Non bisogna essere antisemiti per condannare lo sterminio di bambini a Gaza. Basta essere umani.
NON SI È ANTISEMITI se si condanna, come fa Medici Senza Frontiere, l’attacco israeliano al campo profughi Jabalia, dove sono morte centinaia di persone, incluse donne e bambini.
NON SI È ANTISEMITI se, sempre citando Medici Senza Frontiere, ci si sente “inorriditi” dalla “violenza insensata” israeliana.
NON SI È ANTISEMITI se, come il direttore dell’ufficio di New York dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, Craig Mokhiber, ci si dimette accusando le agenzie delle Nazioni Unite di non aver agito per “prevenire il genocidio” della popolazione palestinese nella Striscia di Gaza. Genocidio per mano israeliana.
NON SI È ANTISEMITI se, come il segretario generale dell’Onu Antònio Guterres, si ricorda che la legge umanitaria internazionale “stabilisce regole chiare che non possono essere ignorate e non può essere applicata in modo selettivo”.
NON SI È ANTISEMITI se si condanna l’uccisione, da parte israeliana, di 67 dipendenti dell’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi in Medio Oriente.
NON SI È ANTISEMITI se, come fa l’UNICEF, si ricorda che la Striscia di Gaza è diventata un cimitero per migliaia di bambini, dove non solo si muore sotto le bombe israeliane, ma si muore per disidratazione.
NON SI È ANTISEMITI se, come il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus, si condanna il bombardamento del centro oncologico di Gaza.
NON SI È ANTISEMITI se si chiede, come hanno fatto centinaia di risoluzioni dell’ONU, che anche i palestinesi abbiano uno stato indipendente e non vivano, come a Gaza, in una prigione a cielo aperto. Chiedere questo non è antisemitismo, che ovviamente deve essere condannato senza se e senza ma, ma è chiedere il rispetto del diritto internazionale e umanitario.
Non bisogna essere antisemiti per condannare lo sterminio di bambini a Gaza.
Grazie all’ occhiata data oggi alla pagina FB di un’ amica, vengo a conoscenza di una canzone scritta nel lontano 1978 dal cantautore argentino León Gieco, divenuta popolare solo quattro anni dopo con la fine della dittatura militare del Paese sudamericano.
Meravigliosa, semplicissima e sempre più di drammatica attualità. Un inno emblematico contro la guerra, l’ingiustizia, il dolore e l’indifferenza.
Dopo averla sentita nella versione di Mercedes Sosa accompagnata dallo stesso Gieco, ho scoperto anche quella eseguita solo dall’autore in un luogo e occasione particolari lo scorso maggio: in Vaticano, alla presenza di Francesco, suo connazionale e anche lui di origini piemontesi. Un brano che piace molto al vecchio papa, che nel video vedo appesantito dall’ età e ancor più dai drammatici avvenimenti che stanno infiammando il mondo e davanti ai quali tutti ci sentiamo estremamente sconvolti e di fatto impotenti, in attesa che, chi può, prenda decisioni che restituiscano la Speranza sempre più andando affievolendosi, sopratutto degli innocenti terrorizzati e massacrati dai criminali e assassini bombardamenti.
Solo le pido a Dios
Sólo le pido a Dios que el dolor no me sea indiferente,que la reseca muerte no me encuentre vacío y solo sin haber hecho lo suficiente.
Sólo le pido a Dios que lo injusto no me sea indiferente, que no me abofeteen la otra mejilla después que una garra me arañó esta suerte.
Sólo le pido a Dios que la guerra no me sea indiferente, es un monstruo grande y pisa fuerte toda la pobre inocencia de la gente.
Sólo le pido a Dios que el engaño no me sea indiferente, si un traidor puede más que unos cuantos, que esos cuantos no lo olviden fácilmente.
Sólo le pido a Dios que el futuro no me sea indiferente, desahuciado está el que tiene que marchar a vivir una cultura diferente.
Sólo le pido a Dios, que la guerra no me sea indiferente, es un monstruo grande y pisa fuerte toda la pobre inocencia de la gente.
Solamente chiedo a Dio
Solamente chiedo a Dio che il dolore non mi sia indifferente, che la morte secca non mi trovi vuoto e solo, senza aver fatto abbastanza.
Solamente chiedo a Dio, che l’ingiustizia non mi sia indifferente che non mi schiaffeggino l’altra guancia dopo che un artiglio graffiò il mio destino.
Solamente chiedo a Dio che la guerra non mi sia indifferente. È un mostro grande e calpesta ferocemente l’ innocenza di tutta la povera gente.
Solamente chiedo a Dio che l’inganno non mi sia indifferente. Se un traditore può più che alcuni, che questi non lo dimentichino facilmente.
Solamente chiedo a Dio che il futuro non mi sia indifferente. Sfortunato è colui che deve andarsene a vivere una cultura diversa.
Solamente chiedo a Dio che la guerra non mi sia indifferente.È un mostro grande e calpesta ferocemente tutta la povera innocenza della gente.
In molti pomeriggi, per le strade del paese si sentiva il richiamo del fotografo ambulante con bretelle, bordino e l’ indispensabile strumento di lavoro a soffietto. Chi da dentro casa sentiva il grido Fotografiasgièèèè…! ed era interessato, indossava il vestito più bello e si preparava con la miglior posa possibile vicino al suoiannile.Molti altri si facevano immortalare in punti suggestivi di Sennori, sforzandosi d’imitare posizioni che s’iniziavano a vedere nelle copertine dei rotocalchi e, specialmente le giovinette, le espressioni facciali delle dive viste nei fotoromanzi. La volta successiva, se l’immagine era soddisfacente per il cliente, veniva dato al fotografo quanto dovuto. Sono in molti che ricordano ancora quel sorridente anziano che immortalava i momenti belli delle persone.
Nella foto, Gianuario Fara, la moglie Nicolina Piana, il primogenito Giorgio, Francoe Vannuccia. Tonio non era ancora venuto al mondo.
Gianuario venditore di olio in Gallura
Oltre che dedicare tempo alla coltivazione del grano e altri prodotti della terra in località Su Anzu, campagna ricevuta in eredità dal padre Antonio e mamma Pazzola, Gianuario faceva il venditore ambulante di olio, specialmente in Gallura, da dove rientrava ogni fine settimana. Partiva il lunedì di buon mattino con la Sita( Società Italiana Trasporti Automobilistici), nata dalla FIAT. Il bigliettaio apriva so cascionesee i vari ambulanti vi caricavano dentro la loro mercanzia. Quando la partenza avveniva di pomeriggio, il figlio più grande Giorgio lo aiutava a portare i vari bidoni alla fermata giù in piazza, dove rimaneva fin quando suo babbo, scendendo e salendo su per il Corso, non completava il trasporto di tutto ciò di cui necessitava per i giorni che doveva rimanere fuori paese. Curridicche a domo ! ,diceva poi al figlio e il bacio o l’abbraccio era sostituito da una ischabizzada a cabitao un’affettuosa pedatina nel didietro. Baci e abbracci non erano usuali in quei tempi. Mi dice Giorgio che nei pochi momenti in cui veniva preso sottobraccio, sentiva il grande affetto che forse il genitore non riusciva a manifestare in altri modi, e per lui era più che sufficiente.
Galline viaggianti e starnazzanti
Gianuario pernottava in una cameretta presa in affitto, e durante il giorno, cun sa besthula in coddhu, faceva il giro degli stazzi per vendere il rinomato prodotto degli oliveti romangini. Spesso i clienti pagavano con uova, formaggi e altri prodotti della terra che il venerdì seguente veniva riportato sempre in pullman, all’interno di sacchi di iuta o dentro quei bidoni di alluminio con la larga imboccatura usate dai pastori per il latte, dentro cui a volte metteva anche galline vive che non smettevano un attimo di starnazzare per tutta la durata del viaggio. Quando dalla piazzetta del Comune, all’ ora stabilità Giorgio vedeva il genitore arrivare, gli andava felice incontro per aiutarlo. I sennoresi che facevano tale mestiere erano in tanti. Acquistavano dai frantoi di Bainzu Maronzue de frade Seccheseche operavano in paese e se ne andavano in giro per la Sardegna a commerciare.
La moto Guzzi con “su cascione”
Gianuario aveva sposatoNicolina,da sempre santica, poco prima che partisse per diventare suora e grazie all’intercessione di una conoscenza comune. In eredità dal padre, Gianuario aveva ricevuto anche un piccolo gregge, ma non potendosene occupare, l’aveva affidato ad un pastore che lo ripagava ogni tanto con qualche agnello o capretto.
