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Sulla vicenda “Romangia Servizi srl”

 

LU RICCU PASSA SEMPRI CU L’INCHINU, A LU POBARU LI FAZZINI LI TRODDHI”   (A. Bonfigli)

 

 

 

ROMOMANGIA SERVIZI

di Piero Murineddu

Romangia Servizi srl“, ovvero una quarantina di omoni + una gentile ma per niente fragile signora, che in questi giorni cercano disperatamente di attirare l’attenzione per poter mantenere il posto di lavoro in quell’amena cittadina chiamata Sorso (SS) . Un lavoro, checchè  ne pensino e ne dicano in modo più o meno esplicito parte dei concittadini, di sicura e necessaria utilità sociale. Che questi operai siano una massa di scansafatiche è un pregiudizio e un luogo comune: la manutenzione del verde pubblico,la cura del cimitero e gli svariati interventi a cui nel tempo son stati chiamati, sono frutto di impegno e fatica di persone che, a differenza del lavoro non controllabile  e spesso ben retribuito che si svolge nei puliti e caldi uffici, loro lo fanno invece sotto gli occhi e  sopratutto il giudizio di chiunque si trovi a passare, e se in quel momento non li si vede attivi, di conseguenza …so’ mandronazzi e non fanno mai niente.

La stabilità di questi operatori da molto tempo è diventato un incubo per gli amministratori della poco ridente Cosa Pubblica locale e che se anche  qualcuno di loro “ci sta lavorando in silenzio come ha sempre fatto”, non si riesce  in nessun modo a trovare una  soluzione, porca miseriaccia zozza!

Naturalmente la responsabilità è addossata completamente alla solita Crisi, ai tagli, e quindi alle conseguenti casse vuote. Questo secondo il competente giudizio dei Comandanti, che sanno ragionare con obiettività e che sanno fare bene i conti. Gli interessati, invece, lamentano un uso improprio dei denari che il Comune ha avuto a  disposizione, e chiedono che i politici, sforzandosi di riconoscere almeno parte di responabilità per la situazione venutasi a creare, s’impegnino realmente a trovarla una benedetta soluzione che salvaguardi il posto di lavoro per tutti, e non solamente per qualcuno, magari coi soliti metodi clientelari, come da queste parti si è abituati ad  assistere rassegnati. Nell’urgenza di assicurasi la pagnotta, c’è il rischio che la necessaria e intelligente unità nel portare avanti una giusta causa (e il lavoro è sempre una giusta causa!), lasci il posto a individuali mosse per ingraziarsi la “vicinanza” del potente, e così facendo, garantirsi possibili occupazioni future. Quel “dugnunu pensia a lu santu soiu”- ciascuno pensi a sistemare se stesso e se ne freghi degli altri,  cioè il moto continuamente applicato e che ha reso la nostra collettività così disgregata e così facimente manovrabile dai furbi che vogliono farsi strada.  In questo modo verrebbe vanificata ancora una volta una opportunità di crescita civile, personale e collettiva.

Nella grande scritta esposta inizialmente nell’edificio comunale e poi spostata nella facciata della parrocchia di San Pantaleo, i lavoratori in lotta parlano di furto di lavoro si, ma ancor prima di furto di dignità. Se ci si pensa con attenzione, l’accusa è veramente grossa. Chi sarebbero i colpevoli di tale grave furto? A che cosa ci si riferisce? Andando a ritroso, sappiamo che questa società ha vissuto diverse e alterne vicende. Sappiamo che dopo esser stata garanzia per la cura e manutenzione del territorio, di fatto, specialmente oggi ma anche in passato, è diventata una pesantissima palla al piede degli Amministratori pubblici. Quando ci si sente feriti nella dignità, si pensa a mancanza di rispetto da parte di qualcuno, di atteggiamenti subìti che hanno umiliato. Quali sarebbero i fatti ricoducibili a questi atteggiamenti? E sopratutto, ripeto: chi sarebbero gli accusati?

Pur non essendosi creata una concreta e compatta solidarietà da parte della cittadinanza – cosa non difficile da spiegare, conoscendo la tendenza diffusa di non intervenire se non si è toccati direttamente – da parte del clero si è manifestata vicinanza e invito al dialogo.  Lo vedo sicuramente positivo che un rappresentante della Chiesa faccia un passo d’interessamento non solo per le sorti “spirituali” delle anime, ma anche delle persone nella loro completezza, e non principalmente perchè di mezzo ci sono anche i figli dei lavoratori, ma perchè si lotta per un primario diritto, qual’è quello del lavoro. Sono anche convinto che questi lavoratori sono disposti a dialogare. Il problema è che ci sia qualcuno disposto ad ascoltarli e che sia sopratutto interlocutore affidabile e autorevole. Pur tuttavia,quello di dedurre chi possono essere gli eventuali colpevoli di aver attentato alla dignità di queste persone, è una doverosa necessità, e questo sforzo analitico lo dobbiamo fare tutti.  Non si tratta di far politica o meno, ma di avere il coraggio di superare le vaghe dichiarazioni e gli atteggiamenti ambigui che piacciono a tutti, e sopratutto, non scontentano nessuno.

 

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La seguente poesia di Andreuccio Bonfigli buonanima, la vedo strettamente collegata con questa vicenda. La pongo alla vostra attenzione e comprensione.

 

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L’unico traguardo globale

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Prima di tutto vennero a prendere gli zingari. E fui contento perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei. E stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”. (Bertolt Brecht)

 

L’unico traguardo globale

 

di Rita Clemente

 

Siamo su una brutta china. Vi sono molti segnali inquietanti che stanno a testimoniarlo. I peggiori di tutti sono le dichiarazioni a dir poco folli di alcuni personaggi che definire “istituzionali” sarebbe gettare nel discredito totale quel poco che di accettabile resta delle nostre istituzioni.

Si tratta di parole” si dice. Ma a volte le parole sono pesanti come macigni e comunque si comincia dalle parole, espressione di pensiero e di coscienza sotterranea, per arrivare ai fatti. Sono lo specchio della propria realtà interiore. Sono comunque parole che non si dovrebbero mai pronunciare, non che pensare.Qualche esempio? Un certo sindaco di un certo paesino, commentando – a modo suo “spiritosamente” – la dichiarazione della Presidente della Camera Laura Boldrini, la quale sosteneva che “i Rom vanno valorizzati” se ne esce dicendoI Rom vanno termovalorizzati”. Un altro sindaco della stessa pasta (e della stessa linea politica), commentando un post, scrive su un social network “propongo i clandestini nell’inceneritore”. Sono solo due esempi molto eloquenti del degrado mentale cui si può essere giunti. Eppure,sarebbero poco significativi se essi non riflettessero una sorta di “coscienza collettiva” sempre più diffusa, che emerge sempre più chiara e distinta e – direi anche sfacciata – attraverso i nuovi strumenti di democrazia comunicativa: commenti ad articoli di giornali, commenti a post su FB, “cinguettii” su Twitter ed altro ancora.

