potere.

Egli accettò la chiesa, così come io l’accetto e come l’accettava don Mazzolari. lo accetto l’autorità, non sono per una chiesa carismatica, invisibile, piena di umori… No, il corpo è il corpo, il corpo è la gloria di Dio. E quindi anche il corpo della chiesa. Ma il corpo significa anche organizzazione, disciplina, autorità, appunto. Ma autorità, non potere, questo è il punto. Perciò don Milani può dire che l’obbedienza non è più una virtù, perché è ribellione al potere. Perché è il potere che spersonalizza, ma l’autorità fa crescere; l’autorità è liberante, mentre il potere schiaccia.

Il potere è inversamente proporzionale all’autorità. Un padre non ha bisogno di dire a suo figlio: “Guarda che io sono tuo padre!” Quella è una rivendicazione di potere. Se ha autorità su suo figlio, non occorre che dica che è suo padre, perché è il figlio stesso che riconosce in lui il padre, non deve essere il padre ad imporsi come tale.

Mio padre non ha mai voluto esercitare il potere su di me. Bastava il senso della sua grandezza. Era lui che mi aiutava a crescere. Papa Giovanni, per fare un illustre esempio, era l’autorità, non il potere. Anzi, man mano lui si abbassava, tanto più cresceva in autorità. Il secondo giorno del concilio ha aperto la seduta a tutti i rappresentanti delle altre confessioni. La curia romana gli aveva preparato un piccolo tronetto disponendo tutti gli altri su delle sedie intorno. Lui, entrato nella sala, fece portare via il tronetto, prese una sedia e si mise alla pari con tutti gli altri e disse: “Adesso parliamoci”. Subito ha cominciato a crescere in autorità. Diversamente, più ci si preoccupa del proprio primato, più si perde. In questo, dunque, autorità e potere sono inversamente proporzionali.

Con violenza ci si scaglia contro il potere e con altrettanta convinzione si rispetta l’autorità. Quando poi in una persona si concentrano potere e autorità, occorre saper distinguere: sotto l’aspetto del potere è da disprezzare, ma sotto l’aspetto dell’autorità va venerata. Questo vale anche in famiglia: io non devo essere contro il padre e la madre, ma contro dei dittatori che si chiamano padre e madre.

In don Milani, nel suo rapporto con i ragazzi, viene allo scoperto certamente una sorta di potere prevaricatorio, ma in quel caso credo di poter dire che si tratta dello straripare della sua personalità. Lì subentra la fede e il fanatismo, subentra dedizione e imposizione. Addirittura si può dire che lui amava i suoi ragazzi e allo stesso tempo li odiava. Ma questo è normale. Guai se non fosse così. Io stesso provo amore e odio verso la mia vocazione, questa vocazione che ti inchioda lì continuamente, che ti condiziona, che non ti dà via di scampo, non ti lascia in pace, non ti dà tregua, né di giorno né di notte. Ma è chiaro che a un certo punto la odi e la ami. Ma deve essere così. E per lui cos altro era la sua vocazione se non i suoi ragazzi? Si donava e li odiava: «Questi disgraziati che mi rompono le scatole, che mi rovinano. Ma perché devono esistere, che mi rovinano tutto».

Anch’io bestemmio continuamente mentre prego.Ma si prende perfino Dio per lo stomaco. Ad esempio c’è quella pagina di Geremia: “Questo Dio che non mi lascia in pace mi ha sedotto”. Questo legno, questa croce dalla quale non puoi scendere mai. In fondo è l’odio-amore alla croce di Cristo.

Nona e ultima parte

L’ IGNORANZA DEL POVERO, LA PRIMA DELLE INGIUSTIZIE

 

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La fede di don Milani era la fede del convertito, che ha caratteristiche sue proprie. Per il convertito, infatti, la nuova fede diventa ragione di vita o di morte, un assoluto. In qualche modo si può dire che per il convertito la fede assume i toni del fanatismo, nel senso che il neofita si converte perché vuole cambiare se stesso, il mondo, l’uomo, tutto. Quindi si butta. E, infatti, ecco don Milani che da ateo si fa credente e, in un certo senso, parte per la tangente, che per lui è rappresentata dal tema della giustizia. E naturalmente la giustizia lo porta a delle scelte precise e a combattere la prima delle ingiustizie, che è quella dell’ignoranza del povero.

Da buon fiorentino, don Milani pensava che il povero non si può salvare se non sul piano di un riscatto culturale. Quindi la fede e la cultura. Egli era convinto che la prima pastorale fosse la scuola, perché, “l’uomo delle 300 parole” sarà sempre un inferiore e un imbrogliato fino a quando non diventa “l’uomo delle 1000 parole”, perché è ‘l’uomo delle 1000 parole” che imbroglia quello delle 300.

Don Milani, dunque, arrivò ai poveri tramite la strada della cultura. La sua fu una scelta intellettuale, infatti punterà all’esperienza della scuola, non farà l’orfanatrofio, o il brefotrofio; non creerà una Nomadelfia, ma una scuola.

Da vero fiorentino puntò sulla cultura. La sua pastorale si fondava su una convinzione: prima educhiamo e formiamo l’uomo, poi l’uomo penserà da sé. Non sono io che devo dargli il pane, saprà guadagnarselo con la sua lotta.

E allora mise a servizio della vittima della società, che è l’ignorante, il dono della sua cultura e della sua scienza.

Anche la sua scelta di fede fu una scelta intellettuale. Definirei perciò don Milani come un frutto della cultura secolare toscana, fiorentina, con una sensibilità acutissima, una attenzione a sé e al mondo in cui è vissuto.

Con lui non ho mai parlato di come arrivò alla fede, ma posso dire che fu nel contatto con la realtà concreta di Calenzano che cominciò a sentire l’insufficienza delle cose, l’insufficienza del mondo. Volle dare un senso alla sua vita e così approdò alla fede. Io credo che questo in lui era molto evidente. Ma il suo approdo alla fede credo passi innanzitutto attraverso un travaglio intellettuale.Poi si domanderà come vivere questa nuova fede, e così decise di prepararsi al sacerdozio con l’intento di dedicarsi agli altri.

Il modo con cui sarà poi sacerdote, però, fu la realtà stessa a dirglielo. Da allora cessa di essere l’uomo intellettuale e diventa il testimone esistenziale della sua fede.

Io, che vengo da un mondo di poveri, subito ho davanti a me l’affamato; lui, fiorentino, ha davanti a sé l’ignorante. Allora lui si batte contro l’ignoranza e io mi batto per il pane. Questo è frutto dell’esperienza di ciascuno. Sono tutte e due forme di salvezza da una miseria, da una povertà. Lui ha scelto un tipo di povertà: la mancanza di cultura e di istruzione. Io ho scelto l’altra. Messosi sulla strada della cultura, naturalmente approda a delle scelte tipicamente politiche. Anche la sua scelta per il partito comunista è un fatto guidato da una fede, ma scatta da una cultura.

Don Milani riuscirà a non essere vittima dell’anticomunismo viscerale che colpiva un po’ tutti in Italia, a cominciare dalla chiesa. La sua intelligenza lo preservava da queste reazioni banali e istintive. Così, nella lettera a Pipetta, scrive: «Il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò».

La sua era una posizione molto diversa da tutta la chiesa cattolica e dal cattolicesimo italiano.

Ecco, il rapporto, o il modo di giudicare il partito comunista, così come quello di giudicare i cappellani militari, rappresentano fatti che derivano da una grossa cultura a servizio di una fede assoluta, che è addirittura fanatica.

Per concludere

In tutto quanto ho ricordato di don Milani occorre dire che egli era certamente debitore di don Mazzolari. Ma lo è stato perché era attento al clima generale di quell’epoca, diversamente non sarebbe neppure stato l’uomo che era. Non fu, infatti, un plagiato da Mazzolari, ma semplicemente partecipò al clima culturale del tempo, come chiunque altro uomo attento che avesse un minimo di intelligenza. E a quel tempo Mazzolari echeggiava in tutta Italia, anzi, perfino in Europa, in un certo senso. Mazzolari era un uomo di una dimensione tale… Tutti noi siamo suoi debitori, anche Balducci lo è, e dunque anche don Milani.

