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Posizione di Hans Küng sul fine vita

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di Hans Küng

 

«Sostenendo strenuamente la responsabilità personale nella morte, lei mette in pericolo tutta la grande opera della sua vita». È più o meno così che si sono espressi molti amici e lettori dopo la pubblicazione del terzo volume delle mie memorie, Erlebte Menschlichkeit (“Umanità vissuta”), nell’ottobre del 2014. Prendo molto sul serio le obiezioni di questo tipo, ma preferirei che nella memoria dei posteri il mio ricordo non fosse legato soprattutto al tema dell’eutanasia. In fin dei conti, la mia posizione nei confronti della morte si può giudicare correttamente solo se si ha almeno una vaga idea del mio interesse costante per argomenti fondamentali come la questione di Dio, l’essere cristiani, la vita eterna, la Chiesa, l’ecumenismo, le religioni mondiali, l’etica mondiale eccetera.

Continuo a professare la prima delle quattro “norme immutabili” dell’etica mondiale, quella sul “dovere di una cultura del rispetto per ogni vita”, proclamata dal Parlamento delle religioni mondiali a Chicago nel 1993: «Dalle grandi tradizioni religiose ed etiche dell’umanità apprendiamo la norma: Non uccidere. O in forma positiva: Rispetta ogni vita. Riflettiamo, dunque, di nuovo sulle conseguenze di questa antichissima norma: ogni uomo ha il diritto alla vita, all’integrità fisica e al libero sviluppo della personalità, nella misura in cui non lede i diritti di altri. Nessun uomo ha il diritto di tormentare fisicamente e psichicamente, di ferire o addirittura uccidere un altro uomo». Tuttavia, proprio perché «la persona umana è infinitamente preziosa e deve essere assolutamente protetta», e questo sino alla fine, occorre riflettere con attenzione sul significato di queste parole nell’epoca della medicina tecnologicamente avanzata, che è in grado di provocare la morte in modo perlopiù indolore ma, in molti casi, anche di protrarla in misura considerevole.

Qui vorrei affrontare questa problematica in tutta franchezza, senza deludere nessuno dei tanti che nel corso dei decenni sono stati, per certi versi, ispirati dalle mie tesi. D’altro canto, ora ricevo adesioni e conferme da persone religiose e non che mi sono grate per aver avuto il coraggio di trattare con la competenza e l’onestà di un teologo cristiano, anzi cattolico, la questione dell’eutanasia.

Nella vita di tutti i giorni, l’individuo può provare la piccola felicità di un istante di soddisfazione, per esempio quella data da una parola gentile, un gesto cordiale o il ringraziamento per una buona azione. A volte può anche conoscere la grande felicità di un’esperienza momentanea esaltante, come il trasporto della musica, il contatto travolgente con la natura o l’estasi dell’amore. C’è solo una cosa che l’uomo non è in grado di fare: prolungare il buonumore. La supplica che Faust rivolge al momento del massimo gaudio – «Fermati, sei così bello!» – non è pronunciata per caso e resta inascoltata.

All’uomo, tuttavia, anziché una felicità perpetua, sembrerebbe possibile un’altra cosa: una serenità di fondo stabile che gli impedisca di perdere la speranza, persino nelle situazioni disperate, e che alimenti la sua fiducia. In altre parole, accettare, in linea di massima, la vita così com’è, ma senza rassegnarsi a ogni cosa. Una serenità di fondo consente pertanto di vivere in armonia, in pace con se stessi. Mi domando allora: un simile atteggiamento non si può conservare anche di fronte alla fragilità e alla caducità umane, fino alla morte?

L’ ars moriendi, l’“arte di morire”, è un argomento che mi affascina sin dagli anni Cinquanta, quando mio fratello Georg soffrì per mesi di un tumore inguaribile al cervello, per poi morire a causa di un accumulo d’acqua nei polmoni. Si è imposta ancora di più alla mia attenzione da quando, a partire dal 2005 circa, il mio caro collega e amico Walter Jens ha iniziato, nonostante le migliori cure, a vegetare nella nebbia della demenza, fino a spegnersi nel 2013. Queste esperienze hanno rafforzato la mia convinzione: non voglio morire così! Allo stesso tempo, tuttavia, mi hanno dimostrato quanto sia difficile cogliere il momento giusto per una morte affidata alla propria responsabilità.

L’intenzione di non protrarre a tempo indeterminato la mia esistenza terrena è un caposaldo della mia arte del vivere e parte integrante della mia fede nella vita eterna. Quando arriva il momento, ho il diritto, qualora ne sia ancora in grado, di scegliere con la mia responsabilità quando e come morire. Se mi venisse concesso, vorrei spegnermi in modo consapevole e dire addio ai miei cari con dignità. Per me, morire felici non significa morire senza malinconia né dolore, bensì andarsene consensualmente, accompagnati da una profonda soddisfazione e dalla pace interiore. Del resto, è questo il significato della parola greca euthanasia , entrata in molte lingue moderne, ma storpiata vergognosamente dai nazisti: “morte felice”, “buona”, “giusta”, “lieve”, “bella”.

Un autentico Requiescat in pace («Riposi in pace»), insomma. Dopo aver sistemato tutto ciò che andava sistemato, con gratitudine e con una preghiera fiduciosa. Per me, questo atteggiamento si fonda in ultima analisi sulla speranza di una vita eterna che è il compimento definitivo dell’esistenza in un’altra dimensione della pace e dell’armonia, dell’amore durevole e della felicità permanente. È questa la mia idea del morire felici, che trae ispirazione dalla Bibbia.

Ciò dovrebbe bastare a chiarire un concetto: questa eutanasia non ha nulla a che vedere con un “auto-assassinio” arbitrario ed empio, pianificato per provocare l’autorità ecclesiastica, come mi accusano alcuni sia sui media sia con lettere personali. Evidentemente, però, certi rappresentanti della “dottrina ecclesiastica”, da cui la mia concezione si dissocia, non hanno ancora capito che anche la nostra visione dell’inizio e della fine della vita umana si trova al centro di un mutamento di paradigma epocale, che non si può penetrare e dominare con l’immaginario e la terminologia della teologia medievale né con quelli della teologia ortodosso-protestante. Oggi è necessario prendere in considerazione il notevole prolungamento della vita consentito dai progressi, prima inimmaginabili, della medicina moderna e dell’igiene, ma bisogna tenere conto anche delle idee successive, che sottolineano i limiti di una medicina basata su argomenti e criteri esclusivi delle scienze naturali e della tecnica. È aumentata la percezione della necessità di dare un fondamento etico a una medicina globale che tuteli l’umanità del paziente. Anche nella Chiesa cattolica esiste, sin dall’insediamento di papa Francesco, la speranza di una maggiore franchezza e di un aiuto caritatevole in questioni che, è risaputo, sono assai complesse. Per il pontefice, il cristianesimo non è un’astratta ideologia dottrinaria, bensì una via che si impara a conoscere percorrendola.