Si leggono drastiche opinioni, informazioni date per certe, giudizi perentori, che si potrebbero, alquanto schematicamente, raggruppare nelle seguenti categorie:

 

  1. Se in Italia non c’è lavoro, la colpa è degli “extracomunitari” che lo rubano agli indigeni. Che poi vorrei vedere quanti Italiani sarebbero disposti a fare i/le badanti a tempo pieno, con anziani spesso aggressivi, nel pieno dell’Alzheimer. Oppure i raccoglitori di pomodori a tre euro l’ora.
  1. Per ottenere una casa popolare, devi farti togliere la cittadinanza italiana e risultare clandestino.
  2. Ci sono folle di emigranti che arrivano sui barconi desiderosi di trascorrere un periodo di vacanze in alberghi extralusso, pagati con le tasse degli Italiani.
  3. Sicuramente tutti questi migranti hanno contratto l’Ebola e adesso arrivano, dopo un lungo viaggio in mare in condizioni proibitive, freschi sani e pimpanti a infettare tutti noi.

        5.E soprattutto, il 90% sono terroristi che arrivano,armati fino ai denti, per  assaltare e occupare le nostre città.

      6. Dei circa sessanta milioni di abitanti che risiedono in Italia, sicuramente    un buonsessanta per cento ostituito da immigrati. Salvateci! Rischiamo  di       diventare trascurabile minoranza.

 

E altre sciocchezze del genere. Non si tiene conto di altre considerazioni su cui qualche dato e il buon senso dovrebbero far riflettere.

1) L’Italia non è l’unico Paese meta di immigrazione (oltre che di emigrazione). In altri Paesi,anche più poveri del nostro, gli immigrati sono molti di più.

2) Se uno ha l’Ebola, normalmente non se la sente di fare una lunga e pericolosa traversata in mare.

3) Spesso chi fugge sono proprio quelli che non vogliono fare i terroristi, magari proprio quelle minoranze (cristiane e musulmane) oggetto di persecuzioni e di stragi, su cui poi noi spargiamo tante lacrime di coccodrillo.

4) Il “sistema accoglienza” in Italia non è certo dei migliori e sicuramente non arricchisce immigranti, spesso costretti all’accattonaggio per sopravvivere.Ma la “coscienza collettiva” di una società, preda di una crisi che morde ormai da troppo tempo, si va sempre più orientando verso la ricerca di un capro espiatorio, facile e immediato. Dal senso di disagio al giudizio affrettato e all’azione di protesta anche aggressiva i passi sono brevi come di mostrano le sollevazioni delle periferie romane (e non solo) contro le comunità Rom e i migranti in attesa di riconoscimento dello status di Rifugiato. Naturalmente, c’è chi pesca subito nel torbido, come personaggi e forze politiche che approfittano di questo malessere per ergersi a paladini delle “legittime esigenze degli Italiani dimenticati e bistrattati”. Chi siano queste forze politiche non è così difficile da intuire: quelle che intendono rinverdire una ideologia vecchia come il cucco, secondo cui il malessere sociale dipende da “corpi estranei” che non appartengono alla nostra comunità, si chiami essa Patria o Macroregione o Religione. E’ una storia già sentita nelle narrazioni tragiche del secolo scorso, quelle che hanno intessuto gli orrori delle due guerre mondiali. E non a caso assistiamo oggi a un pericoloso convergere di programmi e idee che vedono schierati sullo stesso fronte la Lega Nord, i Fratelli d’Italia, Casa Pound e alcune frange di cattolici oltranzisti. Ma ancor più pericolosa è la diffusione di tali convincimenti anche in fasce di società civile solitamente moderate, se non addirittura “di sinistra”. Salvo poi a scoprire che questi strani personaggi che incitano alla rivolta contro i campi Rom e le strutture d’accoglienza per gli immigrati sono proprio quelli che poi, in combutta con il malaffare e con amministratori complici e compiacenti, lucrano abbondantemente proprio sui progetti del Terzo Settore con cui si cerca, in qualche modo, di arginare il disastro sociale e di venire incontro ai bisogni umani degli emarginati. Gettando così nel fango e vanificando anche tutti gli sforzi, faticosi e lodevoli, di chi con impegno e onestà dedica ad essi le proprie energie e il proprio tempo, per ridare loro un po’ di dignità e di autonomia.

L’avanzata delle Destre xenofobe e razziste non è solo un problema italiano, come dimostrano i risultati elettorali di molte nazioni europee. Ed è un problema seriamente sentito anche a livello di istituzioni europee se 100 organizzazioni della società civile con sede in diversi paesi europei hanno lanciato un appello per la costituzione di un Intergruppo sull’Antirazzismo e per la Diversità al Parlamento Europeo (ARDI. Antiracism and Di-ersity Intergroup).

Insomma, si registra un ritorno al razzismo, alla xenofobia, al rifiuto del “diverso”, seppure ammantato da parole d’ordine nuove e da ragioni politiche attualizzate. E questa mentalità fa larga presa, a quanto mi è dato di vedere, anche tra persone “insospettabili”, non particolarmente esagitate e anzi dotate, per altri versi, anche di ragionevolezza e di buon senso. Come mai? Ecco, io non vorrei, a questo punto, lanciare un semplicistico “J’accuse” da “anima bella”. Sarebbe troppo semplice e troppo comodo. E anche ipocrita. Vorrei invece sforzarmi di capire. Non di giustificare,è ovvio, ma di capire. Molta, troppa gente ormai vive in una condizione di incertezza, di disagio, di bisogni insoddisfatti. Per esempio, il bisogno di trovare un lavoro sicuro, di potersi pagare l’affitto di una casa o un mutuo, di potersi curare al meglio, se si ammala. E quando i puntelli di un agognato e fino a un dato momento assicurato welfare vengono a sgretolarsi, ci si aggrappa con tuttele forze alla piccola tavola di salvataggio consentita: i “nostri” diritti, le “nostre” tradizioni, la nostra” cultura ecc. Sì, ma gli altri? Chi fugge dalla fame, dalla guerra, dalle persecuzioni, dalla miseria? Eppure bisogna chiedersi: se a me venisse tolta o pesantemente ridimensionata la possibilità di vivere in sicurezza e in relativo benessere, che cosa farei? Che cosa penserei? Inoltre, bisogna anche tener conto che chi vive già nell’area del disagio ha una soglia di tolleranza molto inferiore nei confronti del degrado di chi sta peggio e chiede interventi pubblici. E anche del fatto che,ai livelli del bisogno impellente, si intrecciano e si mescolano in maniera inestricabile fenomeni di illegalità e di devianza, di cui i “diversi” non sono esenti, come esseri umani. Anche se la percezione distorta tende a isolare e a enfatizzare gli episodi di devianza “straniera”.

