Un 25 aprile di rinnovata Resistenza
di Tomaso Montanari
Giorno dopo giorno, la matrice fascista del partito di maggioranza relativa e della cultura politica della presidente del Consiglio diventa più chiara. Perché sempre meno dissimulabile: ma anche sempre meno dissimulata, via via che la permanenza al potere costruisce sicurezza, e senso di impunità.
Sono profondamente persuaso che, dopo un eventuale approvazione della riforma costituzionale, Meloni e i suoi getterebbero progressivamente la maschera, facendoci svegliare in una situazione ungherese. Di lì in poi, nessuno è oggi in grado di prevedere cosa succederebbe.
Questo 25 aprile 2024 appare dunque rivolto al futuro almeno quanto lo è al passato. È un 25 aprile di rinnovata resistenza, innanzitutto sul piano intellettuale e culturale.
A questo servono egregiamente due libri recenti che connettono, come in un tramando generazionale, due figure di intellettuali antifascisti.
Il primo è di LUCA CASAROTTI, giurista universitario: un libro urgente, scritto meravigliosamente e venato di amara ironia. Urgente perché se la seconda carica dello Stato, il cui secondo nome è Benito, dice serissimo che la Costituzione non è antifascista, è davvero necessario spiegare cosa sia l’antifascismo: così spiegando anche perché chi non riesce ad aderirvi lo fa per una sola ragione, e cioè per una intramontabile affezione al suo contrario.
Casarotti non si dedica all’anti-antifascismo di chi è oggi al potere: che non ha bisogno di analisi, ma solo di un buon udito e di onestà intellettuale. Si occupa invece di quella paludosa zona grigia che – in nome di una caricatura del liberalismo, di un anticomunismo viscerale, di un programmatico disimpegno, della tutela dello stato delle cose – da anni scredita la Resistenza, ne contesta il ruolo di fondamento della Repubblica, nega un diritto di agibilità politica attuale all’antifascismo e difende il diritto dei fascisti di dirsi fascisti (per sempre invece negato dalla Costituzione).
Casarotti analizza, con grande finezza, gli scritti di più o meno fortunati esponenti di quella zona grigia, a partire da quelli del professor Ernesto Galli della Loggia, la cui «fascinazione ultima per il patriottismo di Giorgia Meloni è un esito di impeccabile logica», perché «il punto di caduta di tutta la sua critica all’antifascismo» è che esso «non va accolto come un patto di mutuo riconoscimento – esteriore quanto si vuole – tra forze pure in reciproca competizione, ma va rigettato perché rappresenta il lasciapassare per il comunismo nell’Italia democratica».
L’antidoto proposto da Casarotti a questa retorica ormai mainstream è la capacità di tenere in tensione il discorso pubblico di oggi con una conoscenza diffusa della storia: «L’inquinamento del discorso pubblico si misura dal livello di riduzione della storia a mito. Nazismo, Liberazione, Resistenza sono luoghi retorici a cui spesso attingono le propagande, in cerca d’una esasperazione dell’emotività: restituire alla Resistenza la sua materialità storica, insieme di nessi causali e dunque processo pluridecennale, è il modo di sottrarla agli usi propagandistici che di volta in volta se ne vogliono fare».
Ma che rapporto c’è tra la ricerca storica e la coscienza di massa nelle nostre società democratiche? Viene in mente la terribile profezia di Johan Huizinga nel 1929: «Una scienza storica che si appoggia esclusivamente su un’associazione esoterica di eruditi non è sicura; deve invece affondare le sue radici in una cultura storica posseduta da tutte le persone civili».
In un intreccio commovente, accanto al libro di uno studioso trentacinquenne che riflette sul nostro rapporto con la storia, compare quello di uno studioso che ci ha lasciato a novantanove anni, quattro mesi fa: GASTONE COTTINO, partigiano protagonista della Liberazione di Torino, anche lui giurista, accademico dei Lincei.
Avendo combattuto per riconquistarsela, Cottino non temeva di usarla, la sua libertà: «La presidente del Consiglio e il suo partito – scrive – sono gli eredi diretti del fascismo di ieri. Lo sono per esplicite rivendicazioni, per i simboli a cui fanno riferimento, per la cultura che esprimono, per il linguaggio che usano, per le immagini del passato che portano con sé. Non ingannino le prese di distanza di maniera né l’inevitabile condanna delle leggi razziali, che avvengono in assenza di una lettura seria e approfondita del fascismo nei suoi fondamenti e nelle sue pratiche: di quel fascismo che è stato la stella polare del Movimento sociale e che continua a esserlo nella fiamma del simbolo di Fratelli d’Italia. E non ingannino neppure le diverse modalità con cui il fascismo di oggi si presenta rispetto a quello di ieri, anch’esse inevitabili, dato il mutare dei tempi».
Come in un ideale passaggio di testimone, Luca si pone il problema del rapporto col passato, Gastone di quello con il futuro.
Scrive quest’ultimo: «Non basta guardare al passato. Bisogna guardare anche al presente. Un antifascismo vero deve estendere il suo impegno a realizzare una società opposta a quella che il nuovo fascismo – in continuità con il vecchio – ci propone: una società in cui si persegua la partecipazione e non il culto del capo, in cui si metta al centro il pubblico e non gli interessi privati, che concentri i suoi sforzi sulla salute e sull’istruzione, che persegua l’uguaglianza e condizioni di vita accettabili per tutti e tutte “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, come vuole l’articolo 3 della Costituzione». Che è poi il più urgente augurio per questo 25 aprile, così terribilmente decisivo.