I “bei” Natali andati del piccolo Guccini

Due paroline, e poi veloci a leggere Guccini per tirarci su il morale

Piero Murineddu

Ogni tanto, anzi, spesso, è bene dedicarsi alle letture distensive, soprattutto di questi tempi che si rischia di morire di disperazione ancor prima che ti cada un missilone in testa, da qualunque parte esso provenga.

In questo caso mi viene in soccorso il Guccini scrittore che racconta una forzata esibizione canora natalizia nella sua Pavana, il paesino di circa 400 animelle, pure o impure che siano  in provincia di Pistoia, a un’altitudine poco meno di 500 metri dove presumo in questi giorni freddino ne faccia assai, considerando che a Sorso dove vivo io, a qualche chilometro dal mare, in molti abbiamo tolto di nuovo fuori dall’armadio il giubbotto pesante con sciarpa per uscire e il piumone per dormire.

Francescone il prossimo 14 giugno tocca il traguardo degli 84, ma naturalmente speriamo che il suo viaggio continui ancora a lungo,  lentamente e seppur con l’ affaticamento della vecchiaia che…beato chi ci arriva! Quattordici giugno del ’40,  quattro giorni cioè dopo l’entrata dell’Italia nella disastrosa guerra mondiale, giusto per completare i milioni di morti e distruzioni a non finire provocate dalla precedente. Babbo Ferruccio dal lavoro alle poste era stato costretto ad indossare la divisa e partire, mentre mamma Ester aveva preso il minimo di bagaglio e col figliolino, e da Modena era andata dai suoceri a Padana per stare più tranquilli.

E quindi è a Padana, ma non proprio in quei primissimi giorni, che si svolge la vicenda che andiamo a leggere.

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Quel lontano Natale? Un chilometro di strada prendendo colpi da mia mamma

di Francesco Guccini

Non so quanto sarà umoristico quello che andrò scrivendo, e neppure se avrebbe il diritto di esserlo. Mi hanno detto: scrivi qualcosa di divertente sul Natale, ma il farlo potrebbe essere un po’ come sparare sulla Croce Rossa. Il Natale o lo si vive ancora con la gioiosa ingenuità d’un tempo (quando ancora tu stesso godevi di quella felice condizione, ma è un fatto puramente anagrafico) o, e qui parlo da laico, lo si bestemmia, sopraffatti dall’orgia televisiva di panettoni e pandori, di nevi festoni, Babbi Natale di tutte le forme e condizioni, della tragica scadenza dei regali, del dovere di passarlo con i tuoi, ma quali poi, i tuoi tuoi o i tuoi di lei che sono diventati tuoi un po’ anche loro e così via di pronomi e di problemi. Per non parlare delle Settimane Bianche e di tutte le nefaste conseguenze create da quella insinuante e pericolosa opera che è la canzone più venduta nel mondo, White Christmas, e bisognava che prima o poi qualcuno avesse il virile coraggio di dirlo. Ma c’è una congiura: il natalista Dickens per esempio, nelle sue storie allegre o tristi, ma sempre a lieto fine su questo periodo dell’anno, presenta sempre un’orgia di neve, dove pullulano allegre slitte con tintinnanti campanelli, pupazzi, e chi più ne ha. Ora, è meteorologicamente provato che in Inghilterra, in quel periodo dell’anno, non nevica mai! Una congiura, dicevo.

Leggevo qualche tempo fa degli articoli-saggi scritti da Delio Tessa, un poeta dialettale milanese. In uno di questi si rammaricava che il Natale, purtroppo, non era più come quello di una volta, era tutto cambiato, tutto svilito e così. D’accordo, completamente, ma guardando la data scopro che il brano è del ’35, cioè almeno di dieci anni prima che i miei Natali fossero ancora quelli per cui valeva la pena viverli. Forse, nel 2 d.C., si è cominciato a dire che il Natale “non era più quello d’una volta”; vuoi mettere, con tutto l’accaduto e anche i Re Magi “live” !

Ma se “quelli belli” li facciamo coincidere con la nostra infanzia, allora uno l’avrei, da raccontare, quanto da ridere proprio non so, comunque andiamo.

Correva l’anno 1944, quanto di grazia non saprei ma per certo quei tempi gli anni avevano tante buone ragioni per correre. Lassù dov’ero, fra il pistoiese e il bolognese, i tedeschi ci avevano lasciato, senza reciproci rimpianti, alle fine d’agosto: gli alleati (soprattutto americani e brasiliani) erano arrivati un mese dopo.

Era la sera della vigilia di Natale; mia madre percorreva quella strada sterrata che, lasciata mezzo chilometro circa la strada principale, dopo esser passata in mezzo alle ultime tre case, continuava diritta e solitaria per altro mezzo circa, fino alla nostra isolatissima casa. A sinistra, andando, avevamo il taglio nero del fiume che muggiva di piena, A destra oltre l’acqua tutto il bianco della neve, e neve fitta e alta anche nella strada, percorribile solo per una stretta rotta scavata a forza di pala nel mezzo.

Non so o non ricordo cosa dicessimo, mia madre e io, forse si ripassavano le parole di una canzoncina natalizia che mi stava insegnando; avrei dovuto cantarla a mezzanotte issato sul palchetto del presepio costruito in chiesa, come d’usanza. “La notte di Natale è nato un bel bambino…” e cose così. Improvvisamente mia madre si fermò, e io con lei. Il fatto è che in mezzo allo stretto passaggio, in mezzo a tutto quel bianco, era improvvisamente apparsa una figura scura, un soldato americano, con uno zaino sulle spalle.

