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Bussa e ti sarà aperto. Mmmmhhhh…In che senso?

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di Piero Murineddu

“Attraverso l’incarico pubblico, come spesso succede, ha sistemato i suoi….”

Nel pensiero dei più, questa prassi è normale, mettendo in secondo piano che questa è la prova indiscutibile del tradimento della fiducia ricevuta. Se poi, sempre grazie al potere dato dalla poltrona, si concedono favori mirati, diventa il cosiddetto “voto di scambio“, una delle tante operazioni mafiose e illegali che avvelenano il consorzio civile.

Ma come abbiamo fatto ad abituarci alla gravità morale e sociale di questo agire da parte di chi provvisoriamente ha ricevuto la fiducia di altre persone?

Ma siamo consapevoli delle conseguenze catastrofiche nelle aspettative e nelle speranze di tutti, specialmente dei ragazzi, che tale modo di fare provoca?

È una imperdonabile offesa alla Giustizia e alla Solidarietà sociale.

È una profonda ferita difficilmente rimarginabile.

Un “politico” che sfrutta il suo momentaneo incarico in questo modo, fa un danno tale, che neanche le eventuali cose positive che realizza possono coprire e rimediare.

Che ricordo rimarrà di lui una volta che non avrà più in mano il potere?

Come sarà ricordato, soprattutto dai più che non hanno beneficiato dei suoi favori?

Che esempio di integrità morale avrà lasciato alle generazioni future?

Non ho difficoltà ad affermare che un “politico” che agevola i suoi parenti o semplici sodali è un LADRO, specialmente di Giustizia, anche se magari può essere considerato un benefattore.

Lo so, è un antico tema che ci trasciniamo forse da sempre nella vita sociale, e nella vita politica in modo particolare. Pochi sono rimasti immuni da questo andazzo, ma indubbiamente l’esperienza berlusconiana l’ha portata scandalosamente e sfacciatamente in evidenza, dando posti in Parlamento, nella RAI e in altre stanze dei bottoni (pagati dalla collettività….da me…da te..) ai suoi avvocati, ai suoi dentisti, alle sue bambole e ai suoi lacchè.

Si può negare questo?

Si hanno esempi di politici che hanno fatto e stanno facendo altrettanto? Molti, e il più delle volte rimangono impuniti.

Il fatto è che questi falsi benefattori continuano ad imperare perchè strumentalizzano un bisogno diffuso.D’altra parte, pur di veder soddisfatto un diritto primario qual’è il lavoro, i più non si fanno nessun scrupolo.

Personalmente, le persone che cercano il politico per soddisfare un bisogno, specialmente se lecito, io non le giudico, anche se sinceramente non godono della mia stima. I COLPEVOLI però, sono coloro che fanno carriera facendo del voto di scambio una prassi normale.

Qualcuno usa la definizione di “risposte politiche: il massimo dell’ipocrisia!

Cambierà qualcosa nei nuovi scenari politici che abbiamo davanti?

Tornerà il lavoro ad essere veramente quel diritto sancito dalla Costituzione?

Si faranno leggi per la creazione di posti di lavoro?

Impareremo tutti ad essere cittadini attivi e non insignificanti sudditi alla mercè del politicante di turno?

Ci evolveremo per avere i mezzi culturali necessari per far valere i nostri Diritti e adempiere civilmente ai nostri Doveri?

Certo, se poi leggiamo la seconda parte dell’articolo 4 della Costituzione, in cui si dice solennemente che ” ogni cittadino ha il dovere di…” e questa possibilità, soprattutto ai giovani, non si dà,  beh, allora qui ci sarebbe il tanto di…..

Buona domenica, va.

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Auguri Marco

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di Piero Murineddu

Proprio ieri ho ascoltato un magistrale intervento di Tarquinio nell’occasione di un evento insieme a Moni Ovadia e a Raniero La Valle, altri giganti del pensiero contemporaneo. Cercando in Rete qualche altro suo articolo attuale – dopo che aver nel maggio dello scorso anno ha lasciato Avvenire, prezioso organo di stampa che oggi si distingue nella diffusa e servile stampa italiana, quotidiano di cui aveva preso la direzione dopo che Dino Boffo fu costretto alle dimissioni a causa della insistente e manganellante campagna di diffamazione portata avanti da Vittorio Feltri e compagnia vomitante – scopro che proprio oggi compie 66 anni, un giovinotto in confronto alla mia vecchiaia che avanza. Auguri quindi a un grande e onesto giornalista. Leggo della possibilità di una sua candidatura alle prossime Europee. Me lo auguro e ce lo auguriamo.Sarebbe una voce importante che potrebbe ridare autorevolezza a un Parlamento sempre più insignificante e zeppo di presenze inutili.

 

Marco si racconta a Romena subito dopo lo scoppio della catastrofe a Gaza

Mattarella: “L’Italia deve costruire ponti di dialogo”

di Sergio Mattarella

Nella Costituzione c’è una affermazione solenne: il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Sono le poche parole dell’art.11 che contiene le ragioni, le premesse del ruolo e delle posizioni del nostro Paese nella comunità internazionale: costruire ponti di dialogo, di collaborazione con le altre nazioni, nel rispetto di ciascun popolo.

Mentre un sentimento di pietà si leva verso i morti, verso le vittime civili, non può che sorgere, al contempo, un moto di ripulsa da parte di tutte le coscienze per la distruzione di un territorio e delle sue risorse, per l’annientamento delle famiglie che lo abitavano, nel perseguimento della cieca logica della guerra, quella della riduzione al nulla del nemico, senza nessun rispetto per le vittime innocenti.

Lutti e sofferenze, pagate in larga misura dalla incolpevole popolazione civile, a partire dal funesto bombardamento del 15 febbraio contro l’Abbazia, nel quale, con i monaci, perirono famiglie sfollate, tante persone che vi si erano rifugiate contando sull’immunità di un edificio religioso, espressione di alta cultura universalmente conosciuta. Ma la guerra non sa arrestarsi sulla soglia della barbarie”.

La nuova Abbazia ha la stessa vocazione ma ambisce anche a essere prova di un’accresciuta consapevolezza degli orrori delle guerre e di come l’Europa debba assumersi un ruolo permanente nella costruzione di una pace fondata sulla dignità e sulla libertà. Ne siamo interpellati. Sono mesi – ormai anni – amari quelli che stiamo attraversando.

Contavamo che l’Europa, fondata su una promessa di pace, non dovesse più conoscere guerre.

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Banca della Memoria

di Piero Murineddu

Precisamente dieci anni fa un articoletto apparso su La Nuova Sardegna  parlava di un’iniziativa nata da un gruppo di un paesino che aveva lo scopo di mettere insieme dei ricordi che aiutassero a costruire la memoria locale. Come esposizione una pagina FB creata appositamente. Un luogo di raccolta di memorie scritte e visive, seppur virtuale, sia per conoscere quello che si era e sia capire meglio quello che si è diventati. Anche questo mi ha spinto a metter su qualcosa di simile.  Altra spinta l’ ho ricevuta entrando in contatto col sito “Memoro – Banca della memoria“, pensato e curato da quattro giovani piemontesi con la passione delle brevi interviste alle persone anziane. In particolare, questa intuizione mi aveva invogliato a filmare diversi racconti di nostri anziani concittadini, che attraverso i fatti da loro vissuti, hanno aiutato anche a capire le tante trasformazioni di Sorso, mio paese del nord Sardegna, e della vicina Sennori, due località accomunate inevitabilmente da tanti aspetti.