 

Stralciato da “Morire felici?” di Hans Küng (Rizzoli)

 

“la Repubblica” del 25 febbraio 2015

In ricordo di zia Giovanna

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di Giovanna Stella

 

 

Cara zia Giovanna,

è già oltre un mese che hai intrapreso il viaggio verso l’infinito. Desidero manifestarti la mia gratitudine, anche a nome di mia madre, la tua sorella che ti ha voluto tanto bene. Ti assicuro che la tua perdita ha creato in lei un grande vuoto. Ogni giorno rivolge a te e agli altri fratelli un pensiero particolare. Per me sei stata una zia forte,determinata e intelligente, oltre ad avere una creatività da vera artista. Con le tue meravigliose mani hai saputo creare cesti di ogni misura e di vari colori. Come un pittore che usa la tavolozza per esternare la sua vita interiore,tu con l’intreccio di fili colorati manifestavi ciò che custodivi nell’intimo del tuo cuore e della tua mente. Quello che non riuscivi a dire con le parole lo rendevi manifesto attraverso intrecci colorati. I tuoi lavori erano sicuramente espressione di un anelito di gioia e di libertà. Erano anche richiamo alla vita semplice e al voler mettere in rilievo la bellezza e la nobiltà del creare attraverso le proprie mani.

L’intreccio probabilmente era l’espressione dei sentimenti che danzano continuamente nella nostra esistenza,spesso adagiati in un cantuccio del nostro essere, i colori massima espressione della varietà delle emozioni. A volte prevalgono contrasti di nero e bianco che esprimono le contraddizioni della nostra vita, ma ugualmente prendono forma e divengono anch’essi capolavori.

Cara zia Giovanna, tu hai hai saputo comunicare a modo tuo la bellezza della vita, ma anche la sua asprezza. Spesso racchiudevi una malinconia che raramente mettevi in luce. Sei vissuta all’ombra e la tua inquietudine ti ha caratterizzato fino alla fine. Hai saputo contenere nello scrigno dei tuoi sentimenti il dolore che la vita inevitabilmente dà. La tua chiusura. che con il passare del tempo aumentava sempre più imprigionando i tuoi sentimenti più nobili, a volte buttava fuori rabbia e dolore. La tua sofferenza fisica ti ha inchiodata e in qualche modo ti ha anche isolata dal resto del mondo. Era dolce il tuo sguardo e allo stesso tempo sfuggevole, eppure riuscivi ad intercettare raggi ed il tuo ingegno li trasformava in opere d’arte.

I tuoi bellissimi capolavori allietano ancora i vicini ma anche persone che abitano luoghi lontani. Ogni tuo cesto racconta fatica e voglia di vivere, ma la tua vera ricchezza l’hai svelata a pochi,così come la tua generosità d’animo. Molti l’hanno capita ma pochi hanno saputo mostrarti gratitudine e apprezzamento. La tua severità era sopratutto rivolta a te stessa, troppo esigente e scrupolosa fino al punto che soffrivi in silenzio e sapevi dignitosamente andare avanti con il tuo compagno di viaggio qual’era il dolore.

Viene di rassomigliarti ad una farfalla, ma ripiegata su se stessa. Una bella farfalla variopinta alla quale l’estrema fragilità ha impedito di volare per raggiungere la libertà tanto desiderata. In questi ultimi anni della tua vita non solo non hai aperto le ali, ma sei rientrata nel tuo antico bozzolo,incapace di reagire alla vita. Vivevi lentamente e stancamente, forse adirata con la vita ma sopratutto con te stessa per non essere riuscita ad aprirti alla vita stessa.

Nonostante i tentativi, mi viene da pensare che non lasciavi fluire verso di te l’amore che gli altri provavano. Col tempo ti eri costruita una corazza emotiva sempre più spessa che impediva agli altri di raggiungerti. Hai avuto vicino un marito e dei figli che ti hanno amata fino all’ultimo.

I tuoi figli che tu adoravi dal profondo del tuo cuore e che consideravi doni. Quanta sofferenza patita nel non riuscire a comunicare la speranza nella vita. Tuttavia, hai comunicato loro la voglia di lottare e la lotta fa sperare. La tua vita è stata sempre una lotta, con battaglie vinte e altre perse .

Mi confidavi spesso le tue inquietudini, i tuoi limiti che avresti voluto superare,la tua incapacità di manifestarti per quello che eri realmente. Io mi sentivo onorata della fiducia che riponevi in me. Mi sono sempre sentita amata da te,anche quando mi davi le dritte ed eri severa. Avresti voluto urlare la tua voglia di vivere in pienezza, avresti voluto urlare l’amore per i tuoi figli ma lo nascondevi gelosamente nel tuo cuore. Tutti e quattro erano per te preziosi e li custodivi dentro di te.

Ora sono convinta che hai finalmente aperto le ali e voli felice, libera. Tutti i segreti ti sono stati svelati, il Mistero ti è apparso come Amore. Ora le tue paure sono state dissolte così come le tue esagerate angosce. Hai incontrato tuo padre che hai perso quando tu ti affacciavi alla vita. Ora ti sei riconciliata per il tuo affetto mancato e sicuramente hai manifestato a Dio il tuo disappunto per averti privato dell’affetto di tuo padre quando eri in fasce,ma sono convinta che ora hai capito e che nell’abbraccio divino ti sei sentita accolta e perdonata e di conseguenza hai perdonato. Ti piaceva ballare e ora mi piace pensarti mentre balli leggera, priva ormai del tuo corpo che tanto ti faceva soffrire. Ora hai scoperto il vero senso della vita, il tuo respiro è lieve e sorridi a tutti. Persino dentro quel pezzo di legno freddo e lucido parevi sorriderci,sembrava che il tuo volto voleva invitarci a vivere la vita in modo più leggero come non hai fatto tu. E’ come se c’invitassi a comunicarci i veri sentimenti come non sei riuscita a fare tu. Il tuo volto, la tua vita, la tua morte sembrano volerci dire che ci hai amato e ci amerai per tutta l’eternità. Non è mai troppo tardi per riprendere in mano la nostra vita e tu che ti sei spostata solo un po’ più in là, ora puoi finalmente e liberamente gioire, comunicare a noi in un modo tutto nuovo quanto è bella la vita,anche dopo che ci addormentiamo per risvegliarci amati per sempre.

 

Grazie zia Giovanna per tutto quello che tu sei stata.

Grazie per avermi fatto capire che la vita di tutti non è vana.

Grazie perchè continuerai a camminare con noi silenziosa e discreta .

 

                                                        Giovanna, sa fizza de Maria Peppa

 

 

 

Ragionando su immigrazione e dintorni

di Stojanovic Vjislav
La situazione attuale in Italia e lo stato d’animo che essa suscita rimettono, ancora una volta, all’ordine del giorno la questione del razzismo. E mi riferisco non soltanto agli episodi sempre meno occasionali di violenza razzista, ma al clima diffuso di paura e di intolleranza xenofoba che aleggia nel paese. Ciò che oggi viene definito “razzismo”, definizione che richiederebbe non pochi chiarimenti, rappresenta il più drammatico fra i conflitti che oppongono gruppi umani, ma, soprattutto, quello il cui obiettivo risulta essere il più nefasto. In questo fenomeno sono coinvolti una serie di “nuclei ideologici” talmente radicali – e radicati – della psicologia dell’uomo medio occidentale, che conducono tutti gli sforzi diretti a contrastarlo a cadere nel vuoto e che, senza riuscire in nessun modo a sradicarne le basi, suscitano il pericolo di odi implacabili, di conflitti inutili, di violenze senza limiti. Se non facciamo uno sforzo serio di analisi, tra reazioni emozionali dei cittadini e decreti di espulsione per “motivi imperativi di pubblica sicurezza”, il fuoco del razzismo non farà che alimentarsi.
Prima di tutto è necessario fare il bilancio delle tradizioni in cui abbiamo vissuto fino a questo momento. L’Italia, terra di emigranti per eccellenza, a differenza di altri Stati europei, non era considerata – e probabilmente non era – un paese a rischio xenofobo. Ma è anche vero che, fino a questo momento, non era ancora stata meta dei flussi migratori di massa che caratterizzano il pianeta globale. Non si tratta più di pacifica e generosa convivenza con singoli individui o piccoli gruppi di immigrati, bensì di accettare e recepire – e perciò inglobare nel tessuto sociale – intere comunità di esuli di diverse etnie, religioni e culture. L’ampliarsi dei flussi migratori, la diffusa presenza dello “straniero”, il quotidiano contatto con il “diverso”, con chi cioè non è riconoscibile nei propri schemi culturali, sociali e religiosi, ha introdotto nel paese non un’altra concezione, bensì una diversa “atmosfera morale”. Sia ben chiaro che questo nuovo clima xenofobo non è stato mai veramente identificato e riconosciuto né dalle analisi teoriche o politiche più diffuse, né dai mass-media, né tanto meno dagli stessi cittadini. Sembra addirittura che nessuno quasi si accorgesse che si trattava di un clima xenofobo. Ma il fatto è che, invece di condannare la xenofobia in quanto razzista, si è continuato a condannare il razzismo in quanto fonte di xenofobia, riducendo così il razzismo a un fenomeno di estremismo politico.