Dopo una decina d’anni, Gianuario e Nicolina decisero d’avviare una rivendita di frutta e verdura a Sassari, nella parte alta di via Napoli. Ad un certo punto Gianuario viene assunto per la costruzione dell’acquedotto di Sassari, dove non di rado rimaneva anche nei giorni festivi come guardiano. A volte portava con sé il figlio maggiore per godersi la partita di calcio nell’attiguo campo, dall’alto di un albero. Era riuscito a comprare di seconda mano anche una vecchia moto Guzzi con su cascione,con la quale saltuariamente continuava a vendere l’olio sennorese recandosi a Badesi, Trinità e altri paesi di Gaddhura. Nel tempo libero, babbo Gianuario portava l’intera famiglia in campagna per qualche lavoretto, come immarruzzare, cioè estirpare l’erbe infestanti con su marruzzu, e svolgere altri lavoretti. Quando ancora non possedeva la sua bella e mezzo scassata moto di cui andava fiero, Gianuario si recava in campagna seduto in groppa all’asino che si faceva prestare dal fratello Iuanne. Dopo averlo legato cun sa trobèa, lui curava la vigna e il frutteto.
Recuperare gli uccelli colpiti in cambio di qualche spicciolo
Un carattere tranquillo e poco severo quello che Giorgio ricorda di babbo Gianuario, salvo quella volta che si stava costruendo un muretto a secco in campagna. Vedendo la mamma che trasportava pedra minudacun su canisthreddhutenuto in equilibrio sulla testa cun su cabidile, il figlio aveva cercato d’imitarla, senonché percorrendo il piccolo sentiero inciampa, facendo cadere una pietra proprio sulla testa del fratellino Tonio ancora in fasce e seduto dentro sacoivuleddha. Sentendo le grida, i genitori si precipitano: babbo Gianuario si limita a fulminare con un severissimo sguardo l’incauto ragazzo, cosa ben peggiore di una sonora sussa, alla quale provvedette senza il minimo indugio mamma Nicolina.
Come sappiamo, l’ “educazione” dei figli a quei tempi ricadeva sopratutto sulle mamme, e noi altri figli di allora siamo in tanti a ricordare i fantasiosi e sopratutto dolorosi modi e mezzi a cui ricorrevano per dimostrarci il loro ….amore. A questo proposito, Giorgio ricorda quando da Genova venivano i cacciatori di tordi. Per i ragazzini della zona era l’occasione per guadagnarsi qualche spicciolo, facendo la parte dei cani e andando a recuperare gli uccelli colpiti là dove cadevano. Quando una sera tornò a casa tardi, mamma Nicolina, rimasta a lungo preoccupata nel non vedere il figlio rientrare alla solita ora, sfogò malamente l’ansia accumulata colpendolo e ricolpendolo sulla schiena con un carciofo. Ah, allora si che i genitori erano amorevoli e presenti!
Giorno di festa
Le giornate feriali erano solitamente scandite dal lavoro dei genitori, dalla scuola e dal gioco in strada per i figli. In casa Fara, anche la giornata festiva non era dissimile da quella di tante altre famiglie del paesino: la mattina gran lavaggio di indumenti e robbevarie nella larga gavagna, seguito dal bagnetto dei figlioli, prima di essere ben vestiti e mandati a chesgia. Seguiva la colazione con caffellatte o mezzuradu casalingo, per poi stare nella piazzetta attigua ad osservare i più grandi tentare piccole vincite al bighidibighidi, una sorta di gioco d’azzardo coi dadi.Per la Messa delle undici, oltre che trascinare dietro il marito, Nicolina si portava dietro anche la prole, che rimaneva a giocare nel piazzale di San Basilio, anche per non subire la loro comprensibile irrequietezza durante le lunghe e francamente noiose prediche di don Muroni.
Visita dei parenti
Abitando la famiglia Fara in via Margherita, appena dietro il vecchio Comune sostituito oggi dalla stazione dei carabinieri e nello stesso punto dove in seguito è nato il bar di Pibarone, risultava una strada di passaggio, per cui era immancabile la visita dei parenti all’uscita da Messa. Era questa l’occasione per toglier fuori la bottiglia di rosolio, solitamente ben custodita a chiave dai genitori in sa gridenza, che fungeva anche da dispensa. Nel frattempo veniva preparato il pranzo, che dopo esser andati via gli ospiti, veniva consumato non prima della recita della preghiera, intonata in piedi dalla mamma e a cui gli altri si univano. Al termine era sempre Nicolina che riordinava, mentre il marito si occupava di tenere a bada i figli che non smettevano un attimo di dargli mattana. La loro irrequietezza era irrefrenabile, specialmente nei pomeriggi estivi in cui si cercava di tenerli buoni a letto incutendo loro il timore di esser portati via da sa mama de su sole. Quando non era Gianuario ad andare in visita con appresso la propria rattatuglia,erano i parenti a venire ospitati durante le serate fresche delle domeniche estive.
Le conversazioni sul raccolto e su cose spicciole della vita erano rallegrate e stimolate dal buon vino prodotto a Baddhe Abisi, mentre i cuginetti scatenavano tutta la loro esuberanza infantile giocando per strada a tena tena, a so battoro cantonadoso, cua cua, lunamonta, sa pasa……
E poi la scuola
Come detto, quanto sinora riportato a raccontarmelo qualche tempo fa è stato il primo dei figli di Gianuario e Nicolina, Giorgio, che poi, oltre che essermi cognato, è anche mio compare. Nei suoi ricordi, uno spazio particolare occupa quello legato agli anni della scuola elementare, e in particolare al maestro Nino Armando e alla grande passione che questo uomo metteva nella sua professione.
Sempre in quegli anni le classi iniziavano ad essere miste. Nella scuola di Via Marconi, al piano di sotto vi era la “Refezione”, destinata agli alunni più poveri. Pur essendo un grande aiuto per le famiglie, capitava tuttavia che certune, vergognandosi di essere considerate bisognose, non vi mandavano i propri figli. C’è da dire anche che non sempre potevano andarci tutti, per lo spazio e probabilmente anche per la quantità di cibo disponibile, per cui giornalmente passava la bidella in classe per farne sapere il numero. Lui, il maestro Armando, ne aggiungeva anche il doppio. Nel rapporto con gli alunni, la severità era del tutto assente. Era appassionato del lavoro che svolgeva, e i ragazzi questo lo percepivano eccome, portandoli di conseguenza a prestare la massima attenzione durante le sue lezioni. Maestro Armando, con la calma e la grande premura per ciascun alunno e alunna, in un certo qual modo suppliva a quello che dovevano essere i padri reali dei suoi alunni, che il più delle volte, rientrando la sera stanchi per il duro lavoro del giorno, non erano in vena di tenerezze e neanche avevano la pazienza di stare coi propri figli, a giocare e ad ascoltarli.
In conclusione
Rileggendo parte del vissuto di questa famiglia – che a mio avviso può essere il prototipo di tutte le normalissime famiglie, specialmente di quelle che non hanno santi né in Paradiso né tantomeno sulla terra – mi viene da pensare ai grandi sacrifici affrontati in tempi non facili dai nostri genitori per farci crescere nel miglior modo possibile, e questo nonostante i possibili sbagli che possono aver compiuto. Anzi, più invecchio e guardo a ritroso, meglio riesco a capire che chi ha il compito di sostenere altri, nella crescita e in qualsiasi ambito del vivere umano, è soggetto a fare degli errori, io per primo. Ciò che potrebbe consolare, dopo la messa a fuoco e il riconoscerli, è l’ averli fatti senza averne piena consapevolezza e magari condizionati dai momenti duri che la vita non fa mancare a nessuno. A questo proposito, chi si considera senza “peccato”….. Da qui il grande senso di gratitudine che occorre avere nei loro confronti, sopratutto quando, col passare degli anni e in prossimità della Meta Ultima, li vediamo (e prima o poi noi stessi ci vedremo!) completamente dipendenti dalle premure e attenzioni altrui. Tutto qui, solo una breve e semplicissima riflessione fatta a voce alta che ho pensato di condividere. A ben vedere, una storia comune a tantissimi di noi non più giovanissimi questa raccontatami da mio cognato Giorgio, nati in tempi in cui le comunissime famiglie tiravano avanti unicamente grazie all’ infaticabile generosità, pazienza e dedizione dei genitori.
