Autore archivio: piero-murineddu

Pronti per entrare nella cabina elettorale?

E mi raccomando, la foto col telefonino no no no

di Piero Murineddu

E quindi siamo arrivati alla rovente settimana delle elezioni per eleggere il nuovo ( nuovo? Bah…) Consiglio Comunale Sussincu, oltre naturalmente alle Elezioni Europee, molto più importanti per sperare di dare una svolta alla tragica piega che sta prendendo il mondo, sull’orlo di una definitiva catastrofe nucleare ma che ai politichetti locali non sembra importare granché, interessati esclusivamente ad occupare la propria poltroncina di comando e al gusto di sedere nei luoghi in cui si decide sulla vita altrui. Servizio? Si, forse, ma per una sola legislatura, non di più. Per quanto riguarda parte degli elettori, poi, ebbè, devono pur sdebitarsi per qualche “regalino” ricevuto, per se, per i propri figli, per i nipotini ancora in fasce, per l’ultra obolo alla “chiesa”, per mia cugina…No, per mia bisnonna no, è passato troppo tempo. Che pena quest’andazzo del voto di scambio, sempre più in via di cronicizzazione, sia a destra che a manca! Ancora non si riesce a capire che per ottenere i propri diritti, siano essi in ambito lavorativo, sanitario ed altro, OCCORRE LOTTARE, NON ELEMOSINARE !

Stamattina mi è venuto in testa di riproporre il programma elettorale che coi miei due amichetti candidati sindacani avevamo predisposto cinque anni fa, e nel contempo dare un’occhiatina anche alle elezioni amministrative del 2009 e 2014.

Del programma del 2019 riporto unicamente il punto dove ci si riprometteva di impegnarsi UNICAMENTE per una legislatura, e questo per non pretendere di vivere di politica per tutta la vita, come accade troppo spesso con la poco credibile motivazione di voler concludere quanto si è iniziato. Balle! La verità, l’unica, è che quando si prende gusto al potere non lo si vuole abbandonare più. Quindi, vediamo…
Punto 3 – Non pretendere di far “politica” a vita

Non puntiamo ad occupare poltrone vita natural durante. Un mandato è più che sufficiente, poi via, a sudare come fanno tutti. Se si ha un lavoro, si ritorna a svolgerlo, se non lo si ha, ci si sbatte per cercarlo come fanno tutti. Ci sono vari modi per fare politica, e non solamente col grado di caporal maggiore e col culo poggiato comodamente dove sappiamo. Nelle elezioni comunali poi, ci si offende se non vieni votato da tutti i parenti che hai ben contato. L’avete sentita quella della moglie che, risentita perchè il marito non è stato eletto, ha cancellato tutti i contatti “traditori” su facebook e whatsapp. A questo punto siamo! Ma come, invece di essere contenta perchè ti rimane il maritino a tempo pieno tutto per te che lava, stira, spolvera, toglie i panni dalla lavatrice…….tu ti offendi? E va bene, non sarà riverito e pregato dal popolino come avviene solitamente, ma almeno avrà il tempo e la voglia d’amoreggiare. Ma che c…. vuoi di più? Quindi un mandato e via, a tribburà! Noi non parliamo di “esperienza” nel campo. Noi parliamo di duro lavoro per capire la macchina amministrativa, prima di presentarsi come candidato. Quelli che l’esperienza ce l’hanno già, ed esperienza non vuol dire furbizia, si mettono da parte e aiutano i nuovi a farsi le ossa, faticosamente e generosamente.

 

Programma del 2019

Programma elettorale lista “Alè Sossu, Sossu Alè”, Ciuffo e Stellina candidati Sindacani

Giannetto Masala e il valore che diamo alla Cultura

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Sorso è un paese che ha paura delle propria memoria, tende spesso a dimenticare gli uomini, i fatti, le storie. Forse è la nostra società ossessiva e opprimente che ci spinge a correre sempre avanti. Forse non abbiamo tempo per fermarci a riflettere, a ricordare. Come bambini, ci svegliamo ogni mattino come se fosse il primo giorno. Il passato si spegne durante la notte e noi ci presentiamo al mondo come vittime sacrificali di un Moloch consumistico che frantuma e divora sogni e persone. Così la nostra memoria diventa un prodotto di consumo, un articolo usa e getta. Abbiamo una sola arma di difesa, la poesia con i suoi fragili e indifesi soldati: i poeti, piccoli grandi uomini che riescono a parlare di noi attraverso il tempo, fuori dagli schemi stabiliti, oltre le cattive abitudini.Se abbiamo voglia di ascoltarli.” (Leo Spanu)

 

Ma perchè i tuoi conterranei non ti onorano come si converrebbe?

di Piero Murineddu

Quanto su riportato sono le considerazioni in premessa ad un ricordo del Masala che il nostro concittadino Leo Spanu ha pubblicato sul “Corriere Turritano” nel gennaio 2012, ripreso poi nel suo blog nell’agosto 2015.

Sorso avrebbe paura della propria memoria. In un primo momento non ho capito tale affermazione, e per questo avevo contattato Leo per avere chiarimenti in merito.

A dir la verità la sua spiegazione non mi aveva convinto molto, o forse é il parlarsi per telefono a non permettere piena comprensione.

Rileggendo comunque con più attenzione, il passaggio che mi ha illuminato un tantino di più è il seguente: “La Memoria è come un prodotto di consumo,un articolo usa e getta“.

La cosa mi ha portato a riflettere.

Ma perchè i tuoi conterranei non ti onorano come si converrebbe?“, ebbe a chiedere al Masala la giornalista Raffa Garzia, come sopra riportato. Che io sappia, non ci è dato di conoscere la  risposta dell’avvocato e poeta sussincu vissuto tra l’800 e il ‘900. I tempi erano diversi, ma chissà che, allora come forse anche oggi,  Masala serbasse del risentimento per questa mancanza di riconoscimenti da parte dei suoi concittadini.

Certo, c’è sempre quella evangelica verità che nessuno è profeta in patria, ma il fatto è che altrove, le località che hanno dato i natali a letterati e personaggi di rilievo nei diversi campi della Conoscenza, dell’Arte o semplicemente del “comportamento” umano, in vari modi quei luoghi vengono identificati con tali persone o coi fatti a loro legati.

Mi chiedo:

– Consapevole “amnesia” verso chi in varie forme nel passato ha dato lustro al posto dove anche noi siamo nati?

– “Paura della propria memoria”, e le cose di cui si ha paura si tende a nasconderle, mi dice Leo. Ma perchè questa paura di quelli la cui arte o capacità li ha fatti emergere ad un livello non comune?

In questa società dell’Apparire, in effetti può risultare più comprensibile provare invidia per chi ha possedimenti  più di noi, ha “roba”, cose che gli permettono una vita maggiormente agiata. Insomma, in quest’era dell’Accumulo può attirare attenzione più chi HA di quello che più È.

Sempre la solita storia, insomma, e su questa questione del non dare importanza a chi ha prodotto “Cultura” più che accumulare “roba”, continuo a pormi altre domande:

– Individualismo esasperato che porta ad occuparsi esclusivamente del proprio orticello, del piccolo operato della vita che si conduce, mettendosi di conseguenza al centro dei propri interessi?

– L’ignoranza diffusa –  dovuta non solo al basso livello scolastico – che non permette di conoscere queste eccellenze umane, prevalentemente del tempo passato?

– L’ infondata convinzione che è solo quello che arriva da fuori meritevole di particolare attenzione e senz’altro di particolare valore?

– Mancanza di associazionismo culturale, finalizzato alla conoscenza approfondita di questi personaggi e di ciò che son stati?

– Susseguirsi di una politica locale che si occupa, spesso con risultati discutibili, della piccola contingenza del presente, incapace di pensare in grande?

– Paura di confrontarsi con le alte figure del nostro passato  il cui operato ed insegnamento potrebbe costringerci a giudicare con severità un presente che ci vede poco invogliati ed impegnati a costruire una nuova socialità, una nuova politica, una nuova passione per le più svariate arti?

– Oppure, chi nel passato e pure nel presente,  ha raggiunto insoliti traguardi e mostrato di possedere particolari capacità, siano esse letterarie, poetiche, artistiche, musicali, sportive,sanitarie ed altro, ha messo lui le distanze dal popolino, creandosi un’ “intoccabilità” narcisistica e permettendo a pochi privilegiati l’onore di frequentarli, magari anche crogiuolandosi in un voluto auto isolamento narcisistico?

– Il dare in generale poca importanza alla Cultura, nel senso a ciò che siamo stati e che ora siamo, per la convinzione che bisogna guardare più alle cose concrete che a quelle “evanescenti”, quale potrebbe essere considerata appunto la Cultura?

 

In questa pagina riporto la prima parte del lavoro che una cittadina di Sorso, Caterina Fiori, nell’ambito dei suoi studi classici, ha realizzato per omaggiare la figura di Giannetto Masala che, come lei afferma all’inizio del suo volume,  rimane ai più ancora sconosciuta.

Chi fosse interessato all’acquisto, può trovare il volume nelle librerie o richiederlo direttamente alla casa editrice EDITORIALE DOCUMENTA, PIAZZA GRAZIA DELEDDA 7 – 07030 CARGEGHE – www.editorialedocumenta.it

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MARIA CATERINA FIORI

Laureata con il massimo dei voti e la lode in Lettere e Filosofia presso l’Università degli studi di Sassari. Vincitrice della Borsa di Studio per «Le migliori tesi di laurea riguardanti argomenti sulla città di Sorso e sul territorio della Romangia» bandito dall’Università di Sassari con la collaborazione del Comune di Sorso. Premiata nel 2008 alla seconda edizione del concorso “TesiSarda”, bandito dalla Biblioteca di Sardegna.

 

L’UOMO, IL POETA E L’AMBIENTE STORICO

 

Giannetto Masala (il nome completo che risulta dall’atto di nascita è Giovanni Pietro Giuseppe Maria) nasce a Sorso il 6 giugno 1884 da Giuseppe e da Maria Ignazia Marogna nella casa che ancora si trova in via Salvatore Farina al numero 40.

Figlio unico, cresce con amore smisurato da parte della madre, frequenta le scuole elementari a Sorso e continua gli studi presso il seminario arcivescovile e il Collegio Canopoleno di Sassari. Gli studi secondari li completa nelle città di Tempio, Nuoro, Alghero e Cagliari, seguendo sempre, nei vari trasferimenti di sede, la famiglia dello zio materno, il giudice Eugenio Marogna. A Sassari dal 1904 frequenta l’università seguendo regolarmente i quattro anni della facoltà di Giurisprudenza e conseguendovi la laurea il 4 luglio 1908.

Durante la vita goliardica, il suo naturale amore per la poesia lo porta a scrivere i primi versi in periodici di provincia, quali «Il Burchiello», noto settimanale fondato da Salvator Ruiu e Barore Scano, e «Il Massimelli» di Guido Aroca. Masala manifesta chiaramente la sua propensione per la poesia, i discorsi celebrativi e l’eloquenza politica più che per la vita forense. Ben poco conosciamo della sua attività d’avvocato, se non un accenno in un’arringa del noto legale del foro di Sassari Giuseppe Castiglia:

Giannetto Masala che con tanta scienza, aveva iniziato la carriera penale, per la quale egli aveva tutti i numeri, da quello della mente, a quello del sentimento e del cuore; […] Che però lasciava i suoi lavori operosi o nelle cause penali o nelle opere letterarie per correre a difesa di popoli che pareva meritassero di essere difesi.

Nel 1904 pubblica su «L’Unione Sarda» diretta da Raffa Garzia le prime tre parti de Il Canto D’Angioy, «composto nell’eremo di Sorso» dedicato agli ultimi eroi della libertà sarda. Nel marzo dello stesso anno «L’Unione Sarda» pubblica una prima serie di Sonetti Materni la cui composizione risale all’ottobre del 1903; la seconda serie fu pubblicata ne «La Vita Letteraria» di Roma (6 ottobre 1907). Nell’edizione domenicale de «L’Unione Sarda» del 1904 sono pubblicate Le Terzine dei Bimbi. Il Masala trovò vasta risonanza nell’Isola nel gennaio 1906, con la pubblicazione della poesia La Lampana che suscitò tante discussioni, commenti e persino parodie. L’anno successivo il nostro autore fa pubblicare su «La Nuova Sardegna» la prima edizione de Il Canto D’Angioy, che riprende l’avvio del 1904; l’ultima edizione, in molte parti rivisitata, sarà pubblicata nel 1908 nel quotidiano sassarese di Gustavo Paoletti, «L’Epoca», per il centenario della morte di Giovanni Maria Angioy. Sempre nel 1907, su «La Nuova Sardegna» esce la canzone Ai fratelli del mare. Qualche scena drammatica d’argomento regionale, come Re con bisaccia e Stevene Sole, viene pubblicata nello stesso anno da «La Vita Letteraria», e nell’agosto il Masala dà a «L’Unione Sarda» Poemetto intimo.

