Tinochika è tornato

di Gianmaria Testa

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Dopo anni di fatiche e umiliazioni, dopo essere finalmente riuscito a crearsi una nicchia vivibile in Italia fino a esserne diventato cittadino, Tinochika, che qui chiamerò «Tino», si guarda attorno e si rende conto che niente gli assomiglia. Non i colori, gli odori, la religione, le abitudini, neanche i sorrisi delle persone che pure gli sono amiche e che qualche volta frequenta. Non si è nemmeno voluto integrare con la piccola quota di connazionali che come lui si sono stabiliti in questa cittadina della periferia nord-ovest d’Italia e che ogni tanto organizza delle feste per non dimenticare.

Lavora in fabbrica, una fabbrica francese di pneumatici dove si fanno i turni in terza che comprendono anche la notte, e non si trova male. Dopo le prime diffidenze, i colleghi l’hanno accettato come tutti gli altri, l’hanno aiutato quando faceva fatica a capire, gli hanno spiegato come adattarsi ai ritmi di lavoro, gli hanno perfino fatto un po’ di storia del sindacato. Ha partecipato alle assemblee e ha fatto due scioperi di categoria senza esattamente saperne il motivo ma fidandosi delle ragioni dei compagni di reparto. In tutta onestà, quando ci pensa, crede di aver tentato davvero di diventare parte del Paese che con grandissimi sacrifici aveva raggiunto, ma continua a sentirsi straniero, più precisamente estraneo.

Viene da un mondo contadino scandito dai rit. mi larghi delle stagioni, dai contatti umani diver. si e quotidiani di chi condivide un tempo fatto di lavoro e attesa, e anche di abitudini e ruoli consolidati. Era abituato a paesaggi vasti e a una natura protagonista indiscussa e potente, era abituato ai rischi che questo comporta e alla pazienza che questo richiede.

Poi tutto si è infiammato, una questione di predominio tribale, etnie diverse in lotta crudele, vil. laggi assaltati e bruciati, donne violentate e uccise, bambini con il mitra in mano. Non c’è stato scam po, la sua famiglia massacrata e lui che con fortu na e coraggio riesce a scappare, prima un vagare senza meta, poi un’idea precisa: lasciare l’Africa perché tanto non cambierà mai. L’Africa genera da sola questo tipo di tragedie, l’Africa è terra di nessuno e non basta esserci nati, non basta essere africani da mille generazioni per poter pensare di viverci con la normale serenità delle vite normali

Tutto il viaggio fino alla costa mediterranea È stato un calvario che ha cercato di dimenticare ma che si è incrostato da qualche parte nel cervello anche nelle ossa. Quando finalmente ha visto l’acqua del mare sciabordare tranquilla lungo la costa di sabbia, ha pensato che era fatta, che tutto era finito, cominciava un’altra vita.

Insieme con altri in fuga viene fatto salire su un barcone. Sono in tanti, in troppi per quella specie di vecchio peschereccio di legno, ma nessuno protesta, tutti pensano che il viaggio sarà breve, qualche ora al massimo sopra un’acqua amica, e poi l’arrivo inun mondo diverso ma civile dove poter ripartire da capo. Comincia così, in silenzio, la traversata.

È notte, le prime ore passano nell’attesa di vedere qualche luce di terra in lontananza. Il timoniere è armato cosî come il suo socio, nessuno dei passeggeri si stupisce perché tutti vengono da mesi di prossimità con armi di ogni tipo, qualcuno si porta ancora addosso i segni ben visibili di qualche aggressione.

Quando comincia ad albeggiare nessuna luce è stata avvistata, il freddo della notte è entrato sotto l vestiti sottili e contribuisce a creare sconforto, il mare si è ingrossato, qualcuno vomita e chiede acqua ma le scorte di ognuno stanno finendo, il viaggio, quel viaggio, doveva essere breve e senza rischi.

Tino è solo ma come gli altri è insaccato in mezzo ai compagni di viaggio per tentare di difendersI dal freddo, nella cabina di guida i due armati non permettono l’ingresso di nessuno, nemmeno di una madre con un bambino poco più che neonato in braccio. Il tempo passa senza cambiamenti se non il disagio crescente, sempre più spesso il silenzio viene rotto da chi sta male e dalle invettive degli uomini armati.

Tino pensa che avrebbe dovuto saperlo che sarebbe finita così, una lunga traversata in mare senza approdare in nessun luogo, comincia a vedere chiaramente la morte come unico traguardo.

Di fronte a lui, nella confusione di corpi e stracci, c’è una donna. Non saprebbe indicarne l’età, ma sembra sola ancorché intabarrata nell’ammas. so generale, e a Tino pare che quella donna lo stia guardando, proprio lui in mezzo a tutti.