La prima registrazione, quasi casuale, la feci durante una visita a casa di  Petronio Pani e della carissima moglie Gavina Demurtas, una carissima coppia  scomparsa a cui sarò sempre grato e che a tutti gli effetti posso considerare amici seppur frequentati specialmente negli ultimi anni della loro vita.

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Il  prof Andrea Pilo mi ha incoraggiato e quasi obbligato a dare il mio seppur modesto contributo a tener ferma la memoria di ciò che siamo stati. E fatto da lui, autore di alcuni libri sulla questione, l’invito non poteva cadere nel vuoto.

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Dal momento che diversamente NON POTEVA essere, il lavoro era e continua ad essere dedicato alla memoria dei miei genitori Giovanna Maria e Antonino. Rimanendo fissa la copertina, volta per volta ho sempre cambiato la foto del “profilo”, legandola magari a una persona deceduta che mi é stata cara o a a qualche particolare evento che ritengo opportuno.

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Col tempo e in alcuni casi l’obiettivo iniziale si è allargato ad altre realtà che non riguardano solo lo stretto territorio fisico dove vivo, convinto che sono molteplici le cose che legano i sardi soprattutto.

Periodicamente ricordo che questo può essere uno spazio  aperto all’arricchimento di tutti e non riservato al mio solo sforzo, dato più che non mi sento affatto un tuttologo e le energie sono sempre più limitate.

Rinnovo quindi l’invito a chiunque ritenga utile tale spazio, a dare il proprio attivo contributo di conoscenze e ricordi personali e familiari, finalizzato unicamente alla crescita comune.

Una particolare via a Sorso

di Piero Murineddu

” A cuniscilla bè, chistha carrera chi ha l’innommu di lu famosu ischrittori Saivadori Farina, v’è, cumenti e minimu, da rimanì chena arenu”.

Inizia così il capitoletto, riportato interamente in sussincu dopo questa mia “traduzione” alla fine di questa pagina, che Andrea Pilo, nel suo “Ammenti“, ha dedicato all’attuale via Farina a Sorso, quella che congiunge piazza Sant’ Austhinu cu lu Cabbucossu. Questa strada infatti, ha dato i natali o vi hanno vissuto per un breve o lungo periodo, vari personaggi di rilievo. Anche loro, almeno buona parte, hanno trascorso la loro infanzia “giugghendi e dendi impisthinenzia cumenti e tutti li pizzinni”.

Iniziando da giù a destra, nel palazzo Baraca, ha vissuto Bice, “femmina intirigentissima ma zirriosa chi no v’era la cumpagna”, e il fratello Josto,colonnello dell’esercito, entrambi figli del poeta, scrittore e giornalista GIOVANNI BARACA (1843-1882), intimo amico di Enrico Costa.

Dui janni più ainsobbra vi è la casa di don ANTONIO CICU, che a Roma era procuratore generale della Corte di Cassazione. Nella grande casa vi erano almeno tre salotti chiamati col colore dei tappeti che coprivano il pavimento, tutti addobbati di quadri, tappezzerie, divani di ogni tipo. Vi era anche un pianoforte, allora sconosciuto ai più, che ancora, credo, si può vedere nella chiesa di Santa Croce, purtroppo con i tasti stonati da far paura perchè nessuno si è mai curato di farlo accordare. L’ ultima volta che lo vidi era lì, discreto e silenzioso, sicuramente nostalgico di quando il figlio di Antonio, don AMBROGINO, maggiori di l’esercitu e vecciu vaggianu, gli dava voce con le sue esperte mani, insegnando anche ai tanti ragazzi che frequentavano la casa per varie attività ludiche e culturali, nel circolo cattolico “A.Manzoni” da lui fondato.

Attaccata a questa vi è il palazzo del notaio COTTONI. Sei figli, quattro maschi e due femmine,. Uno di loro , SALVATORE (1916-1974), avvocato ma dedicatosi a tempo pieno alla politica, ha ricoperto la carica di sottosegretario ai Trasporti.

Una janna ainsobbra c’è la casa di PINOTTO MANNU RICCI (1885-1970), generale della milizia, governatore dell’Albania e gratificato da diversi riconoscimenti avuti grazie alla sua fedeltà al regime fascista e, si dice, alla sua personale amicizia col Dux di tristissima memoria. Ha fatto onore a Sorso e alla Sardegna, come dice Andrea? Mah…

Nella stradina che si collega con via Pace, di fronte a dove operava un costruttore di tegami – per il qual motivo la moglie veniva chiamata “la stagnina” – per un certo periodo ha vissuto il pittore GIULIANO ROGGIO, figlio del sarto Salvatore e di Pasqualina Manca, sorella a sua volta del fabbro artista Telesforo Manca.

Lagadda l’isthrinta di Cunventu che conduce al Palazzo Baronale, si trova la casa MAROGNA, Dei tanti figli, PIETRO si è laureato in medicina, diventando un chirurgo di fama e ricoprendo anche la carica di Rettore dell’Università di Sassari.

Quasi ultima nella strada vi è la casa di GIANNETTO MASALA (1884-1917), poeta e patriota, sulla cui figura a presto riempirò una corposa pagina di questo blog grazie a una studiosa locale che ne ha approfondito la vita, al contrario di come sinora si sono interessati a fare i suoi concittadini, molti dei quali sanno solo che è il nome di una via.

Davanti a questa, si trova l’abitazione dove è nato SALVATORE FARINA (1845-1918), giornalista e scrittore.

Poco più giù vi è la casa del grande scultore e pittore GIULIANO LEONARDI (1899-1989), autore di opere di pregio. È suo il busto di S.Farina che si trova nella biblioteca comunale e la statua della Madonna che sovrasta la facciata della parrocchia di San Pantaleo. In questa casa, a condurre la sua vita e a custodire parte delle opere dell’artista che ha vissuto prevalentemente a Roma, c’è la nipote NUCCIA, donna semplice e di grande cuore. Dietro stimolo dello zio, anche lei si era dedicata ai colori, e i risultati, pur non essendo di grande pregio, mostrano tuttavia la meticolosità e la passione a loro dedicati.

Tutte abitazioni, a ben vedere, che hanno un alto valore simbolico, ma che purtroppo, mai nessuno ha cercato di far conoscere e di valorizzare. Da quello che so io, l’unica casa che ancora ha conservato quasi tutte le caratteristiche originarie è proprio quella di Nuccia, la quale è sempre stata ben lieta di accogliere i visitatori col desiderio di approfondire la conoscenza dello zio Giuliano, io tra questi.

Da qualche tempo, a causa di una brutta caduta che le ha provocato problemi alla spalla, la mite e carissima Nuccia si trova ospite della nipote Michela a Villanova Monteleone. Seppur coi suoi novant’anni, auguriamole che quanto prima possa tornare a Sossu nella sua casa/museo di questa storica e preziosa via.

