“La pioggiona notturna e il soffiare del vento che hanno cullato il mio sempre poco dormire...”.
Iniziava così la pagina che precisamente dodici mesi fa dedicavo al giorno di nascita del caro David Maria, Bepi per i genitori e amici d’ infanzia.
A un anno di distanza si ripete quasi identica la stessa situazione. Una pioggia che sta cullando il mio riposo notturno con poco sonno sta introducendo questo mercoledì, oggi non accompagnata dal rumore inquietante del vento.
Ieri sera un improvviso e fortissimo tuono ha quasi anticipato il lampo che normalmente lo precede, proiettando istintivamente il mio pensiero in quei luoghi di guerra dove i botti prodotti dalle bombe provocano distruzione e continue morti di persone innocenti e indifese.
Un ripetuto “non aver paura di niente” rileggo nella pagina, frase che oggi mi pare del tutto fuori luogo pensando a chi con la paura è costretto a conviverci momento dopo momento in troppe parti del mondo.
Nei luoghi dove si sono svolti episodi più o meno storici riportati nella Bibbia finalmente sembra ci si sia accordati per una tregua che permetta lo scambio tra ostaggi da una parte e prigionieri rinchiusi nelle carceri israeliane dall’altra, e specialmente faccia sperare che ancora i cervelli, a partire da quelli che detengono il potere, vengano usati come dovrebbero: costruire Umanità, non distruggerla.
E mentre Guidone Crosettone, che non si sa più se sia ministro della Difesa o della Guerra, ci preavvisa su chi dovrà prepararsi a indossare la divisa, armarsi e partire…
…io ascolto una dolce canzone in proposito del grande Ivano Fossati…
…che culla e accompagna il mio pensiero in questo silenzio notturno, ricordando la nascita di quel grande uomo di Pace qual’è stato l’ indimenticabile e preziosissimo David Maria.
Correva l’anno 1867.
L’allora deputato delle donne, come era definito, Salvatore Morelli, chiese ai suoi colleghi deputati: “Signori ma voi tenete la donna per cosa o per persona?”.
Quale fu la risposta è semplice immaginarlo… “Dio ha creato prima l’uomo e poi, dalla costola di Adamo, aveva creato la donna. Quindi il compito della donna poteva essere solo quello di procreare e di essere l’angelo del focolare.”
Salvatore Morelli combatteva contro i mulini a vento, contro un pensiero arcaico e vetusto che fondava le sue radici nella notte dei tempi, da quando la donna aveva assunto il ruolo di indifesa creatura in cerca di sostegno e protezione.Ma la storia ci insegna ben altro, ci regala molti esempi di donne forti e capaci che hanno saputo dimostrare il loro valore in tutti i campi.
A consolidare, in quel tempo, il ruolo di secondo piano delle donne contribuì anche un manifesto ecclesiastico del 1895 che riassumeva in poche drammatiche righe la funzione che la donna aveva all’interno della famiglia.
Il dovere della sposa era di…
• Voler bene al marito • Rispettarlo come capo • Obbedirlo come nostro superiore • Assisterlo con premura • Ammonirlo con reverenza • Rispondergli con grande mansuetudine • Tacere quando è alterato • Pregare per esso il signore • Sopportare i difetti • Schivare la familiarità con altri uomini • Non consumare la roba in vanità • Essere sottomessa alla madre dei mariti ed ai suoi vecchi • Umile e paziente con le cognate • Prudente con quelli della famiglia • Amante della casa • Riservata nei discorsi • Osservatrice dei doveri religiosi.
Morelli si batté a lungo per le donne, contro l’arcaica mentalità dei suoi colleghi. Nel 1875 presentò, con un apposito disegno di legge, la richiesta del diritto di voto per le donne. Questa, e molte altre richieste, non vennero prese in considerazione.
Finalmente nel 1877 il Parlamento italiano approvò il suo progetto di legge, “legge Morelli n. 4176 del 9 dicembre 1877”, per riconoscere alle donne il diritto di essere testimoni negli atti normati dal Codice civile, come i testamenti, importante progresso per i risvolti economici e per l’affermazione del principio di capacità giuridica delle donne.
Grazie al suo impegno, le ragazze furono ammesse a frequentare i primi due anni del Ginnasio. Morì in miseria nel 1880, lasciando all’Italia delle donne una piccola grande eredità, l’inizio di un lungo percorso per l’universo femminile verso il riconoscimento di diritti basilari che per noi oggi sono scontati.
L’oscurantismo del periodo fascista che voleva nuovamente la donna chiusa dentro casa, rallentò ulteriormente quel percorso verso la piena libertà delle donne.
I tempi sono cambiati, lentamente, la società si é evoluta, ma nonostante questo stereotipi e pregiudizi non sono del tutto scomparsi…anzi, ultimamente sono prepotentemente ritornati con un’ondata di pensiero medioevale, propria di una certa politica che sfoggia rosari durante i comizi per raccogliere voti.
Sembra passato tantissimo tempo da quel giorno del 1867 quando il Morelli si batteva per le donne. Eppure, per certi versi, siamo ancora a combattere, contro la retorica di chi ci vuole prima moglie e madri e poi donne.Il medioevo è sempre in agguato, per dire la sua su vecchi e nuovi temi, per una nuova caccia alle streghe, e ha il volto della diseguaglianza….
Sono passati 80 anni da quel 21 novembre 1943 quando l’esercito tedesco assassinò 110 civili inermi a Pietransieri, frazione di Roccaraso, in Abruzzo. Altre 18 persone erano state uccise nei giorni precedenti. 128 vittime, delle quali 82 donne e 37 bambini sotto i dodici anni. Il più vecchio aveva 80 anni e il più piccolo appena un mese; unica superstite una bambina di 7 anni, Virginia Macerelli che, pur rimanendo gravemente ferita, si salvò perché nascosta dalle vesti della madre.