Prova l’impulso di spostarsi vicino a lei ma prevalgono la timidezza e l’enorme fatica di ogni movimento in uno spazio diventato sempre più esiguo. Cominciano un dialogo, soltanto con gli occhi e qualche espressione del viso, ma un dialogo vero quanto impossibile. Lei gli trasmette una specie di calma, una pazienza nuova.

Quando scende la notte Tino continua a guardare in direzione della donna, non la vede ma sente il suo sguardo. Adesso il tempo passa in modo diverso, non fantastica nulla ma non è più solo e schiacciato fra quella umanità alla deriva, non fa programmi di nessun tipo, quella condivisione fatta di silenzio e occhi rende quasi comprensibile tutto il delirio di una vita.

Passano i giorni, qualcuno muore, tutti si stanno disidratando e la fame è una tenaglia allo stomaco. Tino ha smesso di contare il tempo, sente le forze andargli via, spera sempre di arrivare, ma con un animo diverso. Se solo avessero un po’ da bere e qualcosa da mangiare potrebbe immaginare di passare una vita intera a farsi accarezzare da quegli occhi nel rottame di un peschereccio perso per sempre nel Mediterraneo.

Una notte il barcone viene avvicinato da una lancia, i due armati spengono i motori e se ne vanno portati via da un complice. Qualcuno grida, qualcuno piange, qualcuno cerca inutilmente di saltare sulla lancia ma è respinto con brutalità.

Tino non ricorda i particolari, aveva i riflessi appannati e la mente persa in quel filo diretto di sguardi, sa soltanto di aver pensato che fosse finita e di averlo pensato senza particolare terrore, voleva semplicemente avere accesso agli occhi della donna fino alla fine, in qualunque momento fosse arrivata.

Per fortuna il mattino dopo un’imbarcazione della Guardia costiera italiana li ha incrociati e trainati fino al porto di Lampedusa, che a quel punto non era lontana.

Quando sono sbarcati, Tino ha raccolto tutte le forze che aveva per tendere la mano alla donna e aiutarla a scendere. E stato il primo e anche l’unico contatto fisico che abbiano mai avuto. Al centro di permanenza temporanea, dove sono stati condotti, li hanno divisi, gli uomini da una parte, le donne dall’altra. E non si sono più rivisti.

Non ha mai smesso di pensare a lei, forse per questo non si è mai veramente integrato, pur avendo un lavoro e una situazione del tutto simile a quella di molti italiani. È rimasto convinto che quella fosse la donna della sua vita e che tutto quel peregri. nare avesse come unica funzione il loro incontro,

Quando partivano i nostri, e quando partono ì nostri di adesso, lasciavano e lasciano una casa, un indirizzo, qualcuno che li aspetta, che s’informa su di loro, un luogo a cui tornare se il fuori li respinge.

Chi parte come Tinochika non si lascia nulla alle spalle, parte lasciando dietro di sé un bucato in fiamme, come ha detto una volta Erri De Luca, quindi Tino non ha un posto dove tornare, ha una storia naturalmente, ma è stata cancellata.

Per questo, dopo anni di sforzi e d’integrazione, guardandosi indietro per cercare un appiglio alla sua vita presente, l’unica cosa che trova e che continua a essere davvero importante sono gli occhi di quella donna sul barcone della traversata e la sua mano fredda e tremante mentre l’aiuta a scendere a riva sull’isola.

Per questo Tino decide di fare qualcosa di talmente irrazionale quanto urgente: tornare a Lampedusa.

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Dall’introduzione al volume      “Da questa parte del mare”

 

Babasunde, che ha perso il suo nome. E quella ragazza intirizzita che cammina verso la stazione. Rrock Jakaj, violinista di Scutari. Jean-Claude Izzo, commosso dall’ascolto di una canzone di Murolo. E poi Tinochika detto Tino, che si è aggrappato con tutto se stesso allo sguardo di una donna. Gianmaria Testa ritorna – questa volta non nelle vesti di cantautore ma di scrittore – sul tema delle migrazioni contemporanee. E lo fa senza retorica e con il solo sguardo sensato: raccontando storie di uomini con una lingua poetica e tagliente, insieme burbera ed emozionata. A dieci anni dall’uscita del disco Da questa parte del mare, che ha ricevuto la Targa Tenco nel 2007 come migliore album dell’anno, quelle canzoni così vive e attuali generano qualcosa di nuovo: un altro tipo di scrittura e di voce. «Ho l’impressione che nei confronti del fenomeno delle migrazioni abbiamo avuto uno sguardo povero e impaurito che ha fatto emergere la parte meno nobile di noi tutti, – scrive. – Bisogna avere occhi, cervello e coraggio da spendere».

L’intero album di Gianmaria del 2006

Tinochika è tornatoultima modifica: 2024-04-10T06:19:05+02:00da piero-murineddu
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