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Sugli abusi delle forze dell’ordine

Consapevolezza o non consapevolezza, questo é il problema…

di Piero Murineddu

La tentazione di mangiare la marmellata di nascosto, come ben sappiamo, ha radici profonde nel cervellino umano, in qualsiasi àmbito si operi. Personalmente considero la vita una successione ininterrotta di decisioni e ciascuna di esse é la misura della personale maturitá raggiunta, se non addirittura della visione che si ha della stessa vita. Lo specchio insomma della libertá interiore, quel preziosissimo stato guadagnato il più delle volte con molta, moltissima fatica.

A partire dal primo momento in cui la mattina apro gli occhi alla nuova giornata che si ha davanti e fino a quando alla sera li richiuderò, é mia responsabilitá decidere se fare un qualsiasi passettino verso questa o quell’altra direzione, e non posso negare di avere la consapevolezza, almeno il più delle volte, delle conseguenze per la scelta fatta.

Questo per quanto riguarda la strettissima sfera privata. Se poi la mia decisione coinvolge anche altri, ricoprendo per esempio un ruolo pubblico, embé, allora  il tutto viene inevitabilmente moltiplicato, e non per cento ma per un miliardo e più. Chi decide nella sua vita d’indossare una qualsiasi divisa, che fino a prova contraria dovrebbe rappresentare l’intero stato sociale, e non ha pienamente consapevolezza su ciò che comporta, beh, allora sarebbe meglio che si procurasse tre o quattro caprettine e se ne andasse a canticchiarsela allegramente su pei ponti. Che poi anche far questo abbisogna di senso di responsabilità!

Ci siamo? Bene. Leggiamo bene quanto scrive Lorenzo e facciamo una buona giornata. Io intanto mi alzo per andare a far pascolare allegramente le mie caprettine….

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Sugli abusi delle forze dell’ordine

di Lorenzo Guadagnucci

Agenti penitenziari indagati a Torino per tortura, carabinieri arrestati a Piacenza per aver costituito in caserma una banda “gomorrista”, com’è stata definita.

Scioccano, queste notizie, perché campeggiano nelle cronache negli stessi giorni e quindi si
sovrappongono, ma non possono sorprendere. Troppi sono i precedenti, recenti e remoti.

Qualcuno ha forse dimenticato le torture nel carcere di Asti e in quello di Sassari, passati per i tribunali e finiti alla Corte europea per i diritti umani di Strasburgo?

O il caso della caserma di Aulla in Lunigiana,
con i carabinieri sotto inchiesta per una lunga serie di abusi denunciati da numerose vittime?

O i falsi e i depistaggi che hanno accompagnato la vicenda dell’omicidio di Stefano Cucchi?

E vogliamo parlare del G8 di Genova? Delle torture nella caserma di Bolzaneto, di quelle alla scuola Diaz, dei falsi, delle menzogne, delle protezioni assicurate ai responsabili?

No, non possiamo sorprenderci se le forze dell’ordine finiscono sotto la lente della magistratura, per il semplice motivo che l’abuso di potere, la tortura, la tentazione di arricchirsi abusando del ruolo conferito dalla divisa sono una minaccia incombente per simili istituzioni.

È così in tutto il mondo. E in tutto il mondo, almeno nei regimi democratici, lo sforzo è teso a contenere i rischi, a mantenere alta la vigilanza, a individuare i migliori strumenti di prevenzione e quelli più efficaci di repressione.

L’Italia, sotto questo profilo, ha uno specifico problema: il tema è considerato un tabù. Non esiste una discussione pubblica, aperta, informata, libera sull’operato delle forze dell’ordine. C’è chi parla di mele marce, chi si premura di mettere in luce la lealtà della grande maggioranza degli agenti, chi interviene per ribadire la fiducia dei cittadini negli apparati.

Dovremmo invece parlare soprattutto delle mancanze strutturali evidenziate in questi anni.

Le nostre forze dell’ordine hanno una tradizione autoreferenziale: teorizzano e praticano la prassi di
lavare i panni sporchi in casa, sono insofferenti verso i controlli esterni, hanno spesso mostrato
un’inquietante tendenza a mentire e a non collaborare con la magistratura. La vicenda Cucchi
insegna ma non è sola ed è impossibile ignorare la lezione del G8 di Genova, con i suoi clamorosi
abusi e l’altrettanto plateale negazione delle proprie responsabilità da parte di tutte le persone in divisa coinvolte, dagli autori materiali ai testimoni alle catene di comando. La consegna dell’omertà è stata osservata quasi senza eccezioni. Basti citare un passaggio della sentenza della Corte europea per i diritti umani sul caso Diaz, laddove si stigmatizza la condotta dei vertici di polizia per avere «ostacolato impunemente» l’azione della magistratura. Non solo si è ostacolato la magistratura, ma una volta scoperti non c’è stata punizione.