Alla notizia dei fatti d’Innsbruck (14 novembre), Barore Scano pubblica nel supplemento del suo «Il Burchiello» una prosa che risente dello sdegno per la violenza austriaca e la fiera resistenza degli italiani; il testo in gran parte appartiene al Masala, ma con versi del Satta.

Per il centenario della morte dell’Angioy, l’Associazione Universitaria di Sassari pubblica un manifesto e una lapide marmorea interamente dettati dal nostro poeta. Il 6 aprile il testo del discorso pronunziato dal Masala al Politeama Verdì di Sassari è pubblicato da «L’Epoca».

Dopo la laurea si trasferisce, per un breve periodo, a Roma. Continua a seguire gli avvenimenti politici e culturali “di una terra d’Italia”, come suole chiamare la Sardegna, e collabora al «Carroccio». In questo stesso periodo, secondo il Saba, sarebbe stato proprio Giannetto Masala a curare l’edizione dei Canti Barbaricini di Sebastiano Satta, ma l’opera non reca nessun cenno di tale cura. È però vero che entrambi parteciparono alla stesura del poemetto pubblicato da «Il Burchiello», e che il Satta conobbe e lodò il giovane poeta di Sorso.

Giannetto, nell’inverno del 1912, in piena guerra balcanica, si sposta da Roma in Grecia per seguire Ricciotti Garibaldi. Dal teatro di guerra elogia il battaglione italiano, di cui fa parte, e manda corrispondenze alla «Tribuna», a «Il Resto del Carlino » e a «La Nuova Sardegna». In giubba rossa sulle colline dell’Epiro, precisamente a Drisco, scrive Aldo Spallicis in una rievocazione dell’amico, sappiamo che “Masalino” sa compiere il suo dovere.

Nel 1913, rientrato a Sassari, dopo la conclusione della campagna garibaldina, tiene al Circolo Filologico una conferenza sull’Ellade, patria della poesia e dell’arte. Da conferenziere a giornalista, in pieno periodo elettorale, è il più vivace e attivo redattore del settimanale politico «Testa Cattiva»; gli altri collaboratori sono Luigi Castiglia, Gavino Falchi, Tullio Manca, Mario Mossa e Michele Saba. Il giornale conteneva vignette con didascalie sagaci, frecciate, attacchi aperti e allusioni velate contro gli avversari politici. L’attività giornalistica non proseguirà dopo la chiusura del «Testa Cattiva».

La produzione poetica continuerà entro le mura domestiche ma di quei lavori non si troverà più traccia perché distrutti dallo stesso Masala. Testimonianze orali raccontano che il poeta, in quel periodo, trascorreva il tempo a Badde, la campagna dei Marogna alla periferia di Sorso (sulla strada per Sennori) e che scriveva di pene d’amore. Niente poteva essere più consigliabile di un cambiamento d’aria, e l’occasione attesa arrivò con l’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale.

Giannetto si arruolò come volontario. Avrebbe voluto essere aviatore ma partirà come fante. Nell’agosto del 1916 si trova in trincea, come sottotenente comandante della III sezione mitraglieri del 285° reparto della 48° divisione.

Nel 1917 è sul San Marco di Gorizia dove trova la morte il 3 giugno 1917. È sepolto nel cimitero di guerra dei Cappuccini a Gorizia.

SORSO ALLA FINE DELL’OTTOCENTO

L’opera poetica del Masala può essere meglio compresa guardando al contesto storico-culturale, quello dell’Italia, della Sardegna e soprattutto della Sorso di fine Ottocento, dal quale il poeta attingerà personaggi e ambienti che prenderanno vita all’interno di essa. Luoghi dell’infanzia divenuti protagonisti attivi della sua formazione umana e sociale e ai quali si deve quel Giannetto giurista, poeta e soldato, che abbandonò l’attività forense per dedicarsi, anima e corpo, al suo primo amore, la poesia. In seguito diverrà soldato, spinto dalla lotta per la libertà e dal senso di patriottismo, parte integrante della sua cultura di sardo prima e d’italiano poi, e per i quali morirà sussurrando: «Viva l’’Italia». Per questa ragione il paese natale e la Sardegna divengono il punto di partenza di un’analisi della vita politica e culturale della Sardegna post-unitaria, all’interno della quale operò il mondo intellettuale sardo e del quale il Masala fu uno dei protagonisti.

Sorso nella metà dell’Ottocento era «un ricco e laborioso paese situato in una vasta pianura con quattromila abitanti in prevalenza contadini», che traevano i maggiori profitti dalle piantagioni di tabacco, dalla coltivazione del grano, della vite e dell’ulivo.

Il paese ottenne la completa liberazione dal regime feudale nel 1839, attraversando, come il resto dell’Isola, una forte crisi economica dovuta alle imposte e alle tasse che gravavano sulla proprietà terriera in seguito all’affrancazione dei feudi o con le chiudende!°. Nonostante la lentezza della privatizzazione delle terre impedisse la nascita di piccoli proprietari, un censimento del 1848 stabilì che metà dell’intero territorio isolano apparteneva a privati”, ma le tassazioni spropositate rispetto al valore reale dei terreni, equiparati a quelli più produttivi d’altre regioni del continente, diedero spesso il via ad un sistema di pressione fiscale che si aggravò sempre più verso la fine dell’Ottocento. Questa profonda crisi colpì anche Sorso, nonostante diverse famiglie nobili e borghesi benestanti possedessero già molte proprietà, specialmente oliveti e vigneti, tanto da divenire in seguito la nuova classe dominante del paese.

Le riforme dei Savoia, attuate tra il 1820 e il 1847, non produssero gli effetti sperati. Le carestie e le sfavorevoli conseguenze delle riforme mostrarono la fragilità delle strutture produttive dell’Isola, basate unicamente sull’agricoltura e sulla pastorizia, e fecero nascere il desiderio di modernizzazione e di cambiamenti sostanziali soprattutto a livello economico,

L’adesione alla lega doganale fu vista dai sardi come l’unico rimedio per allontanare l’Isola dallo stato di degrado e miseria in cui era caduta da diversi anni. Questa avrebbe dovuto garantire sgravi fiscali e un migliore e più proficuo commercio di prodotti, come l’olio e il vino, dei quali si disponeva in larga misura. La richiesta dell’equiparazione agli stati di terraferma fu posta al Re dai Tre Stamenti del Parlamento sardo, anche sotto l’ondata d’entusiasmo nazionalista e patriottico che dalla Penisola si era diffuso in tutta l’Isola. Il 30 novembre 1847, Carlo Alberto, accettando la richiesta, sancì la cosiddetta “fusione perfetta”, decretando la perdita dell’autonomia del Regnum Sardiniae e la conseguente unificazione legislativa ed amministrativa con le regioni continentali dello Stato Sabaudo. Questo segnò una nuova epoca nella storia sarda.

La Sardegna si trovò ad affrontare, dieci anni prima, tutti i problemi e le contraddizioni che il resto d’Italia affrontò nei primi anni dell’Unità: una pressione fiscale che acuiva il già grave stato d’arretratezza economica, il soffocamento delle espressioni di malcontento, la perdita di valore delle tradizioni culturali e linguistiche.

Negli anni precedenti e successivi alla fusione, furono pubblicate diverse opere che «contribuirono a determinare
Un momento significativo di quest’atteggiamento politico fu la scelta di risolvere la questione dei terreni “ademprivili”, ingenti estensioni di terra incolta in prevalenza collinosa e montagnosa, su cui le popolazioni dei villaggi godevano comunitariamente di numerosi diritti, come ad esempio far pascolare gli animali o raccogliere legna. Il governo, spinto dalle crescenti necessità finanziarie dello Stato, scelse di lottizzare buona parte di queste terre e di venderle a privati. Una parte fu data in concessione ad imprese non isolane che ne sfruttarono le risorse boschive trasformandole in carbone, altre furono vendute direttamente dallo Stato o attraverso i Comuni. Ancora una volta, come per l’affrancazione dei feudi, ad essere penalizzate furono le classi sociali più povere che, non avendo i mezzi finanziari per acquistare le terre, videro diminuire ulteriormente le già ridotte risorse. Questo meccanismo, guidato dall’ormai “conosciuta” logica di modernizzazione e di razionale sfruttamento delle terre, non fece altro che avviare un grave processo di degradazione del patrimonio boschivo e accentuare gli squilibri già esistenti fra contadini e pastori e tra le diverse fasce di proprietà terriera, incoraggiando le tensioni e lo stato di conflitto interno.

In questo clima si sviluppò la clamorosa sollevazione dei pastori e contadini di Nuoro che scesero in piazza per protestare contro la decisione di vendere un ampio territorio, su cui esercitavano da sempre i loro diritti di pascolo e di semina. Alla protesta, in un primo momento, parteciparono solo «coloro che più direttamente erano colpiti dalla vendita dei terreni poi l’intera popolazione»

Al grido a su connottu, che divenne il moto del movimento insurrezionale, il Municipio fu assaltato, i documenti e i registri relativi alla lottizzazione rastrellati e bruciati in piazza. Questo termine traduceva l’esigenza delle popolazioni di tornare al “conosciuto”, alla tradizione, che corrispondeva maggiormente ai loro interessi ma soprattutto costituiva per i più poveri la garanzia e la sicurezza per soddisfare i bisogni quotidiani?8, Il processo di modernizzazione forzata delle strutture agrarie aveva introdotto nuovi ordinamenti, sconvolgendo le basi della società rurale tradizionale, scaricando il peso e i costi di tutta l’operazione sulle masse popolari più indigenti e meno preparate ad affrontarli che cercarono, con la protesta e la lotta, di esprimere la loro avversione per ogni elemento di novità. La resistenza contro i soprusi, anche se spesso inutile, «non solo faceva maturare nei protagonisti la coscienza di una società che mutava, ma metteva in guardia l’opinione pubblica e la classe dirigente dal pericolo di non tener conto in modo adeguato di questi mutamenti»

A livelli sempre più alti si creò una diffusa consapevolezza della situazione sarda, denunciata da diversi parlamentari, che spinse il governo italiano a compiere delle inchieste affidando l’incarico a specifiche commissioni. Contemporaneamente, giornalisti, intellettuali e uomini politici svolsero indagini e studi sulla società sarda e sui diversi settori dell’economia, spesso in aperto contrasto con le inchieste ufficiali, ma né gli uni né gli altri riuscirono a risollevare le sorti dell’Isola.

Ad aggravare la già precaria situazione si aggiunse la rottura dei rapporti commerciali con la Francia, che, stanca della politica di “protezionismo” industriale attuata dall Italia, ne attuò una simile nei confronti dei prodotti agricoli. Il mercato francese subì un’improvvisa restrizione, mettendo in gravi difficoltà i produttori sardi che esportavano i loro prodotti: con profitto. Fra questi anche i sorsesi, che tra il 1875 e il 1890 intensificarono i rapporti commerciali con la Francia e con altri porti dell’Italia settentrionale. L’esportazione riguardava soprattutto l’olio e il vino che il paese riusciva a produrre in gran quantità, grazie alle numerose colture e ai diversi frantoi a trazione animale: ben sedici, che erano in funzione gia dal 1876.

L’apparente espansione economica coinvolse anche il settore cerealicolo, che proprio nel piccolo paese di Romangia vide l’apertura di una fabbrica di paste alimentari, nella quale si utilizzavano apparecchiature a motore per la macinazione dei cereali. Con la crisi causata dalla “guerra delle tariffe” alcuni settori in espansione entrarono in crisi, come quello della viticoltura, già colpito da epidemie di fillossera, e dell’olivicoltura che, se sostenuti, avrebbero potuto espandersi, promuovendo quel processo di conversione e modernizzazione agognato da tempo. I prezzi dell’olio e del vino salirono, mettendo in crisi i produttori sardi che si trovarono impreparati ad affrontare problemi di concorrenza di mercato.