Dichiarazion del Comitato Pace e Cooperazione internazionale del Comune di Chieri
4 novembre. Da parte istituzionale la si vuole ricordare e celebrare come la “Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate”. Un chiaro messaggio che vuole giustificare l’utilità e l’importanza per la nostra difesa della guerra, anche se comporta il sacrificio di molte vite.
L’ anniversario di una guerra “vittoriosa” che ricorda una pagina tristissima della nostra storia, un tragico conflitto che costò al nostro paese un milione e duecentomila morti. “Un’ inutile strage” come affermò il pontefice di allora. Altre inutili stragi seguirono, dalla recente guerra Russo/Ucraina fino a quella di oggi che si è riaccesa in Israele. Tutto questo non fa che aumentare il rischio di un allargamento del conflitto in larga scala con possibili conseguenze catastrofiche per il pianeta.
Come ogni anno, da parte nostra dichiariamo che QUESTA GIORNATA PER NOI È UN GIORNO DI LUTTO, in cui non c’è proprio niente da festeggiare.
Di LUTTO, perché ancora quest’anno siamo nel bel mezzo di conflitti armati la cui area mondiale si allarga sempre di più.
Di LUTTO, perché piangiamo su tutte le vittime, civili e militari, che sono centinaia di migliaia a causa di tutti gli sporchi conflitti armati che insanguinano il mondo.
Di LUTTO, perché ci rendiamo conto che la guerra, con la conseguente condanna a morte, si fa in molti modi:
– con i combattimenti diretti, le cui vittime sono al 90% civili
– con l’iniqua distribuzione delle ricchezze e delle risorse a danno di intere popolazioni
– con le persecuzioni nei confronti di chi non accetta le dittature
– con i respingimenti dei migranti
– con il furto delle terre alle popolazioni che vi risiedono
– con gli sconvolgimenti climatici provocati dal “modello di sviluppo” economico imperante
– con le menzogne propagandate attraverso i mezzi di comunicazione di massa.
Noi oggi non abbiamo niente da celebrare, ma molto da deplorare.Continueremo con la nostra opera di denuncia, di testimonianza e di lotta nonviolenta contro la guerra, le guerre tutte. Perché, come diceva Gino Strada, siamo convinti “che la guerra non sia mai un modo per risolvere i problemi, ma un modo per ingrandirli”.
Bisogna trovare un altro modo, nonviolento, di risolvere i conflitti, buttando fuori la Guerra dalla Storia. Cominciando col non dare più spazio a celebrazioni militariste,
ma aumentando gli spazi
DI RIFLESSIONE
DI DISCUSSIONE
DI AZIONE CONCRETA PER DIRE DEFINITIVAMENTE NO ALLA GUERRA
questa sarà la mia ultima comunicazione ufficiale a Lei in qualità di Direttore dell’Ufficio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani di New York.
Scrivo in un momento di grande angoscia per il mondo, anche per molti dei nostri colleghi. Ancora una volta, stiamo assistendo a un genocidio che si sta svolgendo sotto i nostri occhi e l’Organizzazione che serviamo sembra impotente a fermarlo. Come persona che ha indagato sui diritti umani in Palestina fin dagli anni ’80, che ha vissuto a Gaza come consulente delle Nazioni Unite per i diritti umani negli anni ’90 e che ha svolto diverse missioni per i diritti umani nel Paese prima e dopo, questo mi coinvolge molto personalmente. Ho lavorato in questo Ufficio anche durante i genocidi contro i Tutsi, i musulmani bosniaci, gli Yazidi e i Rohingya. In ogni caso, quando la polvere si è posata sugli orrori perpetrati contro popolazioni civili indifese, è apparso dolorosamente chiaro che avevamo fallito nel nostro dovere di soddisfare gli imperativi di prevenzione delle atrocità di massa, di protezione dei vulnerabili e di denuncia delle responsabilità. E così è stato per le successive ondate di omicidi e persecuzioni contro i palestinesi durante l’intera vita delle Nazioni Unite.
Alto Commissario, stiamo fallendo di nuovo.
Come avvocato specializzato in diritti umani con oltre tre decenni di esperienza sul campo, so bene che il concetto di genocidio è stato spesso utilizzato abusivamente per scopi politici. Ma l’attuale massacro su larga scala del popolo palestinese, radicato in un’ideologia coloniale etno-nazionalista, in continuità con decenni di persecuzione ed epurazione sistematica, basata interamente sul loro status di arabi, e accompagnato da esplicite dichiarazioni d’intenti da parte dei leader del governo e dell’esercito israeliano, non lascia spazio a dubbi o discussioni. A Gaza, le case, le scuole, le chiese, le moschee e le istituzioni mediche dei civili sono state attaccate senza pietà, mentre migliaia di civili sono stati massacrati. In Cisgiordania, compresa Gerusalemme occupata, le case vengono confiscate e riassegnate in base alla razza e violenti pogrom dei coloni sono appoggiati da unità militari israeliane. In tutto il territorio regna l’apartheid.
Questo è un caso di genocidio da manuale. Il progetto coloniale europeo, etno-nazionalista e colonizzatore, in Palestina è entrato nella sua fase finale, verso la distruzione accelerata degli ultimi resti della vita indigena palestinese in Palestina. Inoltre, i governi degli Stati Uniti, del Regno Unito e di gran parte dell’Europa sono totalmente complici di questo orribile assalto. Non solo questi governi si rifiutano di adempiere ai loro obblighi di “garantire il rispetto” delle Convenzioni di Ginevra, ma di fatto stanno attivamente armando l’assalto, fornendo sostegno economico e di intelligence e dando copertura politica e diplomatica alle atrocità di Israele.
Allo stesso tempo, i media occidentali, sempre più succubi e filo-governativi violano apertamente l’articolo 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, disumanizzando continuamente i palestinesi per facilitare il genocidio, e trasmettendo propaganda di guerra e odio nazionale, razziale o religioso, di fatto incitando alla discriminazione, all’ostilità e alla violenza. Le società di social media con sede negli Stati Uniti sopprimono le voci dei difensori dei diritti umani e amplificano la propaganda pro-Israele. Le lobby israeliane e le GONGOS [pseudo ONG create o sponsorizzate dai governi per promuovere i loro interessi, ndt] molestano e diffamano i difensori dei diritti umani, e le università e i datori di lavoro occidentali collaborano con loro per punire chi osa alzare la propria voce contro le atrocità. Per questo genocidio, è necessario chiedere conto anche a loro, proprio come per radio Milles Collines in Ruanda.
In queste circostanze, la richiesta alla nostra organizzazione di un’azione giusta ed efficace è più grande che mai. Ma non abbiamo raccolto la sfida. Il potere protettivo del Consiglio di Sicurezza è stato nuovamente bloccato dall’intransigenza degli Stati Uniti, il Segretario Generale è sotto attacco per le proteste più blande e il nostro impegno per la difesa dei diritti umani è oggetto di un continuo attacco diffamatorio da parte di una rete organizzata di impunità online.
Le promesse illusorie e in gran parte insincere di Oslo hanno distolto per decenni l’Organizzazione dal suo dovere fondamentale di difendere il diritto internazionale, i diritti umani internazionali e la stessa Carta. Il mantra della “soluzione a due Stati” è diventato una barzelletta nei corridoi delle Nazioni Unite, sia per la sua assoluta impossibilità di fatto, sia per il suo totale fallimento nel rendere conto dei diritti umani inalienabili del popolo palestinese. Il cosiddetto “Quartetto” [gruppo creato nel 2002 a Madrid per favorire una soluzione pacifica al conflitto israelo-palestinese; comprende le Nazioni Unite, gli Stati Uniti, l’Unione europea e la Russia, ndt] non è diventato altro che una foglia di fico per l’inazione e per l’asservimento a uno status quo brutale. Il riferimento (scritto dagli Stati Uniti) agli “accordi tra le parti stesse” (al posto del diritto internazionale) è sempre stato un trasparente gioco di prestigio, progettato per rafforzare il potere di Israele sui diritti dei palestinesi occupati e diseredati.