La loro sola “colpa” fu quella di trovarsi nel posto sbagliato, ovvero in un luogo considerato strategico per la Wehrmacht: la Linea Gustav, che Hitler aveva ordinato di costruire per cercare di fermare l’avanzata degli angloamericani, sbarcati a Salerno il 9 settembre 1943. La Linea Gustav congiungeva la parte più stretta dello stivale, dal Garigliano sul Tirreno fino ad Ortona sull’Adriatico, passando per Cassino, le Mainarde, gli altipiani maggiori d’Abruzzo e la Maiella. Pietransieri, situato su uno sperone roccioso a 1300 metri di quota, era per i tedeschi uno dei capisaldi del fronte di difesa verso il quale si dirigevano gli Alleati.
Il feldmaresciallo Albert Kesserling, comandante supremo delle forze armate tedesche in Italia, aveva fatto affiggere a Roccaraso, Rivisondoli, Pescocostanzo, Roccacinquemiglia e Pietransieri un manifesto in cui era scritto:
“Tutti coloro che si troveranno ancora in paese o sulle montagne circostanti saranno considerati ribelli e ad essi sarà riservato il trattamento stabilito dalle leggi di guerra dell’esercito germanico”.
Fucilazione immediata.
Gli uomini erano stati rastrellati e costretti a lavorare alla fortificazione della Gustav, mentre donne, anziani e bambini erano stati sfollati dalle loro case, caricati a forza sugli automezzi e diretti verso Sulmona. Anche gli abitanti di Pietransieri avevano dovuto abbandonare le loro abitazioni ma molti di essi si erano rifugiati nei casolari del bosco di Limmari, dove avevano i loro animali, convinti che lì sarebbero stati lasciati in pace.
Il 12 novembre i tedeschi incendiarono la casa di una anziana paralizzata che morì nel rogo. Nei giorni successivi si susseguirono razzie, uccisioni del bestiame ed esecuzioni sommarie che portarono alla morte 17 persone. All’alba del 21 novembre una pattuglia di soldati tedeschi arrivò nel bosco di Limmari e, casolare per casolare, cominciò a mitragliare tutte le persone che vi avevano trovato rifugio. Il maggior numero di morti si avrà nell’ultimo casolare dove venne fatta esplodere anche una mina che i soldati avevano portato a dorso di un mulo.
Nessuno si salverà dalla furia omicida dei tedeschi, tranne due bambini, ambedue di 7 anni: Virginia Macerelli, protetta dal corpo della madre, sopravviverà perché la nonna la mattina del giorno dopo andrà a recuperarla; l’altro bambino, Flavio De Matteis, non verrà invece aiutato da nessuno e morirà sul luogo dell’eccidio in seguito alle gravi ferite riportate. Dopo la strage i corpi vennero abbandonati nella neve. Solo nella primavera del 1944, quando il fronte si sarà spostato verso nord, i familiari poterono recuperare i resti dei loro cari e seppellirli.
Secondo lo studioso Paolo Paoletti la responsabilità diretta dell’eccidio va attribuita all’ufficiale che era al comando del reparto militare di stanza a Pietransieri, il capitano George Schulze, morto nel 1993 e decorato con la croce d’argento proprio nel 1943. Come tante altre stragi compiute dai nazisti in Italia anche quella di Pietransieri nel dopoguerra finirà nell’oblio.
Nessuno pagherà per i 128 civili inermi assassinati. La magistratura militare italiana per 50 anni occultò le prove sui crimini di guerra compiuti dalle forze armate naziste nel nostro Paese. Solo nel 1994 vennero casualmente rinvenuti nel cosiddetto “armadio della vergogna”, presso la Procura generale militare, 695 fascicoli riguardanti eccidi compiuti nel corso dell’occupazione tedesca. Così le vittime furono uccise due volte: dalle armi tedesche e dalla giustizia negata italiana. Ma la responsabilità non fu soltanto militare, bensì conseguenza di precise scelte politiche. “L’irrisolta questione dei criminali di guerra costituiva la grande rimozione nei rapporti italo-germanici – scrive lo storico Mimmo Franzinelli nel libro “Le stragi nascoste” -; la sua eventuale soluzione esigeva l’estradizione degli imputati, provvedimento sgradito sia ai governanti tedeschi che alle autorità italiane. Nella seconda metà degli anni Cinquanta il procuratore generale militare Arrigo Mirabella concordò col ministero degli Affari esteri una linea di condotta di assoluta inerzia, ispirata alla ‘ragion di Stato’. Il liberale Gaetano Martino, ministro degli Esteri, e il democristiano Paolo Emilio Taviani, ministro della Difesa, stabilirono di lasciare impregiudicata la questione dei crimini di guerra”.
Nel 2017 il Tribunale di Sulmona ha condannato la Germania al risarcimento di un milione e seicentomila euro nei confronti del Comune di Roccaraso e di circa cinque milioni per gli eredi delle vittime dell’eccidio. Nella motivazione della sentenza si legge che “la verità è che una simile strage fu resa possibile proprio dalla sistematica accondiscendenza, quando non dalla sollecitazione, da parte dei vertici dell’esercito tedesco di tali atti di assassinio, sterminio, deportazione e violazione della vita privata ai danni della popolazione civile”. La Corte Costituzionale però, nel luglio scorso, ha imposto uno stop alla sentenza affermando che nella procedura esecutiva opera l’immunità ristretta degli Stati, come già riconosciuto dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aia in favore della Germania, e ha stabilito che l’estinzione di diritto delle procedure pendenti è compensata dalla tutela introdotta con l’istituzione del Fondo per i ristori, di importo pari alle somme liquidate con sentenze passate in giudicato.