Questa simbiosi culturale accade normalmente in ogni campo. Mi ricordo quando ho cominciato a scrivere poesie nel 1946. Apollonio le lesse e mi disse: «Ma qui c’è Ungaretti». E io, che ero un ragazzo, arrossii, perché ero appena uscito dal seminario, e Ungaretti non lo conoscevo neppure. Forse due o tre poesie sue c’erano nella nostra antologia. Sapevo che Ungaretti esisteva, ma non posso dire che lo conoscessi veramente, così glielo dissi: «Guardi, non l’ho mai letto». E lui rispose: «E a chi interessa? È nell’aria; è un fatto culturale nell’aria». Mi precipitai a leggerlo, lo divorai… Ma era nell’aria; questi sono uomini che ti penetrano, anche senza che tu te ne accorga.

Don Mazzolari, e poi don Zeno e don Milani, sono stati dei fatti culturali per il loro tempo. Che poi a loro volta non sono stati soltanto dei trasmettitori, ma anche dei riceventi. Anche don Mazzolari, infatti, è stato debitore di Bonomelli, di Semeria, di Rosmini. Poi ognuno ci mette la carica personale che ha, perché in fondo è questo fare cultura.

Don Milani era perciò parte di quel magma culturale nazionale che scorreva nelle vene del paese, sia nella chiesa che fuori di essa. A uno come lui, poi, con la sua formazione, bastava poco per intuire, raccogliere e rilanciare a sua volta.

Milani non era uno che si mimetizzava, non è stato un trasformista, ma semmai ha rappresentato una forza rivoluzionaria che assorbe l’humus della cultura e la proietta come lui sapeva fare, nella pienezza del suo spirito.

Lettera dell’esclusione, pregiudizi e luoghi comuni duri a morire

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SIAMO UN GRUPPO DI RAGAZZI E RAGAZZE, Rom Sinti e Camminanti vari

 

Alcuni di noi sono italiani, altri provengono da vari paesi europei, altri ancora sono nati in Italia ma di fatto sono sempre stranieri grazie all’accoglienza burocratica del nostro paese.

Tutti noi crediamo nell’onestà, nella giustizia, nei diritti e nei doveri di ogni essere umano; noi ci stiamo impegnando e formando come attivisti per dare voce al nostro popolo, fin ora rimasto legato e imbavagliato.

Vogliamo esprimervi una sensazione che viviamo da troppo tempo, forse da sempre,, la sensazione si chiama PAURA. Messaggi diretti o indiretti che sostanzialmente dicono: “i Rom e i Sinti rubano, sono TUTTI delinquenti, vogliono vivere ai margini della società in baracche fatiscenti, non vogliono lavorare e nessuno di loro vuole studiare, ecc.”

Bene, mettendoci nei panni di chi non sa niente di questo antichissimo popolo, inizieremmo a crederci e inizieremmo a non volerli più nella nostra Italia. E se fossimo BAMBINI, che cosa impareremmo? Sicuramente, con un germoglio di odio nel cuore così potente e annaffiato bene tutti i giorni, da grande non solo odieremmo i Rom e i Sinti, ma saremo pronti a ucciderli, non per cattiveria ma per difenderci e per difendere la “Nostra” Italia dai cattivi e sporchi Rom e Sinti.

Il nostro pensiero va a tutti quei bambini che direttamente o indirettamente assimilano concetti senza alcun filtro, tramite i vari talk show, programmi d’intrattenimento e tg, che quotidianamente accompagnano alcuni momenti della giornata dei nostri figli.

LA PAURA è che questi ragazzi, e alcune persone per bene, gradualmente assimilino questi gravi concetti e che da un semplice pregiudizio cresca nel cuore della gente L’ODIO. Questo è un fatto grave, che non deve succedere, sarebbe da irresponsabili non fermarlo.

Quindi chiediamo a tutti i professionisti della comunicazione, di non macchiarsi di questa grave colpa, di non essere complici e artefici dell’istigazione all’ODIO, della PAURA e della distanza tra la gente.

Chiediamo di non essere usati dai vari politici nelle loro finte campagne elettorali, ma chiediamo a loro di agire insieme a “noi” Rom e Sinti per politiche di VERA inclusione sociale compartecipata.

Chiediamo di non essere usati dai vari giornalisti di turno scatenatori di ODIO e PAURA, per fare audience o vendere qualche copia in più.

Chiediamo a tutti i professionisti della comunicazione di ascoltare noi Rom e Sinti, perché abbiamo molte storie da raccontare sulla magnifica cultura millenaria del nostro popolo, così come sulle difficoltà che quotidianamente affrontiamo, nonostante non arrivino mai sulle prime pagine dei giornali.

Chiediamo di discutere con noi i perché di certe realtà e chiediamo di far emergere le fallimentari politiche di ghettizzazione subite da nostro popolo.

Vostro è l’Onore e il Dovere di raccontare i fatti, voi siete coloro che danno gli strumenti alle masse per capire e agire. Siate portatori di giustizia sociale. Date voce anche alle positività e alle tantissime storie di normalità, oscurate dall’ e nell’ODIO mediatico.

Chiediamo verità, chiediamo dignità per il nostro popolo !

Con questa lettera chiediamo ufficialmente il vostro IMPEGNO per fare luce e dare voce al nostro popolo, noi vi offriamo il nostro. Insieme possiamo e dobbiamo scrivere una nuova pagina. Grazie.

 

Di seguito, quattro pagine dedicate alla famiglia Rom costretta ad andar via da Sorso nove anni fa e una finale per colmare la diffusa ignoranza

 

Sorso – Sgombero dei Rom: motivi d’igiene pubblica e di regole abitative, o la solita paura del diverso?

Sorso e la questione Rom: Lode al sindaco? Ma che dice, Sig. Prof ?!

Sorso: il Sogno Svanito di una famiglia Rom e il Sogno sempre più lontano di una Nuova Civiltà

 

SORSO: alla famiglia Rom,secondo le leggi, è stato ordinato di sloggiare LA CIVILE CONVIVENZA E’ STATA PRESERVATA DAGLI “UNTORI”

 

Le Comunità Romanès: un enorme patrimonio dilapidato

Pablo Picasso. Carattere irruento, amore per la libertá, antifascismo, analisi di alcuni suoi autoritratti e “Guernica”

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Pablo Ruiz Picasso nasce il 25 ottobre 1881 a Malaga, in Plaza de la Mercede. Il padre, Josè Ruiz Blasco, è professore alla Scuola delle Arti e dei Mestieri e conservatore del museo della città. Durante il tempo libero è anche pittore. Si dedica soprattutto alla decorazione delle sale da pranzo: foglie, fiori, pappagalli e soprattutto colombi che ritrae e studia nelle abitudini e negli atteggiamenti – in modo quasi ossessivo – tanto da allevarli e farli svolazzare liberamente in casa.Si racconta che la prima parola pronunciata dal piccolo Pablo non sia stata “mamma”, ma “Piz!”, da “lapiz”, che significa matita. E prima ancora di incominciare a parlare Pablo disegna. Gli riesce talmente bene che, qualche anno dopo, il padre lo lascia collaborare ad alcuni suoi quadri, affidandogli – strano il caso – proprio la cura e la definizione dei particolari. Il risultato sorprende tutti: il giovane Picasso rivela subito una precoce inclinazione per il disegno e la pittura. Il padre favorisce le sue attitudini, sperando di trovare in lui la realizzazione delle sue ambizioni deluse.Nel 1891 la famiglia si trasferisce a La Coruna, dove Don José ha accettato un posto da insegnante di disegno nel locale Istituto d’Arte; qui Pablo a partire dal 1892 frequenta i corsi di disegno della Scuola di Belle Arti.

Intanto i genitori mettono al mondo altre due bambine, una delle quali morirà quasi subito. In questo stesso periodo il giovane Picasso rivela un nuovo interesse: dà vita a molte riviste (realizzate in un unico esemplare) che redige e illustra da solo, battezzandole con nomi di fantasia come “La torre de Hercules”, “La Coruna”, “Azuly Blanco”.Nel Giugno 1895 Josè Ruiz Blasco ottiene un posto a Barcellona. Nuovo trasferimento della famiglia: Pablo prosegue i suoi studi artistici presso l’Accademia della capitale catalana. Ha perfino uno studio, in calle de la Plata, che divide con il suo amico Manuel Pallarès.