C’è da dire che i G.L.’s non erano tutti come John Wayne nei film che avrei visto alcuni anni dopo, l’ora e il luogo non erano dei migliori, insomma restammo lì un momento indecisi se voltarci e darcela a veloci gambe o affrontare la misteriosa figura, sperando che un “Buon Natale” caldo e amichevole bastasse e tutto finisse lì. Fu lui invece a farsi avanti, mormorò in para-italiano qualcosa sul Natale, capimmo che anche lui aveva un bambino della mia età, mostrò la foto, pianse un po’, poi si sganciò lo zaino, ce lo diede e se ne andò.

Per misteriose ragioni che ancora non capisco le donne nel 1944 non avevano bisogno di palestra per tenersi snelle e con tono muscolare sviluppato. Mia madre si caricò lo zaino sulle spalle e in poco tempo raggiungemmo la casa, dove raccontammo la nostra storia e aprimmo lo zaino. Giuro che non ho mai più visto una tale quantità di caramelle, cioccolate, giochi e, cosa più importante, scatolette, nella mia intera vita. Questi erano Natali!

Non solo, ma i soldati americani avevano organizzato per la serata una specie di festa per i bambini del paese, con un Babbo Natale in persona che distribuiva leccornie a dovizia. Ovvio che questo personaggio non solo non l’avevo mai visto dal vivo ma non ne avevo nemmeno mai sentito parlare, funzionando, dalle nostre parti, solo una più proletaria Befana, che arrivava la notte del 6 gennaio, e distribuiva un panforte Sapori (curiosamente dello stesso tipo che una mia zia vendeva in negozio), un massimo di tre mandarini, alcune arachidi e noci e riga, hai voglia a mettere calze di dimensioni le più generose.

Babbo Natale USA invece si faceva meno compatire, in un tripudio di festoni e luci e musiche (White Christmas?) tutto tirato in rosso con pancione e barba bianca e misteriosi ho-ho-ho di sghignazzo, in quella enorme sala di una locale pensioncina, grandezza tipo Madison Square Garden, che negli anni si dev’essere stranamente ristretta perché ora c’è un ping-pong e per giocarci bisogna farlo da fermi e vale il rimbalzo sulle pareti. Ma quelli erano Natali!

Con l’altra faccia della medaglia. Perché venne il momento della fatidica messa di mezzanotte, e successivo recital (un’intuizione di Zecchino d’oro?) di noi allegri pargoli più che posti direi issati a forza fino all’impensabile altezza del presepio.

Allegri si fa per dire, perché una gran voglia di esibirsi non ce l’aveva nessuno di noi, e andavamo sotto i riflettori (morali soltanto, si capisce) con la stessa serena compostezza delle pecore quando le brancavano per tosarle, per l’unica gioia di madri e àvole in genere, dato che anche il regista, nella persona del Sòr Priore, non credo fosse del tutto sereno, e doveva trovare, fin nelle sue più intime fibre, lo spettacolo in sé profondamente ributtante. Ma era in fondo un sant’uomo, e qualche bofonchiata imprecazione (era toscano) penso gli sia stata immediatamente e comprensivamente perdonata dall’alto.

Venne il mio turno. Il pezzo non era male: una melodia semplice ma di chiara e pronta presa popolaresca, nel suo allegro andamento tonica-dominante-tonica sottolineava un testo non banale, con spunti sociali («… sul fien sulla paglia e niente di più…»), e descrittivi («Venirono i pastori ad adorare il bambino, venirono i Re Magi ad adorare Gesù…»). Insomma un bel brano, ed ero anche, nei limiti del possibile, intonato.

C’è però da dire che mi mancavano a quei tempi, nel pur fluente eloquio, alcune vocali e un certo numero di consonanti, e l’aspetto fisico era improntato a una sana e rubiconda robustezza. Questo, unito al piglio serioso e deciso del grande interprete in nuce, fece sì che la platea, invece di commuoversi alle lacrime come aveva fatto fino a quel momento, scoppiasse a ridere di bel gusto. Mi fermai di scatto, balzai agile, insomma balzai giù dal presepe e decisamente dissi agli astanti: «Non la canto più!», dissi veramente “non la tanto” ma importava la forza serena ma decisa dell’affermazione.

Fui blandito in mille modi, e in mille modi si cercò di corrompermi, financo con l’offerta, da parte del Sòr Priore, di una manciata di santini che rifiutai con superiorità affermando di possederne già troppi, e che quella gran copia di santini mi avrebbe potuto solamente arrecare noia e stanchezza del mondo. Mentivo per la gola, perché i suddetti santini non erano banali santini domenicali, ma qualcosa di prezioso, ricchi di pizzi e trine, formicolanti di cherubini e serafini, da ricavarne in cambio pacchi interi di figurine Liebig dai mille colori, ma rimasi saldo come la roccia dei monti circostanti (niente male questo finale!).

Uscimmo e mia madre, invece di capire e apprezzare il valore morale del mio rifiuto (anche ora mi chiede stupita: «Ma perché non vai mai dal signor Maik?»), me le suonò fino a casa. Abitavamo a un chilometro circa dal paese.

Ma quelli sì, altro che storie, quelli davvero erano Natali!

I “bei” Natali andati del piccolo Gucciniultima modifica: 2024-04-17T23:53:36+02:00da piero-murineddu
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