Il grande errore in cui cadono quasi tutte le analisi riguardanti il razzismo è di considerare il razzismo come un episodio di estremismo politico, mentre è, prima di tutto, il segno di un grave mutamento del clima politico-sociale di un paese. Il più grave di tutti. Il fenomeno del rafforzamento della destra “estrema” rispecchia gli umori di una società ossessionata dall’insicurezza e dalla paura. La sua forza d’urto si fonda sulla diffusione di una sorta di “etno-populismo” che si afferma nel clima diffuso di “paura”, guadagnando consensi sulle inquietudini della gente prodotte dall’impatto con un mondo globalizzato e senza più frontiere. E addebita al fenomeno dell’immigrazione la causa principale di disoccupazione e di criminalità, pescando nel torbido dei motivi reali di insicurezza prodotti dalla crisi dell’economia e del mondo del lavoro. Poco importa che si tratti di una reazione di “difesa” o di una reazione “preventiva”: il rischio xenofobo non può essere sottovalutato o ridotto a una forma di estremismo. Tutte queste condizioni hanno poi creato negli ambienti politici, di destra e di sinistra, una corrente di opinione più o meno esplicitamente favorevole all’assunzione di politiche di “controllo”, se non “repressive”, dell’immigrazione. La politica “repressiva” è già da anni (almeno dalla legge Bossi-Fini) improntata alla negazione di alcuni diritti fondamentali per gli immigrati, ma potrebbe facilmente inasprirsi. Alcuni invocano l’espulsione degli immigrati senza reddito, altri una serie di provvedimenti espulsivi per cause di ordine pubblico, altri, infine, ancora numerosi, rimangono “solidali”, ma per forza di abitudine, più che per qualsiasi altra ragione. Non si potrebbe immaginare una confusione maggiore. Tante incertezze possono sorprendere se si pensa che si tratta di un fenomeno che, a causa di tutte le conseguenze morali che comporta, dovrebbe essere al centro del dibattito politico e costituirne l’espressione caratteristica.

Il recente fenomeno xenofobo dell’Italia riporta a fenomeni simili che hanno caratterizzato la storia politica e sociale di vari paesi europei ad inizio millennio. Si potrebbe sostenere che il XXI secolo sia nato all’insegna del razzismo. Basti pensare al terremoto politico avvenuto in Francia quando, alle non lontane elezioni presidenziali del 2002, i due principali candidati, il socialista Jospin e il candidato della destra moderata Chirac, furono quasi sorpassati dal clamoroso successo del leader di estrema destra Jean-Marie Le Pen, che costrinse il presidente uscente Chirac a far appello all’elettorato di sinistra per non essere sorpassato al ballottaggio. Questo fenomeno era tanto più inquietante se si considerava il gran numero di voti ottenuti dal Front National nelle periferie delle grandi aree urbane, in quelle che un tempo erano state le roccaforti storiche del movimento operaio. È nello scenario delle squallide retrovie urbane della deindustralizzazione, delle fabbriche che chiudevano, della crisi economica, della disoccupazione, delle nuove sacche di povertà che l’insicurezza, la paura dell’altro, il disagio sociale e individuale prendevano piede. Ed insieme ad esse il partito di Le Pen. Nel frattempo, fenomeni simili dilagavano nelle periferie di altre grandi città europee. In Danimarca, in Olanda, in Norvegia, nel Belgio, in Germania e in Austria si assisteva ad un fenomeno simile di rafforzamento dei partiti della nuova destra radicale, xenofoba e razzista. Tanto che, a pochi mesi dallo “scampato” pericolo-Le Pen in Francia con la vittoria di Chirac al ballottaggio, in Olanda vinse le elezioni il partito di Pim Fortuyn (assassinato subito dopo il voto) leader dell’estrema destra populista. Ancora una volta la paura del “diverso”, il timore di perdere identità e tradizioni, la sensazione di un’Europa trasformata in “terra di conquista” di immigrati e “islamici” prevalevano sulle ragioni della solidarietà e del bene comune.

Più di recente (autunno 2007) il fenomeno della riorganizzazione dei gruppi della destra estrema ricompare sulla scena politica di diversi paesi dell’Unione Europea. In Svizzera il vincitore delle ultime elezioni legislative è il partito di Cristoph Blocher, l’Unione democratica di centro. Il suo manifesto rappresenta tre pecore bianche che cacciano a calci una pecora nera. In Spagna sono oltre venti le formazioni della ultraderecha con più di quindicimila aderenti. Si ispirano non soltanto alla dittatura franchista, ma all’odio per gli immigrati e al razzismo, causando ovunque incidenti e aggressioni. Ma il volto più orribile della nuova ondata neofascista rivive sulle rive del Danubio, in Ungheria. Il partito di Gabor Vona, Jobbik Magyarorszagert Moozgalom (Movimento per un’Ungheria migliore), che raccoglie il 2,2 per cento dei voti, ha fondato la Magyar Garda (Guardia nazionale), una vera e propria milizia paramilitare, vestita di divise nere ed addestrata all’uso delle armi da fuoco. Tutto questo avviene in un paese democratico, membro dell’Ue e della Nato.

Le nuove forme di aggregazione dei gruppi della destra radicale sono uno dei fenomeni caratteristici della nostra ambigua epoca. I loro membri sono dei signori animati dalle migliori intenzioni, pieni di aspirazioni e di nuovi ideali; nemici degli immigrati, degli islamici, delle forze dell’ordine, dei governi moderati di destra e di sinistra, dello Stato e delle istituzioni democratiche. Tuttavia, quando possibile, non rinunciano ad assumere funzioni di governo locale e centrale (Lega nord). Ma questa contraddizione non stupisce affatto qualora si seguano attentamente le loro campagne elettorali. Ciò che colpisce più di tutto è il tono profetico e perentorio dei loro manifesti “anti-stranieri” (o “anti-meridionali” o “anti-tutto”) del resto inevitabile quando ci si sente designati a salvare il mondo civile degli “onesti cittadini” dalle barbare orde di immigrati. Sfortunatamente un simile tono è del tutto incompatibile con una vera onestà intellettuale dell’analisi e ribadisce soltanto la sproporzione che esiste tra le loro poche sommarie idee e la realtà.