Negli anni ’80 mi sono avvicinato a questa Organizzazione perché vi ho trovato un’istituzione basata su principi e norme, che si schierava decisamente dalla parte dei diritti umani, anche nei casi in cui i potenti Stati Uniti, Regno Unito ed Europa non erano dalla nostra parte. Mentre il mio governo, le sue istituzioni e gran parte dei media statunitensi continuavano a sostenere o giustificare l’apartheid sudafricana, l’oppressione israeliana e gli squadroni della morte centroamericani, l’ONU si schierava a favore dei popoli oppressi di quelle terre. Avevamo il diritto internazionale dalla nostra parte. Avevamo i diritti umani dalla nostra parte. Avevamo i principi dalla nostra parte. La nostra autorità era radicata nella nostra integrità. Ma ora non più.
Negli ultimi decenni, parti importanti delle Nazioni Unite si sono arrese al potere degli Stati Uniti e alla paura della lobby di Israele, abbandonando questi principi e ritirandosi dal diritto internazionale stesso. Abbiamo perso molto in questo abbandono, non da ultimo la nostra credibilità globale. Ma è il popolo palestinese ad aver subito le perdite maggiori a causa dei nostri fallimenti. È un’incredibile ironia storica che la Dichiarazione universale dei diritti umani sia stata adottata nello stesso anno in cui è stata perpetrata contro il popolo palestinese la Nakba [esodo forzato, ndt]. Mentre commemoriamo il 75° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, faremmo bene ad abbandonare il vecchio cliché secondo cui la Dichiarazione sarebbe nata dalle atrocità che l’hanno preceduta, e ad ammettere che è nata accanto a uno dei più atroci genocidi del XX secolo, quello della distruzione della Palestina. In un certo senso, i redattori promisero i diritti umani a tutti, tranne che al popolo palestinese. E ricordiamoci anche che le stesse Nazioni Unite hanno il peccato originale di aver contribuito a facilitare l’espropriazione del popolo palestinese, ratificando il progetto coloniale europeo che ha sequestrato la terra palestinese e l’ha consegnata ai coloni. Abbiamo molto da espiare.
Ma la via dell’espiazione è chiara. Abbiamo molto da imparare dalle posizioni di principio assunte nelle città di tutto il mondo negli ultimi giorni, quando masse di persone si sono schierate contro il genocidio, anche a rischio di percosse e arresti. I palestinesi e i loro alleati, i difensori dei diritti umani di ogni genere, le organizzazioni cristiane e musulmane e le voci ebraiche progressiste che dicono “non in nostro nome”, sono tutti in prima linea. Tutto ciò che dobbiamo fare è seguirli. Ieri, a pochi isolati da qui, la Grand Central Station di New York è stata completamente occupata da migliaia di ebrei, difensori dei diritti umani, che si sono schierati in solidarietà con il popolo palestinese e hanno chiesto la fine della tirannia israeliana (molti rischiando l’arresto). Così facendo, hanno eliminato in un attimo il punto di vista della propaganda hasbara israeliana (e vecchio tropo antisemita) secondo cui Israele rappresenta in qualche modo il popolo ebraico. Non è così. E, in quanto tale, Israele è l’unico responsabile dei suoi crimini. A questo proposito, è bene ribadire, nonostante le calunnie della lobby israeliana, che le critiche alle violazioni dei diritti umani di Israele non sono antisemite, così come le critiche alle violazioni saudite non sono islamofobe, le critiche alle violazioni del Myanmar non sono anti-buddiste, o le critiche alle violazioni indiane non sono anti-induiste. Quando cercano di metterci a tacere con le calunnie, dobbiamo alzare la voce, non abbassarla. Sono certo che converrà con me, Alto Commissario, che questo è il senso di dire la verità al potere.
Ma trovo anche speranza in quelle parti dell’ONU che si sono rifiutate di compromettere i principi dei diritti umani dell’Organizzazione, nonostante le enormi pressioni in tal senso. I nostri relatori speciali indipendenti, le commissioni d’inchiesta e gli esperti degli organi dei trattati, insieme alla maggior parte del nostro personale, hanno continuato a difendere i diritti umani del popolo palestinese, anche quando altre parti delle Nazioni Unite (anche ai livelli più alti) hanno vergognosamente chinato la testa al potere. In quanto custode delle norme e degli standard sui diritti umani, l’Alto Commissariato ha il particolare dovere di difenderli. Il nostro compito, a mio avviso, è quello di far sentire la nostra voce, dal Segretario generale all’ultima recluta delle Nazioni Unite, e orizzontalmente in tutto il sistema ONU, insistendo sul fatto che i diritti umani del popolo palestinese non sono oggetto di discussione, negoziazione o compromesso in nessun luogo sotto la bandiera blu.
Come dovrebbe essere, allora, una posizione basata sulle norme delle Nazioni Unite? Per cosa dovremmo lavorare se fossimo fedeli ai nostri ammonimenti retorici sui diritti umani e sull’uguaglianza per tutti, sulla responsabilità per i colpevoli, sulla riparazione per le vittime, sulla protezione dei vulnerabili e sulla responsabilizzazione dei titolari dei diritti, il tutto nell’ambito dello Stato di diritto? La risposta, a mio avviso, è semplice – se solo avremo la lucidità di vedere al di là delle cortine propagandistiche che distorcono la visione della giustizia a cui abbiamo prestato giuramento, il coraggio di abbandonare la paura e la deferenza nei confronti degli Stati potenti, e la volontà di alzare veramente la bandiera dei diritti umani e della pace. Certo, si tratta di un progetto a lungo termine e di una salita ripida. Ma dobbiamo iniziare ora o arrenderci a un orrore indicibile. Vedo dieci punti essenziali:
Azione legittima: in primo luogo, noi delle Nazioni Unite dobbiamo abbandonare il fallimentare (e in gran parte falso) paradigma di Oslo, la sua illusoria soluzione a due Stati, il suo impotente e complice Quartetto e la sua sottomissione del diritto internazionale ai dettami di una presunta convenienza politica. Le nostre posizioni devono basarsi in modo inequivocabile sui diritti umani e sul diritto internazionale.
Chiarezza di visione: dobbiamo smettere di fingere che si tratti semplicemente di un conflitto per la terra o la religione tra due parti in guerra e ammettere la realtà della situazione in cui uno Stato dal potere sproporzionato sta colonizzando, perseguitando ed espropriando una popolazione indigena sulla base della sua etnia.
Uno Stato unico basato sui diritti umani: dobbiamo sostenere l’istituzione di uno Stato unico, democratico e laico in tutta la Palestina storica, con pari diritti per cristiani, musulmani ed ebrei e, quindi, lo smantellamento del progetto coloniale profondamente razzista e la fine dell’apartheid in tutta la terra.
Lotta all’apartheid: dobbiamo reindirizzare tutti gli sforzi e le risorse delle Nazioni Unite alla lotta contro l’apartheid, proprio come abbiamo fatto per il Sudafrica negli anni ’70, ’80 e primi anni ’90.
Ritorno e risarcimento: dobbiamo riaffermare e insistere sul diritto al ritorno e al pieno risarcimento per tutti i palestinesi e le loro famiglie che attualmente vivono nei territori occupati, in Libano, Giordania, Siria e nella diaspora in tutto il mondo.
Verità e giustizia: dobbiamo chiedere un processo di giustizia transitoria, facendo pieno uso di decenni di indagini, inchieste e rapporti delle Nazioni Unite, per documentare la verità e garantire la responsabilità di tutti i colpevoli, il risarcimento di tutte le vittime e i rimedi per le ingiustizie documentate.
Protezione: dobbiamo fare pressioni per il dispiegamento di una forza di protezione delle Nazioni Unite dotata di risorse adeguate e di un forte mandato per proteggere i civili dal fiume al mare [dal fiume Giordano alla costa del Mediterraneo, ndt].
Disarmo: dobbiamo sostenere la rimozione e la distruzione delle massicce scorte di armi nucleari, chimiche e biologiche di Israele, per evitare che il conflitto porti alla distruzione totale della regione e, forse, anche oltre.
Mediazione: dobbiamo riconoscere che gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali non sono in realtà mediatori credibili, ma piuttosto parti effettive del conflitto, che sono complici di Israele nella violazione dei diritti dei palestinesi, e dobbiamo affrontarli come tali.
Solidarietà: dobbiamo spalancare le nostre porte (e le porte del Segretario Generale) alle legioni di difensori dei diritti umani palestinesi, israeliani, ebrei, musulmani e cristiani che sono solidali con il popolo palestinese e con i suoi diritti umani e fermare il flusso incontrollato di lobbisti israeliani negli uffici dei leader delle Nazioni Unite, dove sostengono la continuazione della guerra, della persecuzione, dell’apartheid e dell’impunità e diffamano i nostri difensori dei diritti umani per la loro difesa di principio dei diritti dei palestinesi.
