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Zimbonia, l’ ipagliosumini sussincu ed altro ancora

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Presentazione

di Piero Murineddu 

Scrive Andrea Pilo nelle prime pagine del suo volume pubblicato nel 1999: ” Non è certo la Brunelleschiana Fiorentina o la Michelangelesca VatIcana ma è “La nostra cupola” attraverso la quale identifichiamo il nostro mondo, il nostro tempo di ieri e di oggi, le nostre storie felici o tristi. Tutto, nel bene e nel male, è stato vissuto e si vive dentro o fuori della “Zimbonia” ed è per questo che è, e resterà, oltre all’identificazione religiosa (….)”

Esagerato? Mah! Certo che da sempre per Andrea, appassionato d’arte e, per quanto so io, anche esperto in questo  campo, Giesgia Manna col suo cupolone ha avuto sempre particolare e alto significato, e il compianto studioso Nicola Tanda nella presentazione del volume, assicura che anche  tutti li sussinchi sentono l’importanza e “vicinanza” affettiva per questo luogo “simbolico”, come lui stesso afferma qui sotto. Il docente universitario, rischiando di urtare la suscettibilità di quelli tra i sorsinchi di “poco spirito”, ne dice di tutti i colori, mettendo anche in rilievo certo nostro “ipagliosumini” sia esso vero o presunto, simboleggiato appunto da la boccia manna di la zimbonia.

C’è da conoscere, imparare, riflettere, da ridere  e d’abbascià la crestha  leggendo il pensiero di uno dei fratelli Tanda, e se vogliamo, rilassarsi  “sgonfiando il petto”. Dei maschi soprattutto, in quanto quello delle donne…vanno bene così.

Al termine della sua presentazione, il Prof rileva che una delle 28 tele tra quelle realizzate dai pittori “continentali” dopo aver ricevuto una foto da Andrea, il romano Franco Fortunato“l’ha interpretata come una nuova Arca di Noè, consapevole che quei valori comunitari che essa rappresenta e che hanno caratterizzato nel passato il paese, non possono andare dispersi, poiché costituiscono la speranza di una continuità tra passato e futuro”

Sempre il “solito” e importante auspicio: non disperdere i valori comunitari, quelli che creano continuità nel tempo che passa. Cosa condivisibile da chi ha buon senso e da chi considera fondamentale avere una propria identità personale e collettiva. “Identità collettiva”: mi chiedo spesso se ai nostri giorni ciò sia ancora possibile, considerando l’estrema e spesso esasperata soggettivazione dilagante sotto tutti i punti di vista. Ma naturalmente questo è un mio chiodo fisso, che probabilmente mi porterò dietro fino all’ultimo dei miei giorni.

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La Zimbonia secondo Franco Fortunato

Scrive Andrea su questa tela: “L‘Arca, immensa, ancorata su una spiaggia con la parte centrale coperta da tre velari che cadono dall’alto di un traliccio, ma che non impediscono di vedere in tutta la sua grandezza la chiesa con la sua caratteristica zimbonia. La composizione bellissima, è giocata tutta sul colore brunobruciato, che rende maggiormente poetico questo incredibile “coro” che l’artista ha voluto innalzare in onore di Santu Pantareu e della sua zimbonia”.

Introduzione al volume

di Nicola Tanda

Il termine zimbònia deriva dal catalano cimbori, e dallo spagnolo cimborio. Il Dizionario Etimologico Sardo del Wagner reca: “in logudorese settentrionale tsinbòina (sassarese zinbònia)..; anche zimbònia. In logudorese si usa anche per “cotta”, ”sbornia” (ha leadu una zimbòina), secondo il Casu.

Le due eccezioni di zimbònia, o meglio con metatesi della “i”, zimbònia, quella del linguaggio architettonico, relativa alla cupola e quella figurata e metaforica, relativa alla sbornia, si addicono entrambe alla cupola di San Pantaleo che, come tutti sanno, è un monumento neoclassico, progettato e costruito dal padre Antonio Cano agli inizi dell’Ottocento.