Le frasi dialettali sono prese dal testo che segue di Andrea Pilo, aiutato dall’amico Peppino Manzoni

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Via Farina a Sossu

di Andrea Pilo

A cunniscilla bè, chistha carrera chi ha l’innommu di lu famosu ischrittori Saivadori Farina, v’è cumenti e minimu, da rimani chena arenu. È infatti una carrera isthrausdhinaria e no tantu pagosa e longa e lasgha, o pagosa vi passani tutti li pruzissioni, o paschi giompi da piazza Sant’antonio, chi è in mezzu a lu paesi, a lu Cabbucossu, chi è l’ulthima carrera prima di li giardhini chi z’azzani a Vaddhi e all’aribari di Cantarapittu. È isthrausdhinaria pagosa vi so naddi o vi sthaziani, giugghendi e dendi impisthinenzia cument’e tutti li pizzinni, guasi tutti l’ommini chi so dibintaddi impusthanti ed hani fattu onori no soru a Sossu ma a tutta la Sardhigna.

Ischuminzendi da sant’Austhinu, e sempri a manu dresta azzendi, s’acciappa, propiu all’anguru cu la piazza, lu parazzu Baraca undí hani vibiddu Bice, femmina intirigentissima ma zirriosa chi no v’era la cumpagna, e lu fradeddhu Josto, curunnellu di l’esercitu chi erani figliori di lu pueta, ischrittori e giornaristha Giuanni Baraca (1843 – 1882), intimu amiggu di Enricu Costa chi, tra li tanti cosi ischritti da eddhu, vi n’è una chi vari pa tutti: “era nato poeta”.

Dui janni più ainsobbra la casa di don Antoni Zicu chi, dabboi di la casa di lu Baroni era la più manna di Sossu. Passendi i lu saroni ed in una corthi s’intrazia in un althru parazzu chi abia baischoni e gianna nienti di mancu chi in via Cavour. Don Antoni, babbu di don Ambroscinu, vibia a Roma, era Procuradori Generari di la Corthi di Cassazioni, ma abia fattu di la casa sussinca una ipezia di museu. Sarotti groghi, rui e azzurri ciamaddi gussì pa lu curori di li tappetti chi cuabani li mattoni, di lu pabiru chi tappaba li muri pieni di quadri di dugna mannezia e di li divani, caddreoni e caddrei. V’erani, mancu a dillu, casciabanchi, fuzzeri, angorieri manni ed althri in legnu intagliaddu, letti a pabaglioni, lampadari e lanterni a tre bicchi, un’aimaddura e un pianuforthi chi a chissi tempi guasi nisciunu sabbia cosa fussia.

Ma tuttu lu ghi v’era no è pussibiri pudellu ammintà. Lu ghi inveci no si pò dimmintiggà so li tre “camarini” undì unu s’intancaba pa pudè fa li so bisogni chi tandu, pa falli, umbè di jenti curria, a zintura in coddhu, a drentu l’aribari. Ed è propiu in chistha casa chena l’uguari chi candu don Ambrosginu, maggiori di l’esercitu e vecciu vaggianu, ha fundaddu lu zischuru cattoriggu “A.Manzoni” so intraddi generazioni e generazioni di giobani a la ischuza, in buttini (pogghi) o in botti grossi (guasi tutti) ma mai nisciunu, puru pudendisi mubì undi vuriani e cumenti vuriani s’è attribiddu a tuccà un fenu che un fenu.

La cappella, didicadda a Santu Luisi, chi era a manu manca intrendi; la dumenigga candu si dizia la Messa era ibbarria ibbarria di jenti cumenti ibbarria ibbarria era lu saroni d’inverru e lu custhiri d’isthiu pa assisthì, paghendi poggu e nuddha, a lu tiatru chi faziani li zischurini visthuddi cu li custhumi dill’epuca. Indiminticabiri la Morthi e Passioni chi faziani sempri in Chedda Santa.

A pinsavi, a finu, lu più cunnisciddu e vuruddu bè era don Ambroginu, tantu è veru chi, candu è morthu in continenti, la dì chi ni l’hani arriggaddu e l’hani posthu i la cappella in terra addananzi a l’althari cumenti vuria sempri eddhu, v’è passaddu addananzi, pa dalli l’ulthimu saruddu tuttu lu paesi. La dì chi zi l’hani pusthaddu li trabagliadori chi erani isthaddi zischurini hani iviaddu pa pudellu accumpagnà pa l’ulthima bostha. Addareddu a lu bauru tappaddu da la bandera itarìana, lu sindigu cun tutta la puburazioni e addanazi, prima di una fira longa di predi, di fraddi, oifanelli ed assiziazioni religiosi, un picchettu d’onori militari cu un suldhaddu chi pusthaba un cuscinu cu innantu lu barrettu di maggiori e li midagli, chi era isthaddu fattu viní da Sassari di lu generali Gutierrez chi era amiggu intimu di don Ambruginu.

Attaccaddu a casa di don Antoni lu parazzettu di lu nutaiu Cottoni. Sei figliori, quattru masci e dui femminini guasi tutti laureaddi ed unu, Saivadori, avvucaddu ma chi ha fattu in vidda soia soru puritigga ed è giumpiddu a cantighi manni. Era infatti candu è morthu, vice ministhru a li “trasporti”. Naddu i lu 1916 mosthu i lu 1974.

Una janna ainsobbra, la casa di Pinotto Mannu Ricci (1885 – 1970), generari di la milizia, gubennadori di l’Albania, e amiggu intimu di Mussurini.

Sempri azzendi, lagadda l’isthrinta di Cunventu chi postha a lu Baroni, la casa Marogna, una di li ginii più ricca di Sossu e chi un figlioru, Preddu, s’è laureaddu in midizina ed è dibintaddu un chirurgu di vama e Rettore di l’Universiddai di Sassari.

Iglianu Leonardi (1899 -1989) artista d’isthatui e pittori di tarentu mannu isthazia dui janni appoi di Marogna.

La casa di Giannettu Masala (1884 – 1917) pueta e patriota era guasi l’usthima di la carrera.

Addananzi a chisth’usthimi casi, li baischoni di lu parazzu di Saivadori Farina (1846 -1918), ischrittori umbé funtumaddu no soru in Itaria.

Cosa althru si pò aggiugnì pa cumprindí l’impusthanzia di chistha carrera?

Una cosa soru, si pudaristhia punì una targa ischribendibi:

Chista è la carrera di

Saivadori Farina
Giuanni Baraca
Antoni e Ambrosginu Cicu
Saivadori Cottoni
Pinotto Mannu Ricci (!)
Preddu Marogna
Iglianu Leonardi
Giannettu Masara

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In conclusione

(Piero M)

A questo punto sarebbe d’obbligo percorrere a piedi e senza fretta questa strada, tutt’altra che larga come dice ziu Andria, purtroppo sempre più soffocata dalle auto parcheggiate e da quelle in transito. E farlo con rispetto, pensando che all’ interno di quelle case che si affacciano, oltre viverci oggi persone comunissime di indubbio valore, vi hanno anche vissuto, come detto all’ inizio, persone che, in un modo o nell’ altro hanno portato oltre gli stretti confini territoriali il nome di questa cittadina della Romangia, sia nell’arte e sia nella letteratura, lasciando un grande esempio, ai locali soprattutto, d’impegno civile e sociale, come nel caso del mancato prete Ambrogino. Molto, ma molto meno, in ambito militare, nonostante le medaglie ricevute da chi ha contribuito a portare morte e distruzione fuori dall’ Italia ma anche al suo interno. Il riferimento è al gerarca fascista Giuseppe Mannu Ricci, chiamato Pinotto in paese. Trasferitosi in Cirenaica, una regione della Libia, al comando di una Centuria di camicie nere – mania ricorrente del regime mussoliniano  far uso di termini dell’ antico impero romano – , combatté contro i ribelli locali. “Ribelli”, leggo nella pagina che segue a lui dedicata, come se chi si ritrova invaso con brutale violenza da forze straniere e tiranniche non abbia il diritto di difendersi. Ah, l’ illusorio sogno dell’italico Impero! Ma su questo è bene ritornarci in altro luogo.