È noto, nel mondo, quali sono gli strumenti più adatti per prevenire gli abusi di potere nei corpi di
polizia. Ne citiamo alcuni.

La trasparenza: quanto avviene nelle caserme, gli abusi che vi sono eventualmente commessi, devono essere conosciuti e riconosciuti, perciò può essere utile che vi siano autorità indipendenti -esterne agli apparati- incaricate di raccogliere le denunce e avviare indagini interne, anche a prescindere dall’azione della magistratura.
Gli agenti messi sotto inchiesta dalla magistratura devono essere immediatamente sospesi dal
servizio, a tutela della credibilità del corpo e a garanzia dei cittadini: in Italia non è una prassi, ma
una decisione presa volta per volta, accade per esempio a Piacenza (non solo per gli arrestati), ma non è accaduto in altre pur clamorose vicende, vedi l’inchiesta e il processo Diaz, con i funzionari rimasti sempre al loro posto, in qualche caso addirittura promossi, e infine anche reintegrati in servizio nonostante la giurisprudenza della Corte europea preveda la destituzione in caso di condanna per trattamenti inumani e degradanti e tortura. È bene dirlo chiaramente: sono cattivi esempi venuti dall’alto che hanno un enorme impatto sulla “cultura” e sulle attitudini di chi lavora nei corpi di polizia.

La tentazione dell’omertà e della chiusura corporativa viene combattuta nel mondo – non in Italia – con numerosi altri strumenti, come l’utilizzo di codici di riconoscimento sulle divise, la completa
smilitarizzazione degli apparati (in Italia i carabinieri fanno parte delle forze armate e la polizia ha conosciuto un’involuzione neomilitare nonostante la riforma del 1982, a partire dalle regole di reclutamento), l’apertura alla sindacalizzazione, la creazione di osservatori sulle denunce e le condanne a carico degli agenti in servizio, l’istituzione di canali permanenti di dialogo con la società civile.

Sono misure che vanno tutte nella stessa direzione: apertura alla società, lotta al corporativismo e a quella cultura autoritaria che costituisce il background delle forze di polizia in quei Paesi ‒ in Europa molti, e il nostro è tra questi ‒ arrivati con ritardo alla democrazia.

In Italia è difficile parlare di questi temi. Lo si è visto nel dibattito degli anni scorsi attorno alla legge sulla tortura. Le forze dell’ordine ‒ nella base, nei sindacati, nei vertici istituzionali ‒ hanno vissuto con insofferenza l’avanzare dei progetti di legge, rimasti nei cassetti per decenni e venuti infine alla luce solo per l’enormità delle condanne subite dall’Italia a Strasburgo nei procedimenti Diaz e Bolzaneto. La discussione della legge è stata difficile e a tratti penosa, con un ostruzionismo attivo e palese da parte degli apparati.

Chi chiedeva di introdurre una legge sulla tortura identica alla definizione accettata (anche dall’Italia) in sede di Nazioni Unite, è stato additato come nemico delle forze di polizia. I maggiori partiti politici hanno fatto propria questa distorsione del dibattito e alla fine è stato approvato un testo così contorto e così ambiguo che il Comitato dell’Onu per la prevenzione della tortura ha chiesto al Parlamento di cambiare la legge (appena sei mesi dopo la sua approvazione).

Oggi che le vicende di Torino e Piacenza portano alla ribalta gravissimi abusi di potere e i deficit
strutturali dei nostri apparati, sarebbe il momento di aprire una discussione franca e di mettere all’ordine del giorno qualche serio progetto di riforma.

Negli Stati Uniti, nel pieno delle proteste del
movimento Black Lives Matter qualcuno ha proposto di togliere finanziamenti e addirittura
sciogliere i corpi di polizia inaffidabili.

Senza arrivare a tanto, e nell’enorme differenza delle nostre strutture rispetto agli Stati Uniti, potremmo cominciare a discutere di smilitarizzazione dei carabinieri, di una nuova riforma democratica della polizia, dell’introduzione di un organismo indipendente di controllo sulle denunce di abusi; potremmo insomma cominciare a parlare, liberamente e senza tabù, delle forze dell’ordine come parte della società civile.

Sono certo di vedere?

di Gigi Anataloni
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Oramai ci siamo abituati: l’osservazione astronomica e gli schermi sempre accesi che ci circondano, rendono i segreti dell’universo a portata di sguardo. Nella quotidianità. Basta un computer o un’applicazione sul cellulare per avere splendide immagini della Terra vista dalla Luna, emozionanti vedute della profondità delle galassie e degli intriganti misteri dei buchi neri, e per provare a «contare» le stelle.

Vediamo davvero lontano.