La crisi colpì anche il settore della pastorizia, che «nel decennio a cavallo del 1870 imbarcò una media di 15-20 mila capi di bovini l’anno» e, grazie alle esportazioni, aveva aumentato il patrimonio bovino e soprattutto ovino. Il processo evolutivo del settore fu stroncato dal blocco delle esportazioni verso la Francia:? e dalla caduta del prezzo del latte, invertendo la tendenza positiva che sì era creata fino a quel momento. Ad aggravare la crisì e la ripresa delle attività agro-pastorali contribuì il fallimento di alcuni istituti di credito locali*3, dove diversi clienti «persero totalmente i pochi risparmi faticosamente accumulati»,

L’unico settore dell’economia dell’Isola che, pur tra svariate crisi, riuscì a resistere, per molti decenni, fu quello minerario. La produzione, concentrata nel bacino dell’Iglesiente, ebbe un improvviso sviluppo negli anni tra il 1865 e il 1879 in seguito all’aumento dei prezzi dei minerali nei mercati internazionali e per la ricchezza dei giacimenti, sfruttabili con costi limitati. Gli effetti provocati sul territorio furono notevoli, soprattutto nei modi di vita delle popolazioni e nella struttura degli insediamenti cittadini; infatti, i paesi nei quali l’attività mineraria aveva avuto lo sviluppo maggiore «come Carloforte, Iglesias, Guspini, Gonnesa, Buggerru modificarono la loro funzione e le caratteristiche socio-urbanistiche, crescendo economicamente e culturalmente»

La situazione complessiva della Sardegna di fine secolo fu connotata da una serie di elementi contraddittori: da un lato l’arretratezza economica e dall’altro un lento ma graduale processo evolutivo, almeno per alcuni settori, che modificava una tendenza, ormai da lungo tempo, negativa. Di fatto, l’organizzazione produttiva agro-pastorale non era in grado di far fronte alle continue crisi, ma, nonostante ciò, si evidenziò che l’allevamento e le colture agricole mostrarono una propensione alla trasformazione e all’ammodernamento.

Lo sviluppo del settore minerario, con tutti i limiti che lo definivano, segnò una crescita culturale e politica, con la nascita di un nuovo ceto sociale: quello operaio. Purtroppo i settori erano ancora quelli tradizionali, ed alcuni ebbero perdite sensibili; le miniere, anche dopo aver superato la crisi, dovettero diminuire i salari e ridurre la mano d’opera impiegata, aumentando così il numero dei senza lavoro pure nelle campagne, dove gran parte dei coltivatori furono relegati al livello più basso della scala sociale.

La povertà raggiunse livelli preoccupanti e in alcune zone, come quelle interne, il “malessere” si manifestò con vere e proprie esplosioni di criminalità. Nell’ultimo decennio del secolo, rapine, omicidi, estorsioni e furti aumentarono notevolmente, e il banditismo, prima isolato a singole persone o a piccoli gruppi, divenne ben organizzato. Le gesta dei banditi, che la facevano da padroni a Nuoro e nelle zone limitrofe, erano spettacolari, come anche le “bardane”, suscitando notevole interesse nell’opinione pubblica anche a livello nazionale.

Di fronte a questo complesso problema d’ordine pubblico, le motivazioni sociali ed economiche per il risanamento dell’Isola passarono in secondo piano, tanto che l’inchiesta governativa condotta dal Pais Serra si occupò anche della sicurezza pubblica, offrendo lo spunto per elaborare una teoria che «aveva la pretesa di dare una spiegazione dell’arretratezza del Mezzogiorno e della Sardegna»?8,

La teoria fu elaborata dal Niceforo, esponente della scuola d’antropologia e di sociologia criminale del Lombroso, che riconduceva l’attività criminale dei banditi oltre che a condizioni storiche e sociali, ad una predisposizione naturale a delinquere, rilevabile in caratteristiche psichiche ed organiche congenite. I sardi ed in particolare gli abitanti della “zona interna” dell’Isola furono definiti come “razza a delinquere” e l’hinterland del Nuorese come “zona a delinquere”. Secondo questa teoria, a nulla avrebbe giovato un intervento per risollevare l’economia, poiché le popolazioni erano destinate ad un declino inarrestabile a causa dell’incapacità congenita.

Grazie alle teorie della scuola d’antropologia criminale si giustificò la politica del governo, «sia per quanto riferiva agli interventi economici che alla repressione»s. L’azione del governo, di fronte alla drammaticità del fenomeno, fu coerente con la sua tradizionale politica d’intervento che reprimeva militarmente qualsiasi forma di dissenso o di devianza. La “grande” operazione di polizia «venne perciò pensata ed attuata come una vera e propria “guerra” che sfociò nella così detta “Notte di San Bartolomeo”. La forza dello Stato aveva vinto, ma si trattava di una vittoria effimera perché l’affermazione della legge fu ottenuta con una lotta indiscriminata e non con la solidarietà della popolazione, che continuò, anche in seguito, ad osannare i latitanti come zigantes nei canti popolari.

Curioso notare come in quegli anni terribili, funestati dalla crisi dell’agricoltura e della pastorizia e dal fenomeno del banditismo, si possa ravvisare un maggiore dinamismo culturale con una chiara tendenza ad uscire dall’isolamento. Nacquero decine tra giornali e riviste di varia ispirazione, tra cui a Cagliari «L’Unione Sarda», nel 1889, e due anni dopo a Sassari «La Nuova Sardegna», nei quali il Masala, agli inizi del Novecento, pubblicò le sue liriche. Lo sviluppo della scolarizzazione aveva contribuito a potenziare il numero dei possibili lettori, anche se il tasso di analfabetismo in Sardegna era tra i maggiori d’Italia. I giornali mutarono i loro caratteri ed iniziarono ad orientare l’attenzione sui fatti di cronaca locale, nazionale ed internazionale e su temi d’informazione, non solamente politici ma anche scientifici, artistici e letterari.

Aumentò anche la circolazione libraria, con i fruitori che sì orientavano sempre più verso la narrativa, il racconto popolare, il romanzo storico o d’appendice. Sono gli anni in cui scrittori come Enrico Costa, Ottone Baccaredda e soprattutto il sorsese Salvatore Farina pubblicarono con successo i loro romanzi. Una certa proliferazione di studi anche in campi più specialistici (storico, economico, linguistico, etnologico) si notò nelle numerose riviste di varia cultura, destinate ad un pubblico medio sempre in crescita. Certamente non si può parlare di comunicazione di massa, ma «la Sardegna non è più una terra lontana ed ignorata e i nuovi sistemi di comunicazione si preparano a farne un elemento attivo della vita italiana»33, inserendola in un vastissimo mondo d’idee e di fatti esterno, ben lontano dai ristretti orizzonti locali.

AI fervore culturale, che coinvolse gli strati medi della borghesia urbana e rurale, si contrappose lo scarso interesse delle masse più popolari, che, prive di rapporti continui con le città e limitati dall’analfabetismo, si chiusero nell’isolamento della loro cultura. Il mondo della scuola e la lingua italiana spesso rappresentavano soltanto l’emblema di un potere esterno e tiranno, oltre ad essere un “lusso per signori” che non si dovevano certo preoccupare di procacciarsi il cibo. In realtà questo mondo aveva una “sua” scuola (materna, familiare, sociale), una cultura e soprattutto una lingua. Infatti, il codice comunicativo utilizzato dalla maggior parte della popolazione era il sardo; soltanto le classi dirigenti erano italofone. L’italiano rimase la lingua del maestro elementare, del medico condotto, del prefetto, dell’esattore e del parroco e la diversità, già emersa in passato per alcuni versi, assunse i caratteri di scontro «non solo tra due culture ma tra modelli culturali e di sviluppo diversi».

Dai cambiamenti socio-culturali, posti in essere dalle nuove esigenze della società e della vita politica, si svilupparono nuovi orientamenti, che portarono alla nascita del socialismo. La nuova propaganda, arrivata dalla Penisola, portava quell’idea di liberazione e di riscatto che trovò «una facile ambientazione nella condizione umiliante dei lavoratori, e adesione, non solo tra operai e braccianti, ma anche fra studenti e intellettuali».

Sotto una spinta prettamente repubblicana, si comprese di dover impegnare le masse lavoratrici e soprattutto gli strati più poveri della popolazione nella lotta contro un sistema clientelare che da lungo tempo dominava il paese. Fu questo lo spirito da cui nacque a Sorso, su iniziativa dell’avvocato Antonio Catta, la lega agraria “Popolo Sovrano”, che continuava la tradizione della vecchia Società operaia di mutuo soccorso. Lo scopo dell’avvocato fu far recepire alle classi più umili quello spirito di ribellione verso i soprusi della classe politica, stabilendo «un legame permanente con le masse contadine e operaie, alle quali si rivolgeva quasi sempre in dialetto, per rendere più accessibile la propaganda socialista»

La Sorso di fine secolo partecipò attivamente alle lotte politico-amministrative, tanto da divenire il primo paese in Sardegna ad eleggere un sindaco socialista, e a quella crescita culturale che fiorì in tutta l’Isola. L’ambiente sorsese, forse grazie anche all’estrosità che contraddistingue i suoi abitanti, fu vivace e aperto ad interessi molteplici. Vide la nascita di un ceto intellettuale di formazione umanistico giuridica (Catta, Farina, Baracca, Masala), che rappresentò, in campi differenti (politico e letterario), i diversi ceti del nuovo Stato nazionale.

Lo scrittore più noto della fine del secolo fu certamente Salvatore Farina (1846-1918). Nato a Sorso ma cresciuto in diverse città, a causa dei continui trasferimenti del padre, procuratore del Re, frequentò il liceo e nel 1868 si laureò in Leggi all’Università di Pavia. In seguito si trasferì a Milano, dove intraprese un’intensissima attività letteraria di novelliere e romanziere, e le sue opere furono tradotte in diverse lingue, soprattutto in tedesco. Non dimenticò certamente il suo paese natale, luogo di ricordi d’infanzia, della famiglia e di quel mondo sardo che spesso assumerà forma e colore nelle sue opere. Nei romanzi, Farina, rivolgendosi a gran parte della sociètà italiana, si fa interprete, come il De Amicis, di quel ceto sociale che vive in ristrettezze economiche, e propone modelli di laboriosità, onestà, sacrificio e dedizione alla famiglia, spesso inseriti in una specifica tematica autobiografica. I suoi romanzi furono un successo non solo in Italia ma anche all’estero, tanto che fu definito il Dickens italiano. È, certamente, lo scrittore più importante della fine dell’Ottocento e quello che rappresenta meglio il momento di completa integrazione degli intellettuali sardi nella società nazionale.

Nello stesso periodo al sodalizio del Farina appartenne Giovanni Baracca (1843-1882), la cui opera letteraria ne rispecchia l’indole turbolenta, il carattere irrequieto e lo spirito battagliero. Nel 1872 fu uno dei redattori della «Giovane Sardegna» e le sue invettive politiche o amministrative dallo stile impetuoso e sarcastico suscitarono le ire di molti lettori. Collaborò attivamente a «La Stella di Sardegna» di Enrico Costa, con poesie e articoli che raccontavano le sventure e ì dolori dell’isola, inveendo senza misericordia contro gli aggressori del passato e i denigratori del presente; nel giornale «La Meteora» furono pubblicati drammi d’ispirazione storica e sociale (I! Tigellio, Il Marchese di Cea, Angioy, Eleonora d’Arborea e Piaga sociale), che descrivono, nelle loro ambientazioni, la Sardegna antica, medievale e moderna. Per la produzione poetica Baracca attinse a modelli letterari ed estetici carducciani per ciò che riguarda la produzione italiana, e a Satta per quella isolana. Le sue poesie sono caratterizzate da una specifica tematica di carattere civile e sociale, con spunti d’agonismo con cui possiamo contraddistinguere tutte le sue opere.

Nella Sorso di fine secolo, pervasa di quello spirito di rinnovamento culturale che sconvolse tutta l’Isola, si formarono giuristi, scrittori, poeti, politici e scienziati che diedero notevole lustro al paese e nei quali si può individuare come linea comune quel forte senso di patriottismo che nasce dalla conciliazione di due culture differenti: quella italiana, ma soprattutto quella sarda, rese tangibili nell’opera poetica del Masala.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Celebriamo la festa della Repubblica senza parate militari

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di Antonella Litta (*)

Le parate militari sono un modo retorico e inappropriato di celebrare il 2 giugno e il 4 novembre. Queste date meritano un approfondimento storico e celebrazioni che rispecchino i valori della nostra Costituzione. Il 2 giugno, festa della Repubblica, della libertà e della democrazia riconquistate, è la festa della nostra Costituzione, la Carta dei diritti e dei doveri di ogni cittadino.