Per informazione soprattutto dei miei concittadini, riporto parte dei dati biografici, riguardanti la  “carriera”  a servizio del regime fascista, di Mannu Ricci pubblicati nel 1934 su “La Nazione Operante”

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Nato in Sardegna, Giuseppe Mannu – Ricci proviene dallo Squadrismo della Venezia Giulia. Dopo la Marcia su Roma venne incorporato nella Milizia con il grado di Centurione e contribuì alla costituzione della 62^ Legione ” Isonzo “, che lasciò nel Febbraio 1926 per trasferirsi in Cirenaica, dove assunse il comando di una Centuria di Camicie Nere. Con detta Centuria sistemò e difese i più importanti presidi della Cirenaica, da Bir el Bid a Regina, da Zuetina a Giof el Matar, e in quest’ultimo presidio costruì la ” Ridotta Teruzzi “.
Prese parte a vari combattimenti contro i ribelli. Rientrato in Italia con il grado di Seniore, tenne prima il comando titolare della 150^ Legione ” G.Carli ” di Barletta e poi della 177^ “Logudoro”.Venne promosso Console nel Febbraio 1931. Nel Dicembre 1932 fu chiamato a Roma al Comando Generale e fu per qualche tempo Capo Ufficio dell’Opera Previdenza e Pensioni. Prese parte a tutta la guerra italo-austriaca, sempre con reparti in prima linea; e sulle Dolomiti, sul Carso, in Val Sugana e sul Grappa diede costantemente la propria opera di puro combattente sardo. Fu il primo difensore, nel Novembre 1917, del Monte Pertica, al comando di un Gruppo di Battaglioni. È decorato al Valor Militare.Durante la campagna d’Africa Orientale comanda, con il grado di Console, la 219^ Legione “Ricciotti”, della 7^Divisione “Cirene “.

Quando i fumetti erano il nostro fantastico mondo

di Piero Murineddu

Certo, col tempo che trascorre cambia la sensibilità  e cambiano anche i modi che le persone hanno di stare insieme. Cambiano anche le cosiddette mode, da me considerato quasi un aspetto negativo, dal momento che spesso è un semplice accodarsi a ciò che qualcun altro ha deciso, di solito col portafogli ben gonfio e con la bramosia di gonfiarlo sempre più.

Nell’ambito della dolce età infantile, preadolescenziale ma anche adolescenziale, sono le diavolerie elettroniche che attirano e occupano il tempo, per cui, l’atmosfera descritta da Leo Spanu nel frammento tratto dal suo libro I ragazzi delle case Incis”  del 2012 che riporto a conclusione di questa pagina, bisogna averla vissuta direttamente per capirla fino in fondo.

È stato detto e stradetto che prima dell’avvento della televisione e quindi dell’immancabile appuntamento con la TV dei ragazzi e sopratutto Carosello, la vita si svolgeva per le strade e la strada era realmente una scuola di tutte le discipline: imparare a relazionarsi con gli altri, ad accettare e ad accettarsi, a difendersi, a scoprire la propria e l’altrui sfera sessuale e ad approcciarsi con essa. S’imparava anche l’arte del commercio, ed ecco quindi lo scambio di cioccurini (tappi schiacciati di bottiglie di vetro), di cristhallini (palline coloratissime di vetro), di frigurini (soprattutto di giocatori ma non solo), di gionarini, e Blek macigno, Capitan Miki, Zagor e soprattutto Tex Willer erano i nostri eroi, e spesso volevamo prendere il posto di Roddy, Doppio Rhum, Dottor Salasso, Cico, Tiger, Kid, Carson…. per stare al loro fianco ed essere più partecipi alle loro avventure, da dove uscivano sempre vincitori e il cattivo veniva giustamente sempre sconfitto e umiliato.

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Più avanti arrivarono anche quelli un tantino  zozzetti, ma trafficare con questi ci creava qualche problemino, sia per il turbamento che provocavano nella fragile psiche in formazione,  sia perchè costretti a nasconderli alla vista delle nostre mamme, desiderose di farci crescere il meglio possibile, con pensieri buoni e specialmente ….con una buona vista.  Questi personaggi erano una prerogativa dei maschietti, mentre li “femmini” iniziavano a deliziarsi e a sognare con le storie d’amore interpretate dai vari Franco Gasparri e Franco Dani, Adriana Rame, Paola Pitti, Katiuscia.

Quante serate imbusginaddi i li ianniri delle case a contrattare e a scambiarci quelli già letti! E che affutta quando la storia iniziata a metà volume riprendeva nel numero successivo che naturalmente non si riusciva a trovare facilmente nel “mercato” serale, per cui si era costretti ad andare da Signor Bacio, rinunciando così a comprarsi lu semini e lu fasgioru tondu da  “Buio” (il vicino concorrente nella piazzetta domenicale era leggermente antipatichetto) prima di rinchiuderci nel cinema “Verdi” ad affumicarci e a misurare col pensiero la circonferenza dei muscoli del culturista Steven Reevers che interpretava Ercole, Maciste e Sansone.

Adesso, oltrepassati da diversi anni la sessantina, mi ritrovo spesso il comodino pieno di libri iniziati che pazientemente aspettano mogi mogi di essere ripresi in considerazione. Questa trascuratezza non esiste proprio quando mi capita di riprendere in mano i già letti e riletti Diabolik che non ricordo mai come vanno a finire, per cui li apro come se fosse quasi  la prima volta, e man mano che li scorro, non so mai dove l’inafferrabile eroe delinquente ladro e spietato assassino  ha predisposto l’ingegnoso trappolone per fuggire con la sua sempre bellissima Eva Kant, lasciando di stucco L’ispettore Ginko e i suoi agenti.

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Quando i fumetti erano il nostro fantastico mondo

di Leo Spanu

Leandro non aveva mai provato simpatia per Matteo. Istintivamente. Avevano la stessa età, stavano crescendo insieme nello stesso ambiente ma non erano amici, Il loro era più che altro una specie di rapporto di affari. Matteo possedeva la più grande raccolta di fumetti e giornalini della città, almeno così si favoleggiava. Faceva scambi solo alla pari con tutti gli altri ragazzi ma di fatto nessuno riusciva a sorprenderlo e a chiudere un buon altare perché lui possedeva tutti i fumetti. Quindi accettava qualsiasi cosa per il baratto: biglie di vetro(almeno quattro per il più piccolo e insignificante giornalino), francobolli, figurine della serie degli animali e dell’Isola del tesoro. Oggetti che pagavano solo il prestito perché l’acquisto aveva prezzi proibitivi per tutti. Lucianino lo chiamava lo stronzino ed era l’unico che rifiutava qualsiasi rapporto commerciale con Matteo, Leandro invece riusciva a chiudere discretamente qualche trattativa perché possedeva qualcosa che a Matteo mancava: l’intera collezione del Giorno dei Ragazzi.

