Autore archivio: piero-murineddu

Cadono bombe

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di Ricky Farina

Sorseggio un caffè guardando fuori dalla finestra.
Cadono bombe.

Faccio una doccia luminosa.
Cadono bombe.

Allargo un buco nel calzino. Per disperazione.
Cadono bombe.

Mi profumo le parti intime.
Cadono bombe.

Prendo un cedro, lo taglio a fette, lo immergo nel Cointreau,
ci metto zucchero di canna e sale del Madagascar.
Cadono bombe.

Vado sui Navigli a mangiare un filetto Tournedos Rossini.
Cadono bombe.

Compro delle mutandine di pizzo per Ethel.

Cadono bombe.

Leggo David Foster Wallace a letto.
Cadono bombe.

Mi compro delle scarpe per la pioggia.
Cadono bombe.

Guardo su Netflix un film con Ethel.
Cadono bombe.

Sogno trionfi.
Cadono bombe.

Seguo il carro funebre di uno sconosciuto.
Cadono bombe.

Slaccio le scarpe dei morti nelle bare. Un passatempo.
Cadono bombe.

Unisco i nei della pelle di Ethel con un pennarello rosso.
Cadono bombe.

Cerco di risolvere un rebus celeste.
Cadono bombe.

Invento enigmi di vetro per un Dio trasparente.
Cadono bombe.

Accarezzo il volto di un bambino.
Cadono bombe.
Tante bombe.

Cadono bambini sotto le bombe che cadono sui bambini.

Macerie.
Meteoriti di morte e di odio.
L’odio si gonfia.
L’odio inestricabile.
L’odio rigoglioso.
L’odio ricopre il mondo
come muschio nero.
Cadono bombe.

Chi fa inciampare le bombe?
Cado io.
Cadiamo tutti.

Perché le bombe non imparano a volare?

Perché tutto questo cadere?

Perché l’odio?

Tu uccidi. Io uccido.
Tu muori. Io muoio.
Cadono bombe.

Nelle serre le rose
vomitano l’amore.
Cadono bombe.

Sulle rose.
Sui bambini che cadono.
Sui volti appena nati.
Sui corpi.
Sugli occhi.
Sulle ciglia.
Sulle mani.
Sulle unghie.
Sul cuoio capelluto.
Sui confetti.
Cadono bombe.

Perché le bombe
non imparano a volare?

Sarà colpa della forza di gravità?

Big Bang su Gaza.

Dio, il primo terrorista della storia.

Cade l’universo.
Cade tutto.
Crollano bombe.

Nelle serre le rose vomitano l’amore.

E se tutto fosse amore?

Amore, il tradimento.
Amore, la bestemmia.
Amore, la morte.
Amore, il trionfo.
Amore, l’odio.
Amore, l’amore.

E se tutto fosse odio?

Odio, i fiori.
Odio, le speranze.
Odio, il trionfo.
Odio, il candore.
Odio, l’amore.
Odio, l’odio.
Odi et amo.
Dammi mille bombe
e ancora mille.

Cadono i poeti.
Cadono gli amanti.
Cade questa poesia.
Tutto è un cadere
e un accadere.
Accadono le bombe.

Nelle serre le rose vomitano l’amore.

Dopo che sono cadute
le bombe non si rialzano più.
Come i bambini.

Come i bambini che cadono sotto le bombe che cadono sui bambini di Gaza.

La guerra, la barbarie, le parole…

di Giovanna Lo Presti

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In questi giorni drammatici, in cui la violenza nella sua forma estrema insanguina terre dove da anni si convive con una violenza quotidiana meno clamorosa – per noi che viviamo lontano – ma non per questo più tollerabile, ho ripensato spesso alle due guerre del Golfo, alle veline del Pentagono spacciate come verità storica, alle notizie false sulle terribili armi di distruzione di massa in possesso di Saddam, all’idiozia delle armi intelligenti.

Mi è parso chiaro che l’ultimo trentennio, che mi piace definire “il trentennio inglorioso”, ha determinato uno scivolamento collettivo, nei fatti e nel modo di pensare, verso la messa tra parentesi di quei “due o tre principi fondamentali” che, come dice Nanni Moretti nel suo ultimo film, bisognerebbe possedere. Il primo principio dimenticato, su cui poggiano tutti gli altri, è quello di UGUAGLIANZA.

Torno al 1991. Allora facevo, come mestiere, l’insegnante. Non sono mai stata turbata dall’incubo di tanti docenti: essere indietro con il programma. Per questo motivo nella classe quinta ho inserito spesso argomenti che non erano obbligatori, se non per me. I ragazzi di un istituto tecnico non sempre hanno occasione di incontrare fuori dall’aula grandi testimonianze del pensiero umano o di riflettere su temi, quali quello della guerra, confrontandosi con capolavori assoluti dell’arte. Così, pensando che potesse essere utile per loro, proponevo almeno due film che fanno parte del mio “canone pacifista”: Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick e La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo.

Orizzonti di gloria: non conosco una denuncia più netta e convincente dell’orrenda carneficina che fu la prima guerra mondiale. Né mi verrebbe in mente esempio migliore del processo-farsa che porta alla condanna a morte di tre soldati innocenti, presunti disertori, per far comprendere quanta ipocrisia e ingiustizia si possa celare nella legge in quanto puro esercizio di potere.

Pari rigore stilistico, pari forza visiva, pari complessità di contenuto ha La battaglia di Algeri. Come sappiamo, il film, ambientato in Algeria nel 1957 parla della lotta del popolo algerino, che si concluderà nel 1962 con la dichiarazione di indipendenza dalla Francia.

La scena iniziale si svolge in un sordido interno: un algerino del FLN ha appena confessato, sotto tortura, dove si trova il rifugio di Alì La Pointe, uno dei capi della rivolta. L’uomo, con i segni della tortura sul corpo, è sconvolto: il suo torturatore gli dice: «Non potevi deciderti prima? Era meglio per te». I soldati gli porgono una tazza di caffè, poi una tuta mimetica, in modo che possa confondersi con loro mentre li guida al rifugio di Alì. Gli assicurano che non gli succederà più nulla di male; il disgraziato, vestito ormai come i suoi torturatori, gli occhi pieni di lacrime, con un grido selvaggio si slancia verso la finestra. I militari lo trattengono.

Altra scena: l’FLN organizza attentati che colpiranno i civili. Tre giovani donne hanno l’incarico di collocare gli ordigni nella parte europea della città: una di esse, vestita all’occidentale, spinge, guardinga, la sua borsa con la bomba sotto il bancone e dà un’occhiata all’orologio sulla parete, che fra poco segnerà l’ora dell’esplosione.

Altra scena ancora: il capo dei paracadutisti inviati a sedare la rivolta, Mathieu, spiega ai suoi sottoposti che la base del loro lavoro è l’informazione, il metodo è l’interrogatorio e l’interrogatorio diventa metodo se condotto in modo tale da ottenere sempre una risposta. Risposta che si ottiene con la tortura. Scorrono immagini di violenza omicida, cadono algerini, europei, militari, civili – la tensione è fortissima, accentuata da una regia e da una fotografia magistrali.