Le forze politiche nazionalistiche, localistiche, identitarie, si nutrono di queste rabbie, di queste insicurezze, di queste paure. E la Sinistra? Ho come l’impressione che, allo stato attuale, le vere forze di sinistra siano alquanto deboli e impotenti. O succubi delle “ragioni” dei mercati. Che manchi, cioè, un progetto politico organico e coraggioso. Capace di fare presa sulle “masse” e di coinvolgerle in un percorso di affermazione e realizzazione solidale dei diritti di tutti. Perché? Qui occorrerebbe innestare un discorso articolato e complesso, su un nuovo modello di sviluppo in cui la crescita non sia solo un privilegio di alcuni a discapito di altri. In cui la produzione non sia finalizzata a una competitività aggressiva e minacciosa tesa all’incremento dei profitti più che al soddisfacimento dei bisogni. In cui il rispetto dei diritti non conosca confini e la tutela degli ecosistemi riguardi tutte le popolazioni.  

Occorrerebbe una visione globale e interrelata, non particolaristica e identitaria del nuovo welfare. Occorre pensare una nuova organizzazione del lavoro, al servizio della vita di tutti, non del privilegio di pochi. E forse dovremmo anche fare i conti – tutti, non solo le grandi Istituzioni – con un necessario contenimento della ricchezza individuale a favore di un sostegno del reddito per tutti, soprattutto le fasce meno protette (giovani, pensionati, diversamente abili ecc). Di una diffusione e tutela dei “beni comuni”. In Europa non mancano le forze che guardano in questa direzione. Penso a “Syriza” in Grecia, al movimento “Podemos” in Spagna. Minoritarie, certo, ma significative. Ma soprattutto, a mio avviso, la vera azione politica in questo senso sarà attuata dalla miriade di piccole e grandi associazioni della società civile che ancora credono nei valori della solidarietà, dell’inclusione, del dialogo, della condivisione, della creatività operosa e intelligente a fini sociali. Tante piccole mani e volontà per rigettare indietro –se fosse possibile –i vieti spauracchi delle pseudo rivoluzioni similfasciste. Vero è che la solidarietà da sola non basta a risolvere i problemi dei bisognosi se non è sostenuta da una robusta azione politica, incentrata sulla tutela dei diritti. Però è anche vero che la sola politica –intesa come azione legiferante dei rappresentanti del popolo –non è sufficiente se non è sostenuta a sua volta da una solidale consapevolezza della società civile. O almeno di quella parte di essa che ha sviluppato resistenti anticorpi al riproporsi di soluzioni aggressivamente identitarie.Ognuno deve metterci la faccia, il cuore e il cervello per contrastare l’emergere di pulsioni xenofobe e razziste di vecchia memoria. Laddove c’è grande malessere sociale la cosiddetta “guerra tra poveri” è sempre in agguato. E c’è chi ne approfitta, svendendo per nobili ragioni una chiusura e un’ostilità sempre più identitarie e securitarie. Ma, insegnava don Milani, “il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia, uscirne insieme è la politica”.

La politica! Questa parola che si è rivestita di mille sensi ambigui e distorti,quasi fosse sinonimo di malaffare e di corruzione. Eppure la sua radice è la “polis”, cioè l’idea di cittadinanza, rafforzata dall’idea del diritto. Che dovrebbe costituire l’unico traguardo veramenteglobale”, senza esclusioni e barriere.

 

Tratto da “c.d.b. Informa” Foglio d’informazione della Comunità Cristiana di Base di Chieri n° 60 gennaio 2015 http://www.cdbchieri.it/

A “mastru” Tino

 “Como chi sese in sa lughe,manda cunfortu a nois addolorados”

di Piero Murineddu

“Ora che sei nella luce, manda conforto a noi addolorati”.  E’ questo uno dei necrologi apparsi quel mesto 24 novembre del 2014 sulle pagine del quotidiano locale, alcuni dei quali richiamavano il sorriso che ha accompagnato molti giorni della vita di Tino Pazzola, trovatosi per un intero anno a lottare tenacemente contro la malattia. Una malattia che non gli ha dato tregua, ma che  non è riuscita a sfiancare completamente la sua volontà di guarigione e di poter riprendere a contare nuovi giorni, insieme a sua moglie Maria Giovanna, al figlio Luca, ai familiari e alle tante persone che gli volevano bene.

In quel lunedì pomeriggio ci siamo ritrovati in tantissimi ad omaggiarlo durante il suo funerale. All’interno della chiesa parrocchiale di Sennori eravamo stretti nei banchi e sopratutto in piedi.  Per molti, durante la Messa, le parole del sacerdote sono riuscite a trasformare quell’incontenibile carica emotiva in fiduciosa speranza. Anche la bellezza dei canti eseguiti hanno dato  un valido contributo in questo, oltre che accomunare in una partecipazione attiva i sentimenti di ciascuno.

Inaspettatamente, al momento della “Preghiera dei fedeli”, uno dei familiari al microfono è riuscito a superare l’emozione e la commozione, raccontando alcuni particolari vissuti insieme a Tino nelle sue ultime ore, e leggendo i seguenti versi a lui dedicati:

tino

 

A “mastru” Tino

 

                                                  di Michele Soggia

Tinareddu sad’ fattu unu biazzu

dae Sennaru sou a Campidanu

si l’ad’ gherrada cun grande coraggiu

cun sa muzzere tenzende sa manu

Cun aquilones, canoas e mutores

seste appentadu cun grande passione

sempre allegru, cantende cantones,

farrazzinende cun prezisione

Isse palitta, pinaccu o carburatore,

faghied’ sa cosa cun attenzione,

ponzebi briu, impignu e amore

Poi sa currida est andada male

in sa corsias de s’ispidale

Ancora pizzinnu s’est postu a bolare

Forsi su chelu cheriad’ toccare

Chentu pizzones si pesan in bolu

Tino, da igue dacche cossolu

As’affrontadu milli leones

bolas in altu chei s’aquilone

Cussu ciclista t’ad’ nadu “anda pianu”

e tue pius in altu bolas lontanu

Ciao mastru Ti’

Miali Sozza

Casteddu 22 de Sant’Andria 2014

 

 

 

 

 

 

Il fastidio provocato dai “profeti”

lettera Pasini

 

di Piero Murineddu

Personalmente, considero questa lettera molto “turbata” e i numeroni che vi sono elencati sono per l’autore motivo di sospetto ed evidente preoccupazione. Argomento: le grandi folle che il nuovo Papa raccoglie intorno a se. Tra le righe sento risuonare il monito di Gesù nel Discorso della Montagna (“Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi” – Luca 6, 26). Pensandoci, Egli stesso aveva grande seguito, salvo l’esser stato abbandonato da quasi tutti il Venerdì Santo, primo fra tutti Pietro, suo primo discepolo.