Ci vorranno anni per raggiungere questi obiettivi, e le potenze occidentali ci combatteranno ad ogni passo, quindi dobbiamo essere saldi. Ora, anzitutto, dobbiamo lavorare per un cessate il fuoco immediato e la fine del lungo assedio su Gaza, opporci alla pulizia etnica di Gaza, Gerusalemme e Cisgiordania (e altrove), documentare l’assalto genocida a Gaza, contribuire a portare massicci aiuti umanitari e per la ricostruzione ai palestinesi, prenderci cura dei nostri colleghi traumatizzati e delle loro famiglie e lottare con tutte le forze per un approccio attento ai principi negli uffici politici delle Nazioni Unite.
Il fallimento dell’ONU in Palestina non è un motivo per ritirarsi. Piuttosto, dovrebbe darci il coraggio di abbandonare il paradigma fallimentare del passato e di abbracciare pienamente un percorso più basato sui principi. Come Alto Commissariato, uniamoci con coraggio e orgoglio al movimento anti-apartheid che sta crescendo in tutto il mondo, aggiungendo il nostro logo alla bandiera dell’uguaglianza e dei diritti umani per il popolo palestinese. Il mondo ci guarda. Tutti noi dovremo rendere conto della nostra posizione in questo momento cruciale della storia. Schieriamoci dalla parte della giustizia.
La ringrazio, Alto Commissario Volker, per aver ascoltato questo ultimo appello dalla mia scrivania. Tra pochi giorni lascerò l’Ufficio per l’ultima volta, dopo oltre tre decenni di servizio. Ma non esitate a contattarmi se potrò esservi utile in futuro.
28 ottobre 2023
* Discorso di Luigi Ciotti a Torino durante la fiaccolata per la pace dei giorni scorsi
La mia conoscenza di Antonio si limita al sentito dire, sopratutto da mia moglie Giovanna, abitante da giovane nella via parallela de Su Monte a Sennori dove anche lui ha vissuto. Alcune volte, nel periodo precedente al decesso, avevo avuto modo di salutarlo vedendolo seduto sull’uscio del bar gestito da Gian Mario, unico suo figlio maschio insieme a Francesca, Angela ed Ersilia. Il desiderio di sentirlo raccontare di lui ricordo era stato forte, ma le circostanze non lo permisero. Cercando in Rete sue notizie, tra le altre cose vengo a sapere che la mamma, rimasta prematuramente vedova, praticava l’attività di prefica, attittadora in sardo, in passato figura di rilievo in occasione di funerali. Un ruolo a quanto pare importante nell’Italia meridionale e insulare della Cultura Contadina, finalizzato a dare ai familiari del defunto un aiuto per elaborare il lungo lutto che li attendeva. Questo quando la morte avveniva per cause naturali o per malattia. Nei casi di morte violenta o addirittura di omicidio invece, le usuali lodi cantate da queste donne, di solito pensate nel momento, potevano trasformarsi in richiesta più o meno esplicita affinché il più temerario della famiglia pensasse a vendicare il torto subìto.
Per conoscere i vari aspetti di questa partecipazione al lutto “a pagamento”, rimando al seguente link
Alla luce di questa particolare attività svolta dalla madre, niente di strano che Antonio abbia appreso da lei l’arte dell’improvvisazione, dato più che le sue esibizioni avvenivano non solo durante le sagre paesane, con temi da sviluppare appresi poco prima alternandosi senza interruzioni in una sorta di gara con gli altri “poeti”, ma anche durante il funerale di qualche amico e conoscente, come per esempio nel lontano maggio 1977 per la morte di mio suocero Giuseppino Stella, deceduto a causa di un tumore come qualche anno prima era avvenuto per la prima moglie di Pazzola, Angela Paschino. La rima spontanea che in quel momento di dolore pronunciò, nella sua semplicità aveva sortito l’effetto di consolare una vedova che aveva davanti la prospettiva di aiutare a crescere due figli ancora piccolissimi e due figlie. Grazie Antonio. Di cuore.
Per capire la struttura del cantare in poesia, praticata non solo in Sardegna
Oltre proclamare versi improvvisati, Antonio Pazzola ha creato diverse composizioni scritte, 83 delle quali sono raccolte nel volume “In bidda” curato nel 1993 dall’amministrazione comunale di allora e nato per volontà proprio di Pazzola, che si era occupato anche di mettere insieme testi poetici chiesti personalmente ad altri autori suoi compaesani, tra i quali Antonio Stefano Urgeghe, Giuliano Branca, Giovanni Agostino Pazzola, Leonardo Loriga….
Si, proprio una degnissima persona Antonio, e con validissima motivazione nella targhetta indicante l’Auditorium del Centro Culturale di Sennori è inciso il suo nome.
Tra quelli contenuti nel già citato volume, riporto il testo in cui vengono nominati parte dei quartieri del paese collinare romangino che, come indicato al termine, si affaccia sul golfo dell’ Asinara.
Ero poco più che ventenne quando iniziai
di Mauro Piredda
Antoni Pazzola, grandu poeta improvisadore de Sardigna. Nàschidu in Sènnaru su 5 de làmpadas de su 1929 at comintzadu a cantare subra su palcu de sa bidda sua, su 22 de trìulas de su 1950, pro sa festa de Santu Luisi. In su 1952 at connotu Bernardu Zizi in Orosei e dae tando at cantadu in totus sas pratzas de Sardigna. Poeta famadu ma finas òmine de sa comunidade. S’impinnu polìticu fiat s’àtera passione sua. Est istadu finas cussigeri e assessore comunale.
Lo chèrgio ammentare ponende inoghe sas rispostas a sas preguntas chi aia fatu pro sa tesi mia de su 2005, a dolu mannu iscrita in italianu.
– Come ha esordito?
Ero in convalescenza, avevo poco più di vent’anni, c’era la festa in onore di San Luigi qui in paese e dovevano cantare in tre ma mancava Tuccone. Mi scelsero e così ho iniziato sfidando gente come Budrone e Seu. Tutti erano meravigliati: “essi a bider itt’hat de narrer su pische”.Un trionfo; facendo colletta mi diedero un mucchio di soldi, 17mila lire, che per allora erano una bella cifra, soprattutto per me che venivo da una delle famiglie più povere di Sennori.
– Qual è stato il suo allenamento?
Il mio allenamento è stato intenso. Cantavo un po’ dappertutto, dove mi capitava, e non ero certo il solo.
– Si scriveva e si parlava l’italiano?
No, solo sardo e raramente scritto. Inoltre avevo molti problemi a cantare persino in sardo perché qui a Sennori non si usa il femminile: le ragazze sono sos feminos e non sas feminas, solo per farti un esempio. Immaginati quanti problemi per fare un’ottava corretta!
– Quanto peso si dà alla presenza di una gara tra poeti estemporanei all’interno di una festa eterogenea come può essere quelle in onora di un santo?
Se ne dava molta di più in passato; non c’erano tutti questi trambusti che ci sono oggi, e in più c’è da dire che in passato la gente era molto più amabile. Oggi c’è preoccupazione e quando andiamo per le feste vediamo che c’è sempre meno gente. A volte ce n’è molta, a volte poca, ma esperta, a volte poca e basta. Dipende anche da dove si canta: se vai da Sassari verso l’interno gli appassionati li trovi, ma in questa zona proprio no. Prima sos sussincos venivano a Sennori come noi andavamo da loro per vedere le gare; familias intreas con le sedie portate da casa, era bellissimo. È capitata non molto tempo fa una gara ad Alghero e sono venute a vederci molte persone, ma, sai com’è, li ci sono molti di Villanova, il paese di Piras. In più oggi trovi le gare lo stesso giorno di altre attrazioni e proprio nel tuo paese. Nel 1990 ho cantato mentre nell’altra piazza si esibivano i Tazenda, proprio quando stavano iniziando la loro carriera. Sembra che queste manifestazioni si facciano solo per accontentare noi vecchi.
– Quali sono oggi, rispetto a ieri, le principali motivazioni per cui si assiste ad una gara?