Bene, questo film eccezionale, schierato con la lotta di liberazione algerina ma non incurante delle ragioni delle altre vittime, appassionato e privo di retorica, ottima introduzione a una lezione sulla decolonizzazione, da un certo punto in avanti ho deciso di non farlo più vedere. Deve essere stato dopo l’11 settembre 2001, o dopo la seconda guerra del Golfo. Capivo che il percorso per condurre ragazzi diciottenni a comprendere il senso di quel racconto, di quelle immagini era ormai troppo accidentato e che avrei rischiato di forzare la mano. Capivo che le parole di Alì La Pointe, pronunciate mentre i parà francesi si apprestano a far saltare in aria l’edificio in cui egli si nasconde, sarebbero state fraintese da molti studenti e avrebbero generato una discussione arruffata. E io non volevo riprodurre le superficiali zuffe da talk show televisivo in una classe di scuola superiore. Come avrebbero reagito gli studenti di fronte ad Alì, che prima di saltare in aria con i suoi compagni di lotta dice: «Sì, fate saltare, fate saltare, avanti. Con voi non tratto: solo una cosa vorrei fare con voi, ammazzarvi tutti, come mosche, come mosche, come facevate voi allora, quando iniziò la nostra battaglia»?

Mi sembrava, e mi sembra tuttora, che anche menti giovani fossero già intossicate da parole che spingevano a identificare nel diverso da noi il nemico principale per la nostra tranquillità. Mi pareva, e oggi lo verifico per l’ennesima volta di fronte al dramma dei palestinesi, che la corrente che spinge all’identificazione con il più forte (e fa, implicitamente, del più forte il più giusto) fosse molto più impetuosa e trascinante dell’altra, che porta invece a identificarsi con il più debole, con il soccombente. Avevo la netta impressione che fosse sparita (per sempre?) la pietas, quel senso di dovere verso altri che si ancora nella sacralità della vita e che spinge a dare soccorso e a soffrire con chi soffre.

Come spiegare, mi chiedevo, ad adolescenti colonizzati dagli idola tribus del nostro tempo quella frase così cruda, «ammazzarvi tutti, come mosche, come mosche, come facevate voi allora», quel desiderio di vendetta nato dall’altro desiderio, quello di ripristinare la giustizia? Capire una rabbia violenta che non ci appartiene implica la volontà di comprendere il terreno storico in cui si radica quella vendetta collettiva.

D’un colpo sentivo schierarsi contro di me tutti i discorsi lividi, meschini, falsi di troppi nostri indegni politici che vedono nell’extracomunitario (mi si scusi la parola) non una persona ma l’incarnazione della minaccia alla nostra sicurezza. Mi pareva che per contrastare i pregiudizi già ben sedimentati in quelle giovani menti, la visione della Battaglia di Algeri fosse una medicina troppo forte, destinata forse a sortire un effetto- paradosso.

Così, il grande film di Gillo Pontecorvo l’ho accantonato. Per non farlo, avrei dovuto agire d’autorità per imporre il mio punto di vista, avrei parlato ai pochi che, per loro sensibilità, erano pronti a capire – invece un insegnante deve parlare a tutti e non indottrinare nessuno. E quindi ho cercato, appunto, di parlare a tutti di come la guerra sia l’effetto più tragico della disuguaglianza, del fatto che il nostro mondo opulento viva e prosperi grazie alla disuguaglianza planetaria, di quanto la disuguaglianza stia crescendo in questi anni, sia in senso formale sia in senso sostanziale, minando alla base quell’idea di cui il nostro Occidente va fiero, pur calpestandola a ogni pie’ sospinto – e cioè l’idea di democrazia.

Oggi, di fronte all’ipocrisia dei nostri politici, di fronte ai numeri dei morti che parlano chiaro – in questo momento circa 1400 morti israeliani, oltre 9400 morti palestinesi – mi sento di nuovo privata della libertà di parola, sento di subire una censura. Non colpisce direttamente me (che non ho voce in capitolo) – ma colpisce, ad esempio, il segretario generale dell’ONU nel momento in cui fa notare che «il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione», che gli attacchi di Hamas non arrivano dal nulla, che «la punizione collettiva del popolo palestinese» è ingiustificabile.

Subito il rappresentante israeliano ne chiede le dimissioni! Il Governo israeliano si arroga il diritto di sterminare civili in nome del fatto che altri civili sono morti – e va ben oltre il Levitico, che ordina «frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli si farà la stessa lesione ch’egli ha fatta all’altro».

Guai a criticare Israele, che ha diritto di esistere e di difendersi, mentre gli Altri questi diritti non se li sono, evidentemente, conquistati. Assistiamo oggi sconvolti al bombardamento delle autoambulanze a Gaza, che gli israeliani giustificano affermando che Hamas le usa per spostarsi – e di nuovo, non abbiamo più parole.

Oltre alle vittime inermi, questa carneficina sta producendo un indurimento delle coscienze intollerabile. E, per dirla con René Girard, la voce della realtà resta inascoltata; “restiamo umani” sembra ormai uno slogan d’altri tempi, di quelli che si trovano nei biglietti di certi cioccolatini.

Dobbiamo concludere che l’atroce persecuzione degli ebrei durante il secondo conflitto mondiale non abbia insegnato nulla e che i perseguitati di allora siano pronti a farsi persecutori senza scrupoli?

Dobbiamo concordare con il manzoniano «loco a gentile, / ad innocente opra non v’è; non resta / che far torto, o patirlo. Una feroce forza / il mondo possiede, e fa nomarsi / dritto»?

In questo momento le parole di Giulio Andreotti, che nel 2006 affermò che ognuno di noi, se fosse nato e vissuto in un campo profughi, senza speranza per sé e per i propri figli, sarebbe un terrorista, sembrano le parole di un antropologo illuminato e non di un politico abile che non ha mai messo da parte la ragion di Stato.

La domanda fondamentale: «Che merito abbiamo noi per essere nati qui e non là?» ci deve toccare nel profondo. Allora non potremo che schierarci dalla parte degli inermi, riconoscere le ragioni degli ultimi e condannare, in primo luogo, la violenza dei più forti.

Ognuno di noi ha diritto a lottare contro soprusi, grandi o piccoli che siano. In queste righe si incrociano un piccolo sopruso, quello che ho subito io come insegnante nel momento in cui il pensiero mainstream, impetuoso nel suo procedere, mi ha obbligato, in base al principio di ragionevolezza, a mettere da parte un film tanto bello quanto equivocabile e il sopruso, enorme, che patiscono tutti i “dannati della Terra” per mano di altri esseri umani che si credono migliori di loro ma che, in verità, sono soltanto i più forti.

Ora c’è una sola richiesta che deve salire dalle nostre piazze: “cessate il fuoco”. Poi si vedrà, ed auguro ai palestinesi e agli israeliani che non condividono la politica assassina del loro Governo di poter vivere lontano dalla barbarie, che purtroppo avanza anche nel “pacifico” Occidente, i cui Governi dovrebbero arrossire al pensiero dell’osceno mercato delle armi che continuano a favorire in ogni modo. Spero che diventi realtà l’ultima, incantevole scena de La battaglia di Algeri, nella quale una giovane donna balla e festeggia la fine imminente del dominio francese: è bella, sorridente, vera e propria immagine della vita contro la morte e della Libertà, che non può accettare né dominatori né integralismi religiosi.

(volerelaluna.it)

I diritti degli ebrei dei palestinesi vanno di pari passo

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(Firme in calce)

Siamo scrittori, artisti e attivisti ebrei che desiderano contestare la narrazione diffusa secondo cui qualsiasi critica a Israele è intrinsecamente antisemita. Israele e i suoi difensori hanno a lungo usato questo espediente retorico per mettere Israele al riparo dalle sue responsabilità, per dare copertura morale agli investimenti miliardari degli Stati Uniti a sostegno dell’esercito israeliano, per oscurare la realtà mortale dell’occupazione e per negare la sovranità palestinese.