La Costituzione, all’articolo 11, afferma: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Questo ripudio rende inappropriate le ostentazioni militari durante momenti di memoria collettiva.

Come ISDE Italia, proponiamo che le celebrazioni siano simboliche, con la partecipazione di enti, istituzioni, sindacati, operatori sanitari, insegnanti, studenti, vigili del fuoco, polizia, militari in missioni di peacekeeping, magistrati, associazioni di volontariato e altri rappresentanti della società civile. Una sfilata di persone che lavorano ogni giorno per fare dell’Italia un paese migliore.

Rinunciare alle parate militari è possibile e necessario, con benefici per l’ambiente e la salute. Ogni parata rappresenta un notevole dispendio di risorse, oltre 2 milioni di euro ciascuna, che potrebbero essere utilizzate per sanità, istruzione e sostegno alle famiglie più povere.

Il finanziamento della difesa è in continuo aumento mentre diminuisce quello per la sanità pubblica. Secondo il rapporto SIPRI, l’Italia è al sesto posto mondiale per esportazione di armi pesanti nel quinquennio 2019-2023, con ricavi enormi per l’industria degli armamenti.

Le parate militari sono anche una fonte rilevante di inquinamento e un rischio per la sicurezza, come dimostrano vari incidenti, incluso il tragico evento del 16 settembre 2023 a Torino.

Gli aerei militari, come quelli civili, generano inquinanti dannosi come metano, ossidi di azoto e di zolfo, polveri sottili e ultrasottili, impattando negativamente su ambiente, salute e clima. Il complesso militare-industriale è una delle principali cause del cambiamento climatico e dell’inquinamento dell’aria.

È sempre più urgente l’impegno di tutti per la pace. Abolire le parate militari fa parte di questo impegno per proteggere l’ambiente, la biosfera, gli ecosistemi, la biodiversità e la salute delle generazioni presenti e future, in un’ottica di salute unica e globale, ovvero One Health per tutte le specie viventi sul nostro pianeta.

(*) Comunicato a nome dell’ Associazione Italiana Medici per l’Ambiente ( ISDE)

Altro che uomini armati e mezzi militari !

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di Piero Murineddu

Le donne delle foto, due tra le tante, rappresentano le nostre nonne e le nostre madri che ci hanno fatto crescere con faticosi sacrifici, nei tempi passati spesso dovendo trascorrere le giornate nei duri lavori dei campi per poi, alla sera, doversi occupare della casa, dei figli e del marito, il più delle volte senza neanche sentirsi gratificate da un minimo gesto di ringraziamento. Una Forza e un senso di donazione che noi maschietti, ancora oggi, continuiamo ad essere ben lungi dall’eguagliare. Oggi, Festa della Repubblica, se proprio cortei e parate devono continuare ad esserci, onorate in prima fila dovrebbero essere loro, e non uomini armati in divisa e mezzi militari che nulla hanno a che fare col vero progresso di una società.

Ricordando Angelo e Maria Rosa Pisano

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Piero Murineddu

Sono trascorsi poco più di sei anni dalla morte di Angelo, missionario saveriano, avvenuta in un ospedale a Guadalajara, in Messico, a causa delle complicanze di una broncopolmonite. Aveva compiuto 84 anni. I saveriani sono religiosi che vivono a stretto contatto con la povera gente, facendo propri i problemi che l’essere poveri comportano.

Nel Paese centroamericano conduceva un programma tv, ma soprattutto dava aiuto e rifugio a tanti messicani ed indios vittime dell’estrema violenza che caratterizza quel martoriato Paese.

“Il mio posto è qui – diceva – la mia gente è questa”.

La famiglia Pisano, provenienti da Sorso, aveva messo su casa a Cantù,

A Ronciglione, nel locale monastero delle carmelitane, viveva la sorella maggiore Maria Rosa, con la quale da sempre Angelo ha avuto un rapporto estremamente confidenziale e di comprensione reciproca.Lei è venuta a mancare nel 2021, a 99 anni.

Da giovanissimi i due, ma specialmente la ragazza, sin dal primo momento che avevano manifestato l’intenzione d’intraprendere una vita religiosa, erano stati osteggiati soprattutto dal padre, che non riusciva a vedere di buon occhio quest’intenzione dei due figli, probabilmente i più sensibili della numerosa famiglia.

Maria Rosa questa vocazione alla vita consacrata ha iniziato ad intravederla molto precocemente, e col procedere degli anni, è stato motivo di dissapori col genitore, che alla fine si è dovuto arrendere alla ferma volontà della figlia.

Col figlio maschio era più possibilista, ma nel dover decidere se comprare un terreno agricolo per i figli Gavino e Antonio o pagare la retta del seminario, decisero insieme di dar la possibilità ad Angelo di studiare a Sassari, dove partì una volta finita la quinta elementare.

A Sorso il sostegno alla fede, il fratello e la sorella l’hanno trovato in don Chelo e don Spanedda.

Maria Rosa aveva avuto la malaria per tanto tempo. Lei era riuscita a cavarsela, mentre la sorella Giovannina non ce l’aveva fatta. In seguito dovette patire anche la perdita della sorella Angelina, con la quale aveva particolare intesa. I figli maschi non erano riusciti a vedere la sorella sul letto di morte, in quanto erano costretti a vivere in campagna per evitare il contagio.

Nello stretto rapporto epistolare che Maria Rosa e Angelo hanno sempre tenuto in seguito, quest’ultimo le aveva confidato che per lui la sorella Angelina, venuta a mancare a diciott’anni dopo sei mesi immobilizzata nel letto in preda ad atroci dolori, gli sembrava che fosse sempre viva, proprio perché non aveva assistito alla morte e al funerale.

Maria Rosa e Angelo, una rinchiusa dentro un monastero, facendo vita comunitaria con giornate scandite dalla preghiera e dal lavoro; Angelo una vita condotta molto attivamente, in mezzo alla gente e nell’impegno sociale.

Due modi apparentemente opposti di vivere la fede. Per il sentire comune più comprensibile il secondo, meno il primo.

“Il mio posto è qui”, diceva Angelo. “Il mio posto è qui” continuava a dire Maria Rosa. L’importante è capire cosa Dio vuole da ciascuno, e una volta che si capisce e si accetta, fare di tutto per non tradire la scelta fatta liberamente e in piena consapevolezza. Ciò che conta, alla fine, è che qualsiasi ruolo si ricopra in questa vita, lo si faccia per migliorare il mondo e renderlo realmente Umano. Per il Bene, insomma, verso il prossimo principalmente.

Rita Clemente candidata capolista nel partitone “Altro che Giorgia!”

PROGRAMMA ELETTORALE (*)

di Rita Clemente

1. SPUT ALLE TASSE
Abolirò tutte le tasse e i tassi sui mutui e sui prestiti, toglierò la tosse ai tassisti e le tonsille ai trappisti.

2. PUSSA VIA GLI EXTRA
Caccerò tutti gli “extra”: gli extracomunitari, gli extraterrestri, gli extraparlamentari, gli extraurbani, gli extraordinari, gli extravaganti, gli extra sulle buste paghe, gli extra dagli extra.

3. LAVORO LAVORO LAVORO
Darò lavoro a tutti, ma con queste modalità: dai 40 ai 50 anni, periodo di prova; dai 50 ai 60, a tempo e luogo; dai 60 agli 70 solo quando ci sarà bel tempo; dai 70 agli 80 quando avrò tempo. Dopo gli 80, si potrà fare domanda di pensione, che non sarà però accreditata prima dei 90 anni. Nel frattempo, vi godrete i risparmi.

4. CORNA ALLA MORTE
Per darvi l’opportunità di godervi la pensione, metterò una legge per cui sarà vietato morire prima dei 98 anni. Chi non rispetterà la legge, cavoli suoi!

5. MUTUA MUTUATA
I lavori che troverete saranno tutti socialmente inutili, perché quelli utili già li faranno i robot. Per cui, se vi prendete tre mesi di mutua per andare alle Seychelles a curarvi il raffreddore, poco male!

6. LAUREA CON DUE PICCI
Abolirò l’istruzione pubblica, ovverossia le scuole. Chi vuole, potrà comodamente seguire corsi appositi da casa sua con un personal trainer online. Quando si sentirà pronto, potrà sostenere un esame che, una volta superato, gli conferirà automaticamente la laurea.

7. DUE+DUE-UNO CHE FALALALA
Gli esami saranno rigorosamente uguali per tutti e dello stesso livello di difficoltà: compilare una scheda con nome, cognome, data di nascita, indirizzo, stato civile. Chi lo sbaglierà, potrà ripeterlo, previo ripasso, ma la laurea varrà di meno. Chi aspira al dottorato di ricerca, si potrà cimentare con un semplice quiz matematico: 2 + 2 – 1 =

8.BACCHE&BACCHETTE A GOGÒ
Abolirò la sanità, medici, medicine, farmacisti, analisi e quant’altro. Per curarsi, basterà clikkare su Google dove vi fa male: appariranno immantinente sintomi, diagnosi, terapie, con l’unica, ovvia conclusione: avete un tumore. In questo caso, vi verranno fornite bacche di goj, bacche di ginepro, bacche di akai e, se non dovesse funzionare, bacchette magiche.

9. PER PRIMA I MIEI
Con i soldi risparmiati dall’istruzione e dalla sanità, pagherò i debiti all’Europa e alla Cina, e soprattutto i miei.

10. TUTTINSIEMEORGIAMENTE
Per le famiglie, onde accontentare tutti, un utile compromesso: matrimoni solo “tradizionali”, ma famiglie allargate, così, vista la scarsità degli alloggi, sotto lo stesso tetto potranno allegramente convivere marito, moglie e amanti vari, di tutti i tipi.

11.SCHIAVIZZAREAREARE
Allo stesso modo, con opportuni provvedimenti, saranno incrementate le nascite, per contrastare il fenomeno delle “culle vuote” e della natalità sottozero, ma solo per i nati dei nativi. Che se poi, a 20 anni, saranno troppi, non sapranno che fare, romperanno vetri, vetrine e scatole, sarà data facoltà di rivenderli al mercato degli schiavi, perché, con apposita legge, sarà ripristinato l’antico e nobile uso della schiavitù.

12. IO&BOH
Infine, sarà drasticamente diminuito il numero dei politici che governano. Basterò io.

VOTATEMI E FATEMI VOTARE…CAZZ !

(*) Programma del 2019 ma sempre valido

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Quanto segue, invece, è la riflessione “seria” che la poetessa, scrittrice, già professoressa, amante dei gatti, portavoce del mondo pacifista e nonviolento di Chieri fece in occasione delle precedenti Europee del 2019, quando stilò il programma su esposto. (Piero)

A scanso di equivoci

di Rita Clemente

Perdonate, se potete, ma in questo periodo sono particolarmente cattiva. Mi chiedevo perché tutto questo astensionismo, che poi, pensandoci, in fondo non è poi così strano.

Per molti Italiani, l’Europa è molto lontana e poi non ci sono dei vantaggi immediati da ricavarne, come riduzione di tasse, sussidi in denaro e cose simili. Anzi! Il massimo che si può sperare dall’Europa è un’ulteriore riduzione dello Stato sociale. Prova ne è che poi le amministrative non hanno visto tutto questo astensionismo. Ma lì, gli amministratori sono più vicini, più conosciuti. Ma forse (dico forse) l’Italia è rimasta in gran parte guicciardiniana, cioè ognuno rimane attaccato al proprio “particulare”. Così è, o potrebbe essere, se vi pare!

P. S. Io, a scanso di equivoci, ho votato

A proposito di amministrative

di Piero Murineddu

Benedetto sia questo tipo di cattiveria che fa dire le cose esattamente come frullano nel cervello, come nel caso di santa Rita da Chieri.

È vero, per le Amministrative più facilmente ci si mette il vestito buono, e preso il maritino a braccetto,ci si reca a fare il “dovere”.

D’altronde c’è la promessa mantenuta (!) per cui ringraziare, il parente d’accontentare, l’avversario da spiare, il bossettino locale da riverire et invocare……Insomma, una porzione del piatto da cui mangiare, qualsiasi sia il cibo che contiene.