Quando cantavamo era abitudine della gente considerarci semidei, sos semideos. Eravamo i più preparati. Secondo alcune dicerie noi non potevamo neanche andare in tribunale perché con la nostra favella potevamo confondere il presidente. Si diceva che eravamo banditi dai tribunali. Comunque è vero chi tenimus sa bibrioteca pius manna, ma è anche vero che la nostra non era una preparazione nel dettaglio, ma un’infarinatura generale. Possiamo parlare di tutto, ma mai andando fino in fondo. Tant’è vero che deo non ischìa itte diaulu fit custu semideu. Però, rispetto alla generalità della popolazione eravamo preparatissimi. Ti faccio un esempio. Una volta io cantavo la spada e il mio rivale la penna, quando all’improvviso citai il Rubicone convinto che si trattasse di una pecora gigantesca! Oggi sfido a trovare uno studente che non conosca il Rubicone, ma voi giovani non venite alle gare, o per lo meno siete in pochi. A la cumprendes sa differenzia tra deris e oe?
– Trattandosi di una gara tra improvvisatori, quali sono i temi maggiormente affrontati e come vengono scelti?
In passato ci davano più temi storici che se ce li danno oggi rischiamo di venire meno all’improvvisazione dal momento che li abbiamo ripetuti parecchie volte. Spada e croce, Roma e Atene erano dei classici. oggi lavoro, emigrazione, problemi di attualità purchè siano in antitesi. Poi come saprai c’è il secondo tema che ha la funzione di divertire la gente. E li ce ne diciamo di tutti i colori!
– Trattandosi di una forma di comunicazione, qual è il tipo di messaggio che viene lanciato?
Mah! Cosa vuoi che ti dica…. Io non ho mai lanciato nessun messaggio. Noi siamo interpreti. Dobbiamo immedesimarci nel tema che sta scritto sul bigliettino che ci capita tra le mani. Se mi capitava il PCI né veniva fuori quasi un comizio, se mi capitava la DC dovevo vendere bene quei valori. Anche controvoglia.
Una vecchiaia faticosissima quella di Andrea, affetto com’era da diverse patologie che gli condizionavano fortemente la vita quotidiana. Mentalmente, invece, un entusiasmo nella ricerca e nell’approfondimento che non lo ha mai abbandonato. Fin quando la vista e la mano ferma gliel’hanno consentito, lui continuava meticolosamente a scrivere appunti e a conservare ritagli, con l’obiettivo di dare alle stampe la continuazione dei suoi Ammenti:
“O Piè, un piazzèri ti dummandu. Mi dubaristhi và una fotografia di li trabagli ghi sò fendi i la boccia di la Zimbonia e zischamminni un’althra cu lu cabbu di una giaddhina….”.
Per i lavori di copertura della cupola di San Pantaleo, la cosa mi sembrava comprensibile, dal momento che sulla parrocchiale storica di Sorso nel 2000 ha pubblicato un volume, affidandone a vari artisti la raffigurazione pittorica, ciascuna commentata da lui, appassionato ed esperto d’arte. La motivazione della seconda foto mi rimarrà purtroppo sconosciuta. Anche se non immediatamente, l’avevo accontentato, ma le cose che ci dicevamo quando lo andavo a trovare erano talmente tante, che mi è sempre sfuggito di chiedergli il motivo di questa foto della gallina.
In altro spazio ho avuto modo di parlare del mio grande senso di riconoscenza nei suoi confronti per il lavoro certosino che aveva fatto nel raccontare la Sorso dei suoi ricordi attraverso due volumi, e il farlo attraverso lo scritto non dev’essere stata sicuramente cosa facile. Mi ricordo alcune critiche sentite da concittadini riguardo alla scrittura di certi termini, al tradurre in lettere certi suoni che abbiamo solo nella nostra particolare parlata. Certo, una grammatica in tal senso è ancora tutta da definire, ma intanto lui, con l’aiuto del suo amico Peppino Manzoni, ci aveva provato, e a mio avviso con ottimi risultati, considerando quanto la cosa non sia per niente agevole.
Qualche tempo fa, riscrivendo per la pagina FB ” Banca della Memoria” alcune registrazioni effettuate con persone anziane, avevo fatto la scelta di scrivere le parole come si pronunciano, al fine di migliorarne la lettura, come si fa col romanesco o col napoletano, ma sicuramente anche questo è discutibile. Aspettiamo che persone titolate diano indicazioni autorevoli a cui attenerci. L’importante è che la parlata usata nelle case dove siamo cresciuti e con la quale abbiamo comunicato coi nostri genitori e fratelli, non venga soppiantata miseramente e definitivamente dalla sempre più insistente e a volte alquanto approssimativa terminologia di inglesismi vari. Dalle nostre parti, ma non solo, è da molto ormai che quasi ci si vergogna di parlare in dialetto, oppure, soprattutto le nuove generazioni, non lo si conosce proprio, e se si tenta di parlarlo, il risultato è alquanto miserevole. Nel contempo, si tende ad usare (e sfoggiare!) termini di derivazione anglosassone. Il conoscere lingue estere è sicuramente cosa positiva, ci mancherebbe, specialmente per permettere la comunicazione con persone che sempre in numero crescente – nonostante la tendenza al “respingimento” legalizzato dai governanti che si stanno susseguendo in Italia da troppo tempo – stanno arrivando da luoghi lontani, ma il voler ad ogni costo dimenticare, se non addirittura rinnegare quello che siamo stati, è senz’ombra di dubbio segno di debolezza.
A Sorso questo rischio di perdita di identità è sempre più evidente, probabilmente perché, ripeto, ci si vergogna di quello che son state le generazioni passate e si fa di tutto per allontanarsene. Ci son paesetti in Sardegna orgogliosissimi delle loro tradizioni, e per esempio attraverso un piccolo museo, ne perpetuano la conoscenza. Da noi sembra che si faccia tutto il contrario. I politici che si susseguono sono prevalentemente impegnati a mantenere il più a lungo possibile il piccolo potere raggiunto, producendo più fumo che arrosto e infischiandosene (perché incapaci?) di operare seriamente per il progresso culturale dei propri amministrati. Ma anche da parte della cittadinanza sembra che non ci sia molto interesse per accrescere il senso di appartenenza e curare la propria storia. La mancanza assoluta di associazionismo che operi in tal senso ne è la prova. Adesso le cause di quest’immobilismo culturale vengono ricondotte all’infinita crisi economica, ma a mio discutibilissimo parere, è perché non vi è interesse, e l’interesse non vi è forse perché non c’è vero apprezzamento per la propria storia e la propria cultura. Se ciò fosse vero, sarebbe un grosso e pericoloso rischio, specialmente per le generazioni future. Duole dire queste cose, ma i fatti, o meglio i non fatti, lo confermerebbero. Il praticare il proprio dialetto, parlata o lingua locale, chiamatela come volete, oppure il volersene allontanare il più possibile, è spia evidente di questa volontà o meno di recuperare l’identità perduta.
In questo senso, per me il carissimo e compianto Andrea continuerà ad essere un punto di riferimento.
Parlavo di colonizzazione culturale, e la festa di “Halloween” ne è un chiaro esempio. Nel testo che segue, a modo suo Andrea racconta cosa in questi giorni avveniva dalle nostre parti.
A conclusione, quanto Nicola Tanda scrisse di Andrea nel secondo volume “Ammenti” del compianto e indimenticabile prof di disegno
Lu cabbu di lu morthu
di Andrea Pilo
Da una zucca tumbariga, chi li babbi o li fraddeddhi l’arrigabani da campagna, ni tagliabani da la parthi di sobbra un pezzu tuttu paru chi sivia pà fa lu tappu. Pianu pianu ischuminzabani a imbiudalla cabendinni la mazza e lu semini chi no zi gittabani ma li lababani e li puniani ad asciuttà innantu a la preddabaina di li baischoni pa magnassiri più a tardhu. Candu l’abiani beddha puridda, la trabagliabani.
La prima cosa chi faziani erani l’occi tondi tondi, lu nasu inveci era un’isthampa a trianguru, la bocca cu li denti a serrachinu era manna ma isthrinta. Finiddu chisthu appentu, furabani da casa un muzziggoni d’isthiarica chi puniani in una isthamparedda in fondu a la zucca e l’azzindiani. A lu buggiu paria avveru un cabbu di morthu. Tandu allegri e dizendi parauri impriasthaddi pa fa a timì li femmini vecci e li pizzinneddhi, girabani pa l’isthrinti senza luzi, ma era poggu e nuddha in dugna loggu, finza a candu caschunu no s’’arrabiaba e li pissighia. Fuggiani a “pedi mei aggiuddami”, e umbè di bosthi currendi pa no intrà in manu e buschassi una mazzadda da truncalli l’ossi, pirdhiani puru lu cabbu di lu morthu.