Non si può parlare del razzismo in generale se non in modo astratto. Il razzismo moderno differisce sostanzialmente da tutto ciò che con questo nome si intendeva nel passato. Tutta la vita economica contemporanea è orientata verso la discriminazione e lo sfruttamento di intere popolazioni. Il razzismo non fa che riprodurre, ad un livello più subdolo, i rapporti sociali ed economici che costituiscono la struttura stessa dell’economia globale. Le società transnazionali, sostanzialmente indipendenti dagli Stati-nazione, muovono produzioni e capitali secondo criteri esclusivamente “liberisti” (di profitto) e impongono, col ricatto della delocalizzazione e del trasferimento di risorse, politiche sociali a loro favorevoli. Ciò è accaduto a partire dalla metà Settanta nei paesi più “poveri” ma ricchi di materie prime (tra le quali la “mano d’opera” a basso costo) dell’America Latina, dell’Africa e di parte dell’Asia. La cosiddetta “lotta al terrorismo” è stata poi, nei paesi occidentali, un ottimo strumento di propaganda per mantenere in condizioni di quasi assoluta subalternità – arrivando anche al neoschiavismo – gli immigrati. Così, il problema dell’immigrazione – problema umano, di uomini “concreti”, costretti dalla povertà estrema o da dittature feroci ad emigrare -, viene ridotto ad un problema “interno” di “ordine pubblico”. Non si tratta di considerazioni sentimentali, né di un generico rispetto per la dignità di vita di altri esseri umani; si tratta di un rilievo assai semplice: il razzismo, e l’emarginazione che esso comporta, è la forma più radicale di oppressione. E l’ipocrita considerazione che le nostre economie necessitano di mano d’opera immigrata – quindi a basso costo – non giustifica mediazioni populiste. I diritti umani e civili o sono universali o non sono.

Il nodo “xenofobia-razzismo” non può quindi essere compreso fino in fondo senza collegarlo strettamente alla globalizzazione. Un punto cruciale è la mancata percezione (indotta) delle cause fondamentali dell’emigrazione di massa. Lo stesso nodo non può essere disgiunto dalle politiche neoliberiste imposte ai paesi poveri per favorire le transnazionali e lo sfruttamento (occidentale) delle materie prime. Ciò ha prodotto, e ancora produce, inevitabilmente, la progressiva perdita di autonomia economica e alimentare dei paesi più poveri (a causa dell’imposizione di politiche agricole intensive, finalizzate all’esportazione), la concentrazione di redditi nelle mani di pochi potenti legati alle società transnazionali ed, infine, i conflitti armati per accaparrarsi le materie prime. In sostanza, la causa prima dell’emigrazione di massa è l’Occidente stesso, che crea “sottosviluppo” per alimentare il suo “sviluppo”, ma non vuole “pagarne le conseguenze”, anzi, vuole che certe condizioni rimangano tali. Il “razzismo” che è alla base di ciò che sta accadendo è in fondo lo stesso di un secolo o due o quattro secoli fa: non è più colonialismo e imperialismo, basati sugli Stati-nazione, ma “globalizzazione”, basata sulle transnazionali che usano gli Stati-nazione per i loro fini.

Un altro aspetto importante è il legame strettissimo tra neoliberisimo e regimi totalitari. Non è un caso, e non è a caso, che adesso il “paradiso” delle transnazionali sia la Cina. In Cina, il processo che ha portato alla situazione attuale, è iniziato a partire dagli anni Ottanta, quando il governo cinese, per uscire da una situazione di relativa arretratezza (a quei tempi l’economia cinese rappresentava l’1 per cento dell’economia mondiale), mise in atto, progressivamente, una serie di misure e di leggi finalizzate ad abbracciare l’economia di mercato nel senso liberista più ortodosso. Tutto questo senza introdurre alcun cambiamento nell’ordinamento politico, anzi, confermando la struttura di potere autoritario e centralizzata (instaurata ai tempi di Mao) e giustificandola con l’esigenza di rendere lo sviluppo economico omogeneo e orientato verso finalità collettive, al riparo dalle tensioni sociali. In tale modo la Cina faceva proprie le regole che governano l’economia capitalista sotto l’egida del regime comunista. Di fatto, una sorta di ossimoro rispetto ai canoni del marxismo-leninismo professati dalla nomenklatura cinese. Il termine “socialismo di mercato” è stato creato per definire il singolare connubio tra un granitico regime comunista e un’incipiente economia capitalista. In questo modo la Cina ha innescato un processo di sviluppo scandito da tassi di crescita eccezionali (un tasso annuo di aumento del PIL mai inferiore al 9 per cento). Il che è stato possibile prima di tutto sfruttando un’immensa platea di mano d’opera a basso costo, ma anche utilizzando logiche di mercato spregiudicate. Ancora oggi la Cina continua a perseguire la strada del neocapitalismo condotto all’eccesso, affiancato da una politica interna totalitaria e centralizzata ma, soprattutto, repressiva. Per il momento nulla fa sperare che in Cina la libertà economica possa tradursi in libertà politica o contribuisca, quanto meno, a rivedere i dogmi vetero-comunisti e i loro risvolti coercitivi.

Al di là delle analisi politiche ed economiche, la trasformazione del pianeta globale, lo spostamento di intere comunità di individui verso le aree più ricche del mondo rende necessario un atteggiamento improntato su uguaglianza dei diritti e pluralismo, fondato sul riconoscimento delle “diversità” etniche, culturali e religiose. Diffondere la cultura della solidarietà e dell’uguaglianza dovrebbe fare parte dei valori di uno stato democratico e restare una sua connotazione culturale precisa. Solidarietà e uguaglianza sono anche, a mio parere, gli unici strumenti possibili per tentare di dissolvere il pericoloso clima di paura e di incertezza del mondo occidentale. Non si può risolvere e nemmeno porre il problema del razzismo senza prima smontare il meccanismo che ne è alla base, vale a dire la paura dello straniero che lo alimenta. E per fare questo è più che mai necessario ricentrare il tema della solidarietà, troppo spesso ridotto a parola “vuota”.

Certo, dal punto di vista della società, molti di noi chiedono una solidarietà che sia fatta di maggiore giustizia, di maggiore scambio, di una più equa ripartizione della ricchezza. Lo sradicamento dei razzismi di tutti i tipi, l’educazione al sociale, il moltiplicarsi delle iniziative di assistenza e di soccorso alle popolazioni in pericolo, di sostegno e di aiuto verso individui più deboli sono, o almeno dovrebbero essere, parte integrante delle moderne democrazie. In una società di questo genere, peraltro non utopica, si legifera in questa direzione, si ottengono gli scopi, si realizzano i progetti. Ma questo è tutto? È soltanto questo? Ricorrere alle leggi è sufficiente per attuare la giustizia, lo scambio e la solidarietà? Se si parla di solidarietà sociale, bisognerebbe riferirsi a una solidarietà costruita sempre sull’individuo, cioè ad una solidarietà “sentita” dagli individui e non puramente “legiferata”, perché questa da sola non è sufficiente. Il vero problema è cercare di indurre gli individui a pensare così come le leggi dispongono. Affinché le leggi sulla solidarietà e contro il razzismo non restino “lettera morta”, dovrebbero tradursi non soltanto in repressione e punizione ma anche in “educazione civica”, cercando di diffondere le ragioni etiche e politiche che fanno della fraternità, e dunque della solidarietà, uno dei pilastri degli Stati democratici.