La chiesa parrocchiale è concepita secondo lo stesso schema e modulo impiegato nella costruzione della cattedrale di Nuoro ed è sorta sulla pianta della precedente chiesa in stile romanico di San Pantaleo. Non erano tanti i paesi che avevano titolo per vantare una chiesa tanto imponente, la quale doveva rispondere anzitutto al ruolo e al prestigio, più che di paese, di cittadina che Sorso aveva avuto nel medioevo, come capoluogo della Curatoria della Romangia, e corrispondere così, di conseguenza, all’alto concetto che di sé gli abitanti hanno sempre avuto.

Direi che nel passato, forse oggi un po’ meno, il prestigio derivava loro dal ruolo economico che svolgevano nel settore primario, quello agricolo. Un’attività che ora svolgono in misura, rispetto ad allora, assai ridotta. Non più frutta, non più ortaggi, non vino, non olio, che possano, come una volta, competere, dal punto di vista commerciale, con la produzione di altri paesi sardi, soprattutto del Campidano, che oggi risultano al passo con la produzione agricola moderna.

Non investono molto, nonostante la scolarizzazione di massa, o forse manca un pubblico adeguatamente consapevole, nemmeno in materia grigia, che costituiva, in altri tempi, una risorsa primaria sia nella cultura che nella politica. Neanche svolgono un ruolo adeguato ed appropriato nel turismo, per il quale hanno le risorse naturali ma non quelle culturali. Necessita, per questo settore, una cultura e una vocazione che non si addice all’orgoglio, alla superbia e, diciamo pure, alla megalomania dei Sorsensi.

Megalomania proverbiale, da ispanta carrela, di cui conviene ricordare almeno un esempio, neanche molto remoto. Durante la seconda guerra mondiale, anzi proprio alla fine, quando gli Alleati angloamericani erano sbarcati in Sardegna, tra le truppe di occupazione, che avevano stanza intorno a Sorso, vi erano alcuni giocatori della squadra nazionale di calcio inglese, che erano stati mandati nelle retrovie, proprio per salvaguardare alla nazione un patrimonio così prezioso. I giovani sorsensi di allora avevano una straordinaria passione per il calcio e, nel campo sportivo, che era stato ridotto dai militari ad una specie di campo trincerato, si allenavano con loro. Non fu difficile familiarizzare e venne organizzata con i giocatori inglesi una partita, come si dice oggi, amichevole. Per dare più risalto all’avvenimento, del tutto insolito, venn fatto stampare e affiggere a Sassari, a Portotorres, ad Alghero e dovunque fu possibile, un manifesto dove spiccava a grandi caratteri la dicitura: “Incontro di calcio Sorso-Gran Bretagna”. Un fatto e un gesto che è rimasto memorabile, certo in qualche misura veritiero, ma non al punto da contrapporre il Sorso alla Gran Bretagna. Ma di questa sostanza un po’ enfatica, certo “transfottente”, e un bel po’ megalomane, erano fatti gli abitanti che hanno in San Pantaleo il loro santo patrono!

Ebbene, la zimbònia di Santu Pantareu era, in qualche modo, il segno e il simbolo di tutto questo. Anche delle sbornie, grandi anch’esse come una zimbònia, le sbornie degli amici affezionati al vino, di quello buono, che oggi molti, troppi disdegnano preferendogli, fin dall’adolescenza, i prodotti dei narcotrafficanti. Dunque addio alle solenni sbornie, ai soliloqui o ai dialoghi degli ubriachi sotto i lampioni, alle loro epiche ebbrezze, di quelli chi faziani vinu bonu e davano alle feste ed alle lunghe notti estive una nota di allegria e di baldoria, e di quelli chi faziani vinu maru e che provocavano risse, scazzottature da film western, e sassaiole di triddie che rompevano il silenzio notturno delle strade deserte, suscitando un muidu, un sibilo, ad ogni rimbalzo, finché l’eco si spegneva lontano in fondo alla strada o con fragore contro un muro.