Si trattava dell’inserto del Giorno, il quotidiano che comprava suo padre. Usciva ogni giovedì ed era un vero giornale a parte, di formato diverso, con storie a puntate di vari personaggi tra i quali il viaggiatore spaziale Dan Dare e il mitico Cocco Bill di Jacovitti, che appariva per la prima volta solo su quel giornale. Matteo aveva cercato di convincere il padre a comprare anche lui il Giorno ma inutilmente. Un buon trevigiano legge solo il Gazzettino non quel giornalaccio della borghesia milanese e di quel Mattei.

Così Leandro, per una copia avuta in prestito del Giorno chiedeva in cambio una copia di Blek Macigno e una di capitan Miki, sempre in prestito, alternati a volte con Tex Willer o il Vittorioso.

Un giorno Matteo invitò Leandro e Giulio Cesare a vedere la sua collezione di fumetti, un avvenimento. Nessuno dei ragazzi era mai entrato in casa sua, perché i genitori di Matteo, lui alto funzionario del Tribunale e lei insegnante di scuola superiore, non gradivano gli amici del figlio, quasi tutti meridionali. Quel giorno non c’era nessuno in casa, neanche la cameriera. I due ragazzi entrarono nella stanza di Matteo (Possedeva una stanza tutta per sé. Beato lui!) e subito lo sguardo cadde su due enormi bauli spalancati che traboccavano di giornalini, al posto delle monete d’oro, come in un film di pirati.

— Possiamo toccarli?

— Certo.

Leandro e Giulio Cesare si tuffarono letteralmente in quel paradiso di carta stampata e disegnata. C’erano tutti i numeri dell’Intrepido e del Monello e oltre ai soliti Topolino, Tex Willer, capitan Miki e il grande Blek; c’erano molte copie dell’Uomo Mascherato, di Mandrake, di Flash Gordon, di Nembo Kid e di tanti altri, qualcuno mai sentito nominare.

La sofferenza dei giovani

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di Andrea Castiello d’Antonio, psicoterapeuta

Dovremmo tutti occuparci dello stato di salute psicofisica ed esistenziale e della sofferenza dei giovani. Dovrebbero farlo in primis chi si occupa della cosa pubblica, dell’educazione, della sanità, del lavoro: cioè, tutti responsabili del funzionamento dei grandi sistemi sociali che tengono in piedi e fanno sviluppare una nazione.

Sono molti i segnali del disagio tra i giovani, e qui ne prenderemo in considerazione soltanto due: la salute psicofisica e l’aspetto del lavoro.

LA SALUTE PSICOFISICA

Dalla Pandemia Covid-19 ad oggi sono notevolmente aumentati i DISAGI PSICHICI nelle fasce evolutive. Si tratta di sofferenze di vario genere che vanno dalle forme di ansietà ai disturbi alimentari, dalla disforia di genere all’autolesionismo: quest’ultimo fenomeno può sembrare incredibile agli occhi di molti, ma è drammaticamente presente anche i ragazze/i apparentemente “normali”.

Infliggersi lesioni, il più delle volte tagli sulle braccia e sulle gambe, come ESPRESSIONE FISICA DELLA SOFFERENZA INTERIORE o come, assurdamente, lenimento della “sofferenza mentale” sostituita con una più controllabile “sofferenza del corpo”. E nei casi più gravi si giunge al tentativo di suicidio e al suicidio realizzato.

I recenti dati UNICEF indicano il suicidio come la seconda causa di morte per i giovani di età compresa tra i 14 e i 24 anni (la prima causa di morte sono gli incidenti stradali!).

Sembra che siano i giovani della cosiddetta “Generazione Z” a essere i più esposti, in questi tempi, ad attacchi di angoscia e a forme importanti di depressione.

L’allarme è stato dato da tempo e da parte di diversi e autorevoli esponenti come il Prof. Stefano Vicari, primario di neuropsichiatria all’ospedale “Bambino Gesù” di Roma.

Diverse situazioni di disagio psicologico sono legate a problematiche scolastiche, dal BULLISMO alla SPINTA AD OTTENERE PRESTAZIONI ELEVATE in un clima di competizione di classe; in altri casi è l’ambiente della famiglia a costituire, purtroppo, il bacino di sviluppo di comportamenti insalubri: come ha sottolineato di recente il Prof. Matteo Lancini, i primi modelli di riferimento della DIPENDENZA DA SOCIAL E DA INTERNET sono proprio i genitori!

Anche abitudini alimentari appaiono, in molte situazioni, del tutto deragliate e forse anche qui un controllo e un esempio in famiglia potrebbe risultare un fattore di prevenzione: l’uso smodato di alcol assunto nelle forme miste e meno consone è già di per sé un fattore di forte allarme perché impatta con strutture nervose centrali che sono ancora in formazione (senza contare tutti gli altri danni).

Quando l’alcol si associa all’ assunzione di sostanze si palesa pure il rischio di sperimentare una delle forme di angoscia più dure che un adolescente può vivere, cioè la bouffée psicotica.

LO STUDIO E IL LAVORO

Nel mondo dell’istruzione è sempre più presente il bullismo, l’attacco aggressivo deliberato scatenato da un gruppo di compagni contro un singolo soggetto, sia a livello fisico e sociale, sia per mezzo dei social media.

L’impossibilità di vivere una normale vita di studi per molti giovani porta con sé effetti ampi e profondi dato che molte delle SKILL e delle sicurezze interiori dei giovani si formano nei contesti educativi di primo e secondo grado, e poi via via nel corso delle altre tappe di studio

Emerge qui il fenomeno dei NEET – NEITHER IN EMPLOYMENT, NOR IN EDUCATION AND TRAINING, cioè i giovani che non studiano, non lavorano, non colgono occasioni di formazione e non ricercano un lavoro, che sono in Europa circa il 19%, ma in Italia, sulla base delle statistiche Eurostat del 2022, sono moltissimi: il 25%, un giovane su quattro, nella fascia compresa tra i 25 e i 29 anni (ma, naturalmente, il fenomeno interessa anche soggetti di età più avanzata).

Tra i 20 e i 24 anni i NEET sono uno su cinque (21,5%), mentre tra i 15 e i 19 anni – quindi nel periodo in cui il sistema scolastico dovrebbe legare a sé i giovani – sono il 10%.

Le ragazze (e in specie le giovani madri) com’era prevedibile, considerato il divario globale che continua a sussistere nel lavoro tra maschi e femmine, sono ancora più soggette al fenomeno NEET. Tutto ciò si verifica nelle età in cui le capacità e le potenzialità di un essere umano dovrebbero, potrebbero e avrebbero tutto il diritto di… esplodere! Il mondo NEET, almeno in Italia, è comunque assai variegato.