Negli anni successivi troviamo Pablo a Madrid, dove vince il concorso dell’Accademia Reale. Lavora moltissimo, mangia poco, vive in un tugurio mal riscaldato e, alla fine, si ammala. Con la scarlattina ritorna a Barcellona dove per un periodo frequenta la taverna artistica letteraria “Ai quattro gatti” (“Els Quatre Gats”), così chiamata in onore de “Le Chat Noir” di Parigi. Qui si ritrovano artisti, politicanti, poeti e vagabondi di ogni tipo e razza.

L’anno seguente, è il 1897, porta a termine una serie di capolavori, fra cui la famosa tela “Scienza e carità”, ancora assai legata alla tradizione pittorica dell’Ottocento. Il quadro ottiene una menzione all’Esposizione nazionale di Belle Arti di Madrid. Mentre prosegue diligentemente la frequentazione dell’Accademia e il padre pensa di mandarlo a Monaco, la sua natura esplosiva e rivoluzionaria comincia pian piano a manifestarsi. Proprio in questo periodo, fra l’altro, adotta anche il nome di sua madre come nome d’arte. Egli stesso spiegherà questa decisione, dichiarando che “i miei amici di Barcellona mi chiamavano Picasso perché questo nome era più strano, più sonoro di Ruiz. E’ probabilmente per questa ragione che l’ho adottato”.

In questa scelta, molti vedono in realtà un conflitto sempre più grave tra padre e figlio, una decisione che sottolinea il vincolo d’affetto nei confronti della madre, dalla quale secondo numerose testimonianze, sembra che abbia preso molto. Tuttavia, malgrado i contrasti, anche il padre continua a rimanere un modello per lo scapigliato artista, in procinto di effettuare una rottura radicale con il clima estetico del suo tempo. Picasso lavora con furore. Le tele, gli acquerelli, i disegni a carboncino e a matita che escono dal suo studio di Barcellona in questi anni sorprendono per il loro eclettismo.

Fedele alle sue radici e ai suoi affetti, è proprio nella sala delle rappresentazioni teatrali di “Els Quatre Gats” che Picasso allestisce la sua prima mostra personale, inaugurata il primo febbraio 1900. Malgrado l’intento di fondo dell’artista (e della sua cerchia di amici) sia quella di scandalizzare il pubblico, la mostra sostanzialmente piace, malgrado le solite riserve dei conservatori, e si vendono molte opere su carta.

Pablo diventa un “personaggio”, odiato e amato. Il ruolo dell’artista maledetto per un po’ lo soddisfa. Ma alla fine dell’estate 1900, soffocato dall’ “ambiente” che lo circonda, prende un treno per Parigi.

Si stabilisce a Montmartre, ospite del pittore barcellonese Isidro Nonell, e incontra molti dei suoi compatrioti tra i quali Pedro Manyac, mercante di quadri che gli offre 150 franchi al mese in cambio della sua produzione: la somma è discreta e permette a Picasso di vivere qualche mese a Parigi senza troppe preoccupazioni. Non sono momenti facili dal punto di vista economico, nonostante le importanti amicizie che stringe in questi anni, tra cui quella con il critico e poeta Max Jacob che cerca di aiutarlo in ogni modo. Intanto conosce una ragazza della sua età: Fernande Olivier, che ritrae in moltissimi suoi quadri.

Il clima parigino, e più specificamente quello di Montmartre, ha una profonda influenza. In particolare Picasso rimane colpito da Toulouse-Lautrec, a cui si ispira per alcune opere di quel periodo.

Alla fine dello stesso anno torna in Spagna forte di questa esperienza. Soggiorna a Malaga, poi trascorre qualche mese a Madrid, dove collabora alla realizzazione di una nuova rivista “Artejoven”, pubblicata dal catalano Francisco de Asis Soler (Picasso illustra quasi interamente il primo numero con scene caricaturali di vita notturna). Nel febbraio del 1901 riceve però una terribile notizia: l’amico Casagemas si è suicidato per un dispiacere d’amore. L’evento colpisce profondamente Picasso, segnando a lungo la sua vita e la sua arte.

Riparte per Parigi: questa volta vi torna per allestire una mostra presso l’influente mercante Ambroise Vollard.

A venticinque anni Picasso é riconosciuto ed ammirato non solo come pittore, ma anche come scultore ed incisore. Durante una visita al Musée de l’Homme, al palazzo Trocadero a Parigi, rimane colpito dalle maschere dell’Africa Nera, lì esposte, e dal fascino che emanano. I sentimenti più contrastanti, la paura, il terrore, l’ilarità si manifestano con un’immediatezza che Picasso vorrebbe anche nelle sue opere. Viene alla luce l’opera “Les Demoiselles d’Avignon”, che inaugura uno dei più importanti movimenti artistici del secolo: il cubismo.

Nel 1912 Picasso incontra la seconda donna della sua vita: Marcelle, da lui detta Eva, ad indicare che é diventata lei la prima di tutte le donne. La scritta “Amo Eva” compare su molti quadri del periodo cubista.

Nell’estate 1914 si incomincia a respirare aria di guerra. Alcuni degli amici di Pablo, tra cui Braque e Apollinaire, partono per il fronte. Montmartre non é più il quartiere di prima. Molti circoli artistici si svuotano.

Purtroppo poi nell’inverno 1915 Eva si ammala di tubercolosi e dopo pochi mesi muore. Per Picasso é un duro colpo. Cambia casa, si trasferisce alle porte di Parigi. Conosce il poeta Cocteau che, in stretti contatti con i “Ballets Russes” (gli stessi per i quali componeva Stravinskij, al quale Picasso dedicherà un memorabile ritratto ad inchiostro), gli propone di disegnare i costumi e le scene del prossimo spettacolo. I “Ballets Russes” hanno anche un’altra importanza, questa volta strettamente privata: grazie a loro l’artista conosce una nuova donna, Olga Kokhlova, che diventerà ben presto moglie e sua nuova musa ispiratrice, da lì a qualche anno sostituita però con Marie-Thérése Walter, di appena diciassette anni, anche se indubbiamente assai matura. Anche quest’ultima entrerà come linfa vitale nelle opere dell’artista in qualità di modella preferita.

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Nel 1936, in un momento non facile anche dal punto di vista personale, in Spagna scoppia la guerra civile: i repubblicani contro i fascisti del generale Franco. Per il suo amore per la libertà Picasso simpatizza per i repubblicani. Molti amici dell’artista partono per unirsi alle Brigate Internazionali.

Una sera, in un caffé di Saint-German, presentatagli dal poeta Eluard, conosce Dora Maar, pittrice e fotografa. Immediatamente, i due si capiscono, grazie anche all’interesse comune per la pittura, e tra loro nasce un’intesa.

Nel frattempo le notizie dal fronte non sono buone: i fascisti avanzano.

Il 1937 é l’anno dell’Esposizione Universale di Parigi. Per i repubblicani del Frente Popular é importante che il legittimo governo spagnolo vi sia ben rappresentato. Per l’occasione Picasso crea un’opera enorme: “Guernica”, dal nome della città basca appena bombardata dai tedeschi. Attacco che aveva provocato moltissimi morti, tra la gente intenta a compiere spese al mercato. La “Guernica” diventerà l’opera simbolo della lotta al fascismo.

Negli anni ’50 Pablo Picasso é ormai un’autorità in tutto il mondo. Ha settant’anni ed é finalmente sereno, negli affetti e nella vita lavorativa. Negli anni seguenti il successo aumenta e spesso la privacy dell’artista viene violata da giornalisti e fotografi senza scrupoli. Si succedono mostre e personali, opere su opere, quadri su quadri. Fino al giorno 8 aprile 1973 quando Pablo Picasso, all’età di 92 anni, improvvisamente, si spegne.

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L’ultimo quadro di quel genio – come dice André Malraux – “che solo la morte ha saputo dominare”, reca la data 13 gennaio 1972: è il celebre “Personaggio con uccello”.

L’ultima dichiarazione che ci rimane di Picasso è questa: “Tutto ciò che ho fatto è solo il primo passo di un lungo cammino. Si tratta unicamente di un processo preliminare che dovrà svilupparsi molto più tardi. Le mie opere devono essere viste in relazione tra loro, tenendo sempre conto di ciò che ho fatto e di ciò che sto per fare”.