Ma l’attrattiva provocata da Francesco, sarebbe proprio condannata dal Maestro, suo e di tanti di noi?

Vi sono diversificati modi e motivi per cui si sta’ dietro un qualsiasi leader. Il più delle volte, è perchè si vede in lui uno stimolo e/o un tramite per migliorare lo stato delle cose, una figura carismatica nella quale ci si riconosce. Nel caso specifico, il ritorno della gente alla frequentazione della Messa domenicale sarebbe l’unica prova che le parole del Papa portano frutto. L’affermazione è categorica, e sicuramente condivisa dai tanti preti che vorrebbero rivedere piene le “loro”(!) chiese. Intendo quel genere di prete che si trova a suo agio solo all’interno della sagrestia e che si compiace nel sentir rimbombare la sua voce davanti ad un silente assemblea che non può interloquire. Tutto sommato, credo che la sua parte di ragione l’autore della missiva ce l’abbia, salvo ipotizzare possibili cause che hanno portato allo svuotamento progressivo delle “case di Dio”. Non credo che nell’uomo moderno sia venuto a mancare il “bisogno d’Infinito”, o che si sia talmente “secolarizzato” fino ad interessarsi esclusivamente della piccola e provvisoria contingenza terrena. Penso piuttosto che anche in quest’ambito – e mi si passi il termine – un “protettivo” individualismo abbia preso il sopravvento, e questo a discapito di una visione più comunitaria della vita. Più o meno come è accaduto in generale nella società. Per i credenti, è scritto che “dove due o tre sono riuniti nel Mio nome…”, ma diciamolo francamente: se questo stare insieme non avviene all’insegna della conoscenza, dell’accoglienza, della valorizzazione di ciascuno e della condivisione vera, alla fine è un apparente stare insieme che invece che attirare, respinge. E in questa solo teorica vita comunitaria, si fa fatica a percepire anche la presenza del Cristo.

Secondo me, uno dei problemi fondamentali è se le Assemblee domenicali erano e sono realmente Comunità solidali dove vige la regola dell’amore fraterno. E poi, influisce o no se il Messaggio Evangelico, “predicato” specialmente dal clero e dalle Gerarchie, continua ad essere di esclusione più che di inclusione? Ho gia detto che l’affermazione del signor Federico è rigidamente categorica: l’unico segno dell’indice di gradimento del Papa è se si riprende a frequentare la Messa. Non sono d’accordo: le parole del Papa sono ascoltate se diventiamo più solidali, più misericordiosi, più operatori di pace e di giustizia. Se mettiamo in pratica l’insegnamento del Vangelo, insomma.

Dico la verità, leggendo questa lettera per istinto mi son venuti in mente i tanti che continuano a storcere il naso davanti alle “stravaganze” dell’attuale Papa, specialmente all’interno della stessa Chiesa Cattolica e tra le numerose Eminenze porporate. Ho paura che siano coloro che amano i privilegi e l’immobilismo a turbarsi davanti all’atteggiamento di Francesco, e col tempo, a causa di una predicazione “dogmatica” e di doveroso adempimento di precetti, molti “fedeli” sono diventati più clericali dello stesso clero.

Io credo che le folle accorrano perché vedono in lui una reale prova di cambiamento, un’aiuto per tornare al messaggio originario e semplice di Gesù di Nazareth.

Pensiamoci: quando mai un Papa ha avuto l’ardire di elencare quelle “malattie” curiali, cioè di chi amministra il Potere (e non solo “spirituale”), quali la vanagloria, l’accumulare, la chiusura, la rivalità, l’arrivismo, l’ appiattimento mentale e altro, come ha fatto lui poco prima di Natale? Col suo esemplare coraggio, Bergoglio si era creato già dei nemici, e col suo parlare chiaro e diretto, i nemici aumenteranno sempre più. D’altronde, i “profeti” hanno sempre dato fastidio. Le chiese, caro signor Federico, torneranno ad animarsi solo quando i cristiani daranno prova di amore, tra loro e nei confronti di chi cristiano non è.

PADRE NOSTRO, MADRE NOSTRA

amen

 

 

O Dio, Tu che sei
e Padre nostro e Madre nostra,
che sei per le strade,
nella nostra vita quotidiana,
dappertutto nelle nostre lotte,
che il Tuo nome e Tuo messaggio
siano presi sul serio,
che la giustizia sia fatta,
che si realizzi la condivisione
come Tu ce l’hai insegnata,
che tutti gli sfruttati, di qui e altrove,
abbiano il loro pane,
che tutti gli oppressi vivano nella dignità.

Dacci la forza di continuare
quanto Tu hai cominciato.


Insegnaci a costruire una nuova società,
in cui gli uomini e le donne vivano
nuovi rapporti sociali.


Liberaci dal nostro orgoglio
e dalla sete di potere.


Che le nostre mani costruiscano
l’insegnamento di Gesù in gesti
di condivisione e solidarietà.


Che lo sguardo di Gesù ci aiuti
ad oltrepassare le nostre frontiere.


Dacci il coraggio di resistere al miraggio
del denaro e di ogni privilegio.


Dacci il coraggio di resistere
alla società del consumismo
e alle sue false sicurezze.