Dai soggetti in condizione di dispersione scolastica fino a coloro che hanno acquisito titoli elevati che il mercato del lavoro non assorbe, permanendo IN ATTESA DELLA PRIMA OCCUPAZIONE DIGNITOSA; dai giovani DEPRESSI E SCORAGGIATI, a coloro che si sono abituati a svolgere mille lavoretti saltuari e in nero, e proseguono così.

L’OMS ha richiamato l’attenzione sul fatto che circa il 75% delle PSICOPATOLOGIE GRAVI prende avvio prima del compimento dei 25 anni, ma gli esordi si possono vedere molto prima nel corso dello sviluppo.

Coloro che oggi chiamiamo “giovani” saranno gli adulti di domani con tutto il loro bagaglio di (speriamo) sicurezze in loro stessi, competenze, motivazioni, orientamenti costruttivi e fattivi verso la vita e verso il futuro.

Ma se si tollerano o si ignorano i segnali di sofferenza di oggi, questi segnali, un domani, potranno tramutarsi in condizioni di disagio profondo, relativamente stabili.

Condizioni di devianza, di marginalizzazione, di impoverimento progressivo di sé stessi e delle proprie qualità, fino a scivolare nell’antisocialità, nella delinquenza e nella criminalità.
Condizioni che porteranno altri a navigare pigramente, a lasciarsi vivere supportati, fin che c’è, da qualche sostegno esterno.

Insomma, in un clima di incertezza e difficoltà globale a livello mondo, cosa offriamo ai nostri giovani, quali supporti diamo, CHI SE NE STA VERAMENTE OCCUPANDO?

Soprattutto, dove e come sono dislocate le risorse economiche, professionali e sociali non solo del PNRR ma anche delle annuali leggi di bilancio?

A cosa si vuole dare priorità, al ponte sullo stretto di Messina o alla salute delle generazioni future; a cementare ulteriormente il territorio o alla messa in sicurezza dei centri abitati, scuole comprese; alla creazione fittizia e temporanea di posti di lavoro di scarso significato o alla creazione di un tessuto sociale e lavorativo che possa accogliere produttivamente i giovani nella loro prima e tarda adolescenza?

Le Comunità Romanès: un enorme patrimonio dilapidato

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di Santino Spinelli “Alexian”

La popolazione romanì, costituita da diversi gruppi che si autodeterminano come

                                                        Rom

Sinti

Kale

Manouches

Romanichals

 

rappresenta, con oltre undici milioni di persone, la più grande minoranza etnica europea. Presenti in ogni Stato dell’Unione Europea sono conosciuti con l’eteronimo peggiorativo di zingari e parlano la lingua romanì. In Italia il 60% dei 170 mila Rom e Sinti sono di antico insediamento (XV secolo), sono sedentarizzati e hanno cittadinanza italiana.

Lo sguardo strabico imposto sulla loro esistenza, deforma la realtà, mistifica la loro cultura e deprezza la loro dignità. Il contributo che queste comunità potrebbero recare alla società europea è trascurato anche a causa di pregiudizi: i Rom rubano i bambini! Salvo scoprire che la Magistratura non ha mai condannato nessuno. La persistente esclusione della popolazione romanì, numericamente consistente come quella belga o greca, è inaccettabile nell’Europa del ventunesimo secolo, basata sui principi dell’uguaglianza, della democrazia e dello Stato di diritto. Trovare soluzione ai loro problemi va a tutto vantaggio delle società e delle economie europee. I Governi perdono in termini di redditi e di produttività sprecando i potenziali talenti di queste comunità. L’esclusione e l’assistenzialismo costano molto più dell’inclusione. Ma l’integrazione è come l’amore: si fa in due. Le comunità romanès non hanno bisogno di un mercato del lavoro a parte né di scuole che perpetuino la segregazione. Occorre superare i campi nomadi che sono ghetti ripugnanti che producono effetti collaterali devastanti.

La segregazione razziale è illegale, è un crimine contro l’umanità ed è indegna di un Paese civile.

Chi commette reati deve essere punito, ma non si può condannare un popolo intero. Un’indagine condotta in sei Paesi dell’Unione Europea (Bulgaria, Ungheria, Lettonia, Lituania, Romania e Slovacchia) ha rilevato che solo il 42% dei bambini Rom completa la scuola elementare, rispetto a una media europea del 97,5%. Per l’istruzione secondaria, la frequenza dei Rom è stimata ad appena il 10%. Nel mercato del lavoro le comunità romanès presentano tassi di occupazione più bassi e una maggiore discriminazione. Spesso non hanno accesso ai servizi essenziali come l’acqua corrente e l’elettricità. Anche dal punto di vista sanitario esiste un divario: la speranza di vita dei Rom è di 10 anni inferiore alla media dell’Unione Europea, che è di 76 anni per gli uomini e di 82 per le donne. Il Fondo Sociale Europeo è un importante strumento a sostegno dell’integrazione. Assicurare a queste comunità l’accesso a posti di lavoro e a un’istruzione non segregati, ad alloggi e servizi sanitari è essenziale per la loro inclusione. L’integrazione delle comunità romanès potrebbe offrire notevoli vantaggi economici. Con un’età media di 25 anni contro i 40 anni dell’Unione Europea, la popolazione romanì rappresenta una percentuale crescente della popolazione in età lavorativa. Secondo le ricerche della Banca mondiale, la completa integrazione delle comunità romanès potrebbe apportare un beneficio di circa 0,5 miliardi di euro l’anno alle economie di alcuni Paesi, aumentando la produttività, tagliando le spese sociali e accrescendo le entrate fiscali. Molti i provvedimenti presi dai più importanti organismi istituzionali. Le Risoluzioni e le Raccomandazioni adottate sono tante, ma poco applicate dai Governi nazionali. Nel 1948, l’ONU dopo i crimini perpetuati dai nazi-fascisti (oltre mezzo milione di Rom e Sinti seguirono la stessa sorte degli ebrei nel Porrajmos -divoramento-) promulgò la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Nel documento sono sanciti diritti fondamentali che, ancora oggi, sono   violati nei confronti dei Rom. Essi non sono percepiti come una minoranza etnica ma piuttosto come disadattati da controllare o escludere.

 

Ernesto e la realistica utopia della Comunità di Solentiname

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di Gianantonio Ricci (confronti.net)

Era il gennaio del 1975 quando, leggendo una sua intervista, seppi dell’esistenza del poeta Ernesto Cardenal e della sua comunità nell’arcipelago di Solentiname nel Gran Lago del Nicaragua. L’intervista mi colpì profondamente, perché per me le sue idee e opere rappresentavano una sorta di sintesi delle aspirazioni di molti giovani cristiani che come me erano figli sia del ’68 che di Woodstock.

In quelle righe Ernesto trapelava una fede profonda, un misticismo cosmico, ma allo stesso tempo una profonda decisione a contribuire come cristiano alla liberazione del suo amato Nicaragua dal giogo della dittatura dinastica dei Somoza ed alla costruzione di una società giusta. Inoltre affermava chiaramente che la poesia e l’arte in tutte e sue espressioni erano connaturati agli essere umani. A distanza di anni potrei affermare senza indugi che per Ernesto Cardenal la caratteristica più genuina dell’essere umano è la sua capacità di creazione artistica, in primis della poesia.