Ora questo insidioso bavaglio alla libertà di parola viene utilizzato per giustificare i bombardamenti dell’esercito israeliano su Gaza e per delegittimare le critiche della comunità internazionale.

Noi condanniamo tutti i recenti attacchi contro i civili israeliani e palestinesi e piangiamo la perdita di vite umane. E siamo addolorati e inorriditi nel vedere la lotta all’antisemitismo usata come pretesto per crimini di guerra dal dichiarato intento genocida.

L’antisemitismo è una parte dolorosa del passato e del presente della nostra comunità. Le nostre famiglie sono sfuggite a guerre, molestie, pogrom e campi di concentramento. Abbiamo studiato la lunga storia di persecuzione e violenza contro gli ebrei e prendiamo sul serio l’antisemitismo attuale che mette a rischio la sicurezza degli ebrei in tutto il mondo.

Lo scorso ottobre è stato il quinto anniversario del peggior attacco antisemita mai commesso negli Stati Uniti: l’assassinio, nella sinagoga di Tree of Life – Or L’Simcha a Pittsburgh, di 11 fedeli da parte di un uomo armato che sosteneva teorie complottiste sulle colpe degli ebrei per l’arrivo dei migranti centroamericani, disumanizzando così entrambi i gruppi.

Rifiutiamo l’antisemitismo in tutte le sue forme, anche quando si maschera da critica al sionismo o alle politiche di Israele. Ma rileviamo che, come ha scritto il giornalista Peter Beinart nel 2019, «l’antisionismo non è intrinsecamente antisemita, e sostenere che lo sia sfrutta la sofferenza ebraica per cancellare l’esperienza palestinese».

Troviamo questo espediente retorico antitetico ai valori ebraici, che ci insegnano a riparare il mondo, a mettere in discussione l’autorità e a difendere gli oppressi dagli oppressori. È proprio a causa della dolorosa storia dell’antisemitismo e delle lezioni dei testi ebraici che sosteniamo la dignità e la sovranità del popolo palestinese.

Rifiutiamo la falsa alternativa tra la sicurezza degli ebrei e la libertà dei palestinesi, tra l’identità ebraica e la fine dell’oppressione dei palestinesi. Crediamo, infatti, che i diritti degli ebrei e dei palestinesi vadano di pari passo. La sicurezza di ciascuno dei due popoli dipende dall’altro. Non siamo certamente i primi a dirlo, e ammiriamo coloro che hanno dato forma a questa linea di pensiero pur in presenza di tanta violenza.

La confusione tra l’antisemitismo e la critica di Israele o del sionismo ha delle ragioni precise. Per anni, decine di paesi hanno sostenuto la definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance. La maggior parte degli 11 esempi di antisemitismo in essa contenuti riguarda giudizi sullo Stato di Israele e alcuni di essi limitano di fatto l’ambito delle critiche accettabili. Inoltre, la Lega Anti-Defamation classifica l’antisionismo come antisemitismo, nonostante i dubbi di molti dei suoi stessi esperti.

Queste definizioni hanno favorito l’intensificarsi delle relazioni del Governo israeliano con forze politiche di estrema destra e antisemite, dall’Ungheria alla Polonia agli Stati Uniti e oltre, mettendo in pericolo gli ebrei della diaspora.

Per contrastare queste definizioni generiche, un gruppo di studiosi dell’antisemitismo ha pubblicato, nel 2020, la Dichiarazione di Gerusalemme, che offre linee guida più specifiche per identificare l’antisemitismo e distinguerlo dalla critica e dal dibattito su Israele e sul sionismo.

Le accuse di antisemitismo di fronte alla minima obiezione alla politica israeliana hanno a lungo permesso a Israele di mantenere in vita un regime che organizzazioni per i diritti umani, studiosi, giuristi e associazioni palestinesi e israeliane hanno definito di apartheid. Queste accuse hanno un effetto spaventoso sulla nostra politica.

Ciò ha comportato la soppressione politica dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, dove il Governo israeliano confonde l’esistenza stessa del popolo palestinese con l’odio per gli ebrei di tutto il mondo. Nella propaganda interna rivolta ai propri cittadini e in quella esterna rivolta all’Occidente, il Governo israeliano afferma che le rivendicazioni dei palestinesi non riguardano la terra, la mobilità, i diritti o la libertà, ma piuttosto l’antisemitismo.

Nelle ultime settimane, i leader israeliani hanno continuato a strumentalizzare la storia del trauma ebraico per disumanizzare i palestinesi. Nel frattempo, degli israeliani vengono arrestati o sospesi dal lavoro per post sui social media in difesa di Gaza e giornalisti israeliani temono conseguenze per aver criticato il loro governo.

Definire tutte le critiche a Israele come antisemite, inoltre, schiaccia, nell’immaginario collettivo, il popolo ebraico su Israele. Nelle ultime due settimane negli Stati Uniti, abbiamo visto sia democratici che repubblicani difendere l’identità ebraica sulla base del sostegno a Israele. Una lettera molto vaga firmata da decine di personalità e pubblicata il 23 ottobre ha riproposto il Presidente Biden come sostenitore del popolo ebraico sulla base del suo appoggio a Israele.

La 92NY, nel rinviare un evento con l’autore Viet Thanh Nguyen, che aveva firmato una lettera in cui chiedeva la fine degli attacchi di Israele a Gaza, ha sottolineato la propria identità di “istituzione ebraica”. Come altri hanno osservato, i tentativi di contestualizzare gli attacchi del 7 ottobre sono visti come negazione della sofferenza ebraica piuttosto che come necessari strumenti per comprendere e porre fine alla violenza.

L’idea che tutte le critiche a Israele siano antisemite diffonde la visione che palestinesi, arabi e musulmani siano intrinsecamente sospetti, agenti dell’antisemitismo finché non affermano esplicitamente il contrario. Dal 7 ottobre, i giornalisti palestinesi hanno dovuto affrontare una repressione senza precedenti.

Un cittadino palestinese di Israele è stato licenziato dal lavoro in un ospedale israeliano per un post su Facebook del 2022 che citava il primo pilastro dell’Islam.

I leader europei hanno vietato proteste a favore della Palestina e criminalizzato l’esposizione della bandiera palestinese.

A Londra, un ospedale ha tolto dei disegni realizzati da bambini di Gaza dopo che un gruppo pro-Israele ha affermato che essi facevano sentire i pazienti ebrei «vulnerabili, molestati e vittimizzati». Persino dei disegni di bambini palestinesi vengono associati a un’allucinazione di violenza.

I leader statunitensi alimentano ulteriormente la confusione schiacciando la tutela della sicurezza degli ebrei sul finanziamento militare incondizionato e costante di Israele, senza alcuna intenzione di fare la pace.

Il 13 ottobre, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha diffuso una nota interna per esortare i funzionari a non utilizzare espressioni come “de-escalation/cessate il fuoco”, “fine della violenza/spargimento di sangue” o “ripristino della calma”.

Il 25 ottobre, Biden ha messo in dubbio il numero di morti palestinesi e lo ha definito il “prezzo” della guerra di Israele.

Questa logica crudele continuerà a favorire l’antisemitismo e l’islamofobia. Il Dipartimento di Sicurezza Nazionale si sta preparando a fronteggiare un aumento dei crimini d’odio contro ebrei e musulmani, che è già iniziato.

Per ciascuno di noi, l’identità ebraica non è un’arma da brandire nella lotta per il potere dello Stato, ma una fonte di saggezza che dice: “Giustizia, giustizia, perseguirai” (Tzedek, tzedek, tirdof). Ci opponiamo allo sfruttamento del nostro dolore e al silenzio dei nostri alleati.