Vedere è un verbo complesso, con molte sfumature di significato: parte dal guardare o immaginare qualcosa, diventa assistere e osservare per notare e constatare, passa poi al giudicare e verificare, controllare e provare, per arrivare infine a valutare e decidere, e molto altro ancora. Tutte queste cose le esprimiamo con «vedere». E poi ci sono il «vedo nero», il «vedo rosso», le «rosee vedute» e le «larghe vedute», c’è il «vedersi» come incontro, il «ci vediamo» come promessa, ma anche il «te la faccio vedere io» come minaccia, il «farsi vedere» come esibizione e rivalsa.

In più, la tecnologia del «vedere», oggi, senza rendercene conto, può procurarci un senso di onnipresenza e di onnipotenza. Con la pressione di un dito su uno schermo possiamo ritrovarci (o avere l’illusione di trovarci) sulla cima dell’Everest, nelle profondità dell’oceano o ai confini dell’universo. Posso vedere di tutto e di tutti, e pensare di essere informato, di conoscere, di sapere.

Vedo tanto, vedo tutto, vedo lontano.

Ma rischio di non vedere la donna che rovista nei cassonetti sotto casa, l’anziano «del 6° piano» che vive nell’abbandono, i miei figli che vedono anche loro tutto in uno schermo, ma nella solitudine. Vedo le coperte e i giacigli dei senzatetto negli angoli della mia città, scocciato dalla sozzura e dal disordine, senza vedere però la persona che lì vive il suo disagio, la sua solitudine e la sua emarginazione. Vedo il migrante dalla pelle scura davanti al supermercato, sento risuonare in me le parole sentite, e magari dette, mille volte su «quelli come lui»: ci rubano il lavoro, vendono la droga, portano delinquenza, approfittano delle nostre case popolari, dei nostri sussidi, ma non riesco a vedere il giovane ferito nel corpo e nel cuore da guerre e fame che l’hanno fatto migrare nonostante il terrore dei trafficanti di uomini.

Vedo il prezzo dei pomodori, quello delle pesche, dei peperoni, del cellulare, della camicia, della benzina. Ma non vedo chi ha raccolto quei pomodori per una paga da fame, schiavizzato dai caporali, sgherri di proprietari terrieri ricattati dalla grande distribuzione che non paga il giusto. Invisibili sono i bambini chi escono dai buchi della terra con il coltan così essenziale per la tecnologia che mi circonda. Lontanissime le donne curve a cucire i miei indumenti. Irreali le cannonate di chi lotta per il controllo del nostro gas e petrolio.

Vedo con orrore e preoccupazione l’Amazzonia in fiamme, ma faccio fatica a vedere il legame tra quegli incendi e l’espansione dei pascoli e la cacciata dei popoli indigeni dalle loro terre per l’insaziabile domanda di carne dei nostri mercati.

Vedo i soliti politici gridare contro i migranti, li vedo, e magari li applaudo (e li voto) anche… ma rischio di non vedere le vite spezzate delle persone trafficate, schiavizzate, abusate sessualmente, costrette in condizioni disumane nei campi di detenzione della Libia, nell’isola di Lesbo, nei campi profughi del Libano; rischio di non vedere gli occhi dei bambini ingabbiati negli Usa, di quelli cacciati come animali ai confini della Bulgaria, dei siriani usati dalla Turchia per ricattare l’Europa, di quelli annegati nel Mediterraneo per l’ignavia di quella stessa Europa, e dei morti sotto i troppi muri e barriere.

Vedo e non vedo e, soprattutto, spesso non voglio vedere.
Perché se davvero vedessi bene, dovrei cambiare il mio modo di agire, di spendere, di informarmi. Perché Qualcuno ci ha insegnato che c’è anche un vedere che diventa conoscere, e un conoscere che è lo stesso che amare. Se vedessi bene, con il cuore, mettendo al centro la persona, correrei il rischio di ritrovarmi meno onnipotente, ma più presente e, magari, più umano.

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Due, tre, quattro parole d’introduzione..

di Piero Murineddu

 

D’introduzione, ho detto, e precisamente per introdurre i commenti di Rita, Clemente di cognome e di fatto, sull’argomento che diró più avanti.

Rita é un’eccelsa mia amica, della quale tempo fa musicai una sua poesia trovata su una pubblicazione della Comunitá di Base di Chieri. In seguito abbiamo tenuto vivo il rapporto grazie all’opportunitá data da feisbuk, spazio nel quale la Nostra aggiorna sul suo rapporto coi micioni che tiene in casa e sulla fioritura del suo cortile; dove regala i suoi versi legatissimi alla realtà; dove esterna i suoi sentimenti riguardo ai fatti e ai fattazzacci del mondo; dove augura la buonanotte con citazioni altamente poetiche; dove riflette pubblicamente e commenta con puntualità e acutezza gli avvenimenti, sopratutto quelli che ci piovono addosso e di cui vorremmo fare a meno.