Nel 1967 è stato costruito il “Sacrario dei Martiri dei Limmari” dove sono state portate le spoglie degli uccisi. Le pareti del tempio sono coperte di targhette in pietra con il nome e l’età di tutte le vittime. In occasione dell’inaugurazione il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat ha concesso a Pietransieri la Medaglia d’oro al Valor Militare. Ogni anno si svolge la “fiaccolata della memoria”. Gli abitanti salgono in fila fino al bosco di Limmari e, davanti alle lapidi poste a ricordo, si soffermano e leggono i nomi di tutte le persone trucidate.
Nel 2009 i registi Anna Cavasinni e Fabrizio Franceschelli hanno realizzato il film “Il sangue dei Lìmmari” con la comunità di Pietransieri e le interviste ai testimoni dei tragici eventi ancora in vita.
Medaglia al “valor militare”?
Si legge nella motivazione per la medaglia d’ oro:
« Pietransieri, nobile e generosa frazione montana del Comune di Roccaraso, conferma ancora una volta le elevate tradizioni patriottiche e la insofferenza al servaggio delle forti popolazioni abruzzesi, reagiva con la più ostinata opposizione ad ogni invito dell’oppressore alla collaborazione, subendo intrepidamente depredazioni, saccheggi, incendi e distruzioni. l’uccisione ad opera dei partigiani di due militari nazisti offriva all’invasore il pretesto per far pagare a tutta la popolazione il prezzo della fiera resistenza, per cui, in sette giorni, il nemico barbaramente trucidava, con disumana e bestiale ferocia, ben centoventotto abitante per la maggior parte donne, vecchi e bambini, indifesi ed affamati. L’olocausto di tante innocenti vite umane testimonierà per sempre l’alto, nobilissimo contributo di sacrificio e di sangue offerto dalla popolazione di Pietransieri a difesa dell’onore, della libertà e dell’avvenire della Patria.18 gennaio 1967″
” …reagiva con la più ostinata opposizione…”
” …subendo intrepidamente…”
“…a difesa dell’ onore, della libertà e dell’ avvenire della Patria”
Quanta miserabile retorica! Che c’ entra questa non voluta morte col valore militare?
Come sentiremo nel filmato che segue – che raccomando vivamente di seguire con altrettanto silenzioso rispetto come fa la comitiva che ripercorre, al seguito di uno storico e di un attore/ musicista, i tragici eventi di quei giorni di novembre del 1943 – a quella povera gente trucidata non importava subire “intrepidamente” né tantomeno “difendere l’ onore della Patria”, ma unicamente scampare ad una morte inflitta vigliaccamente senza colpa alcuna e senza capirne minimamente il motivo, come accade nelle guerre di sempre.
A seguire la testimonianza di Virginia Macerelli, allora sette anni, unica superstite all’ orrore, salvatasi perché non vista e perché, poco più tardi, creduta morta. (Piero)
“Il sangue mi si era assunto addosso”
A novembre, cominciarono a venire i tedeschi. Dicevano che dovevamo scappare perché il paese doveva essere distrutto. Si sono presi tutti gli uomini per la guerra, anche mio padre ed altri due miei fratelli, quelli più grandi.Dopo, Pietransieri è stata sfollata, perché bombardavano il paese e mettevano fuoco alle case.
Siamo andati alle masserie, a Lìmmari. Mia madre con sei figli è andata a Lìmmari e siamo stati per due notti sotto un albero, con una tenda. Avevamo tutti fatto delle tende. I tedeschi venivano, ci interrogavano, bombardavano il paese e prendevano tutti gli animali, i maiali e quello che trovavano.
Il 16 novembre per primo hanno preso mio fratello. L’hanno portato a Pietransieri con i maiali e l’hanno ucciso. Poi hanno preso l’altro mio fratello e l’hanno ucciso in un boschetto.
Noi siamo rimasti sotto la tenda per altri cinque giorni. Il 21 novembre sono venuti di nuovo i tedeschi dicendo che dovevano ammazzare tutti quanti. Poi venne un tedesco, era bravo, e ci disse che dovevamo scappare, perché sarebbe venuta la SS e tutti kaputt. Con la mano aveva fatto cenno: tutti kaputt. Abbiamo cominciato a scappare verso Castel di Sangro…
Dopo mezz’ ora è arrivata la SS e ci hanno raggruppati. C’era un tronco d’albero e hanno fatto sedere la gente intorno. Poi hanno messo una mina, grande come un vaso di fiori e l’hanno fatta saltare. Dopo che la mina era scoppiata, i tedeschi cominciarono ad uccidere i feriti con la mitragliatrice.
Io stavo sotto braccio a mamma. Ero la più piccola dei figli. Si sa che quando c’è un pericolo la madre stringe a sé tutti i figli. Io ero la più piccola e così mi ha abbracciato. Mia madre aveva uno scialle sulle spalle e come i tedeschi hanno mitragliato è caduta ed è morta all’ istante.Io sono caduta sotto a mamma e sono rimasta lì, lo scialle di mamma mi aveva coperto…
Tutti strillavano. La prima volta che hanno cominciato ad uccidere che urli si sentivano! Poi è rimasto solo silenzio. Non si sentivano neanche più gli uccelli. Niente. Non si sentiva niente. Tutto il mondo era silenzio. Sono rimasta lì sotto a mamma, zitta, non parlavo. Ero piena di buchi, sono piena di buchi. Buchi che passano da parte a parte. Dopo un po’ ho cominciato a muovermi, ma ho visto che c’erano solo morti. Uno sopra l’altro, tutti morti.