(Testo tratto da ” biografieonline.it)

 

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Autoritratti

di Arianna Senore

( dal blog ” La sottile linea d’ombra”)

Picasso è un emblema della pittura del Novecento e perché ha sempre avuto un certo interesse nei confronti della riproduzione di sé stesso.

(altro…)

Banca della Memoria

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di Piero Murineddu

Precisamente dieci anni fa un articoletto apparso su La Nuova Sardegna  parlava di un’iniziativa nata da un gruppo di un paesino che aveva lo scopo di mettere insieme dei ricordi che aiutassero a costruire la memoria locale. Come esposizione una pagina FB creata appositamente. Un luogo di raccolta di memorie scritte e visive, seppur virtuale, sia per conoscere quello che si era e sia capire meglio quello che si è diventati. Anche questo mi ha spinto a metter su qualcosa di simile.  Altra spinta l’ ho ricevuta entrando in contatto col sito “Memoro – Banca della memoria“, pensato e curato da quattro giovani piemontesi con la passione delle brevi interviste alle persone anziane. In particolare, questa intuizione mi aveva invogliato a filmare diversi racconti di nostri anziani concittadini, che attraverso i fatti da loro vissuti, hanno aiutato anche a capire le tante trasformazioni di Sorso, mio paese del nord Sardegna, e della vicina Sennori, due località accomunate inevitabilmente da tanti aspetti.

La prima registrazione, quasi casuale, la feci durante una visita a casa di  Petronio Pani e della carissima moglie Gavina Demurtas, una carissima coppia  scomparsa a cui sarò sempre grato e che a tutti gli effetti posso considerare amici seppur frequentati specialmente negli ultimi anni della loro vita.

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Il  prof Andrea Pilo mi ha incoraggiato e quasi obbligato a dare il mio seppur modesto contributo a tener ferma la memoria di ciò che siamo stati. E fatto da lui, autore di alcuni libri sulla questione, l’invito non poteva cadere nel vuoto.

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Dal momento che diversamente NON POTEVA essere, il lavoro era e continua ad essere dedicato alla memoria dei miei genitori Giovanna Maria e Antonino. Rimanendo fissa la copertina, volta per volta ho sempre cambiato la foto del “profilo”, legandola magari a una persona deceduta che mi é stata cara o a a qualche particolare evento che ritengo opportuno.

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Col tempo e in alcuni casi l’obiettivo iniziale si è allargato ad altre realtà che non riguardano solo lo stretto territorio fisico dove vivo, convinto che sono molteplici le cose che legano i sardi soprattutto.

Capita che, tramite messaggio o di persona, si continua a chiedere di ricordare defunti, notizie di parenti lontani o avvenimenti riguardanti il passato. A questo proposito è bene ribadire che dietro questo spazio digitale non c’è un gruppo o una qualsiasi associazione che si dà daffare per portarlo avanti, ma solo l’impegno di un’ UNICA persona, che NON È IL TITOLARE DI UN’AGENZIA FUNEBRE O INVESTIGATIVA, NON È UN GIORNALISTA E TANTOMENO UNO STORICO.. Se di tanto in tanto faccio memoria di qualcuno, è perché in qualche modo è stato significativo, o per il nostro territorio o per me in particolare. Questo non toglie che se qualcuno desidera che un proprio congiunto venga ricordato, prima mandi in privato elementi sufficienti per poterne parlare, e meglio ancora, che sia direttamente l’interessata/o a compilare un testo, possibilmente scritto in modo decente, grammaticamente corretto e senza inutili e sovrabbondanti puntini di sospensione. Se poi si vuole proporre un testo attinente alla pagina, ci si accomodi pure, mandandolo possibilmente per posta elettronica chiedendomi in privato l’email. Per il resto, a mia discrezione continuerò a pubblicare su persone e fatti riconducibili in qualche modo a Sorso e Sennori, ma non solo. Ricorrente spazio sarà riservato ad artisti, scrittori e musicisti locali. Per contribuire alla pagina, lo sbrigativo pollice in sù, cuoricini e disegnini vari incoraggiano ad andare avanti, ma in pratica, al fine dell’arricchimento di conoscenza per tutti, servono a…niente. Molto più utili parole, e commentate come buon senso vorrebbe.

Lo ripeto, la Banca deve essere uno spazio  aperto all’arricchimento di tutti e non riservato al mio solo sforzo, dato più che non mi sento affatto un tuttologo e le energie sono sempre più limitate. Rinnovo quindi l’invito a dare il proprio attivo contributo di conoscenze e ricordi personali e familiari, finalizzato unicamente alla crescita comune.

Dura lex sed lex, cazz!

Piero Murineddu

Sit in davanti al tribunale di Massa Carrara per chiedere la revoca del fermo amministrativo della nave Geo Barents di Medici Senza Frontiere che era attraccata con 249 migranti al porto di Marina di Carrara il 20 marzo scorso. Il fermo perché si erano tratti a bordo i migranti, udite udite, in tre salvataggi diversi e questo, secondo Piantedosie la siora presidente, non si fa non si fa e non si fa. Punto! Sembrerebbe anche che questi medici cattivoni abbiano impedito addirittura che a soccorrere questa povera gente ci pensasse, riudite riudite, la Guardia Costiera libica, che come ben si sa, ai migranti vogliono tanto, ma tanto bene. Da altra fonte leggo invece che questi signori libici in divisa e coi mitra abbiano effettuato manovre pericolose per la vita dei naviganti in fuga e tutt’altro che turisti. Ma di questo al ministro e al suo capo presidente non frega una sega. Punto.

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Riguardo alla dottrina del Peccato Originale

 

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di Ortensio Da Spinetoli

“La dottrina del peccato originale è una supposizione teorica che certi pensatori o teologi hanno liberamente chiamato in causa per spiegare le situazioni confuse in cui essi trovavano gli eventi umani che, così com’erano o apparivano, non potevano rientrare in un piano creativo voluto da Dio e che, nel caso, non potevano che derivare da interferenze esterne, abusive, trasgressive che potevano provenire dall’essere intelligente, l’uomo.

Un errore che avrebbe sconvolto la storia e tuttavia rimasto sconosciuto ai profeti (nessuno sembra parlarne) e di cui Gesù stesso non ha fatto parola…. È vero che Paolo sembra averne fatto cenno in Rm 5,12, ma è solo un suo richiamo per avallare una sua personale ipotesi cristologica relativa all’universalità della salvezza cristiana.

Al momento attuale tutti sanno che i testi biblici delle origini sono mitici, cioè non ricostruzioni di fatti accaduti ma costruzioni, supposizioni frutto di immaginazione.

Per sapere qualcosa sull’origine dell’uomo e del suo mondo bisogna non attenersi alla fantasia degli autori sacri ma ricorrere ai reperti della paleontologia che lasciano intendere che le origini non sarebbero così ideali come viene detto in Genesi 2 ma piuttosto intricate e confuse.

Il primo uomo non è l’Adamo biblico e il suo habitat non è proprio così felice come un eden. Il mondo non è uscito dalle mani di Dio così perfetto nella sua condizione conclusiva come si racconta nella Bibbia, ma in uno stadio appena iniziale, e l’uomo non è più che un primate che ha dovuto compiere un lungo cammino prima di raggiungere la sua attuale condizione di “sapiens”.

Una situazione, quella iniziale (peraltro non molto diversa da quella attuale), ardua, complessa, carente, dominata dalla violenza, dal sopruso, da un’irrazionalità almeno apparente, ma non dominata da una qualche colpa, cioè da uno stato di disaccordo, di inimicizia con il Signore della vita. (…)

L’ “errore” del creatore, si fa per dire, è che si è messo a fianco un collaboratore di second’ordine, del quale per di più rispetta i limiti e attende la maturazione, e finché questa non arriva anche il progetto globale tarda a realizzarsi.

L’uomo è un essere ancora imperfetto che non ha preso coscienza di tutte le sue potenzialità e di tutti i suoi compiti: è lento, forse pigro, stanco e disattento ma non per questo “decaduto”, per giunta per colpa di altri, da una condizione di felicità e amicizia divina in uno stato di inimicizia e irreparabile condanna. (…)

Gesù, che da “martire” di carità, con il quale i suoi discepoli sono chiamati a confrontarsi, torna a essere la “vittima” di espiazione dei peccati dell’umanità che Dio non ha mai chiesto né aspetta. Difatti Gesù non ha pagato i debiti di nessuno, poiché, a suo dire, non c’era nulla da pagare.

