Zimbonia, l’ ipagliosumini sussincu ed altro ancora

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Presentazione

di Piero Murineddu 

Scrive Andrea Pilo nelle prime pagine del suo volume pubblicato nel 1999: ” Non è certo la Brunelleschiana Fiorentina o la Michelangelesca VatIcana ma è “La nostra cupola” attraverso la quale identifichiamo il nostro mondo, il nostro tempo di ieri e di oggi, le nostre storie felici o tristi. Tutto, nel bene e nel male, è stato vissuto e si vive dentro o fuori della “Zimbonia” ed è per questo che è, e resterà, oltre all’identificazione religiosa (….)”

Esagerato? Mah! Certo che da sempre per Andrea, appassionato d’arte e, per quanto so io, anche esperto in questo  campo, Giesgia Manna col suo cupolone ha avuto sempre particolare e alto significato, e il compianto studioso Nicola Tanda nella presentazione del volume, assicura che anche  tutti li sussinchi sentono l’importanza e “vicinanza” affettiva per questo luogo “simbolico”, come lui stesso afferma qui sotto. Il docente universitario, rischiando di urtare la suscettibilità di quelli tra i sorsinchi di “poco spirito”, ne dice di tutti i colori, mettendo anche in rilievo certo nostro “ipagliosumini” sia esso vero o presunto, simboleggiato appunto da la boccia manna di la zimbonia.

C’è da conoscere, imparare, riflettere, da ridere  e d’abbascià la crestha  leggendo il pensiero di uno dei fratelli Tanda, e se vogliamo, rilassarsi  “sgonfiando il petto”. Dei maschi soprattutto, in quanto quello delle donne…vanno bene così.

Al termine della sua presentazione, il Prof rileva che una delle 28 tele tra quelle realizzate dai pittori “continentali” dopo aver ricevuto una foto da Andrea, il romano Franco Fortunato“l’ha interpretata come una nuova Arca di Noè, consapevole che quei valori comunitari che essa rappresenta e che hanno caratterizzato nel passato il paese, non possono andare dispersi, poiché costituiscono la speranza di una continuità tra passato e futuro”

Sempre il “solito” e importante auspicio: non disperdere i valori comunitari, quelli che creano continuità nel tempo che passa. Cosa condivisibile da chi ha buon senso e da chi considera fondamentale avere una propria identità personale e collettiva. “Identità collettiva”: mi chiedo spesso se ai nostri giorni ciò sia ancora possibile, considerando l’estrema e spesso esasperata soggettivazione dilagante sotto tutti i punti di vista. Ma naturalmente questo è un mio chiodo fisso, che probabilmente mi porterò dietro fino all’ultimo dei miei giorni.

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La Zimbonia secondo Franco Fortunato

Scrive Andrea su questa tela: “L‘Arca, immensa, ancorata su una spiaggia con la parte centrale coperta da tre velari che cadono dall’alto di un traliccio, ma che non impediscono di vedere in tutta la sua grandezza la chiesa con la sua caratteristica zimbonia. La composizione bellissima, è giocata tutta sul colore brunobruciato, che rende maggiormente poetico questo incredibile “coro” che l’artista ha voluto innalzare in onore di Santu Pantareu e della sua zimbonia”.

Introduzione al volume

di Nicola Tanda

Il termine zimbònia deriva dal catalano cimbori, e dallo spagnolo cimborio. Il Dizionario Etimologico Sardo del Wagner reca: “in logudorese settentrionale tsinbòina (sassarese zinbònia)..; anche zimbònia. In logudorese si usa anche per “cotta”, ”sbornia” (ha leadu una zimbòina), secondo il Casu.

Le due eccezioni di zimbònia, o meglio con metatesi della “i”, zimbònia, quella del linguaggio architettonico, relativa alla cupola e quella figurata e metaforica, relativa alla sbornia, si addicono entrambe alla cupola di San Pantaleo che, come tutti sanno, è un monumento neoclassico, progettato e costruito dal padre Antonio Cano agli inizi dell’Ottocento.