Armaci di una solidarietà a tutta prova.  Amen



 

 

Da “Foi et vie”, rivista fondata nel 1898 da Paul Doumergue

 

 

Lu “SANTONEDDHU” di Sossu e la sua sconfinata simpatia

doge

di Piero Murineddu

A differenza di tanti miei coetanei, non ho mai frequentato l’ambiente calcistico. D’altronde la mia “diversità” mi ha sempre portato su strade poco percorse dai più. Questa è stata ed è la mia vita, e a me va più che bene. Il cruccio è che il non frequentarlo, mi ha impedito di conoscere persone di valore, e questo al di là che calciassero più o meno bene il pallone. Gavino Santoni è uno di questi. Ho avuto però la fortuna di starci a contatto durante una settimana di convivenza trascorsa a Spello, presso una Comunità di Piccoli Fratelli. Lui vi era capitato grazie all’amicizia con Luigi Pilo, mio amico oltre che compare. In quei giorni avevo goduto della sua presenza. Proprio nei giorni scorsi, riguardando i vecchi filmati, mi son ritrovato anche quello di quei piacevoli giorni.Una sconfinata simpatia quella di “Santoneddhu”. Chissà in quanti potrebbero parlare di lui. Anzi, chi se la sente, lo invito a farlo. Sarà mia cura pubblicarlo nella Banca. Nell’articolo, su cui nutro forti dubbi sulla firma e che più verosimilmente riconduco a Gavino Piras, come la maggior parte delle cose scritte sul Corriere di allora, vi leggo che quella volta che non era gradito al pubblico sussincu, Santoneddhu “soffriva in silenzio, sprofondato nello sconforto”, salvo poi recuperare alla grande il favore dei locali tifosi. Certo che mi viene difficile pensarlo, seppur momentaneamente, sprofondato nello sconforto e soffrendo silenziosamente. Eppure sono sue parole. Mi viene da pensare che a volte, nello stare insieme ad altri, si è quasi costretti a mantenere quel ruolo che risponde alle altrui aspettative. Non voglio addentrarmi in un discorso che richiederebbe molto tempo e troppi caratteri, col rischio di scassare la tastiera e ….altro, specialmente a chi non piace leggere cose lunghe. Concludo qui, ricordando con gratitudine quei pochi giorni di simpatia che Gavino mi e ci aveva regalato.

Sulla “religiositá” del gatto (dedicato a mia figlia Marta)


g

di Christopher Smart

Poiché parlerò adesso del mio Gatto Jeoffry.

Poiché è il servo del Dio Vivente
e lo serve tutti i giorni e con diligenza.

Poiché alla prima occhiata
della gloria di Dio ad Oriente
egli lo adora a modo suo.

GATTO 6

Poiché ciò viene fatto inarcando
il suo corpo per sette volte
con elegante sveltezza.

Poiché subito dopo egli balza
per acchiappare il muschio,
che è la benedizione di Dio
sulla sua preghiera.

Poiché si rotola per gioco
per farlo aderire.

GATTO 9

Poiché dopo aver compiuto il suo dovere
e aver ricevuto le sue benedizioni
egli comincia a pensare a se stesso.

Poiché egli fa questo in dieci gradi.

Poiché per prima cosa controlla che
le zampette anteriori siano pulite.

GATTO 12

Poiché per Seconda Cosa scalcia all’indietro
per sgomberare il terreno.

Poiché per terza cosa si stiracchia
con le zampe anteriori distese.

Poiché per quarta cosa si affila le unghie
sul legno.

Poiché per quinta cosa si lava.

Poiché per sesta cosa si rotola
mentre si lava.

Poiché per settima cosa si spulcia,
per non essere interrotto durante
la ricognizione.

GATTO 11

Poiché per ottava cosa si struscia
contro un palo.

Poiché per nona cosa guarda in alto
per ricevere istruzioni.

Poiché per decima cosa va in cerca
di cibo.

GATTO 15

Poiché dopo aver pensato a Dio e a se stesso penserà al suo prossimo.

Poichè quando incontra un’altra gatta
la bacia con gentilezza.

Poiché quando prende la sua preda
ci gioca per darle una chance.

d

Poiché un topo su sette gli sfugge
grazie a questa giocosità.

Poiché una volta finito il lavoro quotidiano
cominciano veramente i suoi affari.

Poichè vigila per il Signore
di notte contro l’avversario.

GATTO 7

Poiché contrasta i poteri delle tenebre
con la sua pelle elettrica
e i suoi occhi abbaglianti.

Poiché contrasta il Diavolo,
che è morte, con l’intensità
della propria vita.

Poiché nelle sue orazioni mattutine
egli ama il sole e il sole ama lui.

GATTO 10

Poiché é della tribù di Tigre.

Poiché il Gatto Cherubino è un termine
dell’Angelo Tigre.

Poiché ha l’astuzia e il sibilo
di un serpente, che giustamente
sopprime.

GATTO 1

Poiché non compirà distruzione,
se è ben nutrito, né sputerà
se non provocato.

Poichè fa le fusa per gratitudine,
quando Dio gli dice che è un buon  Gatto.

Poiché è uno strumento per insegnare
ai bimbi la benevolenza.

Poiché ogni casa è incompleta
senza di lui e allo spirito manca
una benedizione.

GATTO 5

Poichè il Signore diede ordini a Mosè
riguardo ai gatti
quando i Figli di Israele
lasciarono l’Egitto.

Poiché ogni famiglia aveva
un gatto almeno.

Poiché è il più preciso tra i quadrupedi
nell’uso delle zampe anteriori.

b

Poichè la sua destrezza nella difesa
è un esempio dell’amore che Dio
nutre per lui straordinario.

Poichè è il più veloce tra le creature
nel cogliere il suo bersaglio.

Poichè è tenace nel suo proposito.

c

Poichè è un misto di gravità e leggiadria.

Poichè sa che Dio è il suo Salvatore.

Poichè non v’è nulla di più dolce
della sua pace quando riposa.

i

Poichè non v’è nulla di più vivace
della sua vita quando si muove.

Poichè è tra i poveri del Signore
e infatti viene sempre chiamato così
con benevolenza – Povero Jeoffry!
povero Jeoffry! il topo t’ha morso la gola!

Poichè benedico il nome del Signore
affinchè Jeoffry stia meglio.

b

Poichè lo spirito divino viene
intorno al suo corpo per sostenerlo
nell’essere gatto completamente.

Poichè la sua lingua è oltremodo pura
così che ha in purezza ciò che le manca
in musicalità.

Poichè è docile e capace
di imparare alcune cose.

a

Poichè sa ristare con gravità,
il che è pazienza in prova.

Poiché sa afferrare e trasportare,
il che è pazienza applicata.

Poichè sa balzare oltre uno stecco,
il che è pazienza positivamente dimostrata.

GATTO 16

Poiché sa interrompere la piroetta
a una parola di comando.

Poich sa balzare da un posto
sopraelevato in petto al suo padrone.

Poiché sa afferrare il tappo
e farlo rotolare ancora.

GATTO 13

Poichè è tenuto in odio dagli ipocriti
e dai meschini.

Poiché i primi temono
d’essere scoperti.

Poiché i secondi rifiutano
di averne cura.

Poiché inarca il dorso non appena
si rende conto dell’accaduto.

Poiché è un buon oggetto di riflessione,
per chi voglia esprimersi con chiarezza.

BE

Poiché ebbe grande importanza in Egitto
per i suoi segnalati servigi.

Poiché uccise il Ratto Icneumonide
molto pernicioso nei campi.

Poiché le sue orecchie sono così aguzze
che pungono ancora.

BA

Poiché da ciò proviene la svelta
prontezza della sua attenzione.