Avevo alzato la testa quando ero ancora sotto a mamma ed avevo visto mio fratello che mi stava vicino. Mi ha detto: Virginia, è morta mamma? Io gli risposi di sì. Era morta sull’istante, l’avevo morta su di me. Mio fratello aveva un buco fatto con la mitragliatrice. Un buco da parte a parte che gli aveva trapassato un occhio. Poi, dopo che gli avevo risposto, abbassò la testa e morì anche lui…
I tedeschi si erano allontanati un bel po’, avevano ammazzato e se ne erano andati. Dopo un po’ però sono ritornati per vedere se i morti erano davvero morti. Andavano con la pistola in mano, e con il piede spostavano la gente. Allora io abbassai la testa sotto lo scialle di mamma e così non mi videro. Chi invece si muoveva ancora, veniva ucciso con un colpo di pistola alla testa. Sono rimasta sotto a quei cadaveri per due giorni e due notti.
Poi, dopo tutto questo tempo, ho visto due donne di Pietransieri che venivano lì vicino. Allora le chiamai, perché le avevo riconosciute e chiesi loro se mi potevano portare via. Mi sollevarono dai morti e mi portarono vicino ad un ruscello d’acqua. Poi mi dissero: “Adesso vediamo se c’ è qualcuno della tua famiglia, così ti mandiamo a prendere. Tu aspetta qui”. Loro non mi poterono portare via, perché ognuno cercava di scappare per salvarsi.
Sono rimasta vicino a quel ruscello un’altra notte, insieme ad un ragazzo che si era salvato. Questo ragazzo stava peggio di me, era ferito gravemente alle mani e poi non poteva camminare.
Quella notte, quelle due donne ci misero dentro ad una mangiatoia in una masseria, dove c’erano gli animali. Era notte tardi e vennero ancora i tedeschi. Questa volta misero fuoco alla masseria. Cadevano tutte le travi di legno del soffitto. Ci cadevano addosso grossi carboni. Dissi a quel ragazzo che si chiamava Flavio: “Se non ci hanno uccisi i tedeschi, mica dobbiamo morire abbruciati”, e così siamo saltati giù dalla mangiatoia. Poi tutti e due ci siamo rotolati per terra e siamo usciti dalla masseria. Siamo andati vicino ad un ruscello d’acqua. Stavamo tutti e due stesi per terra.
La mattina seguente, i tedeschi andavano ancora in giro con il fucile in mano. Così dissi a Flavio: “Questi abbaiano come i cani, quindi non sono italiani. Tornano un’altra volta”. Forse è stato Iddio….. Stavamo stesi per terra come morti, e come i tedeschi sono venuti ci puntavano il fucile dietro le spalle, e con il piede ci muovevano per vedere se eravamo morti. Niente. Noi non ci siamo mossi. Né io né Flavio. Quelli dissero: “ja, ja, kaputt, kaputt” e se ne andarono.
Più tardi, sempre di mattina, arrivò mia nonna che era viva e che era stata in un’altra masseria. Quelle donne che mi avevano visto le avevano detto che stavo lì. La sentivo strillare. Chiamava e chiamava i miei fratelli, mia sorella e mia mamma, ma sapeva che erano morti. Lo faceva con disperazione. Poi chiamava me: “Virginia, Virginia”. Era venuta con un’altra donna. Si avvicinarono ed avevano una pizza fatta con il pane. Quelli sono bambini ed avranno fame, pensavano. Ma io neanche dopo otto giorni ho potuto mangiare. Quel ragazzo invece ha preso la pizza e l’ ha mangiata. Mia nonna quel ragazzo non l’ha potuto portare. Era ferito peggio di me. Quando mia nonna mi prendeva sotto le gambe io strillavo, se mi prendeva sotto le braccia lo stesso.
Mia nonna diceva: “Come faccio a portarti, figuriamoci Flavio”. Poi mi prese per una spalla, dove avevo meno dolore e mi caricò su di sé. Quel ragazzo è rimasto lì, non l’hanno potuto portare.
Mi hanno portato in una masseria dove c’era tanta gente di Pietransieri, che si era salvata.
Quando mi videro ero un vaso di sangue. I panni mi si erano attaccati addosso, ero senza scarpe… Non sapevano dove mettere le mani. Dicevano: “E ora come facciamo?” Non mi potevano toccare perché i panni mi si erano attaccati addosso; dopo quei giorni il sangue si era assutto addosso. Così prepararono un caldaio d’ acqua, lo misero in una bagnarola e mi calarono lì dentro per un bel po’. Poi una donna di Pietransieri, che ora è morta, cominciò con una forbice a tagliare piano piano i vestiti. Quando mi tolsero tutto e videro tutti quei buchi, tutte quelle ferite, strillarono loro per me.
Io ho cinque buchi, al braccio, al petto e alle gambe. Alla fine mi lavarono tutta e con qualcosa di lino mi disinfettarono i buchi. Dopo mi avvolsero dentro un lenzuolo, senza mettermi niente addosso e mi sistemarono in quella masseria. Acqua e sale mi hanno guarito…
Le donne che mi avevano curato andarono il giorno dopo a prendere Flavio, per salvare quell’altra anima di Dio. Così dicevano le donne di allora. Ma non era andato nessuno a prenderlo. Aveva camminato molto perché lo ritrovarono in un’altra masseria. Morto.