Nella parte insonne della scorsa notte mi é venuta un’idea.

Le persone di senno conoscono bene, purtroppo&menomale, le Mascalzonate di quel Bruttoceffolá, fissato coi negracci per turlipinare gl’italici cervellini fatti a sua immagine&somiglianza. Praticamente i neri, quelli più poveri, gli danno da mangiare e gli permettono di …..tenersi a galla (!), motivo per cui gli conviene averli sempre in bocca.

Lui, appunto, visto che l’argomento tiene e c’é da magnazzare, cosa che a lui piaceohquanto, insiste, insiste, e quando il tema passa in second’ordine, come nel periodo centrale della pandemia dove sembrava fossimo diventati tutti bonini bonini, il tipotto mi cade quasi in depressione. Ma adesso, oltre che l’esser tornato l’Argomento per lui Primo, ovvero l’Invasione Nera oggi più che mai contagiosa, c’é la questione “mascherina si mascherina no no no”, legatissima all’imminente referendum costituzionale, a pennello per uno come lui che considera superflua la rappresentanza popolare nelle due camere parlamentari, dal momento che pretendeva i pieni poteri per condurci prima verso il baratro. E va be’…

L’idea, dicevo.

Rita ha iniziato il corrente mese scrivendo di costui e di cosettine ad esso collegate, inevitabilmente dal nauseante olezzo di Odio Disgregante.

Per l’intero mese, rovente in tutti i sensi, aggiornerò questa pagina con quanto Rita penserá e riporterá in feisbuk sull’ argomento. Sono certo che alla fine, almeno alle persone di buon senso, verrá la voglia di assestare all’Indegnodistato, dopo aver preso tutta la rincorsa possibile, un atomico Calcioinculo.

A voi il Rita-pensiero, Clemente di cognome e di fatto….

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1 agosto

A me, questa cosa del S****** – pensiero mi fa girare la trebisonda.

Dunque: è chiaro che il covid colpisce solo i brutti, sporchi e cattivi, quindi è inevitabile che ce l’abbiano gli extracomunitari e che se lo portino in giro.

Ma i civili, puliti e bianchi disinfettati di défault non ce l’hanno, quindi se stanno tra di loro a fare allegre bisbocce possono pure fare a meno di mascherine e distanziamenti.

Chi caso mai glieli volesse imporre, è senz’altro un dittatore. L’importante è che non entrino in contatto con i brutti, sporchi e cattivi!

Ed è proprio questo il suo neanche tanto nascosto desiderio: che il virus colpisca solo i brutti, sporchi  e cattivi, ma naturalmente a casa loro!

Tutti i dati relativi invece ai contagi tra italiani, specialmente quelli occorsi in Lombardia, sono fandonie inventate ad arte dai “sinistri” per tenere il Paese sotto controllo dittatoriale.

Ma quando al governo tornerà lui, l’esimio statista senza macchia e senza paura, quindi senza mascherina, per restaurare la minacciata democrazia dei sostenitori del virus, richiederà i Pieni Poteri.

E ne vedremo delle belle!

2 agosto

Noi supercivilizzati bianchi occidentali non accettiamo proprio l’idea di poter essere fragili, vulnerabili, soggetti anche noi alle infezioni che si propagano come epidemie, peraltro probabilmente causate dai nostri stessi stili di vita, dal modello economico che crea inquinamento e distruzione di ecosistemi naturali, sconvolgimenti ambientali e climatici, sofferenze incredibili agli esseri viventi.

Preferiamo pensare che le epidemie siano un affaire da terzo mondo sottosvluppato, incivile e poco igienizzato. Ecco perché accettiamo di buon grado la contraddizione di credere che il virus sia sparito tra noi e che chi ci vuol fare credere il contrario lo faccia per tenerci al guinzaglio. Ma nello stesso tempo abbiamo una paura fottuta che gli immigrati possano fare crescere i contagi e quindi questa diventa un’ulteriore, molto opportuna ragione per respingerli.

In fondo, non sono “loro” che portano le malattie? Eh, no! stavolta non è così. Certo che anche gli immigrati sono a rischio, come tutti. La pandemia non guarda il colore della pelle, lo status sociale, il passaporto.

Ricordiamoci che a marzo – aprile il più alto numero di infettati lo avevamo noi italiani ed eravamo noi gli appestati nel mondo. Questa operazione di “spostamento” proprio non ci sta.

Per una volta tanto, ci piaccia o no, siamo tutti sullo stesso barcone.

 

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In ricordo di Celestanna

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di Piero Murineddu

E’ sempre un piacere per me far memoria della carissima Celestanna.