Se qualcuno non si fosse sentito in regola con se stesso, con la propria coscienza ossia con la voce del bene (che non può essere che la stessa di Dio e del suo Spirito) non ha che da cambiare l’orientamento dei propri comportamenti (convertirsi)”.

(da “L’inutile fardello”).

Letto tutto? Bene. Recentemente mi son ritrovato quasi a dovermi scontrare sul fatto che tutto ciò che è scritto sulla Bibbia NON sono fatti realmente avvenuti. Capìta l’ottusità dell’interlocutore, ho dovuto desistere, prima di essere tentato di mandarlo in….  Veramente ho rischiato di essere malmenato. Non c’era scrivano per descrivere il tutto? E che importa? Dio, a suo tempo, ha chiamato l’ “ispirato” di turno e ha dettato, parola per parola…… così, così e così. Ed ecco bella e pronta com’è avvenuta la Creazione. Osi dissentire..che forse…ma veramente….. simbolismo……..? Anatema sia! Eretico, blasfemo, bastian contrario, rompi balle….

Il dramma è che da molti pulpiti si continua imperterriti a raccontare la storicità di quello che è semplicemente simbolismo, e così si continua a tirare avanti da creduloni insignificanti. Grazie a Ortensio, di cui lo scorso 31 marzo ricorreva l’anniversario di morte (Piero)

Si, in tutti grande senso d’impotenza. Eppure…

di Andrea Bigalli

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Forse è una delle Pasque più difficili che mi è capitato di vivere, non so dirla se non con angoscia. Stiamo assistendo a mattanze che da sempre sono parte della peggiore tradizione umana, ma ci eravamo illusi che il sentire collettivo le ritenesse inaccettabili. Non è più così: credo non per un aumento di crudeltà, ma perché il senso di impotenza impera, si perdono le dinamiche di reazione, ci si assuefà al dolore altrui, all’ingiustizia che ne è la matrice.

La regola è la guerra:

– di popoli, di culture e di economie tra di
loro

– del genere umano contro l’ecosistema

– del genere maschile contro quello
femminile.

Ritenere che la buona politica sia un miraggio non mi pare eccessivo: forse, mai in atto nel senso pieno del termine. Vediamo all’opera forze disgregatrici del patto sociale, e sappiamo a scapito di chi stanno operando, chi pagherà le conseguenze dello smantellamento del sistema dei diritti di chi è malato, di chi lavora, di chi deve studiare e crescere, di chi dovrebbe inserirsi nella socialità di ogni Paese.

È come se la spinta vitale dell’empatia si stia esaurendo e con essa la dimensione culturale degli individui. Crisi dei sistemi politici, dei modelli socio finanziari (anche di quelli trionfanti come il neoliberismo ipercapitalista), delle etiche ecopacifiste, della solidarietà collettivista, tutto sommato anche del liberalismo progressista. Persino chi sta vincendo sullo scacchiere dei rapporti di forza geopolitici credo lo stia facendo nella coscienza della sconfitta. Perché i modelli di sviluppo che sussistono e imperano – lo sa anche chi li sostiene e ha fatto sì che si siano affermati – non ci stanno portando se non verso l’abisso del conflitto assoluto e definitivo.

Proprio la leggerezza (l’incoscienza?) con cui si valuta l’uso delle testate termonucleari ci fa capire che la mancanza di consapevolezza appare come il rischio più significativo che stiamo vivendo. E consegue alla crisi culturale, che passa, dati alla mano, per la riduzione dell’indice medio di intelligenza. Dati statistici che trovano il tempo che hanno: se però li valuto con il decadere dell’empatia ci ritrovo senso.

Da buon teologo contestuale non ho resistito a un’analisi del dove siamo. Riguardo al quando, è la Pasqua di quest’anno 2024. Cosa posso dire della mia identità di cristiano in questo passaggio storico, in cui anche il cristianesimo – sicuramente il cattolicesimo, in dettaglio quello italiano – sta vivendo un collasso epocale? Di significati, di presenze, nel ricambio generazionale: usiamo linguaggi a dir poco marginali, si sta sfaldando un residuo potere sociale così tanto rimpianto da qualcuno, siamo assenti sul proscenio delle arti e della letteratura. Qualcuno potrà affermare che è conseguenza degli scandali, del permanere di un potere strutturale: qualcuno dà la colpa al Concilio Vaticano II, come se la tradizione intesa in maniera rigida e nella formalità della liturgia avesse evitata, a suo tempo, una crisi ancor più grave.

Siamo in enorme difficoltà nonostante il pontefice più adeguato (parere personale) che potessimo pensare di avere. Bergoglio è consapevole delle criticità presenti, intra ed extra ecclesia, e mostra di avere il senso della necessaria transizione, verso una chiesa che si assuma il paradigma della possibile fine del cattolicesimo. La lucidità del suo pensiero sulla contemporaneità, in una limpida strutturazione umanista, è innegabile. Ma ha linee minoritarie: pure all’interno della Chiesa, vescovi in testa.

Nel nodo cruciale delle celebrazioni pasquali mi ritrovo a riflettere sulla Passione di Gesù Cristo, quest’anno in liturgia dal Vangelo di Marco. Per il cristianesimo tornare all’essenziale lezione della narrazione biblica è, per paradosso, la via più diretta per liberarsi dal grande male di ogni confessione di fede, il fondamentalismo (per la versione laica, l’integralismo, occorrerebbe tornare ai contenuti essenziali delle filosofie veramente umaniste). Per paradosso, perché nella vulgata corrente è proprio la Bibbia (o gli altri testi di riferimento, come il Corano), il presupposto di fondo delle visioni religiose più retrive sul genere umano, ad esempio su guerra e condizione femminile. E questo è vero, ma al di là di quelle che sono – o dovrebbero essere – le rette intenzioni delle confessioni religiose: un’esegesi (o una interpretazione di altro segno) accurata e scientifica dei testi canonici, che comporta la messa in discussione di molti presupposti, dati fino ad adesso per acquisiti.

Ne emergerebbe ben altro, rispetto a un immaginario collettivo che attribuisce a Dio caratteristiche che nei Libri non troviamo. È l’annosa questione dell’articolato rapporto tra Testo, Tradizione, Ermeneutica: non è solo una questione tecnica (e teista; vale per ogni Scritto significativo per l’umanità). Da diverse interpretazioni dei brani biblici scaturiscono elementi teologici e\o morali radicalmente diversi, addirittura opposti. Pensate ai testi in cui si tratta dell’omosessualità: vi garantisco che non tutto si risolve (resta il dato di fondo di un messaggio divino espresso con categorie culturali determinate e datate, e la questione diviene superarle alla luce dell’evoluzione culturale del genere umano), ma si può arrivare altrove, sul piano del rispetto e dell’accoglienza, da quanto gli elementi più aggressivi del cattolicesimo conservatore sostengono, dimenticando che l’omofobia è condannata dalla chiesa stessa. Il cambiamento in atto è evidente: chi scrive è uno dei componenti del Coordinamento per una pastorale di inclusione istituito dalla diocesi di Firenze, con attenzione e azione non solo verso le persone omoaffettive, ma verso tutte quelle statuizioni di vita spesso stigmatizzate da una parte della chiesa stessa.

Gesù Cristo si presenta come un leader atipico, fuori dai parametri della tipologia dettata dal potere, dal maschilismo, dal classismo, dal suprematismo. Elementi che le chiese hanno spesso assunto, a scapito della condizione e del diritto di tanti suoi membri, in primis quelli di sesso femminile.

Ne è scaturita

– la chiesa che benedice eserciti e
armamenti, il dominio maschile fino alla
liceità della violenza

– il razzismo

– il profitto incondizionato

– il disprezzo verso le diversità.

– si benedicono i guadagni illeciti del lavoro
nero

– ci si scandalizza se si benedicono
persone omosessuali.