Le Europee? Uuuuhhh, qualcosa di vagamente evanescente, dato più che non mi fa entrare niente nello stomaco ed in tasca.

In questi tempi, però, e visto come si sta mettendo male il mondo per le guerre sempre più numerose e fatte con armi sempre più micidiali, col rischio che il bottone tanto temuto del bombone nucleare venga premuto, garantire delle voci che richiamino l’urgenza di fare ragionamenti che portino al disarmo e al dialogo è più che mai necessario. Da qui la mia decisione, col mio voto, di dare un contributo perché nel Parlamento Europeo si possa sentire la voce del saggio ultranovantenne Raniero La Valle, di Michele Santoro, estromesso a suo tempo dalla RAI dal “padrone” MenomalecheSilvioNonC’è.

Nel mio paesotto sardo si voterà anche per eleggere il nuovo Consiglio Comunale, dove da troppo tempo spadroneggia, come capo della maggioranza, un individuo a suo tempo sospeso dalla carica di consigliere regionale, costretto agli arresti domiciliari e con processo in corso, seppur da qualche tempo reintegrato a sedere nella Giunta sarda. No, nel caso di costui, credo sia verissimo che il lupo perde ecc ecc. Tra l’altro, pur di avere la poltrona assicurata, ha cambiato varie volte casacca, secondo la convenienza del momento. Vuoi che questi e altri motivi che non sto a spiegare ora non siano sufficienti per dare il mio miserello voto alla lista che gli si oppone? Eccome se lo è ! Grande stima per il sindaco in carica e che si ripropone, ma fin quando non sarà completamente libero nel suo operato amministrativo, il mio voto non l’avrà. C’è poi la furbizia di una appassionata alleanza locale tra ambito religioso e politico. Ecco, anche su questo sarebbe il caso che le cose siano ben distinte, per non lasciar spazio a possibili STRUMENTALIZZAZIONI. Reciproche, s’intende.

Il mio voto amministrativo andrà quindi alla lista dove vi è un donna come candidata sindaca. Leggendo il programma, mi piace assai che tra le intenzioni vi sia quella di dare spazio all’opinione dei cittadini attraverso comitati di quartiere, al fine di realizzare finalmente una Democrazia Partecipata e Attiva. Anche la valorizzazione delle Tradizioni e della Cultura è di estrema importanza.

Per tornare all’attuale consigliere regionale, compaesano e da troppo tempo impoltronato più o meno degnamente, condizione per me che cambi opinione nei suoi confronti è che si ritiri a condurre vita privata, dimostrando coi fatti che gli preme veramente il benessere altrui senza che ci sia un qualsiasi tornaconto personale, e nello specifico, elettorale. Amen e così sia

Il profilo umano e professionale di Pasquale Marginesu (dal volume “Sorso e i sorsensi”)

di Piero Murineddu

Sorso e i sorsensi“, lavoro letterario del 1972 curato dallo storico Nino Gaetano Madau Diaz, natìo di Sorso. Oltre allo stesso Madau Diaz, che ripercorre una breve storia di Sorso, vi sono altri autori che tracciano l’opera e la biografia di alcuni personaggi che in campi diversi hanno dato lustro alla cittadina sarda della Romangia, zona a nord ovest dell’isola, quali Salvatore Farina, Giovanni Baraca, Antonio Catta, Giannetto Masala, Pietro Marogna, Franco Sisini.

Un libro da proporre ai nostri ragazzi e a tutti li sussinchi che vogliono conoscere meglio la loro storia e la loro cultura. Può essere uno strumento che può aiutare a sentire maggiormente la responsabilità di lasciare alle generazioni future qualcosa di duraturo, capace di superare le strette e spesso banali contingenze del presente.

Ai politici dell’epoca, il curatore propone di rivedere la toponomastica, soprattutto per quanto riguarda i personaggi che hanno contribuito ad elevare umanamente e culturalmente la nostra comunità. Sono certo, che realizzando ai giorni nostri questo lavoro letterario, Nino Gaetano Madau Diaz avrebbe proposto di intitolare una via o una piazza centrale a Petronio Pani, in nome del quale è nata la “Banca della Memoria”, spazio su FB che curo e mi sforzo di aggiornare.

Nell’ introduzione al volume, il curatore tiene a precisare che ha rinunciato volutamente a occuparsi di personalità al tempo viventi, a partire dal campo artistico – pittorico, e questo per non provocare possibili malumori e invidie, cosa possibilissima in un abitato dove praticamente ci si conosce tutti, cosa ancora possibile quando allora le persone per uscire di casa non usavano servirsi sempre dell’auto e le passeggiate non erano unicamente finalizzate come oggi per recarsi nei supermercati, nelle Chiese per partecipare a funerali e trigesimi, nel cimitero per curare le tombe, o nei bar, quest’ultimi con una scelta assai vasta, quasi unici punti di ritrovo.

Nel volume è presente un capitoletto dedicato alla toponomastica, con esplicito invito alla Giunta in carica di ritoccarla dando giustamente priorità alle diverse figure locali di particolare rilievo, sostituendoli magari con altre del tutto anacronistiche, a partire da quel re Umberto di cui tutto e il suo contrario di può dire, ma col punto fermo che della Casa Savoia Sorso e la Sardegna abbiano beneficiato ben poco, anzi.

Tra le personalità suggerite vi è il medico Pasquale Marginesu, a cui in seguito fu titolata la piazza antistante l’antico e scomparso convento francescano e che da giovane studente partecipò alla campagna contro la malaria che nel sassarese, a motivo anche dello stagno di Platamona, mieteva vittime su vittime. Dal Volume, subito dopo l’introduzione di Madau Diaz, estraggo e propongo la parte a lui dedicata.

Buona lettura

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Introduzione del curatore

N.G. Madau Diaz

Questo volume vuole essere una prova di attaccamento al mio paese natio, Sorso, ove ho vissuto il periodo più fantasioso e felice della mia fanciullezza e della mia prima giovinezza e nel cui cimitero sono sepolti mio nonno Gaetano, mio padre Antonio, mia madre Annetta, mio fratello Salvatore, mia sorella Maria ed il mio cognato Tommaso Sanna al quale ho sempre voluto benc come ad un fratello.

Sorso è certo un «meraviglioso» paese non per i suoi monumenti, ma per la sua atmosfera, per il suo ambiente, per le sue strade sempre affollate, per le sue campagne, per la sua marina.

Meravigliosi, per me, sono anche i suoi abitanti con tutte le loro estrosità, la loro intelligenza vivace, anche se il loro comportamento, spesso strano per i non meno estrosi sassaresi e per i compassati sardi «de li biddi», li abbia fatti definire i «matti di Sorso», non certo annoverabili nella rubrica «cretinopoli» della «Rivista delie Tradizioni Popolari Italiane», pubblicata a Roma dal De Gubernatis. In detta rubrica che nel 1893, venne inserito un articolo dal titolo «Sorso e l’Eba della Billellara», dovuto a Giovanni Bonelli Lucchese, forse di origine sorsense, che però finisce con il ritenere i «matti» bevitori dell’acqua della Billellara uomini di spirito sottilmente caustico, usando la stessa definizione che aveva usato Grazia Deledda per gli abitanti di Lodé.

Ma il «sussincu maccu», come usa per antica rivalità chiamarlo il sassarese, è il miglior agricoltore della Sardegna, è ricercato da tutte le imprese edili e stradali come efficiente capo-mastro o «caporale», è laborioso e civilissimo.

Nativi di Sorso hanno conquistato dei posti di preminenza nella letteratura, nel campo delle scienze, della politica e dell’arte; hanno raggiunto importanti posizioni nell’amministrazione, della Giustizia, nella Scuola, in tutti i rami della pubblica amministrazione, nelle carriere militari e nelle libere professioni.

Questa opera è stata realizzata mediante la collaborazione disinteressata, cordiale e competente dei proff. Bruno Angelillo, Luigi Nieddu e Giovanni Varsi, di don Salvatore Ferrandu, dell’ architetto Vico Mossa, del giornalista Bruno Merella, dell’Avvocato Ugo Puggioni e particolarmente di Corrado Vitali.

Era nostra intenzione dedicare una parte di questa pubblicazione agli artisti sorsensi viventi, da Pietro Antonio Manca, certamente il più rappresentativo pittore sardo del nostro secolo, ad Ausonio Tanda, ormai inseritosi nel circuito dei migliori pittori italiani, al fratello Francesco, da Rosa Sechi Colacino, affermatasi in numerose esposizioni nelle principali città italiane, all’artista del ferro battuto Telesforo Manca, ma ho ritenuto più opportuno, d’accordo con amici, autorevoli critici, di non farne nulla, per non creare qualche vespaio.Trattare il materiale uomo sorsense, specie quando è invaso dal genio artistico, non è certo un affare molto semplice.

Pur lontani dal nostro paese, pur assurti a posizioni di prestigio, in qualsiasi parte del mondo, rimaniamo sempre sussinchi.

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Profonda umanità dietro l’apparente rudezza

Bruno Angelillo

Pasquale Marginesu nacque a Sorso il 9 febbraio del 1886 ed ancora studente del V anno di Medicina e Chirurgia partecipava, con un gruppo di giovani pervenuti da ogni parte d’Italia e che rispondevano ai nomi di Pietro Rondoni, di Antonio Cazzaniga, di Nazzareno Tiberti, di Alberto Missiroli e di Carlo Alberto Ragazzi, alla prima campagna antimalarica organizzata, nell’estate del 1910, in provincia di Sassari e diretta da Achille Sclavo, da Alessandro Lustig e da Michele Alivia. Ebbe, così, la ventura di conoscere e di farsi subito apprezzare da Achille Sclavo che lo consigliava di trasferirsi a Siena alla cui Facoltà Medica era stato appena chiamato.

Si laureava, quindi a Siena, discutendo una tesi sui «batteri capsulati», che veniva giudicata degna di stampa, il 1° luglio del 1911 e, dopo pochi giorni, veniva chiamato, con molti altri Assistenti di diverse Università italiane, nelle Puglie, dove infierivano colera e vaiolo e dove il Suo Maestro era stato nominato Commissario straordinario. Nel 1912 rientrava nell’Istituto di Igiene di Siena e nel 1915, dopo un breve periodo di tempo trascorso come assistente, prima presso l’ospedale di Grosseto e poi presso il Laboratorio Medico-Micrografico di Livorno, Pasquale Marginesu veniva nominato Aiuto dell’Istituto di Patologia Generale dell’Università di Cagliari, diretto da Aldo Perroncito.

Allo scoppio della prima guerra mondiale Egli prestava servizio militare al fronte come Ufficiale di Battaglione e, successivamente, come incaricato di vari servizi igienico-profilattici, guadagnando una croce di guerra al merito.

Congedato lasciava, all’inizio del 1920, il posto di Aiuto dell’Istituto di Patologia Generale di Cagliari e tornava a Siena presso quell’Istituto di Igiene, diretto da Donato Ottolenghi, prima come Assistente volontario e, poi, come Aiuto effettivo conseguendo la Libera Docenza in Microbiologia.

Nel 1924, istituitosi a Sassari il Laboratorio Batteriologico provinciale e bandito il relativo concorso per Direttore, Pasquale Marginesu, nostalgico come sempre della Sua Sardegna,interrompeva la carriera universitaria per rientrare a Sassari. Qui continuava nelle sue ricerche sulla malaria e sull’echinococcosi che gli attiravano, particolarmente le prime, l’attenzione e la stima degli studiosi della Fondazione Rockfeller dalla quale si vide attribuire una borsa di studio che gli consentì di trascorrere all’estero circa due anni frequentando la Scuola di Igiene della John Hopkins University di Baltimora, l’Istituto Lister di Londra, gli Istituti Pasteur di Parigi e di Tunisi.

Tornato nel 1927 in Italia riprendeva, esortato dal suo fraterno amico Luigi Piras, Direttore a quell’epoca dell’Istituto di Igiene dell’Università di Parma, la carriera universitaria, ricoprendo in quella sede il posto di Aiuto.

Nel 1929 conseguiva la Libera Docenza in Igiene e subentrava poi allo stesso prof. Piras, trasferitosi all’Università di Genova, nella direzione dell’Istituto, prima come incaricato e quindi, come titolare essendo riuscito primo ternato nel concorso bandito nel 1935 per quella Cattedra di Igiene.