La chiesa parrocchiale è concepita secondo lo stesso schema e modulo impiegato nella costruzione della cattedrale di Nuoro ed è sorta sulla pianta della precedente chiesa in stile romanico di San Pantaleo. Non erano tanti i paesi che avevano titolo per vantare una chiesa tanto imponente, la quale doveva rispondere anzitutto al ruolo e al prestigio, più che di paese, di cittadina che Sorso aveva avuto nel medioevo, come capoluogo della Curatoria della Romangia, e corrispondere così, di conseguenza, all’alto concetto che di sé gli abitanti hanno sempre avuto.

Direi che nel passato, forse oggi un po’ meno, il prestigio derivava loro dal ruolo economico che svolgevano nel settore primario, quello agricolo. Un’attività che ora svolgono in misura, rispetto ad allora, assai ridotta. Non più frutta, non più ortaggi, non vino, non olio, che possano, come una volta, competere, dal punto di vista commerciale, con la produzione di altri paesi sardi, soprattutto del Campidano, che oggi risultano al passo con la produzione agricola moderna.

Non investono molto, nonostante la scolarizzazione di massa, o forse manca un pubblico adeguatamente consapevole, nemmeno in materia grigia, che costituiva, in altri tempi, una risorsa primaria sia nella cultura che nella politica. Neanche svolgono un ruolo adeguato ed appropriato nel turismo, per il quale hanno le risorse naturali ma non quelle culturali. Necessita, per questo settore, una cultura e una vocazione che non si addice all’orgoglio, alla superbia e, diciamo pure, alla megalomania dei Sorsensi.

Megalomania proverbiale, da ispanta carrela, di cui conviene ricordare almeno un esempio, neanche molto remoto. Durante la seconda guerra mondiale, anzi proprio alla fine, quando gli Alleati angloamericani erano sbarcati in Sardegna, tra le truppe di occupazione, che avevano stanza intorno a Sorso, vi erano alcuni giocatori della squadra nazionale di calcio inglese, che erano stati mandati nelle retrovie, proprio per salvaguardare alla nazione un patrimonio così prezioso. I giovani sorsensi di allora avevano una straordinaria passione per il calcio e, nel campo sportivo, che era stato ridotto dai militari ad una specie di campo trincerato, si allenavano con loro. Non fu difficile familiarizzare e venne organizzata con i giocatori inglesi una partita, come si dice oggi, amichevole. Per dare più risalto all’avvenimento, del tutto insolito, venn fatto stampare e affiggere a Sassari, a Portotorres, ad Alghero e dovunque fu possibile, un manifesto dove spiccava a grandi caratteri la dicitura: “Incontro di calcio Sorso-Gran Bretagna”. Un fatto e un gesto che è rimasto memorabile, certo in qualche misura veritiero, ma non al punto da contrapporre il Sorso alla Gran Bretagna. Ma di questa sostanza un po’ enfatica, certo “transfottente”, e un bel po’ megalomane, erano fatti gli abitanti che hanno in San Pantaleo il loro santo patrono!

Ebbene, la zimbònia di Santu Pantareu era, in qualche modo, il segno e il simbolo di tutto questo. Anche delle sbornie, grandi anch’esse come una zimbònia, le sbornie degli amici affezionati al vino, di quello buono, che oggi molti, troppi disdegnano preferendogli, fin dall’adolescenza, i prodotti dei narcotrafficanti. Dunque addio alle solenni sbornie, ai soliloqui o ai dialoghi degli ubriachi sotto i lampioni, alle loro epiche ebbrezze, di quelli chi faziani vinu bonu e davano alle feste ed alle lunghe notti estive una nota di allegria e di baldoria, e di quelli chi faziani vinu maru e che provocavano risse, scazzottature da film western, e sassaiole di triddie che rompevano il silenzio notturno delle strade deserte, suscitando un muidu, un sibilo, ad ogni rimbalzo, finché l’eco si spegneva lontano in fondo alla strada o con fragore contro un muro.