Poiché accarezzandolo ho scoperto l’elettricità.

Poichè ho percepito la luce di Dio
intorno a lui cera e fuoco insieme.

BO

Poiché il fuoco Elettrico è la sostanza spirituale,
che Dio invia dal cielo per sostenere i corpi
e degli uomini e delle bestie.

Poiché Dio lo ha benedetto
nella varietà dei suoi movimenti.

Poichè, benché non sappia volare,
è un arrampicatore eccellente.

BI

Poiché i suoi movimenti sulla faccia della terra
son pi`u di quelli d’ogni altro quadrupede.

Poiché può zampettare a ritmo
di ogni misura musicale.

Poiché sa nuotare per salvarsi la vita.

Poiché sa strisciare.

BU

 

Christopher Smart ( Shipburne, 1722 – Londra, 1771), poeta inglese. Docente di filosofia all’università di Cambridge, nel 1749 si trasferì a Londra. Ricoverato in manicomio dal 1756 al 1763, vi compose il Jubilate Agno, da cui è tratto questo testo sul gatto. Rinchiuso nel 1768 nel carcere di Londra per debiti, vi morì tre anni più tardi.

Diverse immagini sono tratte dalla pagina FB di Rita Clemente, giornalista e poetessa grande amante di questi  “misteriosi” felini.

Ho pensato di dedicare questa pagina a mia figlia, anche lei scopertasi ultimamente amante dei gatti e in pena per la sparizione di uno dei due, Jonas

Enzo Bianchi sulle “malattie” della Curia Romana

bergoglio

Le quindici “malattie”, riferite ai membri della Curia ed

elencate da Papa Francesco poco prima di Natale

 

 

 

  1. Desiderio di immortalità
  2. Martalismo (eccessiva operosità)
  3. Impietrimento mentale e spirituale (eccessiva pianificazione e funzionalismo)
  4. Sindrome del mal coordinamento
  5. ″Alzheimer spirituale″
  6. Rivalità
  7. Vanagloria
  8. Schizofrenia esistenziale
  9. Malattia delle chiacchiere, delle mormorazioni e dei pettegolezzi
  10. Malattia del divinizzare i capi
  11. L’indifferenza verso gli altri
  12. Faccia funerea
  13. Malattia dell’accumulare
  14. Circoli chiusi
  15. Profitto mondano ed esibizionismi

 

Di seguito, il commento che ne ha fatto fr.Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose

 

enzo bianchi
DA MILLE ANNI NESSUNO PARLAVA COSI’

 

di Enzo Bianchi

Nei tempi recenti nessun Papa ha mai parlato come papa Francesco. Ieri ha detto quello che pensa con parresia, tralasciando linguaggi allusivi e stile diplomatico. Questo suo discorso echeggia quel che san Bernardo – monaco però, non Papa – osava dire nell’XI secolo al Papa e alla sua corte: parole che pochi altri seppero scrivere o proclamare a correzione dei vizi ecclesiastici nei momenti in cui si faceva urgente una riforma della Chiesa «in capite et in corpore».

Ma più ancora echeggia il Salmo 101, in cui il capo, la guida del popolo di Dio, promette al Signore non solo di camminare con cuore integro, ma anche di allontanare chi accanto a lui «ha il cuore tortuoso, l’occhio sprezzante e orgoglioso, chi denigra in segreto il suo prossimo, chi dice menzogne». Papa Francesco conosce bene la psicologia degli «uomini religiosi», presenti un tempo tra gli scribi e i farisei, oggi tra i cristiani «in ogni curia, comunità, congregazione, movimento ecclesiale».

Non solo i padri del deserto dei primi secoli erano soliti stilare «cataloghi» di vizi e peccati «capitali»: ancora le generazioni di cristiani come la mia, formatesi prima del Vaticano II, avevano a disposizione prontuari di peccati «in pensieri, parole, opere e omissioni» per prepararsi al sacramento della confessione, così da compiere un esame di coscienza personale sulla propria inadeguatezza rispetto alle esigenze poste dai dieci comandamenti e, più in profondità, dal Vangelo stesso. È a qualcosa di simile – forte anche dell’analoga tradizione loyolana – che ha pensato papa Francesco nel suo discorso alla curia romana in occasione del Natale. Così ha esposto con parresia un dettagliato elenco di ben quindici «malattie dell’anima», dalla patologia del «sentirsi immortale o indispensabile», fino a quella «del profitto mondano e degli esibizionismi».

Certo in questo catalogo delle malattie degli uomini religiosi emerge l’acconsentire a una tentazione-chiave, quella del potere, tentazione posta dal demonio anche a Gesù Cristo e da lui respinta e vinta. Sì, la sete insaziabile di potere rende colui che vi cede capace di diffamare e calunniare gli altri sui giornali e sui blog tramite giornalisti compiacenti, abili persino a odiare su commissione. Papa Francesco non inventa nulla, semplicemente legge la quotidianità che rende deforme e sfigura la Chiesa quale corpo del Signore. È un’analisi tagliente, frutto anche dell’esperienza quotidiana di questi ventuno mesi di pontificato, una disamina rivolta non tanto al passato e agli scandali che hanno preceduto la sua elezione, quanto piuttosto a un perdurante presente. Ed è significativo che l’antidoto universale per tutte queste patologie papa Francesco lo offra inquadrando il suo discorso – ricco di citazioni bibliche e di rimandi alla sua esortazione «Evangelii gaudium», a riprova del radicamento nella parola di Dio e della progettualità del suo parlare e operare – proprio nella comprensione della Chiesa come «corpo mistico di Cristo». Ora, l’immagine del corpo composto di molte membra come metafora di una comunità appartiene alla tradizione classica prima ancora che al Nuovo Testamento, ma la connotazione precisa che delinea il Papa a quanti lo aiutano nel governare la «Chiesa di Roma che presiede nella carità» è l’intima comunione di questo corpo dinamico e di ogni singolo membro con il Signore: «La curia, come la Chiesa, non può vivere senza avere un rapporto vitale, autentico e saldo con Cristo».

Ogni cristiano, ma soprattutto ogni persona munita di autorità o impegnata in un ministero pastorale, è invitato a chiedersi «sono un uomo di Dio o sono un amministratore di Satana?». Non esiste alternativa: perché se è vero che tutti siamo tentati e tutti cadiamo, resta vero che la frattura è tra chi cade e cerca di rialzarsi confessando di essere peccatore e chi invece accetta di cadere fino a essere un corrotto, magari esibendo se stesso come persona giusta ed esemplare di fronte agli altri.