Il rapporto “xenofobia-razzismo” nel suo aspetto più strettamente “culturale”, quello della “paura del diverso”, si realizza nella tendenza a “sfogare” sui “diversi” le proprie frustrazioni. Si tratta di dinamiche antiche, anche se completamente modificate dal carattere globale e tendenzialmente irreversibile della multietnicità. In questo ambito, forse più che in altri, si pone il problema della giurisprudenza e dell’etica. Pensare di far precedere l’etica alla giurisprudenza è illusorio. La giurisprudenza, tra l’altro, ci sarebbe già. Le nostre Costituzioni sono fondate sui diritti fondamentali degli individui, del “cittadino”. Ma l’universalità dei diritti è scarsamente penetrata nelle coscienze, e su questo si dovrebbe lavorare. Il divario tra “Costituzione formale” e “Costituzione reale” è adesso più essenziale che mai. Ad ogni modo, la “Costituzione formale” è un baluardo per i diritti, e la sua stessa esistenza inibisce forme di discriminazione che altrove si praticano “senza troppi problemi”. È, in termini più filosofici, il tema del rapporto tra “nomos” condiviso e “nomos” giusto. Chi stabilisce che cosa sia giusto? Se la maggioranza della popolazione italiana, ad esempio, considerasse giusto discriminare gli stranieri, non concedendo loro gli stessi diritti che hanno gli italiani, il “nomos” giusto diventerebbe, verso gli italiani, una imposizione. Ma qual è lo scopo principale delle Costituzioni moderne se non quello di difendere i diritti delle minoranze? Rispetto a questo si pone il tema della cosiddetta “Utopia”. La “Realpolitik” dominante ha come unico obiettivo il consenso, il controllo dei voti, e dunque rinuncia facilmente a qualsiasi “idealità” pur di ottenere certi risultati. Ma ancora non si è giunti a dire che si sta facendo il contrario di ciò che si enuncia, e questo crea una gigantesca confusione linguistica e ideologica.

La confusione in cui versa il dibattito politico sul problema dell’immigrazione e della convivenza con gli immigrati nelle nostre società rende forse il problema stesso insolubile. In ogni caso fuori dalla nostra portata. Ai giorni nostri tutto ciò che è pieno di confusione e di proposte contrastanti è destinato a creare nuove forme di oppressione. E di fronte al generarsi di nuove forme di ineguaglianze, di povertà, di isolamento non è possibile rispondere con le politiche del “minore dei mali”. Né, tanto meno, con le politiche finalizzate a “rassicurare” un’opinione pubblica sempre più insofferente nei confronti di qualunque genere di cambiamento dello status quo. Quanto alla capacità di favorire solidarietà, integrazione e uguaglianza i provvedimenti politici confusi e contrastanti non saranno in grado di realizzare altro che iniziative di dubbia efficacia. Se non nulla. La sola arma che non si rivolgerà contro di noi è quella delle idee chiare. I soli uomini politici di cui possiamo essere sicuri che non siano complici di un nuovo sistema di discriminazione sono coloro i quali, anziché prodigarsi a “salvare l’Italia”, tentano onestamente di dotarsi di un punto di vista chiaro su come stanno le cose.

Diventa così evidente l’assurdità del tentativo di rassicurare il nostro mondo utilizzando le politiche “restrittive” e le leggi speciali come mezzo d’azione. Questo non significherebbe soltanto amplificare il clima di incertezza, ma comporterebbe soprattutto giustificare il dilagante fenomeno xenofobo che si vuole combattere. È irresponsabile pretendere che un apparato repressivo, reso potente da leggi costruite ad hoc, finirebbe per alleggerire il clima diffuso di paura e di incertezza. Più irresponsabile ancora è cedere alle reazioni emozionali della gente. Quanto alla democrazia erosa dalle “paure”, la repressione legislativa non abolirebbe, anzi estenderebbe, le cause che oggi la rendono più fragile. Certo, le difficoltà che si presentano attualmente possono anche giustificare l’occasionale allontanamento dai principi che tutelano ogni individuo di fronte allo Stato. Se, tuttavia, non si vuole rinunciare a questi principi bisogna rendersi conto che, in un sistema democratico, contro la “paura” non si può lottare che dall’interno del sistema stesso.

Sossu e Sennaru ai ferri corti?

_pista ciclabile 3

di Piero Murineddu

In attesa che venga realizzata la supermodernaetecnologica doppia pista ciclabile nella litoranea (come preannunciato dai nostri locali solerti e intelligenti procacciatori di finanziamenti regionali), un trafiletto con foto su La Nuova ci fa sapere che la pista ciclabile che da Sossu conduce al mare è andendi completamente che la chisgina.Se non erro, da quando è stata fatta, manutenzione cumenti si tocca non vi è mai stata. Eppure, con sensati accordi tra Comune e Provincia, gli attualmente tristi lavoratori della Romangia Servizi, debitamente guidati, avrebbero potuto fare un ottimo lavoro. Ma il loro essere mal sopportati e indesiderati pressochè da sempre doveva arrivare alla conclusione conosciuta. Comunque, adesso prepariamoci alla SCAZZOTATA verbale tra i due Consiglieri che rappresentano la Romangia tra i costosi scranni della Regione, sperando che non riportino il popolino all’epiche battagliori e zuffe (tragiche in qualche caso) dei bei tempi passati tra Sossu e Sennaru. Oh, sempre che la sfida lanciata venga accettata. FOZZA TORRESE !

APERTE LE OSTILITA’ TRA SOSSU E SENNARU ?

Il contenzioso riguarda li “dina” regionali pro alluvione giugno 2014

 

marrano

“ECCO COME SONO ANDATE REALMENTE LE COSE”

di Roberto Desini

Intervengo soltanto ora sul meschino attacco del collega Peru perché ieri sino a tardi mi trovavo in consiglio regionale. I lavori in aula meritano dedizione e molta concentrazione perché si susseguono in modo continuo.
Mentre l’intera assemblea regionale lavorava sulla norma finanziaria 2015, il collega Antonello Peru pensava bene di dedicare il suo tempo nel produrre selfie e post offensivi nei miei confronti e sull’operato della maggioranza. Sono allibito e trovo tutto questo disonorevole per il ruolo che ricopre.
Da ieri sera ricevo decine di telefonate di amici e cittadini sorsensi furenti per la notizia (distorta) appresa attraverso le note stampa del consigliere Peru. Con pazienza e tranquillità, ho cercato dispiegare a tutti la realtà dei fatti accaduti in aula. Trovo ignobile che un consigliere regionale tenti azioni di sciacallaggio politico nei miei confronti per trovare consenso politico, cavalcando l’onda della demagogia e del basso populismo su argomenti e fatti così delicati (il nubifragio del 18 giugno scorso) che hanno condizionato la vita di decine di famiglie romangine.

Questa è la realtà dei fatti con carte alla mano:

il comune di Sorso non ha raccolto un centesimo dai fondi europei messi a disposizione per questi tipi di interventi. Per cercare di salvare il salvabile e coprire la sua totale incapacità di programmazione, ilconsigliere Peru per nascondere e fuorviare a questa brutta figura ha presentato al consiglio regionale emendamenti inammissibili (per 6 milioni di euro) ,tra l’altro già bocciati in commissione bilancio e respinti successivamente ieri dal consiglio regionale.
Il comune di Sorso ha rendicontato in ritardo alla protezione civile le spese di primi interventi post alluvione e grazie ad un emendamento firmato e votato anche dal sottoscritto il comune ha recuperato 600mila euro , denari già spesi dall’ amministrazione comunale e quindi già pagati dai contribuenti Sorsensi.
Il comune di Sorso ha ricevuto dalla regione 650 mila euro per interventi pubblici post alluvione e 400 mila euro per il crollo del muro einterventi vari sulla scuola media di viale Porto Torres.
L’assessore regionale ai lavori pubblici Maninchedda intervenendo in consiglio regionale ha rassicurato inoltre che metterà a disposizione (già comunicato informalmente al sottoscritto e al consigliere Peru) le somme necessarie per il rifacimento del ponte del rio Pedrugnanu. (anche qui se fosse stato presentato un progetto, l’opera sarebbe stata finanziata attraverso il recente bando (dicembre 2014) con i fondi europei , vedi comune di Sennori 8,6milioni di euro aggiudicati)

Rimango a disposizione dei cittadini per eventuali altri chiarimenti.