La festa del santo patrono veniva festeggiata solennemente, e quindi con grandi abbuffate che si consumavano al mare e che ogni anno si concludevano almeno con un morto i lu fossu di la Foza, per una sincope più che per annegamento. La sera, nella piazza di San Pantaleo, il pubblico assisteva alle gare che i poeti estemporanei, i cantadores, improvvisavano dal palco cantando in logudorese, a turno, le loro ottave che celebravano le virtù o i vizi corrispondenti, amati con eguale passione, gli uni e gli altri, dagli astanti.

Amati quanto le corse dei cavalli che Sorso allora allevava, a gara, e che costituivano un vanto, specie nel Logudoro e nell’Anglona. Come del resto i fantini, che allenavano i cavalli lungo i litorali della marina, irrobustendone i garretti nelle corse al galoppo sulla sabbia delle amenissime spiagge. Tutto questo sempre all’ombra della zimbònia.

Perciò dire la zimbònia era come dire Sorso, una figura metaforica di questa oltranza, di una megalomania che sapeva tuttavia a tratti fare conti con la realtà. Di questa capacità di adattamento a situazioni concrete si può raccontare, a proposito, un aneddoto rimasto memorabile, quello del vignatiere durante una delle guerre di successione spagnola.

I Francesi erano sbarcati dal mare e c’era, in corso, un aspro confronto a Marritza tra loro e gli Spagnoli, un vignateri, in chistu indunca, duvia allistrhì li fondi, e li dì passabani. Era antzianu, no abia più anchi boni pa divintzassi currendi. Ha ciamaddu lu figlioru:”mè figliò, eu sogu antzianu e no possu currì. Tu sei giobanu, sei lestrhu e hai anchi boni. Giompi tu a la vigna e datti cuidaddu pa allistrhì li fondi. Ma, attintzioni! Affaccu a mari sò isbarchaddi li Frantzesi e v’è un cumbattimentu tra eddi e l’Ipagnori. Li Frantzesi hani la dibisa ruja, l’Ispagnori la dibisa bianca. Si vedi chi ill’utturinu sò atzendi chiddi visthuddi di ruju, li Frantzesi, debi tzichirrià forthi: “Viva la Francia”. Si inveci vedi chi atzani chiddi vistuddi di biancu, l’Ipagnori, devi tzichirrià: “Viva la Spagna”… Attentu a no ibbaglià.

Il succo dell’aneddoto è tutto in quel “Attentu a no ibbaglià”, in quell’avvertimento a badare al sottilissimo discrimine che separa, in ogni rischio, il successo dall’insuccesso, la sfida o la scommessa nella quale si cimenta l’intelligenza o la saggezza, oppure, se volete, l’astuzia o il cinismo dei sorsensi. Machiavelli userebbe la parola “virtù”, in relazione con quella di “fortuna”, per indicare la capacità di realizzare un proprio intento mediante il corto circuito di una analisi rapida di una situazione scabrosa (“la fortuna”) per venirne a capo evitando di uscirne schiacciati.

Si potrebbe anche parlare di capacità di mettere d’accordo il principio del desiderio con quello di realtà, ma è cosa che non sempre riescono a fare, poiché spesso si abbandonano anche all’estro e alla fantasia. Si potrebbe invece teorizzare una loro impermeabilità alle lotte di potere, che passano sulla testa delle persone, e dalle quali preferiscono tirarsi fuori, sia per spirito d’indipendenza, sia per pragmatismo, portati come sono a privilegiare la onesta ed eroica lotta quotidiana per la sopravvivenza. O forse la privilegiavano allora, quando, radunati intorno alla cupola, alla zimbònia, avevano un senso fortissimo della comunità. Ed erano orgogliosi che, mentre nelle chiese romanico o gotico-catalane di altri paesi, svettavano quasi sempre un campanile isolato, in San Pantaleo, invece, affiancata al campanile, una cupola, voltata sopra un tamburo, come una enorme semisfera grigio-azzurra che si poteva riconoscere dalle lontananze dei luoghi circostanti.