Traduzione
Da una zucca grande gialla, che i padri o i fratelli più grandi portavano da campagna, tagliavano dalla parte superiore, un pezzo che finito il lavoro serviva da tappo. Piano piano cominciavano a svuotarla ma senza buttare i semi che li lavavano e li mettevano ad asciugare sull’ardesia delle finestre per poterli mangiare più tardi. Quando l’avevano pulita bene internamente la lavoravano. Per primo facevano gli occhi che dovevano essere rotondi, il naso invece era a forma di triangolo, la bocca seghettata ma larga e stretta. Finito di lavorarla prendevano da casa, di nascosto, un pezzo di candela, la mettevano in un piccolo buco ricavato nel fondo della zucca e l’accendevano. Al buio sembrava veramente una testa di morto o meglio un teschio. Allora contenti e felici e dicendo strafalcioni per mettere paura alle donne vecchie ed ai bambini piccoli giravano per i vicoli senza luce, ma era molto poca ovunque, fino a quando qualcuno non perdeva la pazienza, si adirava e l’inseguiva. Scappavano a gambe levate e speso correndo perdevano anche la testa di morto.
Andrea, amico mio da una vita
di Nicola Tanda
Con Andrea ho cominciato a giocare a pallone, come lui ho collezionato “Il calcio illustrato” con i disegni di Silva,, anni luce prima della televisione. Con lui ho attraversato il mare per Roma sulla motonave “L’ Abbazia” della Tirrenia. Siamo cresciuti insieme con i coetanei, quelli di Sant’Anna, di lu Cabu Cossu, di Corthi Alessandria, di La Fiorentina, di La Bicocca, di Cunventu, di Pian di Gesgia, di Santa Crozi, di Lu Pultheddhu e di Cabuzzini. Eravamo uno più uno: ci conoscevamo tutti. Gli amici delle elementari erano amici per sempre. Insieme andavamo al catechismo (duttrina) e al cinema, facevamo sport, partecipavamo alle feste. Una comunità di ragazzi dentro la comunità dei grandi. Quel sodalizio, costituito nelle elementari, veniva confermato durante i viaggi in treno. Lo prendevamo quasi tutti, quelli che proseguivano gli studi superiori e quelli che lavoravano a Sassari. Andrea è stato sempre libero e autonomo nei suoi giudizi, fermo nella sua fede religiosa, artistica, sportiva, testimone della civiltà di un paese. Paese allora tranquillo, di esempio per livello culturale e morale. Paese di grandi e teatrali litigate, per strada, non di odi e vendette. Un universo generalmente ispirato dalla fede e dalla saggezza, e perciò dal rispetto e dalla tolleranza.
I bambini non sanno come si gioca alla pace. Nessuno ha insegnato loro come si fa. Giocano alla guerra perché hanno sempre visto i grandi fare questo, ed è bellissimo “fare pum”. Ma i bambini non sanno che la guerra non è un gioco, incomincia quando si vuole tutto per sé, o non si riesce a vedere la bellezza nemmeno nei disegni degli altri bambini.
Non sanno ancora, i bambini, che se a giocare sono i grandi la battaglia non finisce in cucina a fare merenda. L’esito è solo fame, freddo e paura. Andrebbe riletta questa poesia, meditarla in queste ore aiuta a decifrare la cronaca delle sofferenze inflitte ai bambini di Gaza, a gestire la fatica nel guardare i volti dei piccoli israeliani ostaggi di Hamas, a ricordare i figli ucraini deportati in Russia, a pensare ai minori affidati alla sorte delle onde nella disperata ricerca di un futuro.l
Concede un “oltre”, la poesia, che non è rimozione, ma il tentativo di scongiurare l’assuefazione a un male senza senso, fissando un ordine morale di responsabilità; come solo la preghiera può affrontare la grande e terribile domanda su cosa c’entrino i bambini con la sofferenza, accettando che una vera risposta non esiste al di fuori della sofferenza stessa.
C’è sempre una guerra nel mondo, un conflitto i cui effetti diventano insopportabili quando le vittime sono i più innocenti tra gli innocenti.
Avviene da secoli, ma oggi è ancora meno comprensibile: non siamo nell’era ipertecnologica? Quella dei droni che consegnano gli ordini sulla soglia di casa o dell’intelligenza artificiale che scrive romanzi, delle auto che si guidano da sole e dei robot che sostituiranno i e le badanti? Abbiamo la tecnologia e le risorse per mandare i turisti su Marte, ma siamo ancora qui a fare i titoli su Re Erode, e le stragi dei bambini.
Il mondo in pace guarda con ansia a tutto questo, prova pietà, piange in silenzio e prega. Probabilmente non ci si chiede abbastanza quanto di questo lusso derivi da un equilibrio di forze generato dall’ingiustizia. E non si coglie che questa pace può essere frutto di un armistizio, il patto di un mondo che la sofferenza dei bambini crede di poterla eliminare non facendoli più nascere.
Le guerre nascono sempre da un problema di risorse, si tratti di terra o di acqua, di energia o di popolazione. La “Guerra mondiale a pezzi” è misura anche della crisi climatica e delle tensioni demografiche, la prova di un’umanità che ha dimostrato di saper giocare alla guerra, ma non riesce e non vuole “inventare” e poi insegnare ai suoi figli, ai fratelli e alle sorelle di oggi e di domani, il grande gioco del futuro e della pace. Quello in cui «tutti i bambini / sono tuoi amici».
Un gruppo di giovani sussinchi allegri ed evidentemente molto indaffarati in qualcosa che sicuramente fanno con molto entusiasmo questi presenti nella foto.
In primissimo piano a sinistra, quasi come spettatore divertito di tanta esuberante gaiezza, riconosco Cicitu. Uno dei tanti “personaggi” di Sorso. Impedito nel parlare fin dalla nascita e con difficoltà nella deambulazione, le sue uscite di casa, sopratutto in estate, erano esclusivamente per recarsi nel piazzale della chiesa parrocchiale di Santu Pantareu, in compagnia dei tanti vecchi che sedevano nei freschi gradini di marmo.La sua principale “opera sociale” era aprire tutte le processioni ed accompagnare tutti i funerali. Ogni tanto me lo scorrazzavo in giro in macchina ed era un grande divertimento reciproco. Quando il fratello Angelino non fu più in grado di occuparsene, fu costretto a farlo ospitare nella Casa per Anziani di San Pietro, a Sassari. Qualche volta lo andavo a prendere anche lì, e l’allegria che manifestava quando lo portavo al mare era incontenibile. Sempre piacevole il ricordo del mio e nostro carissimo Cicitu.
Tornando alla foto, vengo a sapere che risale al 1971, quando a Sorso fu avviata un’iniziativa per appoggiare una Missione in terra d’Africa. Venne chiamata “Operazione Bangui”, dal nome della città del centro Africa dove operava un confratello di padre Marco, l’allora Guardiano del Convento francescano sussincu.
Angelo Demontis, giovane diacono sassarese che a Sorso era stato mandato per prepararsi al sacerdozio, si fece portavoce delle necessità di quella lontana terra. Al tempo erano state organizzate tre serate per sensibilizzare ai temi legati al Terzo Mondo, e vista la massiccia partecipazione, era stata l’occasione per proporre di formare un gruppo di giovani per impegnarsi in questo ambito. Inizialmente il parroco don Salvatore Ferrandu era scettico, ma la pronta adesione dei giovani, arrivati ad essere un centinaio circa, l’aveva fatto ricredere. Come vice vi era già don Giuseppe Gabriele Piras, ma lui era sempre preso dai suoi simpatici “angioletti del Paradiso” e le cose “terrene” li lasciava volentieri agli altri.