È un Dio incarnato che teme la morte, non vorrebbe rinunciare alla propria vita, prova angoscia per questo, cerca di non viverla in solitudine. Si consegna inerme alla violenza del potere religioso e sociale per coerenza a una predicazione di reciprocità e accoglienza, che annuncia un Dio diverso: il Dio crocifisso che destina a sé la più terribile delle morti. Quella degli schiavi ribelli, di chi contesta, di chi chiede che le cose cambino. Quella che ti condanna a morire fuori dalle mura della città e delle idee sancite dalle maggioranze come lecite e adeguate, il Dio che svuota sé stesso dalla divinità per essere prossimo all’umano nell’assoluta solitudine della morte. Un Dio che morendo dichiara l’abbandono come condizione delle fasi estreme dell’esistere, calandosi in esse: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Estreme fino a quella dell’abbandono da sé stessi, l’estraniazione dell’identità di fronte al potere del Nulla. Si annienta la propria identità per garantirla a tutte e tutti: questo è il pro/esistere, l’esistere per, dell’amore.

Questa riflessione si deve estendere a tutto il percorso narrativo dei Vangeli, ricordandoci che il Cristo è stato molto diverso da quello mostrato dalle chiese con il loro agire. Non era certo il difensore degli status quo, il sostenitore dei sistemi sacrificali che condannano dissidenze e inutilità a morte: proprio perché nessuno ci salga più, Gesù è disposto a salire di persona sulla croce. Un Messia eloquente e credibile.

Un Cristo che raccoglie le memorie negate, dà ragione alle tenerezze che appaiono inutili, riabilita le esistenze bollate come deviate. In Marco 14,3-9 compare una donna che unge Gesù con un profumo di grande valore economico, c’è chi si indigna per moralismo, ma egli dissente: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».

Il ruolo delle donne emerge con chiarezza: e non è espresso in atteggiamenti convenzionali e stereotipati secondo le gerarchie maschili, marginale, mortificato dai pregiudizi. Saranno sotto la croce quando i discepoli sono fuggiti, per prime al sepolcro a farsi annunciare la Resurrezione, diventando di essa un’icona vivente. Se anche la storia ufficiale e la cronologia ecclesiastica le dimentica, sono nel cuore del Signore. La memoria di lei diviene quella del lato negato della realtà, il valore di ciò che è scartato, di quanto diviene materia per una diversa realtà, governata dalle logiche della cura e della tenerezza, non della forza e della negazione della ragione e del diritto.

Si può leggere il Vangelo come una bella illusione, la celebrazione delle frustrazioni da parte di chi non vuol accettare morte e ingiustizia e le proietta in un sogno impossibile. Oppure esso diviene l’Oltre e l’Altrove di tutte le aspirazioni migliori, le parole di chi viene a dire che la nostra anima, comunque la si voglia intendere, non solo non è morta, ma forse, nella sua dimensione più limpida e amorevole, non può essere annientata.

Un grande martire della democrazia, Salvador Allende, diceva che «noi vivremo in eterno in quella parte di noi che abbiamo donato agli altri». Corrisponde a quanto, pure lui prossimo alla morte, affermava il vescovo Oscar Romero facendo sintesi tra la sua fede in Cristo e le speranze umane sul non morire: «Se mi uccidono resusciterò nel mio popolo». Dopo venti secoli l’identità possibile di un cristiano come me passa per quanto sosteneva Paolo di Tarso: il mondo ci chiede segni o intelligenza, ma noi portiamo nelle nostre conoscenze la mancanza di intelligenza di chi consegna la propria vita per amore, il segno nefasto della morte che non si cerca, ma neanche si nega se può significare luce per altre e altri.

(volerelaluna.it)

E infine, perché?

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di David Maria Turoldo

IO VOGLIO SAPERE

se Cristo è mai stato creduto,

se l’evento è reale e presente,

se è venuto e viene e verrà;

o sia appena un’invenzione

per un irreale giorno del Signore

di contro al cupo

giorno dell’uomo.

IO VOGLIO SAPERE

se veramente qualcuno crede

e come è possibile credere:

se almeno i fanciulli

-avanti ogni cultura-

vedono ancora il Padre.

IO VOGLIO SAPERE

se l’uomo è una fiera

ancora alle soglie della foresta:

se la ragione è una rovina.

IO VOGLIO SAPERE

se il nostro vivere

è appena una difesa

contro la vita degli altri:

questo uomo bianco

il più feroce animale

sempre all’assalto

contro ogni altro uomo,

o maledetto occidente.

IO VOGLIO SAPERE

se ci sono ancora gli assoluti

o se io sono sacerdote

di colpevoli illusioni;

se è vero che saremo finalmente liberi

se saremo ancora liberi

se saremo mai liberi.

IO VOGLIO SAPERE

se cantare è ancora possibile

se da ricchi canteremo ancora,

se ancora sarà possibile contemplare

se la bellezza esisterà sempre.

IO VOGLIO SAPERE

qual è il potere di resistere,

se sopravviverà ancora l’amore,

se pure è mai esistito.

IO VOGLIO SAPERE

se resisterà ancora Cristo,

perché io mi ammazzo.

IO VOGLIO SAPERE

se l’uomo cresce

e quale sarà l’intelligenza

d’un abitante della megalapoli;

se la scienza non sia la morte

e questa macchina non sia

la nostra bara di acciaio.

IO VOGLIO SAPERE

se esiste una forza salvatrice

che almeno la chiesa non sia

la tomba di Dio,

l’ultima sconfitta dell’uomo.

IO VOGLIO SAPERE

se la pace è possibile

se la giustizia è possibile

se lo spirito è più forte della forza.

IO VOGLIO SAPERE

se qualcuno ha fede ancora

in un futuro.

IO VOGLIO SAPERE

se Cristo è veramente risorto

se la Chiesa ha mai creduto

che sia veramente risorto.

PERCHÉ allora è una potenza?

PERCHÉ non va per le strade

come una follia di sole

a dire: Cristo è risorto, è risorto!

PERCHÉ non si libera dalla ragione

e non rinuncia alle ricchezze

per questa sola ricchezza di gioia?

PERCHÉ non dà fuoco alle cattedrali,

non abbraccia ogni uomo sulle strade

chiunque egli sia,

per dirgli solo: è risorto!

E piangere insieme,

piangere di gioia?

PERCHÉ non fa solo questo

e dice che tutto il resto è vano?

Ma dirlo con la vita

con mani candide

e occhi di fanciulli.

Come l’angelo del sepolcro vuoto

con la veste bianca di neve al sole,

a dire: «non cercate tra i morti

colui che vive, ecco, vi precede

su tutte le vie».

Mia chiesa amata e infedele,

mia amarezza di ogni domenica,

chiesa che vorrei impazzita di gioia

perché è veramente risorto.

E noi grondare luce

perché vive di noi:

noi questa sola umanità bianca

ad ogni festa

in questo mondo del nulla e della morte.

Amen

L’ Eredità Umana, quella che realmente conta, lasciata da “don” Ambrogino Cicu

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di Piero  Murineddu

Dopo qualche tempo, l’accenno fatto recentemente ai vari personaggi di rilievo nati o vissuti nella storica via Farina di Sorso, mi dà lo spunto per riproporre l’articolo riguardante l’ancor poco conosciuto Ambrogino Cicu, pubblicato nell’aprile 1998 su “Orizzonte“, un giornale illustrato locale durato purtroppo il tempo di sfornarne pochissimi numeri. Esperienza editoriale senz’altro apprezzabile voluto da un volenteroso gruppo di giovani amici, che ad un certo punto, per essere confermati nell’impegno, avevano affidato la direzione al già 60enne Gavino Piras, di cui ho parlato in questa pagina, mentre in quest’altra  ho trattato del periodico illustrato rimasto a tre numero 0 e a un numero 1.  Tempo addietro vi era stato il numero unico de “Lu Siazzu” di cui da qualche parte ho scritto in questo blog e che probabilmente riprenderò in considerazione. Altro tentativo editoriale fu “Forza e coraggio“, nato in ambiente calcistico ma che voleva occuparsi anche di altro. A breve riproporrò la pagina scritta nel 2014 grazie alle notizie in proposito avute da Mario Vacca. Mi mancano conferme che a Sorso vi siano state altre iniziative simili, fatta eccezione per alcune pubblicazione nate in ambito parrocchiale o simili. Se qualcuno è più informato di me, mi faccia e ci faccia sapere.