Non mi sorprende perciò che Andrea Pilo si sia innamorato di questo simbolo e, da vero sorsense qual è, pieno di risorse e di ingegno, istrhavaganti che lu poipu, abbia voluto fare un monumento al suo paese, chiedendo a tanti pittori qualificati sardi e non sardi, che ha potuto incontrare, e giudicare di ingegno, una interpretazione della zimbònia.

Devo ammettere che questo simbolo così calato nell’immaginario popolare ha trovato, anche presso di loro, consensi e riscontri davvero interessanti. I pittori, si sa, come tutti gli artisti, per mestiere operano sull’immaginario e sui simboli e non hanno difficoltà a crearli o  reinterpretarli

Aveva cominciato un grande pittore sorsense, forse il massimo che abbiamo avuto, Pietro Antonio Manca, con una sua minuscola zimbònia che svapora azzurra nel cielo. Ma, Andrea ha voluto coinvolgere, a più riprese, mio fratello Ausonio, che dei sorsensi aveva assimilato virtù e difetti, in misura considerevole, e pochi hanno potuto eguagliare la sua capacità di mitizzare. È stato sempre desideroso di comunicare, di sedurre, di lasciare un segno di sé, della sua presenza, e ancora continua a parlarci, ad affascinarci coi suoi quadri, colle sue nature morte. le sue marine, le sue stazioni, i suoi pescatori. Continua insomma ad esercitare quella sua arte della seduzione, insomma, quella capacità di coinvolgere l’osservatore o il suo interlocutore, con l’energia persuasiva della fantasia. Quale si può percepire in queste sue interpretazioni della zimbònia che testimoniano una memoria appassionata di questo simbolo archetipico del suo paese di origine.

Con questa simbolica cupola si sono confrontati inoltre gli altri pittori, sardi e non sardi. Tutti ne hanno avvertito la magia e l’imponenza e sono riusciti a darne una rappresentazione, o mitica o favolosa, nel rilevarne lo slancio ascensionale, A quell’ansia, propria del monumento, di ricondurre verso l’alto lo sguardo dell’osservatore, di voler richiamare la comunità dei fedeli, quella interna alla chiesa, verso la simulata volta del cielo, e quella esterna verso quei nobili valori di cui la cupola era e resta il simbolo. Alcuni l’hanno vista sospesa al cielo con fili e tirata su da un coro di angeli, altri, come in una favola delle Mille e una notte, con una mezzaluna incombente che ne accentua il carattere orientale, quasi una moschea. Qualcuno l’ha circondata di nastri e di fiocchi che corrono, portati dal vento sulle strade dandogli l’aspetto festoso di un pacco natalizio. Qualcun altro è riuscito a conferirgli un alone quasi metafisico, o l’ha incendiata di rosso acceso, degno di Scipione, o l’ha evocata dalle nebbie dei ricordi. Ancora, qualcuno ne ha tracciato un disegno delicato e leggero smaterializzandone la possanza, oppure isolata e sospesa su un drappo di porpora ornandola con un ramo d’ulivo. C’è stato perfino chi, giustamente, l’ha interpretata come una nuova arca di Noè, consapevole che quei valori comunitari, che essa rappresenta e che hanno caratterizzato nel passato il paese, non possono andare dispersi, poiché costituiscono, come ci auguriamo davvero, la speranza di una continuità tra passato e futuro.

 

Di seguito la postfazione al volume di Gianfranco Sias

“La Zimbonia” e l’invito di Gianfranco Sias a recuperare un’identità che va perdendosi

Zimbonia, l’ ipagliosumini sussincu ed altro ancoraultima modifica: 2024-02-12T07:10:23+01:00da piero-murineddu
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