Il fuocherello iniziale acceso dal diacono è diventato in poco tempo un grande falò. Si dà inizio così ad un’intensa attività di raccolta di tutto ciò che poteva essere rivenduto. Numerose famiglie accolsero “generosamente” l’invito a farsi svuotare cantine e soffitte di tutto ciò che a loro non serviva più. Gli indumenti ancora utilizzabili venivano portati nei locali della parrocchia sassarese di San Paolo, dove degli addetti si occupavano della distribuzione a chi si trovava nel bisogno, mentre quelli inservibili venivano mandati al macero, dietro congruo compenso. Ugualmente avveniva coi metalli e con quant’altro potesse essere rivenduto. Per ottimizzare l’organizzazione, era stato costituito un Consiglio Direttivo. Seppur l’iniziativa era partita in ambito religioso, molti si fecero coinvolgere per normali motivazioni umanitarie, o semplicemente per il bisogno giovanile di fare qualcosa di bello e di buono insieme ad altri. In quei tempi capitava, oggi non so: mancanza di validi trascinatori, meglio ancora esempi e “motivatori” validi da seguire, e anche idee forti per cui spendersi? É possibile.
Tra gli altri, vi erano Augusto Spissu, Mario e Lucio Fiorentino, Giovanni Congiatu, le sorelle Petretto e Mura e le sorelle Madeddu, Gavina Cappai e Vanna Spanu, Albina e Veronica Sanna, Nicoletta Pintori, oltre il prof Sabino Melillo e tanti altri ancora. In quei tempi, oltre che veder sfrecciare a bordo della motoretta “Malagutti” con le due borse ai fianchi il giovane diacono, ogni tanto si sentiva il rombo del vecchio “Leoncino”, carico fino all’inverosimile di tutto,compresi i vocianti ragazzi che riuscivano a prender posto. Luoghi di raccolta erano la chiesa di Santa Croce e il cortile dei frati cappuccini. Il lavoro di smistamento era svolto con massimo impegno e sempre con allegria. In quest’atmosfera, si son poste le radici per far nascere forti amicizie, alcune delle quali il tempo trascorso non è riuscito a scalfire.
La raccolta di tre mesi fruttò un milione di lire, somma chi contribuì sicuramente a riempire molti stomaci, a curare molte malattie di giovani africani e permettere loro di studiare.
L’assegno fu consegnato direttamente al missionario francescano in una giornata di festa organizzata per l’occasione. Per un certo periodo gli incontri “formativi”, animati sempre da Angelo Demontis, che riusciva ad infondere nei ragazzi motivazioni forti per perseverare, sono andati avanti nelle serate domenicali. Diventato prete, oltre altri incarichi ebbe anche quello di parroco a Sassari nella chiesa di San Giovanni Bosco, ospitata allora in due capannoni nel periferico quartiere di “Monte Lepre” e oggi diventata una bellissima chiesa con locali spaziosi per la vita comunitaria. Oggi Angelo, pensionato, vive in un appartamento nei pressi di Piazza D’ Armi a Sassari e credo che volentieri sarebbe lieto di ricevere visite da parte di chi lo ha conosciuto.
Si ringrazia per la collaborazione
Augusto Spissu
don Angelo Demontis
Edoardo Alzu
Aristide Lai
Salvatore Delogu
Qualora ci fosse qualcuno/a che vuole arricchire questa pagina raccontando la propria testimonianza, mi faccia sapere
Articolo a cura del “Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera” di Viterbo
Eugenio Melandri, un maestro, un amico e un compagno di lotte indimenticabile.
Missionario saveriano, promotore di innumerevoli iniziative di pace e di solidarietà, parlamentare europeo, è stata una delle figure più luminose della nonviolenza nel nostro paese.
Religioso saveriano, giornalista e direttore della rivista “Missione oggi”, parlamentare europeo tra il 1989 e il 1994, è stato costantemente impegnato nei movimenti di pace, di solidarietà antirazzisti, per la nonviolenza; fondamentale promotore di numerose iniziative contro la guerra, contro le armi, contro il razzismo e l’oppressione sociale, è stato anche tra i principali animatori della campagna di solidarietà “Chiama l’Africa”.
Anche nel ricordo e alla scuola di Eugenio Melandri continuiamo nella LOTTA CONTRO LA GUERRA E TUTTE LE UCCISIONI.
Anche nel ricordo e alla scuola di Eugenio Melandri continuiamo nella LOTTA CONTRO IL RAZZISMO E TUTTE LE PERSECUZIONI.
Anche nel ricordo e alla scuola di Eugenio Melandri continuiamo nella LOTTA CONTRO IL MASCHILISMO E TUTTE LE OPPRESSIONI.
Anche nel ricordo e alla scuola di Eugenio Melandri continuiamo nella LOTTA CONTRO TUTTE LE VIOLENZE.
Anche nel ricordo e alla scuola di Eugenio Melandri continuiamo nell’ IMPEGNO NONVIOLENTO IN DIFESA DEI DIRITTI UMANI DI TUTTI, IN DIFESA DELL’ INTERO MONDO VIVENTE.
Anche nel ricordo e alla scuola di Eugenio Melandri continuiamo nell’ IMPEGNO NONVIOLENTO PER LA REALIZZAZIONE DI UNA SOCIETÀ MONDIALE DI PERSONE LIBERE ED EGUALI IN DIRITTI, responsabili e solidali, in cui a ciascuna persona sia dato secondo le sue capacità ed a ciascuna persona sia dato secondo i suoi bisogni.
SOCCORRERE ACCOGLIERE ASSISTERE
ogni persona bisognosa di aiuto.
Salvare le vite è il primo dovere.
Condividere il bene ed i beni.
Oppresse e oppressi di tutti i paesi, unitevi nella lotta per la comune liberazione e per la salvezza dell’intera umanità e dell’intero mondo vivente.
Solo la nonviolenza contrasta la violenza.
Solo facendo il bene si può sconfiggere il male.
Solo la nonviolenza può salvare l’umanita’ dalla catastrofe.
Sii tu l’umanità come dovrebbe essere.
GRAZIE EUGENIO, AMICO DEGLI ULTIMI
di Alex Zanotelli
Sapevo che Eugenio era stato colpito da un tumore, ma non mi aspettavo che la situazione fosse così grave. Lui invece mi aveva telefonato un paio di mesi prima: «Alex, sono stato riammesso al sacerdozio. Tra poco celebrerò la prima messa e lo vorrei fare sulla tomba di don Tonino Bello ad Alessano». Non ce l’ha fatta a recarsi in Puglia ad Alessano.
Padre Eugenio Melandri era stato sospeso a divinis nel 1991, dopo che si era candidato al Parlamento europeo nel 1989 con Democrazia Proletaria. È una lunga amicizia quella che mi ha legato a Eugenio. Un’amicizia che risale a quando ero direttore di Nigrizia e lui dirigeva Missione Oggi, il mensile dei missionari saveriani, e mi ricordo la sua straordinaria capacità di presentare le tante sfaccettature della missione.
Sono state poi le circostanze a farci lavorare assieme. Nel gennaio 1985 Nigrizia pubblicò l’editoriale “Il volto italiano della fame africana”, incentrato sul fatto che le nostre forze politiche di allora più che agli affamati guardavano al proprio tornaconto. Ci furono dure reazioni e Eugenio ci diede tutto il suo appoggio.
Dalla fame ci siamo poi mossi a trattare il tema delle armi. Anzi Eugenio era stato prima di me coinvolto da quel problema e aveva maturato una certa esperienza. Quando all’inizio del 1986 fu pubblicato il documento dei cattolici del triveneto Beati i costruttori di pace, che attaccava le politiche del ministro della difesa Giovanni Spadolini il quale contrattaccò sulle pagine de L’Espresso, ci furono reazioni pesanti da parte del Vaticano, mentre i vescovi del Triveneto ci appoggiavano. Nigrizia, Missione Oggi decisero di rispondere a Spadolini con un editoriale comune del febbraio 1986 in cui si metteva in evidenza il rapporto tra spese per gli armamenti e la fame nel sud del mondo. Abbiamo preparato insieme quell’editoriale intitolato “Date a Cesare…”. Sono stati momenti duri ma anche molto belli, momenti che hanno rinsaldato la nostra amicizia.
Pur sospeso a divinis, Melandri ha continuato a lavorare per l’Africa, prima come deputato europeo e poi collaborando con varie realtà. L’ultima volta che gli ho parlato, l’ho sentito molto sereno e mi aveva detto che l’arcivescovo di Bologna, il cardinale Matteo Zuppi, aveva deciso di incardinarlo nel clero petroniano.
Voglio ricordarlo come un uomo che ha dato tanto. Voglio ricordarlo come un uomo che ha avuto la capacità di connettere fede e passione sociale e politica. Ci ha detto che non si può vivere la fede se non la si traduce in scelte politiche. Eugenio, ti sono grato per la tua amicizia e per il bene che hai fatto.