Chiediamo un cessate il fuoco a Gaza, una soluzione per il ritorno sicuro degli ostaggi trattenuti a Gaza e dei prigionieri palestinesi in Israele e la fine dell’occupazione israeliana. Chiediamo inoltre ai governi e alla società civile degli Stati Uniti e dell’Occidente di opporsi alla repressione del sostegno alla Palestina. E ci rifiutiamo di permettere che tale sostegno, urgente e necessario, vengano represso in nostro nome. Quando diciamo “mai più”, lo diciamo sul serio.

2 novembre 2023

Leah Abrams, scrittore
Tavi Gevinson, scrittore e attore
Rebecca Zweig, scrittrice e regista
Nan Goldin, artista e attivista
Naomi Klein
Tony Kushner, scrittore
Deborah Eisenberg, scrittrice
Sarah Schulman, scrittrice
Vivian Gornick
Annie Baker, drammaturgo e regista
Hari NeIf, attore e scrittore
Judith Butler, scrittrice
seguono centinaia di altre firme.

Numeri da catastrofe umanitaria a Gaza

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da left.it

1. A Gaza milioni di civili sono allo stremo e stanno subendo una punizione collettiva

2. In media un bambino rimane ucciso ogni 10 minuti e interi quartieri sono ridotti in macerie.

3. Tre quarti della popolazione è stata costretta a fuggire dalle proprie case, circa 1,5 milioni di persone.

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4. Sono oltre 10.800 le vittime, tra cui più di 7.080 donne e bambini.

5. 2.450 persone, di cui 1.350 bambini, risultano disperse e potrebbero essere ancora intrappolate o morte sotto le macerie.

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E per oggi NON È purtroppo tutto

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https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/11/08/israele-muoia-sansone/

Ebrei e palestinesi: stessi diritti

(Firme in calce)

Siamo scrittori, artisti e attivisti ebrei che desiderano contestare la narrazione diffusa secondo cui qualsiasi critica a Israele è intrinsecamente antisemita. Israele e i suoi difensori hanno a lungo usato questo espediente retorico per mettere Israele al riparo dalle sue responsabilità, per dare copertura morale agli investimenti miliardari degli Stati Uniti a sostegno dell’esercito israeliano, per oscurare la realtà mortale dell’occupazione e per negare la sovranità palestinese.

Ora questo insidioso bavaglio alla libertà di parola viene utilizzato per giustificare i bombardamenti dell’esercito israeliano su Gaza e per delegittimare le critiche della comunità internazionale.

Noi condanniamo tutti i recenti attacchi contro i civili israeliani e palestinesi e piangiamo la perdita di vite umane. E siamo addolorati e inorriditi nel vedere la lotta all’antisemitismo usata come pretesto per crimini di guerra dal dichiarato intento genocida.

L’antisemitismo è una parte dolorosa del passato e del presente della nostra comunità. Le nostre famiglie sono sfuggite a guerre, molestie, pogrom e campi di concentramento. Abbiamo studiato la lunga storia di persecuzione e violenza contro gli ebrei e prendiamo sul serio l’antisemitismo attuale che mette a rischio la sicurezza degli ebrei in tutto il mondo.

Lo scorso ottobre è stato il quinto anniversario del peggior attacco antisemita mai commesso negli Stati Uniti: l’assassinio, nella sinagoga di Tree of Life – Or L’Simcha a Pittsburgh, di 11 fedeli da parte di un uomo armato che sosteneva teorie complottiste sulle colpe degli ebrei per l’arrivo dei migranti centroamericani, disumanizzando così entrambi i gruppi.

Rifiutiamo l’antisemitismo in tutte le sue forme, anche quando si maschera da critica al sionismo o alle politiche di Israele. Ma rileviamo che, come ha scritto il giornalista Peter Beinart nel 2019, «l’antisionismo non è intrinsecamente antisemita, e sostenere che lo sia sfrutta la sofferenza ebraica per cancellare l’esperienza palestinese».

Troviamo questo espediente retorico antitetico ai valori ebraici, che ci insegnano a riparare il mondo, a mettere in discussione l’autorità e a difendere gli oppressi dagli oppressori. È proprio a causa della dolorosa storia dell’antisemitismo e delle lezioni dei testi ebraici che sosteniamo la dignità e la sovranità del popolo palestinese.

Rifiutiamo la falsa alternativa tra la sicurezza degli ebrei e la libertà dei palestinesi, tra l’identità ebraica e la fine dell’oppressione dei palestinesi. Crediamo, infatti, che i diritti degli ebrei e dei palestinesi vadano di pari passo. La sicurezza di ciascuno dei due popoli dipende dall’altro. Non siamo certamente i primi a dirlo, e ammiriamo coloro che hanno dato forma a questa linea di pensiero pur in presenza di tanta violenza.

La confusione tra l’antisemitismo e la critica di Israele o del sionismo ha delle ragioni precise. Per anni, decine di paesi hanno sostenuto la definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance. La maggior parte degli 11 esempi di antisemitismo in essa contenuti riguarda giudizi sullo Stato di Israele e alcuni di essi limitano di fatto l’ambito delle critiche accettabili. Inoltre, la Lega Anti-Defamation classifica l’antisionismo come antisemitismo, nonostante i dubbi di molti dei suoi stessi esperti.

Queste definizioni hanno favorito l’intensificarsi delle relazioni del Governo israeliano con forze politiche di estrema destra e antisemite, dall’Ungheria alla Polonia agli Stati Uniti e oltre, mettendo in pericolo gli ebrei della diaspora.

Per contrastare queste definizioni generiche, un gruppo di studiosi dell’antisemitismo ha pubblicato, nel 2020, la Dichiarazione di Gerusalemme, che offre linee guida più specifiche per identificare l’antisemitismo e distinguerlo dalla critica e dal dibattito su Israele e sul sionismo.

Le accuse di antisemitismo di fronte alla minima obiezione alla politica israeliana hanno a lungo permesso a Israele di mantenere in vita un regime che organizzazioni per i diritti umani, studiosi, giuristi e associazioni palestinesi e israeliane hanno definito di apartheid. Queste accuse hanno un effetto spaventoso sulla nostra politica.

Ciò ha comportato la soppressione politica dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, dove il Governo israeliano confonde l’esistenza stessa del popolo palestinese con l’odio per gli ebrei di tutto il mondo. Nella propaganda interna rivolta ai propri cittadini e in quella esterna rivolta all’Occidente, il Governo israeliano afferma che le rivendicazioni dei palestinesi non riguardano la terra, la mobilità, i diritti o la libertà, ma piuttosto l’antisemitismo.

Nelle ultime settimane, i leader israeliani hanno continuato a strumentalizzare la storia del trauma ebraico per disumanizzare i palestinesi. Nel frattempo, degli israeliani vengono arrestati o sospesi dal lavoro per post sui social media in difesa di Gaza e giornalisti israeliani temono conseguenze per aver criticato il loro governo.

Definire tutte le critiche a Israele come antisemite, inoltre, schiaccia, nell’immaginario collettivo, il popolo ebraico su Israele. Nelle ultime due settimane negli Stati Uniti, abbiamo visto sia democratici che repubblicani difendere l’identità ebraica sulla base del sostegno a Israele. Una lettera molto vaga firmata da decine di personalità e pubblicata il 23 ottobre ha riproposto il Presidente Biden come sostenitore del popolo ebraico sulla base del suo appoggio a Israele.