Quindi la vicenda di Ambrogino (perché col diminutivo?). Il “don” che precede è dovuto alle origini nobiliari della famiglia.  Titolo onorifico derivante da dominus, nato per creare distinzione dalla normalissima plebe, considerata evidentemente bassa se non addirittura disprezzabile plebaglia da chi presumeva, per un motivo o per l’altro, di sentirsi superiore, quindi, guarda caso, anche i capi mafia. In seguito l’appellativo è passato ai preti secolari, giusto sempre per mantenere questa per me inaccettabile distinzione che sarebbe ora di mettere da parte.

Comunque sia e fatta questa mia piccola parentesi diciamo pure un tantino polemica, nel sentire comune dei sorsesi si arriva ancora ancora a sapere qualcosina di DON Ambrogino, mentre se si nomina Ambrogio Cicu molti si chiederebbero ” e ga saristhia?”. E va be’, dai. Punto e a capo.

A raccontare  di don Ambrogino fu Gianmario Urgeghe nel giornale che si diceva, evidentemente ben documentato su questa famiglia d’accudiddi a Sorso discendenti di un naufrago salvato dai flutti marini nientemeno che da San Pasquale Baylón, illetterato mistico spagnolo dell’Ordine dei Frati Minori Alcantarini, rimasto a lungo nei conventi addetto ai servizi di portineria. Anche su questo molto presunto salvataggio “miracoloso” attendo naturalmente delucidazioni, sempre gradite.

Un articolo, questo di Urgeghe, molto severo nei confronti di buona parte della popolazione sussinca contemporanea di Ambrogio, tutt’altro riconoscente verso un uomo che aveva speso la sua vita per elevare umanamente e culturalmente la gioventù locale. Questa severità di giudizio si evince  già dall’apertura del testo, dove si dice che di questo vero e proprio filantropo in paese non sia rimasto praticamente niente.  A parte il grande edificio fatiscente – lasciato in eredità all’unica parrocchia di allora e a cui con scarsissimi risultati l’ indimenticato Giovanni Manca aveva tentato di dare nuova vita –  e il saloncino a pianterreno usato e strausato per diverse attività, sicuramente di “roba”, di cose materiali, non è rimasta nessuna traccia, dal momento che certi furbacchioni senza scrupoli avevano fatto man bassa di tutto ciò che di pregio possedeva la famiglia Cicu. Ma la stessa cosa non si può dire dell’insegnamento ricevuto dai giovani di allora dall’unico figlio di Antonio, piemontese, e Maria, originaria di Ploaghe. Prova ne sono i tanti che l’hanno conosciuto e che, avvicinati dal sottoscritto, oltre che parlarmene ottimamente, hanno garantito che l’esempio di  disinteressata umanità ricevuto nel contatto quotidiano attraverso varie attività col generoso e intelligente Ambrogio, l’ hanno fatto proprio nella loro vita, trasmettendolo a loro volta, per quanto possibile, ai propri figli. 

L’ultimo scorcio della sua esistenza e nonostante l’ agiatezza della famiglia, Ambrogio sembra averla trascorsa nella pesante ristrettezza economica, e ancor peggio, almeno così appare nell’articolo, nella tristezza per non aver sentito alcun tipo di gratificazione da parte di chi dal suo impegno era stato beneficiato.

Egli aveva ritenuto più alto e più nobile donare anziché trarre profitto dalle cose“. È uno dei passaggi evidenziato nel testo. Tristezza, si è detto, quel sentimento che in vari modi tutti si cerca, nel possibile, di evitare. Personalmente sono stato sempre convinto che ci sia più gioia nel dare che nel ricevere. Se Ambrogio ha condotto la sua esistenza nel modo descritto, chi può dire che nel suo animo, nonostante le oggettive difficoltà materiali e la non perfetta condizione di salute, abbia prevalso la tristezza? Certo, vedersi probabilmente avversato nonostante le personali motivazioni di benevolenza nei confronti altrui, benevolenza tradotta in fatti concreti, non può provocare grande allegria, ma ciò non per forza toglie la serenità interiore per aver speso bene i propri anni, ed io credo che sia questo che conta. Per Ambrogio come per ciascuno.

Nell’articolo si dice chiaramente che il mancato prete Ambrogio aveva messo su quella che molto probabilmente è stata la prima forma di associazionismo nata in paese, fatta eccezione credo per le squadre di calcio, ma questo è un altro discorso, riconoscendo tuttavia l’importanza di mettersi insieme per interessi puramente sportivi, oggi come forse allora.

Anche questo darebbe lo spunto per valutare  l’interesse che a Sorso ci sia di associarsi per portare avanti obiettivi comuni, siano essi come detto sportivi, di solidarietà e mutuo aiuto, teatrali, politici e in generale culturali. Tema su cui riflettere molto, considerando la diffusa tendenza a rinchiudersi nel proprio protettivo privato. Anche su questo vediamo in seguito di trovare spunti per parlarne.

Comunque sia, sono grato a Gianmario per questa sua passione di ricerca manifestata in questo caso per “don” Ambrogino, ma so anche per altre figure del nostro passato locale. Il valorizzare poi la conoscenza e curare la divulgazione in diverse forme a beneficio delle attuali e future generazioni è compito di ciascuno, comprese le istituzioni pubbliche, a volte, anche se comprensibilmente, prese solo dalle contingenze del presente, seppure urgenti.

Andiamo a leggere del nobile Ambrogino da Sossu, ma nato nella capitale.

La disinteressata presenza filantropica a Sorso di “don” Ambrogino

di Gianmario Urgeghe

Cosa ha insegnato don Ambrogio a Sorso? Verrebbe da rispondere nulla, perché nulla in effetti è rimasto, fatta eccezione, naturalmente, per il suo palazzo che è ancora lì, in via Farina, a sfidare il tempo e gli uomini, quelli che, se fosse stato possibile, l’avrebbero smontato e portato a casa pezzo dopo pezzo.

L’edificio è oggi vuoto e disabitato, testimone di un’epoca forse irripetibile e di un’opera che coinvolse in oltre quaranta anni centinaia di sorsensi, anche se pochi seppero coglierne il significato. Così, nella memoria rimane quest’uomo schivo, generoso e religiosissimo, ma non il suo straordinario insegnamento. E rimane pure, nei cimitero di Sorso, una tomba ormai fatiscente sulla quale, di tanto in tanto, qualcuno si ricorda di deporre dei fiori.

Nelle ultime volontà, contenute nel testamento, don Ambrogio lasciò la sua casa alla parrocchia di San Pantaleo con la clausola di cedere una parte in usufrutto, vita natural durante, ai coniugi Solinas che già vi abitavano.

Con la sua morte. sopraggiunta improvvisamente nel 1958 all’età di 76 anni, svanirono nel nulla la Filodrammatica, le scenografie del pittore Piero Mura e i ricchi costumi di scena, il Circolo cattolico, la sua biblioteca ed il gruppo degli Esploratori. Uguale sorte ebbero mobili, arazzi, tappeti, circa 300 quadri di soggetto sacro – parte di essi donata e consegnata, per volere dello stesso Cicu. alla Curia Arcivescovile di Sassari – numerosi di soggetto profano, ed altri oggetti, anche di un certo valore, in tutta fretta inventariati e subito rivenduti per quattro soldi all’asta, allo scopo di racimolare circa i 3 milioni di lire necessari per poter pagare la tassa di successione. Probabilmente nessuno allora se ne rese conto, ma quel triste epilogo rappresentò per Sorso una sconfitta: più di una persona, oggi, dovrebbe riflettere ed interrogarsi su come si sia potuto dissipare un autentico tesoro nel breve volgere di qualche giorno. Ma molto di quanto accadde subito dopo la morte del Cicu è tuttora avvolto nel mistero, e pare che oscuri personaggi siano entrati nella vicenda vantando presunte parentele e amicizie, al fine di ottenere qualcosa. In realtà, c’era da prendere molto meno di quanto si pensasse, anche perché don Ambrogio, nell’intento di assicurare una vecchiaia economicamente dignitosa, aveva già ceduto – in alcuni casi gratuitamente e in altri per cifre irrisorie – tutti i suoi terreni e il Cineteatro Goldoni. A ciò si aggiunga una quantità imprecisata di oggetti che qualcuno pensò bene di portarsi via quando egli era ancora in vita, approfittando di una progressiva cecità che colpì il poveretto negli ultimi anni.

Ambrogio Cicu D’Escanu nacque a Roma, in via dei Condotti, il 23 Aprile 1881 da Antonio, procuratore generale della Corte di Cassazione, e Maria Sini, appartenente ad una delle famiglie più in vista di Ploaghe.