INVITO

il consigliere Antonello Peru anziché denigrare e postare da dietro una tastiera notizie incomplete e distorte,

AD UN CONFRONTO PUBBLICO

per l’approfondimento degli argomenti in oggetto.

La sede, la data e l’ora la scelga lui….!!!

Sorso e la questione Rom: Lode al sindaco? Ma che dice, Sig. Prof ?!

lode al sindaco 001

di Piero Murineddu

Il troppo sbrigativo “Parole sante” seguito immediatamente dal “ma” del vecchio Manlio mi ha lasciato parecchio perplesso. E’ come se abbia vanificato il sensato e puntuale argomentare della lettera. Ma come, il  Sig. Pier Paolo Putzu tocca un punto che smaschera così direttamente la quasi ipocrita motivazione che vorrebbe giustificare l’allontanamento della “rogna” che  questa famigliona Rom ha creato mettendo piede in terra sussinca, e il saggio Professore mi  sposta il problema, invitando addirittura a lodare lu sindaggu di Sossu per le dichiarazioni ufficiali che hanno preceduto la notifica fatta al nucleone familiare Rom di andassínni, entro giovedì 26 (quest’ultima magnanima concessione)?

http://www.comune.sorso.ss.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1451:dichiarazioni-del-sindaco&catid=198:comunicazioni

Nel Comunicato ufficiale, oltre l’invito alla  Comunità di Sorso  a “non perdere di vista i valori di ospitalità, integrazione e rispetto che sono alla base del vivere civile“, vi si afferma che la famiglia in questione, a differenza delle altre residenti nel Campo di Fertilia che hanno accettato le sistemazioni proposte dal Sindaco di Alghero, “ha scelto di persistere nella propria condizione di nomadismo”. Ciò non corrisponde al vero: Zoran e Vesne hanno acquistato la campagna con l’intenzione di viverci stabilmente. Inoltre nel Comunicato del Sindaco Morghen si legge che al Prefetto di Sassari si è chiesto  che la famiglia venisse trasferita in un campo-nomadi, cosa che è in contro tendenza alle indicazioni dell’UE  che giustamente considera questi insediamenti, il più delle volte isolati e spesso senza elettricità e acqua corrente,  a grosso rischio igienico-sanitario. Certo, il Comunicato dichiara “sentito disagio e profondo disappunto per i  toni di inaudita violenza che stanno ammorbando il clima cittadino“, ma arrivati al dunque, l’imposizione di far sloggiare questi indesiderati c’è. Chiara e “Ordinante”. Anche il tentativo fatto dagli indesiderati ospiti di trovare un alloggio in terra romangina, non distante quindi dalla campagna da coltivare, è stato disatteso: e chi ha il coraggio di dare in locazione una casa a degli zingari, che te la distruggono, che portano malattie, che rubano, che………?

Gira e rigira, l’imperativo è stato l’allontanamento  del rognosissimo “problema”. Fatto in modo implicito, e da molti civili concittadini, giovanissimi, giovani e meno giovani, anche  esplicitissimamente. I sussinchi ( o i sorsosi, come oggi li ha chiamati uno dei piccoli Rom) non vogliono avere niente a che fare con gente poco raccomandabile come questa. Si continua ad insistere, mal sopportando le obiezioni dei cosiddetti “buonisti”(vedi in appendice) che gli zingari sono tutti ladri e sporchi, e questo e quest’altro ancora. Inutile provare a dire che, trovandoci in necessità, noi, cittadini civilissimi, saremmo capaci di tutto e di tanto altro ancora. Inutile dire che sbagli ne abbiamo fatto più o meno tutti, forse di peggio e di molto peggio, che furti, in un modo o nell’altro, ne facciamo e continuiamo a farne, naturalmente di nascosto e spesso “legalmente”, magari ben puliti e profumati e spesso col nodo della cravatta fatto alla perfezione. E questo, quello, quell’altro……Basta!

A me, quello che mi sento addosso stasera, è una grande stanchezza. No, non per tutti questi segni d’involuzione civile, ma semplicemente per i giochi nei quali i figli di Vesna mi hanno coinvolto questo pomeriggio. Un fiatone che non vi dico. E che risate quei zingaretti quando mi vedevano piegato in due e quasi stramazzato in terra. “Il cappello! Dammi il mio cappello, birbone che non sei altro” – “Vieni a prenderlo se ce la fai, vecchione ” – “E i tuoi genitori come mai non ci sono?” – ” Sono andati ad Alghero per vedere la casa”- ” Ma dimmi, tu preferiresti rimanere qui o andare a vivere in appartamento?” – ” Sicuramente qui. Coi miei compagni di scuola mi trovo bene e mi dispiace lasciarli” – ” E tu?” – ” Anch’io preferisco romanere qui, all’aria aperta  in campagna” – ” Zio Piè, mi spingi la motoretta?” – “Ascolta, me li scrivi il nome tuo e quello dei tuoi fratelli che non me ne ricordo neanche uno?” – ” Mi stà bene il tuo cappello?” – “Comunque, quando io e zia Giovanna veniamo a trovarvi ad Alghero, speriamo che ci sia un posto dove poterci fare un’altra partitella”

Piccola appendice

Ogni tanto salta fuori questa “orrenda accusa” di BUONISMO, e chi se lo vede affibbiare, spesso si sente molto offeso. Il semplice tono ironico è stato ormai superato e al termine gli si dà ormai una chiara e decisa valenza dispregiativa. In una discussione, se si vuole ferire l’interlocutore, diventato progressivamente avversario, lo si bolla come buonista, rinfacciando atteggiamenti moralistici ed eccessi di buoni sentimenti  inconcludenti e slegati dalla dura realtà.

Ebbene:

1. Se io voglio cercare di capire,  dichiaro di essere buonista

2. Se tento di mettermi nei panni degli altri, ……………….

3. Se tento di conoscere prima di giudicare, ………………….

4. Se mi sforzo di farmi un’opinione personale, ………………..

5. Se mi sforzo di guardare gli aspetti positivi dell’altro, ………….

6. Se mi sforzo di guardare la trave nel mio occhio, ……………

7. Se non mi sento di buttare la prima pietra, ………………

8. Se nonostante tutto credo ancora che la nonviolenza è un’arma efficace,………

9. Se non mi faccio trascinare dentro il pensiero dominante, ……………

10. Se non penso di essere migliore degli altri, ………………………

Sorso – Sgombero dei Rom: motivi d’igiene pubblica e di regole abitative, o la solita paura del diverso?

Giovanna con Elisa - 23 febbraio 2015

di Piero Murinedduo

Difficile descrivere il grande affetto creatosi in un incontro ed espresso da questa foto. Giustamente le leggi vietano di esporre  volti dei minori, ma in questo caso gli occhi di questa bambina avrebbero parlato molto più di quanto possono arrivare a fare le pur ricercate ma spesso non appropriate parole.