Mi mancano le visite che le facevo.Lei, sempre accogliente e ben disposta nei miei confronti, seppur magari girata per motivi suoi e che difficilmente riusciva a mascherare.

Mancava un mese circa al compimento dei novanta, quando il 24 febbraio del 2014, aiutata dal Padreterno indossò le ali e spiccò l’Ultimo Volo. Fascistona convinta la gentile Celestanna, ma non assimilabile a certi odierni fascisti e razzisti oppure a quegli altri di quell’epoca lontana e che hanno avuto tutto il tempo di mostrare le  fondamenta di un modo così rozzo  di vedere, e per me, di sprecare l’unica vita a disposizione. Il Fascismo, sempre più fermamente convinto che sia un reato e non un’ideologia qualunque. Fanno eccezione, in certi casi, le persone singole che, per una serie di motivi, ad esso fanno riferimento. Celestanna é stata per me appunto una sorprendente eccezione. Era cresciuta ed allevata con quell’idea lì, di famiglia diciamo, e in questo campo, di tanto in tanto la provocavo. Lei non si scomponeva mai nelle risposte. Assicuro ch’era una vera signora.

Dieci anni fa ne raccolsi la storia in questi due video…..

 

 

Capirlo è di Vitale importanza

 

di Paolo Scquizzato, prete

Vanità delle vanità: tutto è vanità. Tutto è, ma nulla rimane. Tutto è illusione, come fiato su un vetro.

Cosa rimane di ciò che siamo stati, ma soprattutto di ciò che abbiamo amato, se tutto è destinato a finire nel baratro della morte?

Ogni essere umano si porta dentro una doppia domanda, fondamentale:

esiste un modo di esistenza tale per cui il vivere non sia un consumare la vita, ma piuttosto un’ ‘edificarla’, un costruirla sino a farla diventare più forte della morte?

Esiste una possibilità di vivere, per cui non si abbia più la sensazione di stare dirigendosi verso il nulla, bensì verso un compimento, una edificazione di sé, una meta?

Gesù di Nazareth ha offerto la sua risposta. Egli ci ricorda che esistere non vuol dire ancora vivere.

L’esistenza si mantiene con il riposo, il mangiare, il bere, la riproduzione e il divertimento.

Per vivere occorre altro.

La sua stessa vita testimonia solo una cosa, che l’unico modo per non perdere la vita è donarla.

«La sua morte non è l’esaltazione del nulla, della vanità, ma è la negazione della vanità perché abbiamo capito, una volta per sempre, che si può anche morire non morendo. Chi muore perché c’è qualcosa di più grande della dialettica vita-morte , cioè l’amore, costui non muore»
(Ernesto Balducci).

Il verbo amare si declina solo in donare.
Il Vangelo racchiude in sé il segreto dell’umano vivere:

esiste un modo di consumare i giorni, tale da sperimentare già in vita una modalità risorta.

Esiste un modo di vivere tale da percepire la vita come una metamorfosi continua, per cui da una parte si sente il proprio corpo come un lento disfarsi, ma dall’altra si ha la forte consapevolezza che la vita vera si sta rinnovando in sé in ogni istante, come un crescendo verso una pienezza e un compimento.

È ciò che Paolo intuì scrivendo ai corinzi: «non ci scoraggiamo, ma, se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno» (2Cor 4, 16).

Il Vangelo è lì a ricordarci, in ogni istante del quotidiano, che inizia a vivere solo chi ha intrapreso il lento morire nell’amore, e muore lentamente invece chi ricerca vita solo per sé.

«Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà. Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?» (Lc 9, 24s.).

10,25 di quel triste sabato di 40 fa

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“Chiediamo che chi sa qualcosa trovi i modi per comunicare tutto ciò che può aiutare la veritá.      La memoria ci fa provare anche l’acuta e insopportabile ingiustizia della mancanza di verità, amara, perché memoria anche di delusioni, di ritardi, di opacità spesso senza volto e senza nome, di promesse non mantenute, di mandanti, che ci sono, protetti dall’ombra di quelle che sono vere e proprie complicità.”

Matteo Zuppi, vescovo di Bologna

https://www.stragi.it/vittim

 

Il giorno che il cielo cadde su Bologna

La sorella di Franco
partiva per il mare
lo zaino il sacco a pelo
e centomila lire
e fu all’angolo di Via Irnerio
che sentì l’esplosione
poi nel sole del mattino
vide il volo cieco di un piccione

Passò un momento sospeso
e polvere e spettri fuggenti
prima di un po’ di luce
per Bologna e i suoi lamenti

Lele era un bambino
e rimase fermo ad ascoltare
le frasi in dialetto
che il postino diceva al padre
era solo un bambino
ma ricorda ancora bene
la faccia di quell’uomo
e il grido delle sirene

Passò un giorno per capire
poi i giornalisti e il presidente
prima di un po’ di luce
per Bologna e la sua gente