Dopo, da Pietransieri io, mia nonna e quella vecchietta andammo a S. Demetrio, dove siamo rimasti fino alla fine della guerra…
Durante il fascismo i treni arrivavano in orario e gli scioperi erano proibiti. Adesso è EmmeEsse che provvede ad ambedue le cose, precetta e fa ponti d’oro ai treni, forse per rinverdire l’idea che il fascismo non era poi tanto male.
Deve pensarlo anche Giorgia Meloni se vuole fare una riforma costituzionale che al fascismo faciliterebbe la strada: se infatti a qualcuno venisse in mente di riprovarci, cosa ci sarebbe di meglio per farlo che un Capo del governo o un insieme di governo che sia padrone del potere e inamovibile per cinque anni, non revocabile per il venir meno della fiducia dei cittadini e del Parlamento?
Ce la presentano come una riforma per il premierato, opinabile perché comunque un premier ci vuole, ed è invece un ribaltone per abolire il controllo della perdurante fiducia al governo.
Un governo così sarebbe del tutto in grado di instaurare il fascismo. Né lo impedirebbe la foglia di fico di un Presidente della Repubblica figurativo con 88 corazzieri di altezza superiore alla media.
La nostra memoria storica ci dice di non permetterlo. Non possiamo permetterci di ripetere un errore e una tragedia già accaduti. Ogni popolo ha avuto la sua sciagura originaria che ha poi spesso portato inenarrabili sciagure ad altri popoli e Nazioni.
Noi abbiamo avuto il fascismo dopo la legge Acerbo (*), i Tedeschi il nazismo dopo le elezioni del 1932, gli Americani la guerra di secessione per la contesa sulla schiavitù, i Russi la domenica di sangue e il massacro al Palazzo d’Inverno nel 1905 per mano dello Zar, gli Armeni il genocidio, gli Ebrei la Shoà, i Palestinesi l’espulsione e la Nakba, i popoli dell’America Latina le dittature plebiscitarie con i cittadini gettati in mare o “scomparsi”, la maggior parte delle altre Nazioni sono state assoggettate a regimi militari, Imperi e colonie.
Quasi sempre cinque anni sono bastati a ciascuno, spesso dietro finzioni democratiche o a causa di sbagliate elezioni, per cadere nella catastrofe e avere un battesimo di sangue.
Dobbiamo perciò avvertire il pericolo e non permettere l’uscita dalla Repubblica parlamentare, “Prima” o “Seconda Repubblica” che la si voglia chiamare, che pur con tutti i suoi difetti e le perduranti irrisolte povertà, ha il sapore della Costituzione e delle libertà conquistate.
Come cittadini, Italiani per nascita o per accoglienza, dobbiamo contrastare questa “madre” di tutte le riforme. “Tutte”.
È la madre del fascismo che è sempre incinta, e anche oggi non fa che partorire l’ennesimo decreto di sicurezza, che moltiplica pene e reati, dai mendicanti alle donne incinte, dall’intralcio alla circolazione stradale alle occupazioni abusive, alle proteste nelle carceri e nei centri dei migranti, che siano in Italia o nella discarica dell’Albania, e distribuisce più manette e più armi.
(*)La legge 18 novembre 1923, n. 2444, nota come Legge Acerbo (dal nome del deputato Giacomo Acerbo che ne redasse il testo), fu una legge elettorale del Regno d’Italia, adottata alle elezioni politiche italiane del 1924. Introdusse un premio di maggioranza al sistema proporzionale. Fu voluta da Benito Mussolini per assicurare al Partito Nazionale Fascista una solida maggioranza parlamentare.(da Wikipedia)
Mi sembra molto opportuno quest’oggi – domenica liturgicamente dedicata ai TALENTI e alla severa reazione, nella parabola, nei confronti del servo che, unicamente mosso dalla PAURA, ha seppellito quanto affidatogli – ascoltare la conferenza sul tema fatta ben otto anni fa da Enzo Bianchi, quando ancora mai avremmo immaginato che da lì a poco il mondo intero sarebbe stato imprigionato da una pandemia che, oltre a causare innumerevoli morti, ci avrebbe portato ad avere scrupoli persino nel baciare i nostri figli. Figuriamoci poi nel dover assistere, praticamente impotenti, all’ idea di una autodistruzione del pianeta che parrebbe diventare sempre più verosimile per l’ insensatezza di chi governa le nazioni.
Il vecchio monaco lo chiarisce da subito e la riflessione non riguarda solamente i credenti.
LA TERRA COME COMUNITÀ FRATERNA DA CUSTODIRE AMOREVOLMENTE
Da un’ intervista di Lucia Agati a Mariangela Maraviglia
Domanda
Perché ha scelto di dedicarsi a una figura come quella di Adriana Zarri?
Risposta
Adriana Zarri non è stata una mia scelta. La leggevo però sulle pagine di «Rocca», era la prima donna teologa riuscita a farsi ascoltare, e proprio sul suo esempio avevo pensato, concluso il liceo, di studiare “solo” teologia. Perciò quando l’Associazione Amici di Adriana Zarri mi ha proposto di occuparmi di lei ne sono stata davvero felice. A pochi anni dalla morte, questa figura che in vita aveva avuto una certa notorietà per i suoi scritti e per la sua partecipazione a trasmissioni televisive come Samarcanda di Michele Santoro, è quasi del tutto dimenticata. Ho trovato ancora affascinante il suo profilo di donna di lotta e di preghiera, capace di intrecciare fieri interventi polemici contro ingiustizie sociali e contraddizioni ecclesiali con una dimensione contemplativa che la portò dal 1975 a condurre vita eremitica nella campagna piemontese. Quegli eremi divennero oasi di bellezza, spazi di respiro spirituale per credenti in ricerca o non “regolari”, per non credenti aspiranti a un “assoluto” come Rossana Rossanda, Pietro Ingrao, idealmente Pier Vittorio Tondelli, suo lettore. Furono anche realizzazione di una vita «ecologica» come allora si iniziava a dire, condivisa con piante e animali che facevano sentire Adriana in armonia con il creato, immersa «nella comunione cosmica».