Nel pomeriggio di ieri con mia moglie abbiamo faticato un pò per raggiungere la campagna dove la famiglia Rom di Zoran e Vesna coi loro vivaci otto figli, aspettano con trepidazione di conoscere cosa il futuro (e sopratutto la volontà degli altri!)  sta’ loro predisponendo.

Inoltratici nella stradetta di penetrazione agraria, incontriamo un giovane che, seppur con tutta la gentilezza che gli è possibile, solo alla fine si fa convincere (!) a darci l’indicazione per arrivare alla nostra meta. Giunti finalmente nell’oliveto, da diverso tempo semi abbandonato e che in queste settimane è stato ripulito da queste persone che vorrebbero viverci,coltivandoci anche un orto e un piccolo frutteto, troviamo tutti, eccetto il capofamiglia, in quanto impegnato a portare avanti un lavoro intrapreso ad Alghero, da dove provengono e dove ancora hanno la residenza. Mia moglie Giovanna e Vesna si sono conosciuti in mattinata, per cui la visita era attesa e da subito si dimostra gradita, per loro ma specialmente per noi.

Con l’apporto di tutti, viene immediatamente predisposto un “salotto” all’aperto e una delle ragazze più grandette prepara con molta cordialità un caffè a me e alla sua mamma, che nel mentre racconta tutto ciò che stanno vivendo in questi giorni concitati. In Vesna è evidentissima la preoccupazione, anche per l’ultimatum impostale dal sindaco di sloggiare entro giovedì. Si, questo giovedì 26. Ascolto con molto interesse l’accorato e particolareggiato racconto, ma ogni tanto mi lascio trasportare dalle richieste dei bambini, il più grande dei quali mi fa vedere come ha costruito da sè una motoretta, saldandone i vari pezzi. Il fratellino minore è un pò arrabbiato con lui perchè non gli fa usare l’altra moto, ma la mia mediazione riesce alla fine a far conciliare le esigenze di entrambi.

Anche per Giovanna, ogni tanto la conversazione “salottiera” s’interrompe per dedicarsi ai bambini, che inevitabilmente e da subito s’innamorano della sua simpatica giocosità. Ci rendiamo conto che pur essendo arrivati qui con intenzioni “serie”, i preziosi minuti che scorrono ci hanno trascinati piacevolmente in un’inaspettata empatia. Anche l’iniziale tensione di mamma Vesna si scioglie in una rilassata espressione sorridente.

Noto intanto un altro dei piccoli che rimane in disparte e quasi impaurito. Di tanto in tanto fa dei tentativi di avvicinamento, ma la diffidenza o forse la timidezza continua a bloccarlo. La cosa non dura molto, perchè poco dopo ci ritroviamo a camminare mano nella mano. E’ evidente qualche problema nella deambulazione e nel linguaggio, ma ciò che riusciamo a comunicarci è più che sufficiente.

Nel mentre arriva Salvatore, il giovane corrispondente di Sorso che segue per “La Nuova Sardegna” questa vicenda. Viene ben accolto da tutti e si vede che il suo interessamento và al di là dell’aspetto prettamente, e sopratutto, esclusivamente giornalistico. I suoi sforzi di fotografare i bambini da dietro non vanno facilmente a frutto, anche perchè, nella loro innocenza, sentono di non avere niente da nascondere e vorrebbero farsi vedere senza alcun problema. Ma, ripeto, i problemi li abbiamo e li poniamo noi adulti.

Chiedo ai ragazzi che frequentano la scuola in paese come i compagni e le maestre hanno  reagito davanti a tutto il chiasso creatosi intorno a loro. Il grandetto, quello della moto, mi risponde che sono molto dispiaciuti, in quanto della loro presenza in classe sono contenti.  Dato che c’è, ne approfitta per farmi vedere un compito fatto in classe e valutato con un “Bravissimo” dalla maestra. D’altronde,sentendolo parlare e vedendone l’attività durante la nostra visita, non è difficile capire che si tratta di un ragazzo molto intelligente e acuto, e i fratelli non sono da meno. Provo ad immaginare il grande apporto che ragazzi come questi possono dare in un’aula scolastica, ma questo, per certi “adulti” preoccupati di non far “contagiare” i propri figli e di tenersene il più lontano possibile, è difficile se non addirittura impossibile da capire. Non capiscono proprio la grande opportunità che rischiano di perdersi, se persistono nel loro ottuso e immotivato rifiuto.

Ripreso posto nel salottino, mi devo subito rialzare perchè Vesna ci porta a vedere parte dell’alloggio, specialmente dove c’è la doccia e la cucina. Non è un comodo appartamento riscaldato e super accessoriato come quello in qui vive la maggior parte di noi, ma l’ordine, considerata la situazione, c’è. Se non erro, mi è parso di capire che facciano anche la raccolta differenziata dei rifiuti. Visto il clima confidenziale creatosi, chiedo a Vesna se la definizione di “zingari” le dà fastidio. Mi risponde che la valenza negativa al termine gliela data la gente “normale”. A lei, precisando che l’etnia Rom a cui appartiene ha un’antica e rispettabile cultura, la parola non infastidisce. A darle fastidio e sopratutto sofferenza è tutto ciò che di negativo e sbagliato viene collegato all’essere nomadi. In ogni caso, la sua famiglia ha deciso d’integrarsi e di rispettare le regole della comunità civile.

Provo a chiedere se, nel caso non riescano a rimanere a vivere qui, sono disposti a trasferirsi nell’appartamento loro affidato dal Comune di Alghero. Vesna ribadisce che riuscire a contenere la vivacità di otto ragazzini in un condominio sarebbe problematico assai, e che in ogni caso il loro desiderio è vivere in una casa di campagna, pagando un regolare affitto. Per questo terreno hanno già versato una quota rilevante, per cui di fatto sono proprietari.Nel caso, sarebbe anche problematico vivere ad Alghero e dover venire qui per coltivare la campagna.

Un normalissimo desiderio a cui chiunque può aspirare, ma non coloro che, nonostante i loro sforzi di inserimento in un normale tessuto sociale, i benpensanti e i “civili” cittadini continuano a respingere ai margini. Non tanto per la loro pericolosità, quanto per le nostre tante paure che ci imprigionano e ci rattristano la vita.

L’abbraccio tra Giovanna e la bambina suggella la nuova amicizia nata tra noi e la famiglia di Zoran e Vesna.

A proposito, bisogna che mi ricordi di portar loro il pallone da rugby promesso.

Europol Service s.r.l., ma che mi combini a La Pelosa?

pelosa

di Gianmario Urgeghe

Lo sappiamo bene, in tempi di crisi, ognuno si arrangia come può. Scopro così che il tanto celebrato Made in Italy che arranca, non è solo quello dei prosciutti, della moda e della pasta, ma anche quello dei parcheggi a pagamento a La Pelosa, ridente località nel comune di Stintino, dove ci si arrangia come Dio vuole, con le unghie e con i denti, e non sempre per colpa degli utenti. Ma che c’entra questo proprio ora? direte voi. Dopotutto, a inverno inoltrato, o meglio, a inverno quasi finito, questa segnalazione può apparire quantomeno “démodé”. La verità è che l’ho tenuta chiusa nel cassetto per un po’, in attesa di sbollire dalla rabbia. Adesso, a freddo e con il senno di poi, che rimane tale e quale al senno di prima, mi pare giusto…non dimenticare.

A dettare le regole del gioco delle strisce blu a La Pelosa, è l’Europol Service s.r.l. di Sassari, su incarico del comune di Stintino, che naturalmente non si tira indietro, quando si tratta di racimolare qualche spicciolo in più, magari approfittando di equivoci e malintesi. Per carità, i tempi sono quelli che sono e non si butta via niente, e a fine stagione gli spiccioli spigolati qua e là, diventeranno di certo una bella somma.