Per ben 25 anni Pasquale Marginesu volle rimanere in quella Università dove aveva creato un nuovo e ben attrezzato Istituto frequentato da giovani invogliati allo studio delle discipline igieniche, né volle mai abbandonarlo per quanto sollecitato a ricoprire Cattedre di sedi più importanti sino a quando, ormai maturo negli anni, lo riprendeva l’amore struggente per la Sua Terra che lo portava, nel 1952, a farsi trasferire all’Università di Sassari.

In questa sede, che lo aveva visto iniziare gli studi, fu eletto prima Preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia e poi, per tre trienni, Magnifico Rettore e qui concludeva, all’alba del 20 dicembre 1962, la sua feconda, generosa giornata terrena.

Pasquale Marginesu si formò, dunque, scientificamente sotto la guida di tre grandi Maestri dell’Igiene — Sclavo, Ottolenghi e Piras — dei quali seppe cogliere, con quella brillante intelligenza che gli era propria, gli aspetti migliori e più positivi. Inoltre, la Sua permanenza all’estero, a contatto con emi nenti ricercatori contribuì, senza dubbio, ad arricchire ulteriormente la Sua già forte personalità di studioso.

La sua produzione scientifica, sempre permeata di contributi personali di notevole interesse, è quella di un batteriologo che non perde mai di vista i grandi problemi dell’Igiene e, così, tra le numerose Sue pubblicazioni, tutte condotte con estremo rigore, sono particolarmente da ricordare quelle sulla malaria — il male antico della sua Isola — studiata negli aspetti epidemiologici, parassitologici ed immunologici; sul dermotifo; sulla tipizzazione pneumococcica; sull’immunità cellulare; sullo smaltimento dei liquami luridi; il pregevole ed agile volume sull’Igiene dell’alimentazione inserito nel Trattato di Igiene dell’Ottolenghi; la Relazione tenuta a Cagliari al III Congresso Nazionale di Igiene sulla diffusione e sulla profilassi dell’echinococcosi in Sardegna nella quale tracciava quel programma di eradicazione della infezione che, fondato sul controllo di cani randagi, sull’organizzazione di una capillare propaganda igienica nelle scuole e sulla costruzione di macelli anche nei più piccoli centri rurali, ha recentemente trovato accoglimento in un vasto programma di intervento dell’Ente Regione.

Era stato insignito della medaglia d’oro per i benemeriti dell’arte e della cultura.

Didatta chiaro e sempre aggiornato, amava i giovani per i quali era solito affermare che una Scuola che non si mantenga costantemente a contatto con la Società e con gli uomini ai quali, per naturale vocazione, la propria opera è diretta è destinata a perdere il suo precipuo carattere di Scuola; che una Scuola che non si preoccupi di tenere aggiornate le proprie attrezzature, i propri ordinamenti, i metodi di studio e quelli didattici in relazione con la cultura e con la sensibilità dei propri allievi e della Società che li genera non potrà non vedere similmente impoverirsi, giorno per giorno, l’efficacia della propria azione.

Nei nove anni del suo Rettorato dimostrò di possedere, inoltre, elevate doti di amministratore impostando e risolvendo grossi problemi organizzativi e lasciando una profonda traccia di rinnovamento non solo nel campo edilizio ma anche in tutti gli altri settori nei quali si articola l’organismo universitario. Egli si sforzava sempre di richiamare sull’Ateneo Turritano e sulle sue necessità una calda atmosfera di simpatia e già gravemente ammalato volle che fosse celebrato solennemente il IV centenario della fondazione dell’Università. La sua attesa non andò delusa quando Giulio Cesare Pupilli, in rappresentanza di tutte le Università italiane e dei docenti che numerosi avevano aderito all’invito, ebbe a dire: «Grato è ricordare che gran parte di noi docenti, oggi qui convenuti da ogni sede, molti o pochi anni or sono sbarcarono come a un primo porto a questa vostra Università, fautrice amorevole degli studiosi, e qui attesero severamente al loro noviziato, navigarono il vostro mare dall’Asinara a Caprera, percorsero i vostri monti e campi da Capo Caccia a Capo Ferro, comuni ebbero con voi amicizie e passioni, sogni e speranze.Onde l’animo nostro torna commosso a quest’isola, che tanto più si ama quanto più entro se ne ricercan le storie; a questa terra, che la natura ha adornato di suggestiva bellezza e su cui la leggenda ha versato le sue tinte animatrici; a questa gente sì forte e dritta e temperante; torna alla gentilezza vostra, alla connaturata vostra fedeltà; torna ai verdi anni della vita».

Pasquale Marginesu celava sotto una vernice di apparente rudezza un animo traboccante di profonda, schietta, sofferta umanità: educato alla massima riservatezza e delicatezza di modi, sapeva trovare sempre un tono particolarmente appropriato nei suoi rapporti umani che sfrondava da ogni inutile, fallace, abborrita retorica. Prudentissimo nel promettere, la sua parola era definitiva come ben sanno amici e discepoli. Ha amato di amore intenso le verdi campagne, i vigneti, il riposante ansito del mare della sua Sorso alla quale egli sempre tornava per ritemprare il suo spirito nella pace e nel silenzio di quei luoghi.

Ed, ora, il lento fluire degli anni, ancorché rendere più remoto il ricordo della Sua grande sapienza, della Sua forza morale, della sua limpida saggezza, fa sentire sempre più elevato il suo insegnamento così che sempre più impegnativo diventa il legame di riconoscenza e di imperitura devozione.

Didatta chiaro e sempre aggiornato, amava i giovani per i quali era solito affermare che una scuola che non si mantenga costantemente a contatto con la Società e con gli uomini ai quali, per naturale vocazione, la propria opera è diretta, è destinata a perdere il suo precipuo carattere di scuola; che una scuola che non si preoccupi di tenere aggiornate le proprie attrezzature, i propri ordinamenti, i metodi di studio e quelli didattici in relazione con la cultura e con la sensibilità dei propri allievi e della società che li genera, non potrà non vedere similmente impoverirsi, giorno per giorno, l’efficacia della propria azione.

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Piazza Pasquale Marginesu riprodotta dai pennelli e dai colori di Anna Demuro

Andrea Gallo, il prete Accogliente che chiamava a raccolta contro i soprusi

di Moni Ovadia

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Andrea Gallo, prete, partigiano e militante dei diritti degli ultimi che, per quanto mi è dato di capire, ha incarnato l’espressione più alta di essere umano che io abbia mai incontrato, ha lasciato questo mondo per l’altro mondo, quello in cui forse la verità ci viene incontro per illuminare il significato della nostra vita terrena. Lo pensano i credenti e don Gallo lo era, ma la morte del corpo è, in qualche misura, un passaggio verso la verità anche per i non credenti, quand’anche la verità fosse il nulla. Comunque sia, al di là di ogni riflessione escatologica, il Gallo vive, continua a vivere perché il suo magistero continua a trasmettersi attraverso le fioriture del terreno umano che lui ha seminato incessantemente, con ineguagliabile passione, senza mai cedere alla stanchezza, alle tentazioni della delusione, senza piegarsi alle aggressioni e le calunnie.

Molti di noi che lo abbiamo conosciuto e ne siamo rimasti folgorati, hanno ripetutamente parlato di lui, scritto della sua inarrivabile umanità eppure, me ne rendo conto ogni volta che il suo ricordo mi affiora alla mente, non siamo riusciti a rendergli giustizia, non siamo riusciti a testimoniarne la stupefacente personalità, l’ineffabile capacità di accogliere in sé contraddizioni deflagranti, facendole coesistere e persino armonizzandole, portandole a convivere grazie ad una pratica spirituale costante, vissuta nei gesti quotidiani, attraverso la sua parola incarnata negli atti che simultaneamente accoglieva e chiamava a raccolta contro i soprusi, contro le discriminazioni, contro l’esclusione e i pregiudizi.

Prete cattolico e Presidente dell’associazione dei trans di Genova, sacerdote celebrante e militante dei movimenti, confessore amorevole e indulgente, ma vibrante e indignato tribuno antifascista, il Gallo accoglieva ed esprimeva in sé l’impegno religioso di capire e di perdonare, declinandolo con il dovere profetico di lottare a fianco degli oppressi, dei vessati e degli sfruttati, per dare il suo contributo a portare sulla terra il valore più significativo del messianesimo: la giustizia sociale, il regno dei cieli su questa terra, “così in terra, come in cielo”.

E perché don Andrea poteva attraversare gli estremi “opposti” come se fossero l’inspirare e l’espirare di un proprio respiro naturale? È semplice capirlo: poteva farlo perché era un illuminato e, detto cristianamente anche a rischio di sembrare irriverente, perché era un vero Santo. Il concetto di santità nasce nel contesto del monoteismo ebraico ed è attributo primario del Divino, a cui l’umano è sollecitato attraverso la imitatio Dei.

Nella scrittura biblica il Santo Benedetto incita gli ebrei ad essere come Lui: Kedoshim Tih’yu ki Kadosh anì (sarete Santi, perché Io sono Santo). Il significato della parola ebraica Kadosh, Santo, è differente. Il Divino del monoteismo è giustizia, misericordia, amore. È differente perché non è un idolo, neppure il Grande Idolo da tirare per la giacchetta che piace tanto ai baciapile di tutte le fedi. Il suo popolo “eletto” fu ed è, quello degli ultimi, degli schiavi, degli stranieri, degli sbandati, dei meticci, degli apatridi e persino dei fuori legge ad ogni titolo (sovversivi, ladri, puttane, ruffiani, contrabbandieri…) che sanno riconoscerlo. Tali erano gli ebrei che seguirono Mosé nella prima grande rivoluzione dell’uscita dall’Egitto.

Il mio grande amico, guida e fratello don Andrea Gallo, in questo senso è stato anche un grande tzaddik ebreo e un Lamedvavnik, uno dei Trentasei Giusti che permettono al mondo di sostenersi e non sprofondare nell’infamia. Ed è stato santo e rivoluzionario perché era così differente dai chierici moralisti o omofobi, dai baciapile che con perversa autoreferenzialità, pretendono di ergersi a giudici della struggente e terribile fragilità umana che invece il Gallo eleggeva a fondamento di ogni possibile redenzione.

Il Gallo vive, me lo sento vicino ogni volta che scelgo l’impegno nei confronti del mio prossimo, ma la sua travolgente fisicità, le sua danza della pace con la bandiera iridata ci manca terribilmente, ci manca terribilmente il suo grugno con il sigaro toscano fra i denti di prete da marciapiede.

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Le parole di Ovadia prima dello spettacolo dedicato al suo amico Andrea

La Fede non è un rito

 

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Paolo Cugini

Aver identificato il rito con la fede: è questo il grande errore. Aver identificato il cammino di fede, che esige un cammino di conversione, un cambiamento di mentalità, con la partecipazione al rito: è stata questa la grande bestemmia che è stata prodotta e riprodotta nei secoli. Un tempo ci credevano tutti – ci ho creduto anch’io -, nel senso che tutti pensavano che fosse proprio così. Secoli e secoli di messe domenicali, hanno fatto credere che per andare in paradiso, che rappresenta un altro grande problema d’interpretazione, bisognava andare a messa la domenica e, il non andarci, significava cadere in peccato mortale e, di conseguenza, la necessità di confessarsi per non rischiare di aggiungere peccati su peccati. Anche perché a quel tempo, che in realtà è l’altro ieri, di preti ce n’erano a bizzeffe, per lo meno in Occidente, nel continente cristiano.

I seminari erano pieni di bambini e di ragazzi, ed erano pieni perché ce li mandavano i genitori. Le numerose famiglie cattoliche regalavano volentieri alla chiesa un figlio maschio o una figlia al seminario o al convento. Il mondo era tutto cattolico ed avere in famiglia un prete o una suora era un onore e non (quasi) una vergogna come ai nostri giorni.

Dicevo che c’erano tanti preti e, di conseguenza, era possibile un certo tipo di pastorale che poneva il prete al centro del discorso. La pastorale, infatti, nasce dalle esigenze del momento, dai problemi incontrati, dal contesto specifico. Non ci si deve meravigliare, dunque, se nel corso della storia le scelte pastorali cambiano e se in un luogo si agisce in modo differente da un altro.