D
Cosa ha provato quando l’ha incontrata personalmente?
R
La incontrai nel 1996, quando a Pistoia si presentò il suo libro Quaestio 98. Nudi senza vergogna (Camunia 1994), sguardo positivo sul corpo e sulla sessualità dopo una lunga tradizione mortificante. Rimasi sorpresa e forse anche un po’ delusa dalla sua “normalità”, dal suo rifiuto di accampare meriti speciali per quella vita a cui io invece riconoscevo, e amavo riconoscere, qualcosa di straordinario. Ho capito poi, leggendo i tanti suoi scritti e ascoltando numerosi testimoni, la profondità del suo quotidiano «semplicemente vivere», frutto di una profonda libertà interiore radicata nella grande tradizione biblica e spirituale cristiana.
D
Qual è il ricordo più significativo che le ha lasciato?
R
Su più piani la memoria di Adriana mi appare oggi da recuperare. Trovo molto contemporanea la sua sensibilità verso la terra come comunità fraterna da custodire amorevolmente, il suo vissuto di sobrietà, esempio di un equilibrio tra umani e ambiente non più differibile per il presente e il futuro del pianeta. Trovo da riscoprire o da scoprire diversi suoi scritti, che ritessono con creatività fili di pensiero, poesia, mistica, regalando pagine di grande intensità al lettore. Al fondo è il suo profilo di originale cercatrice di Dio che mi ha coinvolta e anche emozionata, il suo «cristianesimo mistico» aperto ai valori essenziali del Vangelo, al dialogo tra culture e tradizioni diverse, alle esigenze più profonde del cuore di ognuno.
D
Quale messaggio può suggerire la scelta eremitica di Adriana?
R
Nella lettera circolare che inviò agli amici il 1° settembre 1975, annunciando la sua scelta eremitica, Adriana scrisse che il suo trasferimento non era un «ritirarsi» come in un «guscio», al riparo delle difficoltà di tutti: «Nel deserto si entra, si cammina, ci si immerge, assumendo la storia e i problemi di tutti». La distanza era per lei occasione di concentrazione e riflessione sul male del mondo, per una contestazione più interiore e più lucida. Credo che queste parole con il loro portato di solidarietà e di spinta critica esprimano con molta eloquenza un messaggio valido anche per noi.
Diciamo che si può “essere fuori di sé dalla gioia” o “scoppiare di felicità”. E davvero la gioia, la felicità sono emozioni che sembrano proiettarci al di là di noi stessi, in una dimensione che esorbita il nostro angusto “io”. Il rapporto causa-effetto fra sentimento e “fuoriuscita” è, però, forse diverso da ciò che queste espressioni evocative suggeriscono.
Sono felice in questo preciso istante? Non saprei. Ho tante preoccupazioni addosso, legate sia al clima cupo che aleggia sul mondo, fra guerre, crisi ecologica, discriminazioni e disuguaglianze crescenti, sia alle fatiche quotidiane di tante persone e famiglie che incontriamo col Gruppo Abele e con Libera. Gente segnata dalla povertà, dalla malattia, dalla negazione dei propri diritti, dalle minacce del crimine organizzato. Eppure, non posso nemmeno dire di essere infelice.
Perché proprio nel rapporto con queste persone, nei piccoli passi di libertà e giustizia che insieme riusciamo a compiere, trovo la luce che mi insegna la strada, lo stimolo ad andare avanti. Mi è capitato persino nei periodi più bui e nelle situazioni più complesse. Penso ai primi tempi dell’emergenza Hiv/Aids, con quelle persone malate di cui si aveva, più che pietà, terrore. Nessuno le voleva intorno, spesso neppure i familiari stretti. E noi ci inventammo le prime forme di accoglienza: un paio di stanze offerte da un parroco dentro al campanile di una chiesa, poi una comunità in collina.
In assenza di cure mediche efficaci, l’unica possibilità era accompagnare quegli uomini e quelle donne nell’ultimo tratto di strada, con dignità e rispetto. Quanti ne abbiamo visti morire! Celebravamo almeno un funerale a settimana. E quante notti in bianco, a raccogliere angosce, paure, sensi di colpa. Quanto strazio nel vedere la diffidenza e il giudizio dipinti sul volto dei “sani”, lo stigma sociale che aggiungeva dolore al dolore.
Ma se ripenso a quei momenti, non tutto era tenebra. C’era sempre una pennellata di colore, una lama di luce che entrava a squarciare l’oscurità: come nei quadri di Caravaggio. La consapevolezza della morte, sempre presente, restituiva intensità alla vita. L’esperienza bruciante dell’abbandono rendeva miracolosa l’amicizia. Il peso della malattia faceva cacciar fuori ogni respiro con rabbia ma anche con riconoscenza.
Qualche nota inattesa di gioia era sempre pronta a sfidare il dolore-rumore di fondo. La felicità stava nel percorso che ogni giorno si costruiva insieme, per non darla vinta a chi etichettava quelle persone come “vite di scarto” o “esistenze in scadenza”. Qualcosa di simile mi pare accada nel cammino accanto ai familiari delle vittime innocenti delle mafie. Storie gravate da un dolore senza risposta, e spesso senza giustizia. Madri, padri, mogli, figli, mariti, fratelli e sorelle ai quali la criminalità organizzata ha strappato un pezzo di cuore, un pezzo di futuro.