Questo obiettivo, ben più arduo di qualsiasi riforma funzionale è indubbiamente innovativo e, al contempo, profondamente radicato nella più autentica tradizione cristiana: riportare un apparato burocratico ecclesiastico alla sua vera natura di corpo comunitario a servizio della Chiesa universale. Si dirà che le malattie sono così numerose, gravi e diffuse da rendere improba una pronta guarigione e che il tempo della convalescenza non sarebbe comunque immune da ricadute, ma sappiamo bene come condizione preliminare a qualsiasi terapia efficace è una diagnosi accurata e in questo le parole di papa Francesco sono estremamente appropriate.

Sì, ci sono nella Curia romana molte persone la cui vita cristiana è una testimonianza di fede, di qualità evangelica, di servizio leale e amoroso al Papa e alla Chiesa, e ci possono anche essere persone con una doppia vita «nascosta e sovente dissoluta», altre «vigliacche» che sparlano del fratello, altre ancora «meschine, infelici» perché hanno perso la memoria del loro Signore e «guardano appassionatamente la propria immagine e non vedono l’immagine di Dio impressa sul volto degli altri». Tuttavia papa Francesco non perde la speranza di vedere la Curia riformarsi, convertirsi da «un’orchestra che produce chiasso» disarmonico e che provoca «autodistruzione o fuoco amico» in autentica comunità di discepoli del Signore Gesù, in una comunione di peccatori perdonati, capaci di seguire l’invito di san Paolo ai cristiani di Efeso a vivere «secondo la verità nella carità, cercando di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità» (Ef 4,15-16).

L’ho scritto e lo riscrivo: papa Francesco si fa eco del Vangelo e la sua passione per il Vangelo lo porta a misurare la vita della Chiesa e di ogni membro sulla fedeltà al Vangelo. Ma nessuna illusione: più il Papa percorre questa strada e più scatenerà le forze demoniache operanti nella storia e il risultato per i veri credenti sarà l’apparire della croce di Cristo. Non è vero che nella Chiesa si starà meglio, è vero il contrario: la Chiesa infatti può solo seguire Gesù anche nel rigetto sofferto e nella persecuzione e non potrà ottenere successi mondani se incarna il messaggio del suo Signore.

Mino, “gettonino”,Piero,Jorge Mario e …..”chi non vive per servire, non serve alla vita”

milani

 

di Piero Murineddu

 

Questa mia lettera è stata pubblicata su La Nuova avantieri, domenica 20 dicembre:

 

Il Forziere Comunale eternamente vuoto o quasi. E’ questa l’assillante preoccupazione che toglie il sonno ai nostri generosi concittadini a cui abbiamo con fiducia dato incarico di trabanassi lu zeibbeddhu  per cercare di migliorare la nostra vita. Eia, dei politici sto parlando. E di quelli di Sorso in particolare. In margine a questo sempre triste argomento di mancanza di dinà, qualche settimana fa, all’interno del Consiglio  si è creato un carinissimo siparietto,  allorchè la maggioranza dei presenti ha bocciato la mozione presentata da due consiglieri, proponente la riduzione del 20% del “gettone”, cioè di quei pochi citi che ogni consigliere percepisce ogni volta che dedica ufficialmente del tempo per occuparsi del destino di noialtri amministrati. Ci sarebbero anche quei rimborsi per le “missioni” istituzionali (spostamenti e magnà), ma questo è un altro discorso. Poca cosa questo gettone (poco più di 15 euro a “seduta), specialmente se paragonato a quello sassarese, che va oltre i 100. A noi eternamente maliziosi rimane il dubbio che i due attribiddi, generosi e isolati consiglieri abbiano avuto come principale obiettivo far demagogia, ma ugualmente rimane lodevole l’intento di porre una questione di principio (“piccolo segnale di vicinanza ai nostri concittadini costretti a sacrifici…..”). Una parte della più o meno ininfluente Opposizione sussinca ha manifestato il “dispiacere” di non potere accettare la proposta. Si è richiamata infatti al Regolamento degli Enti Locali, che impedirebbe di privare i consiglieri di un legittimo diritto, qual’è appunto il  gettonetto. In mezzo a tutto l’affarratorio, sarebbe  probabilmente da seguire l’esempio di una consigliera, che a differenza di un  assessore “disoccupato”, ha detto che grazie al lavoro che  possiede, si può permettere di devolvere il magro guadagno istituzionale in favore di un’associazione di volontariato. In effetti, mi sembra proprio un’ ottima e “natalizia” soluzione.

 

La sera dello stesso giorno in cui l’avevo spedita, il 19 dicembre, leggo sullo stesso quotidiano la lettera di precisazioni sullo stesso argomento, firmata dal capogruppo PD sussinco in Consiglio Comunale. Ve la ripropongo.

 

MINI ROGGIO 19 dicembre 001


Nelle intenzioni del mittente, che nella mia profonda ignoranza non sapevo essere il capogruppo di quello che è rimasto del PD a Sorso, la lettera ha voluto “fornire ulteriori elementi” per conoscere e meglio capire  i fatti. Effettivamente, elementi di riflessione ne dà.  Per chi non lo sapesse, Roggio a suo tempo è stato sindaco della Forza Italia sussinca, ma i difficili equilibri (!) di potere interno al partito berlusconiano, per motivi oscuri alle masse erano saltati, ponendo tristemente fine a quello che sembrava un ….matrimonio indissolubile. Ora il Nostro si ritrova ad assere addirittura capo di un partito che un tempo era l’accerrimo “nemico”  del Signore di Arcore. Comunque, e sia detto senza malizia, è possibile cambiare idea, specialmente ricredersi su “peccati di gioventù” e  su eventuali sbagli commessi in passato.

E quindi la discussione in Consiglio verteva sulla presenza o meno di un “errore tecnico”, che tradotto nello specifico significa: ognuno, della propria (meschinetta) retribuzione  faccia liberamente ciò che più gli aggrada, possibilmente senza usare megafoni autoincensatori e senza pretendere che la sua destinazione in favore del popolo affamato sia decisa per legge. Che dire? In effetti le paghette dei nostri piccoli amministratori locali fanno quasi tenerezza, e se uno che si mette in politica dedica veramente tempo, fatica ed intelligente competenza per migliorare la vita di tutti, è giusto che venga gratificato, non solo con onori e saluti riconoscenti per la strada, ma anche economicamente, e possibilmente con cifre dignitose. Pensandoci bene, il problema riguarderebbe più che altro certuni che ricoprono incarichi politici nazionali, ma per rimanere a noi, anche regionali. Qui la cosa si che continua a far girare e rigirare i cosiddetti. O vogliamo che anche a quei livelli bisogna lasciare l’iniziativa  “benefattrice”  alla discrezione individuale? Eh no, miseriazzazozza! Lì si che “per legge” è necessario che chi occupa le ancora scandalosamente troppo care poltrone, tornino ad essere considerati normali cittadini, specialmente dal punto di vista delle disponibilità finanziarie. Non dico come  il mio conto in banca, sempre più vicino al poco allegro color rosso, ma neanche come gli ancor troppi  paperoni  politicanti, con cappello a cilindro, doppio petto e sigarone in bocca. Quando questo accadrà, sarà sicuramente e sempre troppo tardi.