Decisi che volevo conoscere quell’esperienza. Gli scrissi. Mi disse che potevo andare a trovarlo. Vi arrivai nel marzo del 1976. Da allora sono diventato solentinamegno ed ho vissuto in Nicaragua la maggior parte della mia vita.

Per quanto riguarda la fede, Ernesto Cardenal era un mistico. In alcune sue poesie, scritti e interviste parla di come il 2 giugno del 1956 ebbe un’esperienza mistica totalizzante. Lui stesso affermava di essere stato posseduto da Dio, che da allora la sua vita si era trasformata e aveva deciso di farsi monaco trappista. Così dal 1959 al 1960 fu novizio nel Monastero Trappista di Gethsemani in Kentucky (USA) ed ebbe il sublime Thomas Merton come maestro di novizi. Per ragioni di salute fu costretto a lasciare la trappa dopo solo due anni. Se ne andò, ma con sé portò la missione, indicatagli dallo stesso Merton, di creare una comunità di contemplazione in qualche posto remoto del Nicaragua.

Fu così che nel 1966 fondò con due seminaristi colombiani la Comunità contemplativa di “Nuestra Señora de Solentiname” nell’omonimo arcipelago sito nel Gran Lago del Nicaragua.

Ben presto la Comunità, alla luce delle folate di dirompente ottimismo che generò la Conferenza di Medellín dei Vescovi Latinoamericani del 1968, si trasformò in una Comunità di “cristiani per il socialismo”, come si diceva allora.

Quando vi arrivai il nucleo della Comunità, cioè le persone che vivevano con lui nei due ranchos (1) che fungevano da dormitori, erano otto. Elbis, Laureano ed Alejandro, tre giovani contadini originari del luogo, che poi furono rispettivamente un martire, un eroe ed un distaccato dirigente della Rivoluzione Sandinista, decisero di essere i suoi novizi ed abitavano nel suo stesso rancho. Nell’altro rancho viveva William (uno dei due seminaristi colombiani) che nel frattempo aveva sposato Teresa con cui aveva avuto due figli, Juan ed Irene. Inoltre c’era un bungalow prefabbricato in legno con la funzione di casa per gli ospiti. In questa foresteria c’erano perennemente ospiti delle più varie nazionalità. Soprattutto artisti come scrittori, pittori e cantanti; ma anche sacerdoti, agronomi e ragazzi che come me credevano in un cristianesimo catalizzatore di solidarietà e giustizia.

C’era poi un gruppo di ragazzi e ragazze dell’arcipelago che erano coinvolti dalla Comunità del poeta in moltissime attività, soprattutto nei laboratori che si promuovevano per cercare opzioni di economia locale: artigianato in legno di balsa, tessitura, ceramica, pittura naïve, ecc. Alcuni di questi giovani costituirono addirittura una vera e propria cooperativa agricola, cosa impensabile ed ancora meno realizzabile nel Nicaragua dei Somoza.

Il terzo “cerchio” della Comunità era tutta la popolazione delle 36 isolette. Circa mille abitanti che ogni domenica si riunivano nella cappella, che Ernesto ed i suoi compagni di Comunità avevano ricostruito e decorato copiando disegni di bambini semplici e vivaci. Questi tre ambiti della Comunità di Ernesto Cardenal non erano gerarchici. Erano solo diversi contesti di lavoro. Infatti i colloqui di esegesi del Vangelo domenicale che Ernesto realizzava con contadini, pescatori ed artigiani, uomini e donne, giovani e non di Solentiname erano una vera scuola di teologia della liberazione. A tal punto che quei commenti furono raccolti in due tomi intitolati “Il Vangelo di Solentiname”.

Ernesto era perciò un mistico di grandissima fede ed allo stesso tempo un cristiano che incarnava la convivialità e l’attenzione per i poveri che il Nazareno ci ha insegnato molto chiaramente, ma che spesso rimane sepolta da tradizioni, riti e conformismo.

Tutta la sua poesia, ovvero il suo sentire, pensare ed agire, almeno dopo essere stato amato da Dio, è una continua interlocuzione fra una fede cosmica che contempla l’immensità di Dio e la piccolezza dell’essere umano, fra le meraviglie dell’universo e della vita, la partecipazione attiva alla liberazione del Nicaragua e la vita quotidiana a Solentiname.

Dirigeva la Comunità, partecipava attivamente alla politica, commentava la parola di Dio, studiava sempre, ma soprattutto creava. Non solo scriveva poesie assiduamente, ma era anche un rinomato scultore. Le sue sculture stilizzate di animali e piante sono la chiara materializzazione del suo costante stupore nei confronti della bellezza intrinseca delle creazione. Colgono, nell’essenza, le forme e i colori delle creature e le materializzano come una lode ad alta voce al creato, fatta di duro legno tropicale e dipinta con vernice da carrozziere.

Cardenal fu perciò anche maestro di artisti e promotore artistico. A Solentiname ideò i laboratori di poesia con gli abitanti del luogo; laboratori che poi furono diffusi da lui stesso in tutto il Nicaragua, insieme ai laboratori di pittura primitivista, quando fu ministro della Cultura del Governo Sandinista negli anni ’80.

Oltre all’impegno politico e culturale, negli ultimi anni si dedicò ad approfondire le sue conoscenze scientifiche per poter portare la sua poesia a essere l’espressione di quello stupore dell’umanità di fronte alle nuove scoperte della fisica, la chimica, la biologia e tutte le scienze e, allo stesso tempo, a essere quel canto al Creatore che nei poemi di Ernesto Cardenal è sempre stato presente sin da quando ricreò i Salmi contestualizzandoli nella realtà del Nicaragua oppresso dal tiranno. Creò così ciò che lui chiamava poesia scientifica e che è l’espressione ultima di quello che lui ha sempre sostenuto e praticato, ovvero che tutto ciò che ci circonda è fonte di poesia. Tutto è poesia e la poesia è tutto.

(1) Rancho=casa tipica dei contadini dei tropici. Di solito è una struttura di legno, con pareti di tavole di legno e tetto di “paglia”, ovvero di foglie di palme meticolosamente collocate. Di solito un tetto di palma ben fatto può durare una decina d’anni.

https://www.vita.it/il-potere-corrompe-ogni-cosa-ernesto-cardenal-da-cristo-alla-rivoluzione/

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Le MANGANELLATE di Pisa non sono un ” incidente”

 

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di Giovanni Vighetti       (volerelaluna.it)

Le manganellate sulla testa degli studenti a Pisa e Firenze, non diverse da quelle che più volte, con l’aggiunta dei lacrimogeni CS ben pericolosi per la salute, hanno colpito a Torino o in Valle di Susa, meritano un ragionamento più ampio rispetto alla situazione contingente.

“Sparare a vista” è il titolo di un libro di Camilla Cederna, giornalista scomoda per il Potere, che ricostruisce la feroce repressione nei primi anni Settanta e in particolare le uccisioni, da parte della Polizia, di

SAVERIO SALTARELLI
GIUSEPPE TAVECCHIO
FRANCO SERANTINI
ROBERTO FRANCESCHI
CLAUDIO VARALLI
GIANNINO ZIBECCHI.