La 92NY, nel rinviare un evento con l’autore Viet Thanh Nguyen, che aveva firmato una lettera in cui chiedeva la fine degli attacchi di Israele a Gaza, ha sottolineato la propria identità di “istituzione ebraica”. Come altri hanno osservato, i tentativi di contestualizzare gli attacchi del 7 ottobre sono visti come negazione della sofferenza ebraica piuttosto che come necessari strumenti per comprendere e porre fine alla violenza.

L’idea che tutte le critiche a Israele siano antisemite diffonde la visione che palestinesi, arabi e musulmani siano intrinsecamente sospetti, agenti dell’antisemitismo finché non affermano esplicitamente il contrario. Dal 7 ottobre, i giornalisti palestinesi hanno dovuto affrontare una repressione senza precedenti.

Un cittadino palestinese di Israele è stato licenziato dal lavoro in un ospedale israeliano per un post su Facebook del 2022 che citava il primo pilastro dell’Islam.

I leader europei hanno vietato proteste a favore della Palestina e criminalizzato l’esposizione della bandiera palestinese.

A Londra, un ospedale ha tolto dei disegni realizzati da bambini di Gaza dopo che un gruppo pro-Israele ha affermato che essi facevano sentire i pazienti ebrei «vulnerabili, molestati e vittimizzati». Persino dei disegni di bambini palestinesi vengono associati a un’allucinazione di violenza.

I leader statunitensi alimentano ulteriormente la confusione schiacciando la tutela della sicurezza degli ebrei sul finanziamento militare incondizionato e costante di Israele, senza alcuna intenzione di fare la pace.

Il 13 ottobre, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha diffuso una nota interna per esortare i funzionari a non utilizzare espressioni come “de-escalation/cessate il fuoco”, “fine della violenza/spargimento di sangue” o “ripristino della calma”.

Il 25 ottobre, Biden ha messo in dubbio il numero di morti palestinesi e lo ha definito il “prezzo” della guerra di Israele.

Questa logica crudele continuerà a favorire l’antisemitismo e l’islamofobia. Il Dipartimento di Sicurezza Nazionale si sta preparando a fronteggiare un aumento dei crimini d’odio contro ebrei e musulmani, che è già iniziato.

Per ciascuno di noi, l’identità ebraica non è un’arma da brandire nella lotta per il potere dello Stato, ma una fonte di saggezza che dice: “Giustizia, giustizia, perseguirai” (Tzedek, tzedek, tirdof). Ci opponiamo allo sfruttamento del nostro dolore e al silenzio dei nostri alleati.

Chiediamo un cessate il fuoco a Gaza, una soluzione per il ritorno sicuro degli ostaggi trattenuti a Gaza e dei prigionieri palestinesi in Israele e la fine dell’occupazione israeliana. Chiediamo inoltre ai governi e alla società civile degli Stati Uniti e dell’Occidente di opporsi alla repressione del sostegno alla Palestina. E ci rifiutiamo di permettere che tale sostegno, urgente e necessario, vengano represso in nostro nome. Quando diciamo “mai più”, lo diciamo sul serio.

2 novembre 2023

Leah Abrams, scrittore
Tavi Gevinson, scrittore e attore
Rebecca Zweig, scrittrice e regista
Nan Goldin, artista e attivista
Naomi Klein
Tony Kushner, scrittore
Deborah Eisenberg, scrittrice
Sarah Schulman, scrittrice
Vivian Gornick
Annie Baker, drammaturgo e regista
Hari NeIf, attore e scrittore
Judith Butler, scrittrice
seguono centinaia di altre firme.

Mentre Guterres parla, Mattarella tace

di Alessandro Marescotti      (da peacelink del 7/11/23)

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“Gaza sta diventando un immenso cimitero per bambini”. Questa è l’accusa pesantissima avanzata dal segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres. Ha sottolineato che centinaia di bambini sono uccisi o feriti ogni giorno. Inoltre, durante le ultime quattro settimane, il numero di giornalisti morti è maggiore rispetto a qualsiasi altro conflitto degli ultimi 30 anni. Guterres ha rimarcato che non è mai stato registrato un così alto numero di operatori umanitari delle Nazioni Unite uccisi in un periodo di tempo simile nella storia dell’organizzazione.

E il nostro Presidente della Repubblica interverrà per sostenere il segretario generale dell’ONU Guterres? Fino a ora è rimasto in silenzio. Per difendere i bambini ucraini per Mattarella era giusto mandare perfino le armi. Per difendere invece i bambini palestinesi fino a ora Mattarella non ha mandato neppure qualche aggettivo di riprovazione, chessò, a scelta fra: terribile, ripugnante, riprovevole, disumano. Quello che accade ai bambini palestinesi non è terribile, ripugnante, riprovevole, disumano? Ma attenzione: se Mattarella lo dicesse sarebbe subito rimproverato dall’ambasciatore israeliano (“vergogna”, ha gridato l’ambasciatore israeliano a Guterres). E quindi Mattarella non ha ritenuto necessario neppure fare un discorso di circostanza.

Chiariamo subito: sicuramente è indignato per i bambini palestinesi che muoiono, ma si indigna in silenzio. Pensa che Guterres ha fatto bene, ma non lo dice. Perché Mattarella è nato in quella scuola di pensiero che si chiamava Democrazia Cristiana: piena di buoni sentimenti manzoniani. Coltivati in silenzio, però, quando diventavano “divisivi”.

In questo contesto è veramente imbarazzante notare la differenza significativa tra la reazione schietta del segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres e quella del presidente della Repubblica Italiana.

Questa disparità di reazioni solleva infatti interrogativi sul doppio standard che talvolta sembra emergere nelle relazioni internazionali. Mentre il segretario generale dell’ONU si è pronunciato in difesa dei diritti umani e della protezione dei civili, il presidente italiano è rimasto in silenzio mentre in altre occasioni ha dimostrato grande indignazione in solenni discorsi quando i bambini erano biondi e con gli occhi azzurri.

Questa doppiezza solleva interrogativi sulla coerenza e l’equità nelle risposte dei leader mondiali di fronte a situazioni di crisi. La mancanza di una presa di posizione da parte del presidente Mattarella in un momento così delicato da una parte indebolisce l’ONU e dall’altra aumenta i dubbi sulla sua coerenza.

Sull’ accordo riguardo ai con l’ Albania

I MIGRANTI NON SONO RIFIUTI DA SMALTIRE

di Fulvio Vassallo Paleologo

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Con l’ennesimo annuncio propagandistico, Giorgia Meloni ha comunicato di avere concluso con il premier albanese Edi Rama un Memorandum d’intesa, che prevede la realizzazione in Albania di due centri per il rimpatrio, che dovrebbero ospitare ogni mese persone migranti definite “irregolari”, ma solo se soccorse nel Mediterraneo da navi militari italiane, come quelle della Marina Militare e della Guardia di Finanza.

Fin dal momento dell’arrivo in Albania i migranti, già ritenuti comunque “illegali”, saranno totalmente privati della libertà personale

Più precisamente, “l’Albania darà possibilità all’Italia di utilizzare alcune aree del territorio albanese dove l’Italia potrà realizzare, a proprie spese, due strutture dove allestire centri per la gestione di migranti illegali. Inizialmente potrà accogliere fino a 3mila persone che rimarranno il tempo necessario per espletare le procedure delle domande di asilo ed eventualmente rimpatrio”. I naufraghi saranno sbarcati a Shengjin e l’Italia si occuperà delle procedure di sbarco e identificazione e realizzerà un “centro di prima accoglienza e screening” a Gjader, che di fatto sarà una “struttura modello Cpr” per le successive procedure. I due centri dovrebbero servire per processare in 28-30 giorni le richieste di asilo e per detenere coloro che si vedranno respinta la richiesta di protezione, in vista del rimpatrio nei paesi di origine. Come ha annunciato Giorgia Meloni “dei due centri, quello al porto si occuperà delle procedure di sbarco e di identificazione con una prima attività di screening mentre il centro che verrà realizzato nell’area più interna sarà una struttura modello Cpr”.