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I Cicu D’Escanu erano nobili oriundi della Spagna, e uno di essi giunse nell’Isola in maniera avventurosa. Un antico racconto narra infatti che sarebbe stato San Pasquale Baylòn salvarlo da un naufragio. Già nel 700 un ramo della famiglia fu a Sorso, dove divenne uno dei casati più importanti del paese, stretto da rapporti forse anche di parentela con gli Amat, baroni di Sorso.

Ambrogio crebbe in un ambiente aristocratico denso di personalità appartenenti alla medio-piccola nobiltà romana e al Vaticano; trascorse l’infanzia e la giovinezza in una Roma, quella di fine 800, che usciva da uno stato di torpore secolare e gradatamente si apriva alla cultura, ai caffè, ai salotti. Ma di quella vita mondana che egli intravide. non amò quasi nulla: ad essa preferì la Chiesa e la religione. Deciso a prendere gli ordini sacerdotali, frequentò il collegio Capranica e successivamente proseguì gli studi teologici presso la Pontificia Università Gregoriana dove si laureò e contemporaneamente studiò musica dal maestro Lorenzo Perosi, all’epoca direttore del Coro della Cappella Sistina. Quasi subito però, per non arrecare dispiacere a suo padre. si convinse a rinunciare ai voti. Fu una scelta travagliata che lo segnò per tutta la vita. In verità don Antonio non ostacolò mai la sua vocazione, sebbene non fece mistero di desiderare per lui, l’unico suo figlio, tutt’altro avvenire. I Cicu tornavano a Sorso di rado e soltanto quando gli impegni di lavoro di don Antonio lo consentivano.

In una di quelle occasioni, nel 1912, don Ambrogio costituì il gruppo degli Esploratori e la squadra sportiva. Più tardi, nel Novembre del ‘14, videro la luce anche il Circolo Cattolico Alessandro Manzoni e la Filodrammatica. Il palazzo dei Cicu divenne così il primo vero punto di aggregazione che Sorso avesse mai avuto, se non si considerano naturalmente i caffè della Piazza. Ma quelle iniziative rappresentavano per molti un’assoluta novità da osservare con distacco e diffidenza.D’altra parte, in un paese dove contavano solo poche cose – la forza fisica. la battuta, il lavoro materiale, la terra. il raccolto – e tutte potenzialmente in grado dì procurare gratificazioni, era pressoché impossibile trovare un posto per uno come don Ambrogio.

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Su di lui si iniziò a gettare fango e a diffondere storie e storielle colme di malignità come solo i sorsensi sanno fare quando si tratta di mettere in ridicolo qualcuno. Poi scoppiò la guerra e il paese si svuotò. A Sorso, così come a Roma, le case dei Cicu ospitarono laboratori per la raccolta della lana e il confezionamento di vestiario per i soldati al fronte, e la Filodrammatica allestì una serie di recite di beneficenza. Chiamato sotto le armi da Ufficiale, don Ambrogio venne assegnato al Comando della seconda armata del generale Capello, persona notoriamente intrattabile e priva di scrupoli. Fu con lui sugli Altopiani, sull’Isonzo e nelle drammatiche giornate di Caporetto, ma sempre fu sconcertato dalle sue follie e dalle inumane punizioni che infliggeva alla truppa.

Un giorno si offrì generosamente al posto di uno dei cucinieri che per punizione stava per essere sepolto sotto la neve. E ciò bastò a placare l’ira del generale e farlo recedere dai suoi propositi. Di quei terribili anni, don Ambrogio conservò una medaglia di bronzo e una piccola menomazione ad un dito della mano, causata da una ferita da guerra.

Congedato alla fine del conflitto, fu collocato nella riserva e aggregato all’ 81° reggimento fanteria di stanza nella Capitale, mantenendo il grado di capitano e raggiungendo successivamente quello di maggiore. Nel Marzo del ‘24 gli fu concessa da Papa Pio XI l’onorificenza di San Gregorio Magno per l’impegno profuso nell’educazione dei giovani: e ancora, nell’Agosto dello stesso anno, il gruppo degli Esploratori ricevette la medaglia d’onore al valor civile per aver contribuito a spegnere un incendio divampato in un mulino a Sassari. Tuttavia, qualche anno dopo il circolo chiudeva.

Le disposizioni sullo scioglimento delle associazioni giovanili non inquadrate nelle organizzazioni del fascismo parlavano chiaro. Alla fine ci volle uno stratagemma per mettere a posto le cose: Cicu iniziò a sbarrare le porte della sede ai soci, mentre contemporaneamente spalancava quelle di casa sua agli ospiti. Cambiava la forma ma la sostanza rimaneva invariata.Il risultato fu che tutte le attività ripresero, e naturalmente in barba alle disposizioni vigenti. Il fascio di Sorso, che ovviamente era al corrente di ogni cosa. chiuse prima un occhio. e poi anche l’altro. Del resto, come si poteva impedire a don Ambrogio di ricevere ospiti?

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Nel corso degli anni 30 prese in affitto un piccolo appartamento in via Cesare Balbo, non lontano da Termini. La casa fu per anni un punto di riferimento per molti sorsensi che si recavano a Roma per i più disparati motivi. È il caso di ricordare tra gli altri lo scultore Giuliano Leonardi, l’allora giovanissimo Telesforo Manca e i fratelli Daniele e Giovannino Sassu, incanalati nello studio della musica dallo stesso Cicu e divenuti in seguito coristi al Teatro dell’Opera. Ma appena poteva, don Ambrogio tornava a Sorso tra i ragazzi del Circolo.

L’altra guerra, quella del ‘40, lo sorprese a Roma. Nell’Estate del 1943, dopo i primi bombardamenti alleati sulla Capitale e la caduta del fascismo, la città era in preda alla confusione più estrema. Per un momento si pensò che finalmente la guerra fosse finita, poi invece arrivarono Badoglio, l’ armistizio, i tedeschi di Kesselring. L’Urbe fu occupata. Don Ambrogio lasciò via Balbo e si rifugio in casa dei Conti Vannutelli che, nel frattempo, erano sfollati.

Qui egli divise tutto quello che c’era da dividere, e cioè fame, angoscia, paure con altri due rifugiati: un tale l’uggetta, funzionario dell’ Azienda dei telefoni, e il generale Durand, reduce dalla disastrosa Campagna di Grecia e tornato a Roma privo di tutto, senza più incarichi né uomini da dirigere. Non aveva più nulla Durand, neppure i vestiti. Il giorno che arrivò al rifugio si presentò vestito da cuoco, perché questo era tutto quello che era riuscito a trovare.

I tre passarono quasi tutto il periodo dell’occupazione germanica chiusi in casa, mentre fuori per le strade i tedeschi, come cani affamati, cercavano praticamente tutti: renitenti alla leva, ufficiali, ebrei, operai da inviare in Germania a lavorare per il Reich, antinazisti, cospiratori, traditori. Dopo la Liberazione don Ambrogio tornò definitivamente a Sorso.

Gli ultimi anni trascorsero tristemente e tra ristrettezze economiche. Don Ambrogio non si era mai curato del patrimonio di famiglia, non ne aveva mai avvertito la necessità. E ciò non perché egli vivesse nello sfarzo più sfrenato, ma semplicemente perché egli aveva ritenuto più alto e più nobile donare anziché trarre profitto dalle cose.

Nel Novembre del 1958 fu ospitato per alcuni giorni dalla Contessa De Lutti nella sua tenuta di Treviso. Subito però, un improvviso attacco d’ulcera di cui soffriva già da diverso tempo, lo costrinse a ripartire. Il viaggio finì all’ospedale Umberto I di Bellano, sul lago dì Como, dove il pomeriggio del 29 Novembre cessò di vivere.

Poi ci fu solo il tempo per compiere l’ultimo affronto: giunta a Porto Torres, la salma fu trasportata a Sorso su un carretto, poiché, per un motivo o per l’altro, non era stato possibile reperire un carro funebre. E quando finalmente il feretro arrivò in via Farina, si scoprì che le porte del palazzo erano state sigillate da chi evidentemente pensava di avere voce in capitolo al momento delle partizioni. Alla fine, il portoncino della Cappella dovette essere forzato per allestire la camera ardente.

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