Leggere le pagine della Cederna o di Corrado Stajano sull’assassinio di Franco Serantini, massacrato di botte da 10 “celerini”, con manganelli e calci di fucile sul Lungarno Gambacorti di Pisa il 5 maggio 1972, e poi lasciato agonizzare per due giorni in cella fino al decesso, è più che angosciante. Partecipava a una manifestazione contro un comizio fascista del MSI. Eloquente fu il manifesto di denuncia affisso sui muri di Pisa: “La polizia, a 27 anni dalla caduta del fascismo, uccide per permettere a un fascista di parlare”.

Nella meticolosa opera di controinformazione Camilla Cederna mette sotto accusa non solo la violenza delle Forze dell’ordine ma la “gestione” politica dell’ordine pubblico, il ruolo di copertura garantito alla polizia da una larga parte della magistratura e l’emarginazione dei magistrati impegnati a difendere i diritti dei cittadini. In quegli anni la sigla degli attuali Reparti mobili della Polizia di Stato era la “Celere”, creata da Mario Scelba, area autoritaria della Democrazia Cristiana, dal cui nome deriva il termine scelbismo che automaticamente richiamava la linea dura della repressione antidemocratica delle manifestazioni di dissenso. Scelba, che fu anche il primo firmatario della “Legge truffa” (il tentativo, nel 1953, di modificare a uso e consumo del Potere la legge elettorale svuotando il proporzionale a favore del maggioritario), riteneva la Celere una sorta di “cavalleria motorizzata” e i cavalli erano le jeep lanciate a velocità folle contro i manifestanti.

Milano 17 aprile 1975, Giannino Zibecchi viene travolto e ucciso da un blindato della polizia.

Napoli 16 maggio 1975, Gennaro Costantino muore travolto da una jeep della polizia.

Le stesse scene della “cavalleria motorizzata” si sono riviste nel luglio 2001 a Genova, in occasione del G8, segnato da una violenza inaudita ma mirata a bloccare la crescita del movimento internazionale contro la globalizzazione neoliberista. E in piazza Alimonda il 20 luglio 2001 viene ucciso CARLO GIULIANI.

Si può affermare che, senza soluzione di continuità e in questi ultimi tempi con aumento sensibile, non è mai venuto meno il leitmotiv reazionario delle cariche violente e non motivate della polizia, l’uso eccessivo del manganello, del lacrimogeno sparato anche ad altezza d’uomo contro le manifestazioni di dissenso sociale, dello sgombero violento di picchetti e sit in di operai in difesa del posto di lavoro.

Ragionare su come possa un poliziotto colpire con la violenza del manganello la testa di un manifestante, chiedendosi: ma non ha un figlio studente, un parente disoccupato, non ha mai perso il lavoro, non ha mai avuto un’idea di maggiore giustizia sociale ecc., non porta da nessuna parte.

Il problema è più generale e investe l’architettura e l’organizzazione delle forze di polizia come dell’esercito le cui leve di comando, con rare eccezioni, sono storicamente rimaste avvolte dal filo nero di responsabili già compromessi con il fascismo e non epurati, i quali a loro volta hanno selezionato i propri eredi per garantire la continuità della visione conservatrice e reazionaria. Ed è difficile entrare in un corpo delle forze dell’ordine e mantenere, quando c’è, una visione progressista in un ambiente fortemente caratterizzato in senso autoritario se, resistendo ai condizionamenti, si rischia l’emarginazione.

È utile ricordare che persino l’agente della CIA Steve Pieczenik, che partecipò ai comitati di crisi durante il rapimento Moro, si diceva stupito della presenza di tanti ex fascisti all’interno dei servizi segreti, tanto da avere l’impressione di ritrovarsi «nel quartiere generale del duce, di Mussolini».

Scrive l’ex magistrato Ferdinando Imposimato: «Cossiga, su sollecitazione di Licio Gelli, inserì nel comitato di crisi del Viminale, che gestì il caso Moro in senso contrario alla sua salvezza, affiliati alla P2 tra cui Federico Umberto D’Amato, già capo del disciolto ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno (tessera 554), Giulio Grassini, capo del Sisde (tessera 1620), Giuseppe Santovito, capo del Sismi (tessera 1630), Walter Pelosi capo del Cesis (tessera 754), il generale Raffaele Giudice, comandante generale della Guardia di Finanza (tessera 535), il generale Donato Lo Prete, Guardia di Finanza (tessera 1600), l’ammiraglio Giovanni Torrisi, capo di Stato maggiore della Marina (tessera 631). Ancora: il colonnello Giuseppe Siracusano (tessera 1607), il prefetto Mario Semprini (tessera 1637), il professore Franco Ferracuti (tessera 2137), agente della CIA e consulente personale del senatore Francesco Cossiga, il colonnello Pietro Musumeci dell’Arma dei Carabinieri, vice capo del SISMI (tessera 487)».

Non c’è stato il rinnovamento democratico delle forze di polizia nell’immediato dopoguerra per l’amnistia di Togliatti, per l’opera di ostruzionismo della DC supportata dalle pressioni americane e poi per la timidezza del centrosinistra, che anche nei momenti di maggiore forza non ha avuto il coraggio di incidere radicalmente per una svolta, nemmeno per ISTITUIRE IL NECESSARIO NUMERO DI IDENTIFICAZIONE SUL CASCO DEGLI AGENTI, LA CUI ASSENZA HA SEMPRE GARANTITO L’ ANONIMATO A CHI USA VIOLENZA.

La “macelleria messicana” alla scuola Diaz in occasione del G8 a Genova, sostanzialmente impunita, come le torture nella caserma Bolzaneto, ne sono la prova, così come, a breve, finirà nel nulla l’inchiesta sui “picchiatori” di Pisa e Firenze.

Le forze dell’ordine, nel loro insieme, costituiscono un bacino elettorale storicamente di destra, che FdI e Lega si contendono a suon di promesse d’impunità a prescindere. S******, per il suo forsennato bisogno di rastrellare voti a danno di FdI, spesso non sa di cosa parla e in relazione alle manganellate di Pisa ha dichiarato che «chi mette le mani addosso a un poliziotto o a un carabiniere è un delinquente», capovolgendo la realtà dei fatti perché sono stati gli studenti a prendere le botte.

Ma non vale la pena di commentare frasi di chi, secondo molti, in altra epoca sarebbe stato un buon giullare di corte. Il problema sono le incredibili dichiarazioni del centrosinistra, a prescindere o per mancanza di coraggio politico o per sentirsi parte dell’establishment, a favore delle forze dell’ordine senza capire che in questo modo si accresce solo il distacco con il Paese reale e con quella che dovrebbe essere la sua base di riferimento, perché CHI DISSENTE E MANIFESTA RIVENDICA PRIMA DI TUTTO IL DIRITTO DEI CITTADINI A PARTECIPARE ED ESSERE ASCOLTATI.

Perché per dirla come la cantava Giorgio Gaber «La libertà non è star sopra un albero / Non è neanche il volo di un moscone / La libertà non è uno spazio libero / Libertà è partecipazione» e non bisognava attendere l’importante dichiarazione del Presidente della Repubblica per denunciare la sistematica delegittimazione e repressione del dissenso.