Salì sul taxi coi feriti accanto
guidò fino all’alba
poi si arrese al pianto
dal sedile di dietro
il sangue era preso
gli parlava di morte
dell’orrore all’improvviso

Passarono mesi e stagioni
omissioni e servizi deviati
prima di un po’ di luce per Bologna e i suoi Magistrati

Maria di vent’anni aveva il mondo davanti e lo sguardo più dolce di chi non può aver rimpianti
Maria se n’è andata come un angelo in volo
inghiottita nel nulla in un attimo il sole

Passarono più di dieci anni
quante promesse infinite
prima di un po’ di luce per Bologna e le sue ferite

Il giorno che il cielo cadde su Bologna
piovvero pietre fiamme e vergogna
una breccia nel muro
e un’altra nel cuore
quando il ricordo è radice
custodisce il dolore
quando il ricordo è radice
il futuro avrà un fiore

Passò secolo e millennio
menzogne e governi e sentenze
prima di un po’ di luce
per bologna e le sue coscienze

Passò una generazione
l’oratore e il testimone
resta il profumo di un fiore
per Bologna e la sua stazione

e il fiore della memoria
che sboccia in ogni stagione

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Angela, la vittima più piccola

 

Nel collegamento di seguito, una breve biografia dei deceduti a seguito dell’esplosione

https://www.assemblea.emr.it/cantiere-due-agosto/biografia-delle-vittime

 

l’ Urlo Volutamente Inascoltato

Un urlo infinito attraversa il Mediterraneo

di Domenico Gallo

L’urlo è il nome di un famoso dipinto del pittore norvegese Edvard Munch, realizzato in più versioni fra il 1893 e il 1910. Il soggetto urlante è la figura in primo piano, terrorizzata, che per emettere il grido si comprime la testa con le mani, perdendo ogni forma umana e diventando espressione del suo stesso sentimento. Rappresenta un urlo lancinante, acuto, che in quest’opera acquisisce un carattere indefinito e universale, elevando la scena a simbolo del dramma collettivo dell’angoscia, del dolore e della paura.

L’urlo di Munch è diventato la colonna sonora che accompagna la nostra indifferenza ai drammi collettivi che si stanno consumando fra la quarta sponda e il mare nostrum. «Stiamo morendo» è l’urlo che arriva dai barconi alla deriva nel Mediterraneo fra la Libia e la zona SAR maltese e che si smorza nel silenzio della nostra omissione di soccorso, nei motori spenti dei nostri pattugliatori della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza che non si spingono più oltre le nostre acque territoriali per non correre il rischio di imbarcare dei profughi da sbarcare in Italia.

L’urlo silenzioso è quello che prorompe dal cadavere di quell’uomo rimasto incastrato fra i tubolari semisgonfi di un gommone, da oltre due settimane alla deriva a 40 miglia dalla costa libica, testimone involontario di uno dei tanti naufragi rimasti sconosciuti, che nessuno vuole recuperare per dargli sepoltura, come si usava una volta nelle nazioni civili.

L’urlo straziante è quello dei tre sudanesi assassinati l’altro ieri sulla banchina di Khums dalla c.d. Guardia costiera libica. Uccisi sotto gli occhi dei funzionari dell’Organizzazione mondiale delle migrazioni per aver cercato di non tornare nei lager, da cui erano usciti a caro prezzo, animati dalla speranza di fuggire la sofferenza e la sopraffazione cercando rifugio al di là del mare. «Dal corpo di ognuno di essi non ci è né ci sarà mai consentito di distogliere lo sguardo – ha scritto il direttore di Avvenire – perché ogni tragica morte d’uomo ci riguarda, e perché i proiettili che li hanno trafitti sono pagati anche con soldi italiani. Il voto delle Camere e le parole di carta di politici senza saggezza e senza verità hanno rinnovato lo sconcio: anche l’Italia arma banditi in divisa e li nomina sceriffi». In realtà non solo i proiettili sono stati pagati con soldi italiani, queste persone sono state catturate in alto mare con mezzi navali e strumenti forniti dall’Italia e dalla UE affinché venissero ricondotte nei lager da cui sono fuggiti, dove sono all’ordine del giorno torture, stupri, omicidi.

Ma l’urlo più angoscioso è quello collettivo delle 6.500 persone che dall’inizio dell’anno sono state catturate in alto mare e riportate indietro nell’inferno da cui tentavano di fuggire, un urlo lancinante, infinito, ritmato con i toni dei 340 minorenni (di cui 84 bambine) a cui è stata strappata dal cuore la speranza che vale più della vita stessa. Il sibilo di quest’urlo rimane di sottofondo, attraversa la nostra vita politica e istituzionale ma viene silenziato nei palazzi del potere e totalmente ignorato dagli strateghi dei mass media che orientano il senso comune della gente.