C’è stato, dunque, un tempo in cui ci si poteva permettere il lusso d’inventare che, il non andare a messa, fosse un peccato mortale e che, per accedere nuovamente al banchetto eucaristico, fosse necessaria la confessione sacramentale, che non costava nulla, vista la quantità industriale dei preti a disposizione. Ce n’erano così tanti, ma così tanti che un giorno, negli anni ’50 del secolo scorso, un vescovo in visita ad un seminario del Nord Italia nella Regione dell’Emilia-Romagna, in quella città che rimane tra la Pilotta e la Ghirlandina, disse con tono sconsolato al rettore: “e dove li metteremo tutti questi futuri preti?”.

Ce n’erano così tanti di preti da far credere che davvero Gesù avesse inventato la chiesa al maschile, che davvero le donne servivano solo per lavare la biancheria dei preti e delle sacrestie, perché, come si diceva a quei tempi che, in realtà era ieri pomeriggio, è stata la donna a mangiare la mela e a darla poi all’uomo. Tutto un mondo, una cultura, una spiritualità, ma anche un’economia e, perché no, una pedagogia è stata costruita su questa abbondanza spaventosa – in tutti i sensi – di preti.

Quello che viene chiamato patriarcato ha fornito il substrato culturale per il diffondersi di pratiche ecclesiali, spacciate per oro colato dal Vangelo, mentre, in realtà, si trattava di scelte pastorali, anche se di pastorale in senso stretto c’era ben poco, perché si trattava d’imposizioni vere e proprie dettate dall’alto e, in altro, a quel tempo, c’erano loro: i preti. Si è fatto credere, e tutto un mondo ci ha creduto per secoli, che l’uomo fosse superiore e la donna inferiore e, per questo, solo gli uomini potevano entrare nei seminari e diventare preti.

Il problema, se così possiamo parlare, è che si è creduto che questa sovrabbondanza di preti fosse un dono della provvidenza. Poi si è scoperto che non era proprio così, che in diversi casi la provvidenza divina c’entrasse poco o nulla, anzi!

Questo errore di valutazione è stato il problema, l’inizio dei problemi. Si è chiaramente confuso la quantità con la qualità. Ne hanno sfornati così tanti, da non permettere alcun tipo di lettura differente. Tanti preti hanno voluto dire per secoli tante messe, a tutte le ore del giorno.

Tante messe, moltissime messe, sempre più messe ha fatto credere che il centro di tutto, il centro della religione cristiana fosse il rito e non il contenuto. Per questo per secoli si sono prodotte tantissime messe in cui la stragrande maggioranza dei fedeli partecipava senza capire assolutamente nulla. Del resto, non ce n’era bisogno di comprendere, perché chi portava in paradiso era la messa, il rito e non il contenuto, che avrebbe potuto provocare dei cambiamenti di comportamento o, addirittura, dei cambiamenti culturali.

Eppure, il discorso di Gesù all’inizio del Vangelo era chiaro, anzi, chiarissimo, al punto da non dare adito ad alcun tipo di fraintendimento. e diceva: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1,15). Più chiaro di così! Non c’è nemmeno bisogno di chiamare un interprete, un esegeta: è tutto molto chiaro. Del resto, il Vangelo è scritto per le persone semplici ed è, quindi alla portata di tutti.

L’invito è all’accoglienza del Vangelo e alla disponibilità al cambiamento, per permettere allo Spirito del Signore di modellare la nostra umanità, per fare in modo che i tratti dell’umanità di Gesù, del suo modo di essere nel modo, del suo stile non-violento, della sua capacità di accogliere tutti e tutte senza escludere nessuno, siano riprodotti in noi.

È di questo che avevamo bisogno! È di questo che il modo aveva sete e continua ad averne! Certamente, lo si capisce bene che il rito è più facile, che una quantità di riti da ascoltare è più facile che essere disponibili a cambiare idea, a modificare il proprio modo di essere e di pensare. È più facile pensare e far credere che se tieni le manine in un certo modo e ti inginocchi in un altro Gesù è contento.

Più difficile è smettere di essere disonesto. Difficile è condividere quello che si ha con i più poveri. Difficile è rispondere all’arroganza del mondo con gesti di amore e comprensione. Spacciare il rito come una scorciatoia per il paradiso: è stata questa la grande furbata.

Se uno ci guarda dentro bene, però, se si osserva il rito da vicino ci si accorge quasi immediatamente che c’è della sintonia, dell’armonia, c’è del sincronismo tra rito e contenuto del Vangelo. Il centro della messa, infatti, contiene in sintesi lo stile della vita di Gesù: un corpo spezzato per tutti, un sangue sparso per amore, una vita donata in modo gratuito e disinteressato. Forse per questo che, ad un certo punto, qualcuno ha cominciato a dire: meno messe più messa! Che cosa voleva dire quel furbacchione?

Probabilmente che la religione fa male alla salute, che una vita religiosa fatta solo di precetti e di riti nuoce all’equilibrio esistenziale, perché ci porta a credere che possiamo controllare Dio, possiamo pretendere di aver il pass per il paradiso e, di conseguenza, rischiamo di entrare nella pericolosissima fase di delirio di onnipotenza.

Il Vangelo, invece, ci propone uno stile di vita in cui il rito è una parte del percorso, un ricordo di ciò che è stato e un invito per continuare il cammino insieme ai fratelli e alle sorelle.

regiron.blogspot.com

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Lettera all’Europa dei vescovi Zuppi e Crociata

Qualche considerazione in premessa

Piero Murineddu

Una lettera piena di appassionate sollecitazioni questa di MATTEO ZUPPI, presidente della conferenza episcopale Italiana (CEI), e di MARIANO CROCIATA, delegato dalla dalla stessa Cei presso la Commissione delle conferenze  episcopali della Comunità Europea (COMECE).

Crociata, un  cognome questo che rimanda a un tristissimo passato della Chiesa Cattolica e di buona parte di chi governava questa porzione del pianeta che si recò, con la croce sul petto e addirittura nel nome del Principe della Pace fatto fuori dal potere religioso, a seminare morte e distruzione in quella terra da troppo tempo, e oggi forse più  che mai.

Sul lungo e rispettabilissimo testo voglio evidenziare alcune mie modeste considerazioni:

1. La disumana carneficina che continua contro i palestinesi non ha risvegliato l’antisemitismo espresso atrocemente con la Shoah attuata dal nazismo con la complicità italiana fascista, ma la contrarietà al sionismo, confermato dalla disumana ferocia di chi governa oggi Israele. (*)

2. La “forza” del nostro continente, che nel titolo ho volutamente chiamare Europa e non Unione Europea, ancora tutta da costruire, non deve esprimersi nella potenza delle armi possedute e nella rincorsa forsennata ad armarsi sempre più, ma nel livello di civiltà che dimostra di aver raggiunto e che pratica, cosa ancora tutta da dimostrare coi fatti.

3. Riguardo alla mancata crescita demografica. Anche su questo: e se la civiltà, per ora molto presunta, i Paesi europei la dimostrassero incoraggiando, agevolando e non intralciando l’adozione dei tanti bambini che nel mondo hanno bisogno di genitori che si occupino di farli crescere serenamente?

4. Opportuno il riferimento alla persistente tendenza dell’Italia a chiudersi verso chi si sente costretto a lasciare la propria terra depredata da tempo immemorabile dagli interessi di stranieri e governata spesso da loschi individui foraggiati dai vecchi e nuovi stranieri, se possibile ancor più interessati. Purtroppo, ed è sempre più evidente, sono “politici” che si son formati in un ambiente che si sente orfana del ventennio mussoliniano e di quello berlusconiano – e cosa grave con l’assenso di una certa Sinistra che sembra aver smarrito le sue idealità! – a rafforzare negli elettori l’idea che chi approda alle nostre coste o si affaccia ai nostri confini è a prescindere un pericolo e non un’opportunità di crescita, per entrambi ma principalmente per chi accoglie.

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Lettera all’Europa

Matteo Maria Zuppi e Mariano Crociata

Cara Unione Europea,

darti del tu è inusuale, ma ci viene naturale perché siamo cresciuti con te. Sei una, sei “l’Europa”, eppure abbracci ben 27 Paesi, con 450 milioni di abitanti, che hanno scelto liberamente di mettersi insieme per formare l’Unione che sei diventata. Che meraviglia! Invece di litigare o ignorarsi, conoscersi e andare d’accordo! Lo sappiamo: non sempre è facile, ma quanto è decisivo, invece di alzare barriere e difese, cancellarle e collaborare. Tu sei la nostra casa, prima casa comune. In questa impariamo a vivere da “Fratelli Tutti”, come ha scritto un tuo figlio i cui genitori andarono fino alla “fine del mondo” per cercare futuro.

NEL CUORE UN DESIDERIO

Ti scriviamo perché abbiamo nel cuore un desiderio: che si rafforzi ciò che rappresenti e ciò che sei, che tutti impariamo a sentirti vicina, amica e non distante o sconosciuta. Ne hai bisogno perché spesso si parla male di te e tanti si scordano quante cose importanti fai. Durante il Covid lo abbiamo visto: solo insieme possiamo affrontare le pandemie. Purtroppo, lo capiamo solo quando siamo sopraffatti dalle necessità, per poi dimenticarlo facilmente. Così, quando pensiamo che possiamo farcela da soli finiamo tutti contro tutti.

DAGLI INIZI AD OGGI

Non possiamo dimenticare come prima di te, per secoli, abbiamo combattuto guerre senza fine e milioni di persone sono state uccise. Tutti i sogni di pace si sono infranti sugli scogli di guerre, le ultime quelle mondiali, che hanno portato immense distruzioni e morte. Proprio dalla tragedia della Seconda guerra mondiale – che ha toccato il male assoluto con la Shoah e la minaccia alla sopravvivenza dell’umanità intera con la bomba atomica – è nato il germe della comunità di Paesi sovrani che oggi è l’Unione Europea. C’è stato chi ha creduto che le nazioni non fossero destinate a combattersi, che dopo tanto odio si potesse imparare a vivere assieme. Tra quelli che ti hanno pensata e voluta non possiamo dimenticare Robert Schuman, francese, Konrad Adenauer, tedesco, e Alcide De Gasperi, italiano: animati dalla fede cristiana, essi hanno sentito la chiamata a creare qualcosa che rendesse impossibile il ritorno della guerra sul suolo europeo. Hanno pensato con intelligenza, ambizione e coraggio. Non sono mancati momenti difficili, ma la forza che viene dall’unità ha mostrato il valore del cammino intrapreso e la possibilità di correggere, aggiustare, intendersi.

La Comunità Europea venne concepita nel 1951 attorno al carbone e all’acciaio, materie allora indispensabili per fare la guerra, per prevenire ogni velleità di farne uso ancora una volta l’uno contro l’altro. In realtà quei tre grandi uomini, e tanti altri con loro, hanno cercato di più, e cioè la riconciliazione tra i popoli e la cancellazione degli odi e delle vendette. Trovare qualcosa su cui lavorare insieme, anche solo sul piano economico, come dimostrano i Trattati firmati a Roma nel 1957, è stato l’inizio di un cammino che ha visto poco alla volta nuovi popoli entrare nella Comunità e, dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1989, il cambiamento del nome, nel 1992, in Unione Europea, e l’allargamento, nel 2004, ai Paesi dell’allora Patto di Varsavia, ben dieci in una volta. I problemi non sono mancati, ma quanto sono stati importanti la moneta unica e l’abbattimento delle barriere nazionali per la libera circolazione delle persone e delle merci! Ultimo, l’accordo sulla riforma con il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009.

IL SENSO DELLO STARE INSIEME

Cara Unione Europea, sei un organismo vivo, perciò forse viene il momento per nuove riforme istituzionali che ti rendano sempre più all’altezza delle sfide di oggi. Ma non puoi essere solo una burocrazia, pur necessaria per far funzionare organizzazioni così complesse come quella che sei diventata. Direttive e regolamenti da soli non fanno crescere la coesione. Serve un’anima! In questi anni abbiamo visto compiere passi avanti significativi, quando per esempio hai accompagnato alcuni Paesi a superare le crisi economiche, ma abbiamo anche dovuto registrare fasi di stallo e difficoltà. E queste crescono quando smarriamo il senso dello stare insieme, la visione del nostro futuro condiviso, o facciamo resistenza a capire che il destino è comune e che bisogna continuare a costruire un’Europa unita.