Secondo quanto dichiarato dalla premier in un anno si penserebbe addirittura di fare transitare in queste nuove strutture detentive, che dovrebbero essere sotto giurisdizione italiana, ma con “sorveglianza esterna” affidata alle autorità albanesi, circa 36mila persone. Nulla è stato comunicato sulle modalità di rimpatrio e sulle autorità che saranno incaricate di eseguire gli accompagnamenti forzati, nè su come avverranno i trasferimenti sotto scorta dai punti di sbarco in Albania ai centri di detenzione “sotto giurisdizione italiana”. Di certo, fin dal momento dell’arrivo in Albania i migranti, già ritenuti comunque “illegali”, saranno totalmente privati della libertà personale.

Secondo la sentenza n.105/2001 della Corte Costituzionale qualunque procedura di allontanamento forzato attuata da autorità italiane attraverso il trattenimento in un centro di detenzione deve essere convalidata dalla decisione di un giudice. Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese?

La consegna delle persone soccorse in mare alle autorità albanesi, al momento dello sbarco, fino, presumibilmente, all’ingresso nei centri di detenzione, a meno che non siano militari italiani ad effettuare le scorte in territorio albanese, potrebbe costituire una ipotesi di respingimento collettivo analoga a quella riscontrata e condannata nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, dopo che nel 2009 una motovedetta della Guardia di finanza riconsegnò alle autorità libiche, entrando nel porto di Tripoli, decine di naufraghi soccorsi in acque internazionali (pratica illegale che comunque si protrasse fino al 2010, con trasbordi più discreti in alto mare, piuttosto che con l’ingresso delle unità militari italiane nei porti libici).

In quell’occasione la Corte di Strasburgo affermò che sebbene il soccorso fosse avvenuto in acque internazionali, il codice della navigazione italiano, oltre che il diritto internazionale, riconoscono che sulla nave militare in alto mare si applica la giurisdizione dello stato della bandiera. Dunque, in quella occasione, tra il momento in cui i profughi venivano accolti a bordo delle navi italiane e quello in cui gli stessi erano consegnati alle autorità libiche a Tripoli, le autorità italiane avevano esercitato su di essi un controllo de facto che impegnava la responsabilità dello stato italiano per qualunque violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea.

La stessa considerazione potrebbe valere in futuro quando le autorità italiane consegneranno alle forze di polizia albanese i cittadini stranieri soccorsi in mare da unità militari italiane, ai fini del loro trasferimento forzato e dell’eventuale rimpatrio. Secondo il premier albanese, però, “chi non ha diritto viene rimpatriato. Ma se l’Italia non riesce a fare i rimpatri dovrà riprenderseli”. La prova più evidente della riduzione delle persone a rifiuti da smaltire, la cifra morale e politica condivisa da Giorgia Meloni e da Edi Rama.

Un progetto impraticabile e privo di basi legali, quanto previsto dal Memorandum sottoscritto dalla Meloni con il premier albanese, alla luce dei tempi previsti per le procedure di asilo nei centri di detenzione, e soprattutto a causa delle difficoltà di esecuzione delle misure di allontanamento forzato da tutti i Paesi europei, anche per la mancanza di accordi di riammissione tra l’Albania e molti paesi di origine dei naufraghi che, dopo essere soccorsi in mare, dovranno affrontare in stato di detenzione procedure”accelerate” per il riconoscimento di uno status di protezione, ed una possibile deportazione. Senza potere fare valere i diritti di difesa e le garanzie della libertà personale previsti dalla Costituzione italiana (a partire dall’art.13 che impone la tempestiva convalida da parte di un giudice di ogni misura di trattenimento amministrativo attuata sotto la giurisdizione italiana) e dalle norme sovranazionali dettate dalle Nazioni Unite a protezione dei richiedenti asilo, e dall’Unione Europea in materia di rimpatri e procedure per il riconoscimento della protezione internazionale.

Non si comprende neppure quali saranno i criteri per “selezionare” i naufraghi soccorsi nel Mediterraneo dalle navi militari italiane, o per accertare l’età dei minori

E poi, se pensiamo ai migranti soccorsi intercettati nel mare Ionio, ma anche a quelli provenienti dalla Libia o dalla Tunisia, i soli ai quali nella nostra legislazione sono riservati procedure accelerate in frontiera, quanti di loro provengono da paesi terzi veramente “sicuri”? Il governo italiano non può creare una evidente disparità di trattamento tra persone potenziali richiedenti asilo, soccorse nel Mediterraneo da navi civili e altre soccorse da navi militari, che per questa sola ragione verrebbero esposte a procedure accelerate in territorio extra-Ue, a differenza di quelle sbarcate in Italia, soprattutto se si tratta di persone che non provengono da paesi terzi sicuri, per cui in Italia si prevedono procedure ordinarie e sistemi di prima e seconda accoglienza.

Non si comprende neppure quali saranno i criteri per “selezionare” i naufraghi soccorsi nel Mediterraneo dalle navi militari italiane, o per accertare l’età dei minori, e se queste attività di “trasporto” verso l’Albania riguarderanno anche le navi italiane impegnate nell’operazione europea Eunavfor Med- Irini, ammesso che svolgano qualche volta attività di salvataggio. Soprattutto non si comprende come le navi militari italiane possano fare fronte, dopo soccorsi di massa in acque internazionali, al trasporto di centinaia di persone verso l’Albania, che rimane alquanto decentrata rispetto alle rotte migratorie che attraversano il Mediterraneo centrale dal nord-africa.

Forse si vorranno imporre giorni e giorni di navigazione su imbarcazioni poco adatte al trasporto di naufraghi, o si risolverà tutto nell’ennesimo effetto annuncio a scopi elettorali?
Alla fine, a pagare il conto di tanta disumanità, ci saranno persone in fuga, migranti forzati, rigettati da una frontiera ad un’altra

Come è avvenuto anche in passato, il contenuto del Memorandum, e degli accordi che seguiranno, resta avvolto nell’opacità più totale, e tutto sembra rimesso a successive intese operative segrete, che matureranno tra le autorità italiane e quelle albanesi. Ma colpisce immediatamente la portata disumanizzante dell’accordo, se solo si mette in evidenza l’uso pregiudiziale del termine “irregolari”, quando non addirittura “illegali”, per indicare tutte le persone soccorse in mare da navi militari italiane e condotte in Albania, ad eccezione di donne in gravidanza, persone vulnerabili e minori. In palese violazione delle norme interne ed europee che non prevedono procedure accelerate in frontiera al di fuori del territorio europeo e che impongono per tutti lo sbarco in un porto sicuro indicato dall’autorità che coordina le attività di ricerca e salvataggio, riconoscendo comunque a tutte le persone, senza alcuna discriminazione, a seconda della natura e della nazionalità della nave soccorritrice, il diritto di chiedere protezione internazionale secondo regole fissate da Direttive e Regolamenti europei, oltre che dalla Convenzione di Ginevra del 1951 in materia di asilo, Regole che non possono essere derogate da un Memorandum d’intesa che, come altri che lo hanno preceduto, nel 2016 con il Sudan (governo Renzi), e nel 2017 (governo Gentiloni) con la Libia, neppure sarà portato all’approvazione del Parlamento, come imporebbe l’art. 80 della Costituzione.