Tuttavia qualcosa rimane, penetra nella coscienza di coloro che non hanno chiuso i loro occhi o tappato le loro orecchie. È stata presentata attraverso una conferenza stampa on line l’Associazione ResQ – People Saving People, creata da un gruppo di personalità della società civile (magistrati, avvocati, scrittori, giornalisti, sacerdoti) che, con il chiaro obiettivo di “restare umani”, hanno deciso di rompere il muro dell’indifferenza. Il presidente onorario Gherardo Colombo ha illustrato il progetto dell’associazione che, attraverso una raccolta di fondi pubblica sul web (crowdfunding) intende assicurare la presenza nel Mediterraneo centrale di una nuova nave al 100% italiana destinata a soccorrere i naufraghi, e testimoniare quanto accade, nel rispetto dei principi umanitari non negoziabili di imparzialità, neutralità, umanità e indipendenza. «La bandiera italiana – afferma Colombo – sarà ancora una volta emblema di accoglienza, riparo, salvezza, in onore della nostra splendida Costituzione»

Dal Senato è arrivata l’autorizzazione a procedere nei confronti di S****** per sequestro aggravato di persona e omissione di atti d’ufficio per il caso Open Arms. Era stato inchiodato alle sue responsabilità da una rigorosa ordinanza del Tribunale dei ministri di Palermo. Questa volta l’urlo ha aperto una breccia anche nel muro di indifferenza del Palazzo.

Uno squarcio di luce nelle tenebre che avvolgono il Mediterraneo.

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Che si arrangino, insomma….

di Piero Murineddu

E quindi, i nostri rappresentanti, dalle poltrone che contano, hanno deciso che il Misero Omuncolo venga sottoposto – come avviene in un Paese normale e dove tutti dovrebbero essere uguali davanti alla Legge – alla decisione dei giudici che, considerato questo e quest’altro, devono stabilire se il su citato sia un essere degno o meno. Certo, certo….molti di noi di costui si son fatti da tempo un’opinione, man mano sempre confermata anche se forse avevamo il desiderio, io per primo, che cambiasse almeno un pochetto. Ma niente da fare, e ho paura per lui che rimarrá tale vita natural ecc, a meno chechecheeee….

Il grido, scrive Domenico nel suo articolo, un Grido iniziato da tempo immemorabile e la cui eco non accenna a diminuire minimamente. A voglia le italiche imbarcazioni che rappresentano le istituzioni a starsene bonini senza oltrepassare i confini territoriali per non “rischiare” di dover dar soccorso (!) a chicchessia. A voglia il ministrotto Luigi Napoletano a far vedere che ha le palle e dichiarare solennemente che il problema occorre eliminarlo all’origine, ovvero siasiasia pretendere che le autoritá aldilá del mare affondino, distruggano, disintegrino le barchettine che si riempiono zeppezeppe d’immigrati che devono pagare dollaroni per sperare di sfuggire esistenze impossibili. Ma quando mai costoro arrivano all’improvviso, affamati, assetati, malmessati e magari pure coronavirati nelle spiagge di un Paese Civile dove i bagnanti in ferie se la distendono in santissima pacesifaperdire?

Ma dai, africa’, per favore: datevi un po’ di contegno, sant’Allah benedetto! Anzi, ancora meglio: arrangiatevi e non veniteci a rompere la meritata beatitudine estiva qui, dato più che ne stiamo uscendo…ehmmm… ne stavamo….ehm…forse….chisachilosamaikbongiorno…… Insomma, in pandemia siamo, per cui abbiamo le nostre rogne da grattare. Girate al largo e magari dirigetevi verso l’Antartico, così vi rinfrescate anche, che qui c’é un caldo, ma un caldo, credeteci, che…. si muore.

L’abbraccio

Per essere felici facciamo la rivoluzione

di Aboubakar Soumahoro

 

 «Non abbiamo il tempo di essere noi stessi. Abbiamo solo il tempo di essere felici» (Albert Camus)

Oggi, la normalità di “essere noi stessi”         è caratterizzata

– dall’amore del potere e non dal potere dell’amore,

– dalla cecità dell’individualismo e non dalla lungimiranza della solidarietà,

– dall’utilitarismo di rapporti opportunistici e non dalla generosità di relazioni altruistiche,

– dalla solitudine egocentrica del noi escludente e non dalla socievolezza affabile del noi relazionale,

– dalla stigmatizzazione dell’altro per l’esaltazione dell’io e non dall’edificazione dell’altro per la costruzione del noi.

 

Questa normalità, generata e nutrita dallo spirito dell’avidità, fagocita l’umanità nell’illusione del mito del presentismo per rimediare all’incertezza del futuro, nell’arroganza dell’onnipotenza per ovviare all’aleatorietà della vita e nell’affanno compulsivo dell’accumulazione per domare la paura dell’irrilevanza.