In alta stagione, l’Europol fa pagare 2 euro l’ora, come pure per le frazioni di tempo eccedenti l’ora. E fin qui, nulla di strano; del resto, siamo abituati a barcamenarci tra cifre ben più consistenti e un parcheggio con vista sul meraviglioso mare di Stintino, non si nega a nessuna automobile. Tanto meno alla mia che, ed ecco la mia storia, il 5 agosto scorso, lascio in sosta nei pressi del Rocca Ruja, pagando anticipatamente per 4 ore, dalle 12.12 alle 16.12. Poco dopo le 17.00, vado a riprendere l’auto e, giustamente, trovo sul parabrezza un avviso che mi invita a regolarizzare la mia posizione, corrispondendo la differenza al parchimetro ed esibendo poi la ricevuta a un operatore dell’Europol; quindi, sposto la macchina in una zona “libera”, pago l’integrazione di un’ora, dalle 16.12 alle 17.12 e mi metto subito alla ricerca dei dipendenti dell’Europol, ma inutilmente. Alle 17.25, tra un nugolo di turisti che stazionano nel tratto di strada poco prima della salita che conduce a Capo Falcone e, cioè, a non meno di 2 chilometri dallo stallo blu dove avevo lasciato originariamente la macchina, scorgo finalmente la maglietta gialla non di uno, ma addirittura di due dipendenti della società, a tre metri l’uno dall’altro, gli unici operanti, almeno manifestamente, in tutto l’”anello”Rocca RujaLa PelosaCapo Falcone, entrambi muniti dei rispettivi cartellini identificativi sprovvisti dei nomi (sic!). Mi avvicino, mostro la prova dell’avvenuto pagamento dell’integrazione, ma uno dei due signori Europol dà un’occhiata all’orologio e con una nonchalance sconcertante dice che gli devo altri 2 euro, perché sono “fuori” di ben 13 minuti, che poi sarebbe il tempo che ho impiegato per trovarli. Provo a spiegare un po’, ma rischio di far passare dell’altro tempo, e qui il tempo è denaro. Dopotutto il signor Europol è inflessibile e le regole del gioco impongono che l’agiato utente che può permettersi una mezza giornata a La Pelosa, debba anche scovare il signor Europol di turnoin tempo zero, ed io non lo sapevo.

Non resta quindi che pagare questi benedetti, ulteriori spiccioli, a conti fatti ciò è più vantaggioso di vedersi appioppare una sanzione di chissà quale importo. Ma se questa è la politica dell’Europol, che si degni almeno di non far perdere tempo agli utenti, per cercare i suoi dipendenti, così che essi possano pagare per il solo tempo della sosta.

Per concludere, rimane l’amarezza non tanto per la somma pagata, fortunatamente esigua, quanto piuttosto per la presa in giro all’italiana. Ma ho capito che il problema di fondo è sempre la crisi, anche se nella giungla quotidiana del “Made in Italy”, o della solita italianata, se volete, avrei preferito sentirmi libero di fare l’elemosina a chi voglio io, e non al più prepotente.

Europol Service, ma che mi combini a La Pelosa di Stintino?

pelosa

di Gianmario Urgeghe

Lo sappiamo bene, in tempi di crisi, ognuno si arrangia come può. Scopro così che il tanto celebrato Made in Italy che arranca, non è solo quello dei prosciutti, della moda e della pasta, ma anche quello dei parcheggi a pagamento a La Pelosa, ridente località nel comune di Stintino, dove ci si arrangia come Dio vuole, con le unghie e con i denti, e non sempre per colpa degli utenti. Ma che c’entra questo proprio ora? direte voi. Dopotutto, a inverno inoltrato, o meglio, a inverno quasi finito, questa segnalazione può apparire quantomeno “démodé”. La verità è che l’ho tenuta chiusa nel cassetto per un po’, in attesa di sbollire dalla rabbia. Adesso, a freddo e con il senno di poi, che rimane tale e quale al senno di prima, mi pare giusto…non dimenticare.

A dettare le regole del gioco delle strisce blu a La Pelosa, è l’Europol Service s.r.l. di Sassari, su incarico del comune di Stintino, che naturalmente non si tira indietro, quando si tratta di racimolare qualche spicciolo in più, magari approfittando di equivoci e malintesi. Per carità, i tempi sono quelli che sono e non si butta via niente, e a fine stagione gli spiccioli spigolati qua e là, diventeranno di certo una bella somma.

In alta stagione, l’Europol fa pagare 2 euro l’ora, come pure per le frazioni di tempo eccedenti l’ora. E fin qui, nulla di strano; del resto, siamo abituati a barcamenarci tra cifre ben più consistenti e un parcheggio con vista sul meraviglioso mare di Stintino, non si nega a nessuna automobile. Tanto meno alla mia che, ed ecco la mia storia, il 5 agosto scorso, lascio in sosta nei pressi del Rocca Ruja, pagando anticipatamente per 4 ore, dalle 12.12 alle 16.12. Poco dopo le 17.00, vado a riprendere l’auto e, giustamente, trovo sul parabrezza un avviso che mi invita a regolarizzare la mia posizione, corrispondendo la differenza al parchimetro ed esibendo poi la ricevuta a un operatore dell’Europol; quindi, sposto la macchina in una zona “libera”, pago l’integrazione di un’ora, dalle 16.12 alle 17.12 e mi metto subito alla ricerca dei dipendenti dell’Europol, ma inutilmente. Alle 17.25, tra un nugolo di turisti che stazionano nel tratto di strada poco prima della salita che conduce a Capo Falcone e, cioè, a non meno di 2 chilometri dallo stallo blu dove avevo lasciato originariamente la macchina, scorgo finalmente la maglietta gialla non di uno, ma addirittura di due dipendenti della società, a tre metri l’uno dall’altro, gli unici operanti, almeno manifestamente, in tutto l’”anello”Rocca RujaLa PelosaCapo Falcone, entrambi muniti dei rispettivi cartellini identificativi sprovvisti dei nomi (sic!). Mi avvicino, mostro la prova dell’avvenuto pagamento dell’integrazione, ma uno dei due signori Europol dà un’occhiata all’orologio e con una nonchalance sconcertante dice che gli devo altri 2 euro, perché sono “fuori” di ben 13 minuti, che poi sarebbe il tempo che ho impiegato per trovarli. Provo a spiegare un po’, ma rischio di far passare dell’altro tempo, e qui il tempo è denaro. Dopotutto il signor Europol è inflessibile e le regole del gioco impongono che l’agiato utente che può permettersi una mezza giornata a La Pelosa, debba anche scovare il signor Europol di turnoin tempo zero, ed io non lo sapevo.

Non resta quindi che pagare questi benedetti, ulteriori spiccioli, a conti fatti ciò è più vantaggioso di vedersi appioppare una sanzione di chissà quale importo. Ma se questa è la politica dell’Europol, che si degni almeno di non far perdere tempo agli utenti, per cercare i suoi dipendenti, così che essi possano pagare per il solo tempo della sosta.

Per concludere, rimane l’amarezza non tanto per la somma pagata, fortunatamente esigua, quanto piuttosto per la presa in giro all’italiana. Ma ho capito che il problema di fondo è sempre la crisi, anche se nella giungla quotidiana del “Made in Italy”, o della solita italianata, se volete, avrei preferito sentirmi libero di fare l’elemosina a chi voglio io, e non al più prepotente.