Per il ministro per gli affari europei Raffaele Fitto, il Memorandum sarebbe “in linea con la priorità accordata alla dimensione esterna della migrazione e con i dieci punti del piano della presidente della Commissione von der Leyen”.

Da Bruxelles, un portavoce della Commissione europea ha invece affermato:

“Siamo stati informati di questo accordo, ma non abbiamo ancora ricevuto informazioni dettagliate: l’accordo operativo deve essere tradotto in legge dall’Italia e ulteriormente implementato. È importante che qualsiasi accordo di questo tipo rispetti pienamente il diritto comunitario e internazionale“.

Non si vede dunque come la Commissione europea possa dare sostegno a questo Memorandum d’intesa, anche se l’approssimarsi della scadenza delle elezioni europee potrebbe fare schierare opportunisticamente alcuni leader nazionali(sti) o pezzi della Commissione Ue a fianco di Giorgia Meloni. Il riconoscimento dell’Albania come “paese terzo sicuro” non potrà certo legittimare respingimenti collettivi, vietati dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali del’Unione Europea, pratiche illegali di privazione della libertà personale o procedure di rimpatrio vietate (oltre che dalla legislazione italiana) dalla Direttiva 2008/115/CE, e dalle Direttive n. 32 e 33 del 2013, in materia di procedure e di accoglienza per richiedenti asilo.

La possibilità di realizzare in territori esterni all’Unione europea procedure accelerate per richiedenti asilo da parte degli Stati membri non è ancora prevista dalla vigente normativa euro-unitaria, ed il Piano europeo sulle migrazioni e l’asilo in 10 punti a cui si richiama spesso il governo italiano non è stato ancora approvato e non ha portata legislativa.

Appare ben strano che un paese aderente all’Unione Europea possa trasferire persone soccorse in acque internazionali da proprie navi militari verso un paese che non appartiene all’Unione Europea e che dunque non è soggetto al rispetto degli obblighi e delle garanzie stabilite dalla normativa eurounitaria. Se poi si considerasse il diritto internazionale del mare, le persone soccorse in alto mare dovrebbero essere sbarcate in un porto sicuro nel paese che ha coordinato le attività di ricerca e salvataggio, se non nel porto più vicino. In ogni caso le attività degli assetti militari in mare, con riferimento al soccorso dei naufraghi ed al contrasto dell’immigrazione irregolare, non possono prescindere dagli obblighi imposti dal Regolamento europeo n.656 del 2014. O, forse, le operazioni di ricerca e soccorso si trasformeranno in attività di intercettazione ed “manovre cinematiche di interposizione”, come quelle condotte poste in essere nel 1997 dal comandante di Nave Sibilla, dopo gli accordi di Prodi con il governo albanese di allora, quando la nave militare italiana, nel tentativo di attuare un maldestro blocco navale, speronava un barcone carico di migranti provenienti dall’Albania, mandandolo a fondo? Ci saranno altri casi simili sotto esame da parte dei Tribunali penali italiani?

La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha già sanzionato l’Italia nel 2014 sul caso Sharifi per i respingimenti collettivi effettuati verso un paese terzo “sicuro”, come poteva esserlo nel 2009 la Grecia, e sentenze più recenti dei giudici europei hanno condannato su diversi casi il nostro paese per trattenimenti informali o “de facto“, senza la tempestiva convalida giurisdizionale, imposta in precisi termini temporali, oltre che dall’art. 13 della Costituzione italiana, dagli articoli 5, 6 e 13 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Qualunque forma di detenzione praticata da un paese aderente alla suddetta Convenzione deve avere una espressa previsione legale (riserva di legge), e deve essere convalidata da un giudice davanti al quale ogni persona migrante possa far valere i suoi diritti di difesa (riserva di giurisdizione).

Si prevede la presenza di giudici italiani nei nuovi centri di detenzione che si vorrebbero aprire in Albania “sotto giurisdizione italiana” ?

A quali tribunali potranno rivolgersi i richiedenti asilo denegati per esercitare il diritto di ricorso e come saranno composti gli organi che dovranno decidere sulle richieste di protezione ?

Siamo di fronte all’annuncio di un Memorandum d’intesa che rischia di produrre migliaia di persone costrette alla clandestinità in territorio albanese, quando al termine dei trenta giorni di detenzione previsti nelle dichiarazioni di Giorgia Meloni non potranno essere rimpatriati.

Un ennesimo esempio di come gli accordi tra governi possano agevolare le bande criminali che in Albania sono sempre più attive e che potrebbero lucrare sulla clandestinità forzata dei richiedenti asilo denegati.

Alla fine, a pagare il conto di tanta disumanità, ci saranno persone in fuga, migranti forzati, rigettati da una frontiera ad un’altra. Ma sarà un’altra grave sconfitta per la democrazia in Europa, se non si riuscirà a bloccare questo ennesimo attacco al diritto di asilo ed allo Stato di diritto.

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https://left.it/2023/11/07/lalbania-come-sacchetto-dellumido/

Se si vuole, è ancora possibile

Sei nella Gioia se….

di Carlo Carretto

Se tu bevi quel vino che Dio stesso ti offre, sei nella gioia.

Non è detto che tale gioia sia sempre facile, libera dal dolore e dalle lacrime, ma è gioia.

Ti può capitare di bere quel vino della volontà di Dio nelle contraddizioni e nelle amarezze della vita, ma senti la gioia.

Dio è gioia anche se sei crocifisso. Dio è gioia sempre.

Dio è gioia perché sa trasformare l’acqua della nostra povertà nel vino della Risurrezione, e la gioia è la nostra riconoscente risposta.

Sì, il discepolo di Gesù deve vivere nella gioia, deve diffondere la gioia, deve “ubriacarsi” di gioia. E questo sarà sempre il suo vero apostolato.

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GRAZIE CARLO

di Piero Murineddu

Hai ragione, carissimo e indimenticabile Carlo.

Stare nella gioia, vedendo e patendo tutto ciò che gira intorno, è tutt’altro che facile. Anzi, diciamo pure che l’incazzatura è il sentimento più istintivo, almeno per chi ha consapevolezza degli amari tempi che stiamo vivendo.

Dovremmo testimoniare il Cristo e il suo insegnamento con animo gioioso, ma l’impresa è quasi impossibile.

Confidiamo tuttavia che la nostra lotta affinché prevalga il Bene e la Giustizia per tutti, cioè quel mondo che Lui ci ha prospettato, riusciamo a portarla avanti con atteggiamento non aggressivo e nonviolento, facendo in modo, per quanto è possibile, che chi opera il male, specialmente facendo soffrire gli altri, quelli più deboli e indifesi, si ravveda e ponga rimedio.

È dura, ma forse non è cosa irrealizzabile se i “buoni” escono allo scoperto e iniziano a farsi sentire, principalmente con l’esempio.

Ti rinnovo il mio costante abbraccio, carissimo e indimenticato Carlo, e grazie per il tuo richiamo a non farci prendere dal risentimento e dalla rabbia che annebbiano il pensiero e l’azione.