Accostandoci in punta di piedi alla loro sofferenza, sotto la superficie del lutto abbiamo talvolta scoperto le tracce di una felicità ostinata. Quella felicità che somiglia a una parete verticale da scalare in cordata, indicandosi l’un l’altro gli appigli e cercando fiducia nella condivisione. Quando si racconta la propria storia a chi può comprenderla fino in fondo, per averla vissuta uguale, quando si incontrano le orecchie attente di tanti ragazzi e ragazze in giro per l’Italia, pronti a trasformare quella storia in un patrimonio morale e civile, quando – ed è ancora più incredibile – si riesce a instaurare un dialogo con giovani provenienti dagli ambienti mafiosi, e quel dialogo trasformerà le loro esistenze… Ecco che la disperazione lascia il posto alla speranza.
Non è allora la felicità a farci “uscire da noi stessi”, ma diventiamo felici proprio perché questo accade. Perché cioè ci dimentichiamo un momento di noi, sentendoci parte di qualcosa di più vasto. Siamo felici se entriamo in relazione autentica e profonda col mondo. Se sbocciamo e diamo frutto, persino quando tutto intorno sembra destinarci alla sterilità e al pianto. Non a caso “felice” deriva dal verbo latino feo che significa “produrre”. In origine, felice equivaleva a “fecondo”.
Se la felicità è la capacità di fruttificare, la gioia è forse il più succoso di quei frutti. Un sentimento puro, che ho sperimentato ogni qual volta mi sono lasciato toccare dalle sofferenze di altre persone, e ho contribuito a trasformare quelle sofferenze in speranze.
La gioia è il premio di un attimo, la felicità è un impegno costante. Per conquistare l’una e l’altra, bisogna avere la fortuna di scoprire la propria vocazione e aderirvi senza riserve. Può essere una professione, una ricerca, una passione, un ideale per il quale spendersi. Può essere la stessa per tutta la vita o cambiare in base alle circostanze, incluse le più inattese e terribili.
Nel mio caso la vocazione è stato il sacerdozio, ed è anche in quella dimensione che trovo la mia personale via alla felicità. Nel guardare al cielo senza mai dimenticare le responsabilità a cui ci chiama la terra, per realizzare la necessaria saldatura fra fede, etica e azione politica. Il Vangelo l’ho sempre inteso come parola da ascoltare e soprattutto da vivere. Una parola scomoda, perché ci presenta un Dio che non è da cercare, ma da accogliere. Una parola inclusiva, che ci chiede di essere felici per e con gli altri, e grazie alla quale ho potuto realizzarmi in un impegno che abbraccia anche persone con fedi e riferimenti diversi. La felicità è una meta e non bisogna colpevolizzarsi se, di fronte alle prove più dure, lo sconforto prevale. Essere felici non è scontato e neppure obbligatorio. Provare a diventarlo, probabilmente, sì.
La “riforma” costituzionale approvata dal Governo Meloni è la progettata spallata finale al progetto politico della Costituzione. È la rancorosa vendetta di un manipolo di reduci ideologici del fascismo contro lo spirito del 1948: il tentativo di liquidare l’impianto partecipativo che, enunciato nell’articolo 3, permea tutta la Carta.
Fuori i cittadini dai piedi del potere: in un clamoroso ritorno al rapporto diretto tra il capo e la folla che, ogni cinque anni, lo elegge. È la riduzione dell’aula parlamentare, vista ancora come sorda e grigia, a un bivacco di manipoli: i manipoli di chi, magari con il 20% dei voti o nemmeno, se ne prenderà il 55%, rendendola semplicemente inutile. Una claque del capo.
Inutile come i consigli comunali e quelli regionali svuotati dalle leggi presidenzialiste che hanno aperto la breccia culturale da cui sono passate tutte le tentate riforme che volevano, e ora di nuovo vogliono, il “sindaco d’Italia”. È in questi perversi meccanismi locali, oltre che nella parentesi nazionale (presto chiusa) dello Stato di Israele, che si trovano i veri antecedenti di questa mostruosa idea del premierato elettivo.
Perché è questa che va detto: non è presidenzialismo, è un mostruoso “capismo”. Tornano folgorantemente attuali le parole di Lorenza Carlassare: «il presidenzialismo all’americana in Italia non lo vogliono, perché i poteri del presidente sono davvero limitati dal Parlamento e dal potere giurisdizionale, e allora vedono l’idea del semi-presidenzialismo, come un filone che può portare la concentrazione dei poteri in una persona sola. Questa è l’aspirazione».
Un’aspirazione che qua, nel progetto dell’unico governo occidentale guidato da un partito di matrice fascista, si fa scoperta e anzi sfacciata nella formula del premier eletto: un unicum mondiale.
Nei suoi “appunti di Giorgia” (un abominio che solo la sfasciata informazione italiana poteva tollerare) la (anzi, il, virilissimo) presidente del Consiglio si aggira nella stanza di Palazzo Chigi che contiene i ritratti dei predecessori. Col ditino alzato stigmatizza la scarsa durata di ognuno dei presidenti «della Repubblica»: già, perché c’è un enorme non detto. In quella stessa sala, ma la telecamera si guarda bene dall’inquadrarlo, c’è anche (vergognosamente) il ritratto di Benito Mussolini: lui, sì, che è durato vent’anni!