 

Auguri, allora. Come “di che?” Di quello che volete, perDinci e perSossu !!

Anzi no, un augurio lo voglio fare. A me prima di tutto, ma anche a te, a lei, al prete e al sagrestano, all’impiegato, a zia Bainza e a zia Tiresa, alla donna cattolica e alla donna che le piace starsene a casa sua al calduccio, al consigliere e al consigliato, al poltrone e all’imPOLTRONAto, all’omosessuale,  bisessuale, trisessuale, quadrisessuale e sessuale quanto e come gli pare….. Insomma, a tutti e specialmente a ciascuno: che nel nuovo anno (e sempre!) riusciamo  a fare strada agli altri, specialmente a chi è nel bisogno, vincendo la tentazione di usare gli altri per far strada a noi stessi. Magari una frase  “esagerata e dura” di Bergoglio – si, quel Papa così criticato e specialmente attaccato ferocemente da certi cardinaloni e giornalistoni panzuti da strapazzo –   può richiamarci a questo impegno:

Chi non vive per servire, non serve alla vita“.


DUE INCOSCIENTI E UN MATRIMONIO

“Chi bada al vento non semina mai, e chi osserva le nuvole non miete” (Qo 11,4).
Questa massima tratta dal libro di Qoelet, chiamato anche Ecclesiaste,  molto frettolosamente definito pessimistico (“tutto è vanità”), è quella che padre Alberto ha scelto per chiudere il suo bellissimo racconto sul matrimonio dei suoi genitori, avvenuto ben settantanni fa . La vicenda narrata appare simpaticamente affascinante, anche per come il padre, facchino ma sarto di mestiere, da coperte era riuscito a ricavare l’abito nuziale per se, da parti di un paracadute ormai divenuto inutilizzabile quello per la moglie. Chissà che capolavori di alta classe è riuscito a creare babbo Maggi! In quei tempi, sono certo che anche molti dei nostri genitori, quelli appartenenti al popolo e che la guerra aveva privato delle cose essenziali per condurre una vita dignitosa, si son trovati a dover fare salti mortali per riuscire a sopravvivere, il più delle volte dovendo badare anche a numerosi figli.
“Chi bada al vento non semina mai, e chi osserva le nuvole non miete”
Sembra un’affermazione che contraddice il richiamo alla prudenza, alla necessità di essere  “razionali”, cosa oggi portata all’eccesso e che spesso priva le persone della fiducia verso il futuro. Pensandoci, se i nostri genitori non avessero avuto la forza ed  il coraggio di intraprendere un viaggio insieme, nonostante le grandi difficoltà e l’incertezza del futuro e  “mettendo su casa”  magari in quello che dalle nostre parti veniva chiamato “fòndiggu”, piccolo locale – magazzino, oggi non saremmo qui a raccontarcelo e a raccontare ai nostri figli le grandi imprese  compiute dai loro nonni .
“Chi bada al vento non semina mai, e chi osserva le nuvole non miete”.
Grandi insegnamenti nel raccontino di padre Alberto Maggi che state per leggere. Ma è anche il modo in cui questo prete vive il suo sacerdozio che rispecchia appieno questa “imprudenza”, spinto dall’amore per l’essenzialità del Vangelo e per il suo continuo e ormai naturale coraggio di…. osare. Un testimone semplice e vero, la cui vicinanza aiuterebe molti a capire la bellezza del Messaggio Evangelico e ad attuare quella Rivoluzione d’Amore indicata da quell’Uomo di Nazareth, ricordato in questi giorni nella fragilità della sua nascita.   (Piero Murinedu)

 

alberto maggi - Copia

 

A mamma e papà nel settantesimo anniversario

del loro matrimonio (1944-2014)

 

 

di padre Alberto Maggi

 

Sono nato da due incoscienti.

Non c’erano le condizioni per sposarsi, invece loro l’hanno fatto.

Ancona si stava lentamente risollevando dalle ferite della guerra, la città era distrutta, il lavoro non c’era, in compenso abbondava la fame (mamma pesava appena quarantadue chili). Ma i miei, irresponsabili, decisero di sposarsi ugualmente, il 27 dicembre del 1944.

Non fu possibile celebrare il matrimonio nella chiesa dei Santi Cosma e Damiano perché questa era lesionata dai bombardamenti, per cui il rito fu frettolosamente celebrato nella sacrestia. Mio padre era riuscito a cucirsi un vestito utilizzando le coperte dei polacchi (il battaglione inviato dalla Polonia di stanza in Ancona). Non riuscendo a trovare il filo per attaccare i bottoni usò uno spago che, con il lucido delle scarpe, tinse di nero. Le scarpe invece gliele prestò, per la cerimonia, un sergente inglese.

Più originale e geniale l’abito di mia madre. Gli inglesi, presso i quali papà non trovando lavoro da sarto lavorava come facchino, gli regalarono alcuni metri di tessuto di un paracadute inutilizzabile, e mio padre, con grande abilità, e soprattutto tanto tenero amore, realizzò l’abito da sposa per mia madre. Non ci sono foto del matrimonio, e forse è meglio, così la fantasia supplisce all’estrema povertà della coperta polacca e del paracadute inglese.

Il viaggio di nozze lo fecero su un sidecar guidato da un soldato inglese, dalla chiesa alla casa di mia madre, dove, con l’aiuto di parenti ed amici, i familiari erano riusciti a procurarsi alcune bottiglie di vermouth e dei pasticcini per fare festa. Per il brindisi augurale agli sposi, l’inesistente spumante fu sostituito da un caldo punch.

No, le condizioni per sposarsi non c’erano. Mio padre lavorava saltuariamente come facchino presso gli inglesi e mia madre, che pur aveva avuto un buon posto come impiegata alle Poste, l’aveva abbandonato per seguire la famiglia sfollata in un paesino vicino Ancona.

Erano senza lavoro, senza soldi, senza casa, ma con tanto amore e tanta fiducia nella vita.

E io li ringrazio per questa loro avventatezza. Afferma la Bibbia che “Chi bada al vento non semina mai, e chi osserva le nuvole non miete” (Qo 11,4). E i miei incuranti dei venti e delle nuvole che si addensavano sulla loro esistenza, si sono sposati.