L’ ordinaria Umanità di Antonio Piga

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di Piero Murineddu

Stesso nome di mio padre, Antonio. Giorno e mese di nascita uguali, 17 gennaio. L’anno è parecchio distanziato l’uno dall’altro, 1918 e 1953. Da sei anni Antonio Piga gioisce libero in quell’Altra Dimensione dove non ci sono patimenti, domande senza risposte, giudizi e molto spesso pregiudizi.Tutto quell’insieme di situazioni che rendono bella o meno bella la vita di ciascuno.

Come per molti, quella di Antonio è stata “faticosa”, e non per forza in senso strettamente fisico. Aveva perso la mamma da adolescente, e alla  mamma Antonio  era molto affezionato. Nel periodo delle grandi decisioni e delle ancora più grandi incertezze, gli era venuto a mancare un fondamentale sostegno, creando un vuoto che, nonostante l’impegno, gli altri familiari non sono riusciti a colmare, e non certamente per colpa. È stato sempre di animo buono Antonio, e le persone che lo hanno conosciuto oltre le apparenze lo potrebbero testimoniare. Da giovane, ingaggiato dall’allenatore de “La RiscossaPilo, uno che caricava i suoi giocatori  che trovava bighellonare sfaccendati in giro sulla sua motocarrozzetta per portarli sul campo ad allenarsi, dava un buon apporto al gioco di squadra. Non è stato mai troppo espansivo Antonio, di quelli che hanno atteggiamenti e argomenti pronti per rallegrare la compagnia, esemplari sempre molto ricercati ma non facili da trovare.

Per qualche tempo aveva provato a lavorare col padre negli impianti del petrolchimico di Porto Torres, ma evidentemente non era ambiente adatto per lui. Molto più a suo agio si era trovato nei lunghi anni che ha trascorso nella vicina Sassari, in modo particolare in un laboratorio di corniceria. Al tempo gli era più giovevole non fare rientro quotidiano nella casa paterna di Sorso, preferendo alloggiare in un hotel del centro storico del capoluogo.

Gli eventi della vita, ad un certo punto l’avevano portato a stabilirsi in una casetta di famiglia in campagna, dove le comodità non sono mai state tra le migliori, mancando servizi essenziali quali l’elettricità e l’acqua corrente. Aveva cercato di adattarsi Antonio, ma i disagi son stati sempre tanti, e anche il vivere in solitudine non gli ha dato la giusta spinta per mettere a frutto le potenzialità che sicuramente possedeva.

Spesso, di prima mattinata, lo si vedeva ai bordi del primo tratto di strada asfaltata  che collega Sorso con Sassari. Pochi chilometri verso il suo paese che inizialmente percorreva con una motoretta, in seguito in bicicletta. A volte abbastanza spedito e quasi allegramente seduto sul mezzo, più sovente  spingendolo, specialmente nei tratti in salita, quando faceva rientro.

Antonio la sua indipendenza l’ha sempre cercata e l’ha ottenuta decidendo di vivere in quella casetta di “Campisili“,  seppur con molti disagi.

Le tappe in paese erano sempre le stesse, giorno dopo giorno. Come capita, ad un certo punto  Antonio aveva dovuto fare i conti con gli anni che passano e i poco inevitabili acciacchi dell’età, che non di rado prendono la forma di vere e proprie patologie che condizionano i giorni e gli anni che si hanno davanti.

Avendo necessità di un alloggio più confortevole e igienicamente più garantito, ad Antonio era stata data ospitalità in un centro comunitario di Sorso, dove negli ultimi quattro o cinque anni poteva relazionarsi con altre persone senza bisogno di dover affrontare la fatica di recarsi nel centro abitato.

Sicuramente ben voluto Antonio, e molti, conoscendo i disagi che pativa, non mancavano di dargli una mano.

La bara che racchiude il suo corpo è stata ricoperta di nuda terra, come vorrei che si facesse con me alla fine dei miei giorni.

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Da quel lontano giorno di novembre, con l’assenza di Antonio Sorso è molto più povera. Di Umanità, il bene più prezioso che potremmo avere in pienezza ma a cui troppo spesso non diamo il giusto valore.

Di lui ricorda mia moglie Giovanna Stella:

Tutte le volte che incontravo Antonio per me era un vero piacere. Mi bastava il suo sguardo per capire la bellezza del suo animo buono. Abbiamo parlato spesso, raccontandoci il reciproco vivere. Spesso mi parlava di sua mamma ed io di mio padre, morti entrambi prematuramente, e questo provocava lacrime che uscivano ininterrotte dai suoi occhi azzurri, Anche io piangevo e il silenzio che si creava era pieno di significato. Era da un po’ che non lo incontravo con la sua bici arrugginita, che spesso si portava dietro per le strade di Sorso come la più fedele delle compagne. Brevi ma intensi i nostri incontri. Una mattina, inaspettatamente vidi un carro con una bara entrare nel cimitero e un piccolo corteo al seguito. Provai una forte commozione e dispiacere per non averlo accompagnato nel suo ultimo viaggio. Credo che lui abbia amato tantissimo la libertà. Mi rimarrà nel cuore e continuerà a vivere. Il suo passaggio sulla terra ha lasciato molti segni di normalissima e proprio per questo Grande Umanità”.

Giacomina Pinna, bellissima persona

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di Piero Murineddu

Un’ immagine che riempie il cuore ripensare ai tanti nipotini che giocavano spensieratamente felici intorno al letto della nonnina nei suoi ultimi giorni di vita. Ancora di più quella in cui, subito dopo sentirsi dire con un filo di voce di chiedere a Gesù di prendersela subito con Lui, la più piccola e forse più affezionata delle nipoti vedeva che gli occhi della nonnina si sono chiusi per sempre. Ma non solo. La giocosa festosità non s’interrompeva neanche nelle ore successive, mentre intorno alla bara si radunano gli adulti per l’ ultimo omaggio ad una donna che nella sua vita ha seminato tutt’ intorno solo Benevolenza.

Sono trascorsi tredici anni da quando, dietro indicazione della nipote Annita, ebbi l’occasione di conoscere questa donna che già da subito, grazie alla sua accogliente cordialità, mi aveva fatto sentire a mio agio andandola a trovare a casa per proporle di raccontarsi davanti alla mia videocamera.

Stimolata dalle mie domande, mi parlò dei genitori e della vita trascorsa in una poverissima casa in zona Sant’ Anna, a Sorso.

Angelo Pinna e Baingia Luigia Sini avevano cresciuto i loro sei figli in quello che una volta veniva chiamato fondiggu (stanza  spesso umida divisa da tende) “arricchito” da un suraggiu (soffitta) dove venivano conservate le provviste, frutto del lavoro che entrambi svolgevano in campagna.

Valori di rispetto e di onestà quelli ricevuti da babbo e mamma, con l’ educazione tipica che abbiamo avuto anche tanti di noi che più giovanissimi non siamo. Il babbo raramente ricorreva a la zintura (cintura o anche peggio) per indicare ai figli il comportamento da tenere. Per i figli bastava un suo sguardo, e guai sentire in casa una minima giasthemma  (imprecazione). Nello stesso tempo Agnuru riusciva ad essere affettuoso, e nonostante la fatica del duro lavoro in campagna, certe serate d’ inverno si fermava volentieri davanti al caldo caminetto per raccontare fatti più o meno reali della vita passata di paese. Altre volte, non disdegnava, specialmente coi figli maschi, fare qualche partitella a “mariglia” giusto per trascorrere un po’ di tempo insieme.

Questo ed altro lo sentiamo dalla viva voce di Giacomina nei due video che seguono, dai quali traspare chiarissima la Semplice e proprio per questo GRANDE UMANITÀ che ha caratterizzato la sua lunga vita .