In questa ottica, l’ “essere noi stessi” diventa anche:
1) l’utilizzo del potere come strumento di dominazione e di sfruttamento e non come mezzo di emancipazione e di promozione;

2) l’uso delle persone per servire la bandiera e non la bandiera per servire le persone.

 

Questa normalità, acuita dalla radicalizzazione delle condizioni di deprivazione, ha reso moralmente e sentimentalmente l’“essere noi stessi” privo di empatia, sordo, cieco e indifferente alle sofferenze e ai dolori dei membri della nostra comunità.

L’attuale paradigma economico, radicato nello spirito dell’avidità, è un sistema che non permette di promuovere uguaglianze e libertà ma genera disuguaglianze ed omologazione. Questo dinamico sistema continua a spostare i confini delle classi sociali, sia verticalmente che orizzontalmente, creando così nuove forme di invisibilità.

Questa comunità di invisibili, composta da vecchi e nuovi protagonisti, sfugge tuttavia alla lente dell’osservatore che legge questo processo in costante evoluzione con strumenti inalterati nel tempo.

Lo spirito di avidità è l’ipocentro di queste disuguaglianze materiali e immateriali che ha terremotato la crosta sociale creando così delle fratture nel tessuto della nostra comunità. Tuttavia, l’epicentro di questo sisma sociale si è spostato ai confini dove marginalità, esclusione, umiliazione e sfruttamento (a volte accompagnati da forme diverse di razzializzazione) rendono le persone invisibili e infelici. Questo esercito di invisibili infelici, spremuti ed espulsi dalle onde di questo sisma sociale, affrontano la loro condizione di deprivazione spesso in solitudine poiché il sistema disfunzionale delle disuguaglianze ha portato con sé una profonda metamorfosi del lavoro e delle relazioni sociali. Purtroppo, tutto questo è funzionale al meccanismo stesso del sistema.

Per questo è necessario unire le lotte e le istanze degli invisibili infelici se si desidera porre argine alla disumanità del sistema.

Dinanzi a questo sisma sociale che mette a repentaglio la democrazia (considerato che «non c’è democrazia con la fame, né sviluppo con povertà, né giustizia nella disuguaglianza», come sostiene Papa Francesco) e la libertà (visto che «non vi può essere vera libertà senza giustizia sociale, come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà», diceva Sandro Pertini), la politica del palazzo – sostenuta da disorientatori intellettuali – continua a prescrivere ricette basate sul medesimo paradigma economico che ha prodotto le disuguaglianze sociali da sanare. In questo modo, la politica (sorda, cieca e indifferente alle sofferenze, dolori, miseria e marginalità della comunità degli invisibili) trascina la società in un labirinto infinito delle disuguaglianze dove le persone sono al servizio dell’economia e non l’economia al servizio delle persone. La politica di palazzo, incapace di scendere negli abissi per fronteggiare il cuore delle disuguaglianze ovvero lo spirito dell’avidità, continua da un lato ad affidare ogni scelta politica al tranquillante del gradualismo e dall’altro al raccontare con esasperazione il sentire del popolo senza renderli protagonisti della narrazione e della rivendicazione dei propri desideri.

Considerato che la pandemia ha drammaticamente acuito il disfunzionamento sociale causato dalle disuguaglianze sistemiche dell’attuale sistema economico avido e disumanizzante, è arrivato l’imperativo momento della rivolta della nostra umanità. Una rivolta che dica un No che non sia rinunciatario ma che è in realtà un Si ad una diversa idea di società capace di creare comunità attorno a valori e principi condivisi in grado di rendere tutti visibili e felici. Oggi, dobbiamo avere l’audacia di avviare una rivoluzione spirituale capace di ricostruire la nostra anima e di rinnovare le nostri menti decolonizzandole dalla culturale impostaci dall’attuale sistema. Oggi, dobbiamo avere il coraggio di stigmatizzare l’attuale modello e di equipaggiarsi della capacità fantastica di pensare e di elaborare un nuovo paradigma e parametri alternativi capaci di dare speranza ai desideri e concretezza ai sogni di tutti gli esseri umani. Oggi dobbiamo avere la tenace lungimiranza di costruire le basi di una comunità libera, giusta e felice che vive armoniosamente e responsabilmente con la natura.

Gli Stati Popolari vogliono e devono essere quello spazio di comunione e di unione delle persone che vivono varie ed articolate forme di invisibilità ed infelicità. Questa comunità degli invisibili deve innescare un processo collettivo e propositivo capace di far germogliare l’empatia umana e l’entusiasmo politico per garantire a tutti di vivere, in ultima istanza, felici proprio come auspicato da Camus.