IL RITORNO DELLA GUERRA

Perciò, qualche volta ci chiediamo: Europa, dove sei? Che direzione vuoi prendere? Sono questi anche gli interrogativi del Papa: «Guardando con accorato affetto all’Europa, nello spirito di dialogo che la caratterizza, verrebbe da chiederle: verso dove navighi, se non offri percorsi di pace, vie creative per porre fine alla guerra in Ucraina e ai tanti conflitti che insanguinano il mondo? E ancora, allargando il campo: quale rotta segui, Occidente?» (Discorso, Lisbona, 2 agosto 2023).

In tutti questi anni siamo molto cambiati e facciamo fatica a capire e a tenere vivo lo spirito degli inizi. Dopo un così lungo periodo di pace abbiamo pensato che una guerra su territorio europeo sarebbe stata ormai impossibile. E invece gli ultimi due anni ci dicono che ciò che sembrava impensabile è tornato. Abbiamo bisogno di riprendere in mano il progetto dei padri fondatori e di costruire nuovi patti di pace se vogliamo che la guerra contro l’Ucraina finisca, e che finisca anche la guerra in corso in Medio Oriente, scoppiata a seguito dell’attacco terroristico del 7 ottobre scorso contro Israele, e con essa l’antisemitismo, mai sconfitto e ora riemergente (1) . Lo dice così bene anche la nostra Costituzione italiana: è necessario combattere la guerra e ripudiarla per davvero!

Se non si ha cura della pace, rischia sempre di tornare la guerra. Lo diceva Robert Schuman nella sua Dichiarazione del 9 maggio 1950, che ha dato avvio al processo di integrazione europea: «L’Europa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra». Egli si riferiva al passato, ma le sue parole valgono anche oggi. L’unità va cercata come un compito sempre nuovo e urgente. Non dobbiamo aspettare l’esplosione di un altro conflitto per capirlo.

IL RUOLO INTERNAZIONALE E LA TENTAZIONE DEI NAZIONALISMI

Che ruolo giochi, Europa, nel mondo? Vogliamo che tu incida e porti la tua volontà di pace, gli strumenti della tua diplomazia, i tuoi valori. Risveglia la tua forza così da far sentire la tua voce, così da stabilire nuovi equilibri e relazioni internazionali. Le tue divisioni interne non ti permettono di assumere quel ruolo che dalla tua statura storica e culturale ci si aspetterebbe. Non vedi il rischio che le tue contrapposizioni intestine indeboliscano non solo il tuo peso internazionale ma anche la capacità di far fronte alle attese dei tuoi popoli?

Tanti pensano di potere usufruire dei benefici che tu hai indubbiamente portato, come se fossero scontati e niente possa comprometterli. La pandemia o le periodiche proteste, ultima quella degli agricoltori, ci procurano uno sgradevole risveglio. Capiamo che tanti vantaggi acquisiti potrebbero svanire. Il senso della necessità però non basta a spingere sempre e tutti a superare le divisioni. Alcuni vogliono far credere che isolandosi si starebbe meglio, quando invece qualunque dei tuoi Paesi, anche grande, si ridurrebbe fatalmente al proverbiale vaso di coccio tra vasi di ferro. Per stare insieme abbiamo bisogno di motivazioni condivise, di ideali comuni, di valori apprezzati e coltivati. Non bastano convenienze economiche, poiché alla lunga devono essere percepite le ragioni dello stare insieme, le uniche capaci di far superare tensioni e contrasti che proprio gli interessi economici portano con sé nel loro fisiologico confrontarsi.

Ha detto Papa Francesco: «In questo frangente storico l’Europa è fondamentale. Perché essa, grazie alla sua storia, rappresenta la memoria dell’umanità ed è perciò chiamata a interpretare il ruolo che le corrisponde: quello di unire i distanti, di accogliere al suo interno i popoli e di non lasciare nessuno per sempre nemico. È dunque essenziale ritrovare l’anima europea» (Discorso, Budapest, 28 aprile 2023).

Vorremmo che tutti sentissimo l’orgoglio di appartenerti, Europa. Oggi appare distante, a volte estraneo, tutto ciò che sta oltre i confini del proprio Paese. Eppure, le due appartenenze, quella nazionale e quella europea, si implicano a vicenda. La tua è stata fin dall’inizio l’Unione di Paesi liberi e sovrani che rinunciavano a parte della loro sovranità a favore di una, comune, più forte. (2)
Perciò non si tratta di sminuire l’identità e la libertà di alcuno, ma di conservare l’autonomia propria di ciascuno in un rapporto organico e leale con tutti gli altri.

VALORI EUROPEI E FEDE CRISTIANA

Le nostre idee e i nostri valori definiscono il tuo volto, cara Europa. Anche in questo la fede cristiana ha svolto un ruolo importante, tanto più che dal suo sentire è uscito il progetto e il disegno originario della tua Unione. Come cristiani continuiamo a sentirne viva responsabilità; e del resto troviamo in te tanta attenzione alla dignità della persona, che il Vangelo di Cristo ha seminato nei cuori e nella tua cultura. Soffriamo non poco, perciò, nel vedere che hai paura della vita, non la sai difendere e accogliere dal suo inizio alla sua fine, e non sempre incoraggi la crescita demografica.(3)

«Penso – dice il Papa – a un’Europa che non sia ostaggio delle parti, diventando preda di populismi autoreferenziali, ma che nemmeno si trasformi in una realtà fluida, se non gassosa, in una sorta di sovranazionalismo astratto, dimentico della vita dei popoli. […] Che bello invece costruire un’Europa centrata sulla persona e sui popoli, dove vi siano politiche effettive per la natalità e la famiglia […], dove nazioni diverse siano una famiglia in cui si custodiscono la crescita e la singolarità di ciascuno» (Discorso, Budapest, 28 aprile 2023).

IL TEMA DEI MIGRANTI E LE SUE IMPLICAZIONI

Cara Europa, tu non puoi guardare solo al tuo interno. Non si può vivere solo per stare bene, ma stare bene per aiutare il mondo, combattere l’ingiustizia, lottare contro le povertà. Ormai da decenni sei il punto di arrivo, il sogno di tante persone migranti che da diversi continenti cercano entro i tuoi confini una vita migliore. Tanti vogliono raggiungerti perché sono alla ricerca disperata di un futuro. E molti, con il loro lavoro, non ti aiutano forse già a prepararne uno migliore? Non si tratta di accogliere tutti, ma che nessuno perda la vita nei “viaggi della speranza” e tanti possano trovare ospitalità. Chi accoglie, genera vita! L’Italia è spesso lasciata sola, come se fosse un problema solo suo o di alcuni, ma non per questo deve chiudersi.(4)
Prima o poi impareremo che le responsabilità, comprese quelle verso i migranti, vanno condivise, per affrontare e risolvere problemi che in realtà sono di tutti. Tu rappresenti un punto di riferimento per i Paesi mediterranei e africani, un bacino immenso di popoli e di risorse nella prospettiva di un partenariato tra uguali. Compito essenziale perché in realtà un soggetto sovranazionale come l’Unione non può sussistere al di fuori di una reciprocità di relazioni internazionali che ne dicano il riconoscimento e il compito storico, e che promuovano il comune progresso sociale ed economico nel segno dell’amicizia e della fraternità.

COMPITI E SFIDE

Cara Europa, è tempo di un nuovo grande rilancio del tuo cammino di Unione verso una integrazione sempre più piena, che guardi a un fisco europeo che sia il più possibile equo; a una politica estera autorevole; a una difesa comune che ti permetta di esercitare la tua responsabilità internazionale; a un processo di allargamento ai Paesi che ancora non ne fanno parte, garanzia di una forza sempre più proporzionata all’unità che raccogli ed esprimi. Le esigenze di innovazione economica e tecnica (pensiamo all’Intelligenza Artificiale), di sicurezza, di cura dell’ambiente e di custodia della “casa comune”, di salvaguardia del welfare e dei diritti individuali e sociali, sono alcune delle sfide che solo insieme potremo affrontare e superare. Non mancano purtroppo i pericoli, come quelli che vengono dalla disinformazione, che minaccia l’ordinato svolgimento della vita democratica e la stessa possibilità di una memoria e di una storia non falsate.
Insieme alle riforme istituzionali democraticamente adottate, c’è bisogno di far crescere un sentire comune, un apprezzamento condiviso dei valori che stanno alla base della nostra convivenza nell’Unione Europea. Ci vuole un nuovo senso della cittadinanza, un senso civico di respiro europeo, la coscienza dei popoli del continente di essere un unico grande popolo. Ne siamo convinti: è innanzitutto questo senso di comunità di cittadini e di popoli che ci chiedi di fare nostro, cara Europa.

LE PROSSIME ELEZIONI

Le prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo e la nomina della Commissione Europea sono l’occasione propizia e irripetibile, da cogliere senza esitazione. Purtroppo, a farsi valere spesso sono le paure e il senso di insicurezza di fronte alle difficoltà. Anche questo andrebbe raccolto e ascoltato per mostrare come proprio tu sia lo strumento e il luogo per affrontare e vincere paure e minacce. Facciamo appello, perciò, a tutti, candidati e cittadini, a cominciare dai sedicenni che per la prima volta in alcuni Paesi andranno a votare, perché sentano quanto sia importante compiere questo gesto civico di partecipazione alla vita e alla crescita dell’Unione. Non andare a votare non equivale a restare neutrali, ma assumersi una precisa responsabilità, quella di dare ad altri il potere di agire senza, se non addirittura contro, la nostra libertà. L’assenteismo ha l’effetto di accrescere la sfiducia, la diffidenza degli uni nei confronti degli altri, la perdita della possibilità di dare il proprio contributo alla vita sociale, e quindi la rinuncia ad avere capacità e titolo per rendere migliore lo stare insieme nell’Unione Europea.
L’augurio che ti facciamo, cara Unione Europea, è che questa tornata elettorale diventi davvero un’occasione di rilancio, un risveglio di entusiasmo per un cammino comune che contiene già, in sé e nella visione che proietta, un senso vivo di speranza e di impegno motivato e convinto da parte dei tuoi cittadini.

UN NUOVO UMANESIMO EUROPEO

Sogniamo perciò ancora con Papa Francesco: «Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, un costante cammino di umanizzazione, cui servono memoria, coraggio, sana e umana utopia» (Discorso, Vaticano, 6 maggio 2016)

 

(*) Per capire meglio l’origine e la cronologia della tragedia palestinese

https://www.youtube.com/live/qeP9mcfF1C4?si=BVq8cXpyspM_-crU

Ah, ecco: il Silenzio!

Un racconto di Pablo J. Luis Molinero

Nel grembo di una mamma c’erano due bambini. Uno chiese all’altro:

Ma tu ci credi in una vita dopo il parto?

L’altro rispose:

Certo! Deve esserci qualcosa dopo il parto. Forse noi siamo qui per prepararci per quello che verrà più tardi

Sciocchezze” disse il primo – non c’è vita dopo il parto! Che tipo di vita sarebbe quella?

Il secondo riprese:

Io non lo so, ma ci sarà più luce di qui. Forse potremo camminare con le nostre gambe e mangiare con le nostre bocche. Forse avremo altri sensi che non possiamo capire ora

 Il primo replicò:

Questo è assurdo. Camminare è impossibile. E mangiare con la bocca!? Ridicolo! Il cordone ombelicale è tutto quello di cui abbiamo bisogno… e poi è troppo corto. La vita dopo il parto è fuori questione

Il secondo continuò ad insistere:

Beh, io credo che ci sia qualcosa, forse diverso da quello che è qui. Forse la gente non avrà più bisogno di questo tubo

Il primo contestò:

Sciocchezze! Inoltre, se c’è davvero vita dopo il parto, allora perché nessuno è mai tornato da lì? Il parto è la fine della vita e nel postparto non c’è nient’altro che oscurità, silenzio e oblio. Il parto non ci porterà da nessuna parte

Beh, io non sodisse il secondoma sicuramente troveremo la mamma e lei si prenderà cura di noi

Il primo rispose:

Mamma? Tu credi davvero alla mamma? Questo sì che è ridicolo. Se la mamma c’è, allora dov’è ora?

Il secondo riprese:

Lei è intorno a noi. Siamo circondati da lei. Noi siamo in lei. È per lei che viviamo. Senza di lei questo mondo non ci sarebbe e non potrebbe esistere

Riprese il primo:

Beh, io non posso vederla, quindi, è logico che lei non esiste

Al che il secondo rispose:

A volte, quando stai in silenzio, se ti concentri ad ascoltare veramente, si può notare la sua presenza e sentire la sua voce da lassù

 

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