Quel ritratto andrebbe rimosso (e al suo posto affisso un duro monito) non solo per i crimini atroci e devastanti di Mussolini e del suo totalitarismo omicida, ma anche perché quel governo fu illegittimo perché incostituzionale:
«Sotto questa finzione della monarchia di cui il fascismo ha mantenuto fino al crollo l’etichetta, da molto tempo non c’era rimasto niente di vivo: il re costituzionale non solo aveva cessato di essere costituzionale da quando aveva tradito il patto statutario, ma da quando aveva deferito al capo del governo tutti i poteri regi, aveva cessato di essere re. Di solito il colpo di Stato serve ad un sovrano costituzionale per rinnegare la costituzione … ma il monarca sabaudo ha fatto un colpo di Stato per conto altrui» (Piero Calamandrei).
Ed è qui che il precedente, purtroppo, calza perfettamente per descrivere la riforma della nipotina (via Almirante) di un così orrendo nonno: anche il governo che dovesse formarsi dopo l’approvazione (quod Deus avertat) della “riforma” Meloni sarebbe incostituzionale: perché incostituzionale, cioè eversivo della lettera e dello spirito della Carta sarebbe la riforma, ancorché formalmente ineccepibile nei conteggi dei voti.
Mai come e quanto oggi un governo della Repubblica ordisce, di fatto e nella legalità delle procedure, un attentato alla Costituzione: anzi, un colpo mortale.
È dunque il momento di una resistenza che usi ogni mezzo: ogni mezzo purché pacifico, incruento, costituzionale, legale. Ai cittadini, che nella mistificazione di Meloni dovrebbero avere più potere, dovremo chiedere: pensate di averlo avuto nei vostri comuni, nelle vostre regioni? La sanità della vostra regione, il cui capo eleggete direttamente, obbedisce ai vostri bisogni? Ebbene no, care cittadine e cari cittadini, questa è l’ultima rapina della vostra voce, l’ultimo borseggio della vostra sovranità. Se dovesse passare, votereste (ma in quanti?) una volta ogni cinque anni, e nel mezzo verrebbe buttata via la chiave della democrazia: sareste prigionieri impotenti, molto peggio di oggi, nella galera dell’irrilevanza assoluta.
La parola, dunque, al popolo sovrano: in un REFERENDUM in vista del quale il fronte del No deve costruirsi fin da ora nel modo più ampio, fattivo e capace di prendere parola su ogni telefono, in ogni piazza, in ogni televisione.
Come canta Vinicio Capossela in uno splendido brano che invoca le staffette partigiane («Voi che passate il testimone /Perché arrivi più avanti, perché arrivi fino a noi / Che ancora abbiamo da resistere / Al mostro e alle sue fauci sepolte ai nostri piedi), «questa è la libertà: azione e responsabilità».
In margine all’ articolo
di Piero Murineddu
Per accompagnare il pensiero dell’ottimo Montanari – acutissimo 52enne fiorentino, storico che in tutte le occasioni lega intelligentemente tutte le sfaccettature dell’Arte alle vicende della vita passata e odierna – come faccio solitamente avevo intenzione di rilevare qualche passaggio centrale del suo ragionamento e insieme un minimo di dati biografici. Questa volta però faccio diversamente, dato più che chi vuole avere sue notizie sa dove andare a scovarle. L’ ho deciso dopo aver visto un breve video del campione di Italico Leccaculismo, sport molto in voga nell’ “informazione” di questo Paese, malmesso per quanto riguarda la democrazia. Si, quel tipo che apre e chiude le serate nel primo canale televisivo statale, giusto per rendere insonni le notti di chi si ostina in modo masochistico a seguirlo. Costui, ben pagato anche grazie ai nostri soldi estorti col canone obbligatorio, fa uno sfacciato spot governativo riguardo sia all’ argomento trattato da Montanari e sia all’ accordo tra il signor Giorgia e il premier albanese per “incarcerare” i migranti oltre Adriatico. Vederlo e ascoltarlo mi ha confermato il punto estremamente basso di servilismo a cui può arrivare uno che ha perso qualsiasi rispetto di se stesso. Oltre al volto, e di questo mi scuso, ti riporto il link in proposito di seguito…
Lasciamo adesso che le leggi se le fanno secondo una ben studiata strategia con la quale vorrebbero far credere che finalmente, col loro avvento in Italia ci sono dei politici cazzuti. A loro dire, s’intende.
Più che altro voglio riferirmi al “nomale” politico, locale, regionale o nazionale che sia, che quando veniva o viene ancora colto con le mani nel sacco, giammai ammette responsabilità e meno ancora si affretta a dare le dimissioni in attesa di essere giudicato colpevole o innocente. Se qualche fretta c’è, è quella di dire, con una faccia da culo più grande del globo terrestre, che è sereno e che ha piena fiducia nell’operato della Magistratura. Insomma, il politico è sempre infinitamente puro, casto e innocentissimo. Se poi, col procedere delle indagini, s’inizia ad intravedere qualche macchiolina, allora i magistrati sono tutti di parte e sicuramente – orrore degli orrori – “comunisti”, termine oggi considerato la peggiore delle parolacce.
Mi chiedo: ma questi benefattori e missionari che decidono di “mettersi” in politica, si considerano cittadini normali o che altro?
Ho parlato di politici, cioè quelli più vicini alle leve del comando, ma la cosa riguarda pure quelli che maneggiano parecchi soldoni,, le gerarchie militari ed anche religiose, i dirigentoni di diverso ambito….Tutta gente “alta”, insomma.
Va be’ che ormai la normalità, l’uguaglianza (orrore!!) e via dicendo è diventato tutto estremamente soggettivo, con la tendenza diffusa di girarsela e rigirarsela a proprio piacimento con la massima disinvoltura, ma un limite alla decenza bisogna che prima o poi ce lo mettiamo. O no?