Ai nostri morti

di Franco Marcoaldi

Dove stanno acquattati i nostri morti?
In quali angusti anfratti della mente,
in quali sconfinati spazi aperti?
In quali tremolanti porti?
Il loro passo è lento e fiero,
atletico amorevole severo.
Non bussano alla porta delle case,
loro non vanno mai di fretta.
Di rado compaiono nei sogni, appena un cenno;

buttano l’amo, avanzano un quesito … e abbandonano la scena.                                        Nostra e soltanto nostra resta la pena
per quell’incontro troppo fugace.

Perché lo so, o venerato Mondo,
che senza il conforto sagace dei miei morti mai ti potrei lodare.
Per quell’illogica bontà stupida
e cieca, istintiva, ricorrente,
che inonda quanto è vivo
– un cervo agonizzante accudito
da un fratello casuale, il ramo
scorticato che un passante
fascia perché aderisca
meglio al tronco.

Sono quelle schegge di umanità
senza ritorno, piccole crepe
nel grande mare dell’indifferenza,
spicciole figure d’immortalità
figlie di debolezza, granelli
di sabbia che si librano
nel vento a inceppare
il meccanismo feroce
e onnipresente del maligno.

A loro, ai morti,chiedo di offrirmi qualche appiglio.
Lo chiedo a un padre che ho frainteso                                                                                   malgrado fossi figlio suo in tutto: bocca e naso,
sbalzi d’umore, daimon d’amore,
scatti d’ira, frivola leggerezza
e una gravezza incupita e repentina.
Lui conosceva a menadito
insetti e piante e stelle.
L’avessi temuto un po’ di meno
e apprezzato un po’ di più
oggi dalla gioia non starei
nella mia pelle, perché è proprio
nei prodigi di natura, a me
per buona parte ignoti,
che intravvedo
la possibilità di colmare
i miei più dolorosi vuoti.

Chiedo tardivo aiuto
a un fratello che ho perso
troppo presto e non ho
amato a sufficienza.
Tra noi, la vicinanza dell’infanzia
si era crepata nell’età oscura
dell’adolescenza – e a lungo
un’ideologica arroganza mi impedì
di accogliere la sua fragilità
sfacciata ed esibita, il gusto
teatrale di volersi conquistare
a tutti i costi un’altra vita.

Lo vedo ancora avvolto
nella sua elegantissima
vestaglia, combattere con ironico
eroismo l’ultima, disperatissima
battaglia.

E mi domando:
che ho fatto io delle basse
scatole di legno utilizzate
da mio padre
per infilzare insetti? del coraggio
sfrontato di un fratello,
catodico ecce homo, che difese
innanzi al mondo i malati
come lui considerati alla stregua
di appestati postmoderni,
di paria, di reietti?

Poco, ne ho fatto. E oggi
mi restano solo delle povere
parole per provare a restaurare
affreschi esperienza stinti ormai
per troppa pioggia e troppo sole.
Eppure continuo a cercare
tra i morti e continuo a chiedere
aiuto ai trascorsi maestri di versi,
ideatori di catene di segni
che battono il tempo
trovando nel ritmo quanto
altri non vede – anche questa
è questione di fede – una fede
che fa sue le parole “non so”.

Ai nostri mortiultima modifica: 2015-11-02T05:21:15+01:00da piero-murineddu
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