La festa del santo patrono veniva festeggiata solennemente, e quindi con grandi abbuffate che si consumavano al mare e che ogni anno si concludevano almeno con un morto i lu fossu di la Foza, per una sincope più che per annegamento. La sera, nella piazza di San Pantaleo, il pubblico assisteva alle gare che i poeti estemporanei, i cantadores, improvvisavano dal palco cantando in logudorese, a turno, le loro ottave che celebravano le virtù o i vizi corrispondenti, amati con eguale passione, gli uni e gli altri, dagli astanti.

Amati quanto le corse dei cavalli che Sorso allora allevava, a gara, e che costituivano un vanto, specie nel Logudoro e nell’Anglona. Come del resto i fantini, che allenavano i cavalli lungo i litorali della marina, irrobustendone i garretti nelle corse al galoppo sulla sabbia delle amenissime spiagge. Tutto questo sempre all’ombra della zimbònia.

Perciò dire la zimbònia era come dire Sorso, una figura metaforica di questa oltranza, di una megalomania che sapeva tuttavia a tratti fare conti con la realtà. Di questa capacità di adattamento a situazioni concrete si può raccontare, a proposito, un aneddoto rimasto memorabile, quello del vignatiere durante una delle guerre di successione spagnola.

I Francesi erano sbarcati dal mare e c’era, in corso, un aspro confronto a Marritza tra loro e gli Spagnoli, un vignateri, in chistu indunca, duvia allistrhì li fondi, e li dì passabani. Era antzianu, no abia più anchi boni pa divintzassi currendi. Ha ciamaddu lu figlioru:”mè figliò, eu sogu antzianu e no possu currì. Tu sei giobanu, sei lestrhu e hai anchi boni. Giompi tu a la vigna e datti cuidaddu pa allistrhì li fondi. Ma, attintzioni! Affaccu a mari sò isbarchaddi li Frantzesi e v’è un cumbattimentu tra eddi e l’Ipagnori. Li Frantzesi hani la dibisa ruja, l’Ispagnori la dibisa bianca. Si vedi chi ill’utturinu sò atzendi chiddi visthuddi di ruju, li Frantzesi, debi tzichirrià forthi: “Viva la Francia”. Si inveci vedi chi atzani chiddi vistuddi di biancu, l’Ipagnori, devi tzichirrià: “Viva la Spagna”… Attentu a no ibbaglià.

Il succo dell’aneddoto è tutto in quel “Attentu a no ibbaglià”, in quell’avvertimento a badare al sottilissimo discrimine che separa, in ogni rischio, il successo dall’insuccesso, la sfida o la scommessa nella quale si cimenta l’intelligenza o la saggezza, oppure, se volete, l’astuzia o il cinismo dei sorsensi. Machiavelli userebbe la parola “virtù”, in relazione con quella di “fortuna”, per indicare la capacità di realizzare un proprio intento mediante il corto circuito di una analisi rapida di una situazione scabrosa (“la fortuna”) per venirne a capo evitando di uscirne schiacciati.

Si potrebbe anche parlare di capacità di mettere d’accordo il principio del desiderio con quello di realtà, ma è cosa che non sempre riescono a fare, poiché spesso si abbandonano anche all’estro e alla fantasia. Si potrebbe invece teorizzare una loro impermeabilità alle lotte di potere, che passano sulla testa delle persone, e dalle quali preferiscono tirarsi fuori, sia per spirito d’indipendenza, sia per pragmatismo, portati come sono a privilegiare la onesta ed eroica lotta quotidiana per la sopravvivenza. O forse la privilegiavano allora, quando, radunati intorno alla cupola, alla zimbònia, avevano un senso fortissimo della comunità. Ed erano orgogliosi che, mentre nelle chiese romanico o gotico-catalane di altri paesi, svettavano quasi sempre un campanile isolato, in San Pantaleo, invece, affiancata al campanile, una cupola, voltata sopra un tamburo, come una enorme semisfera grigio-azzurra che si poteva riconoscere dalle lontananze dei luoghi circostanti.

Non mi sorprende perciò che Andrea Pilo si sia innamorato di questo simbolo e, da vero sorsense qual è, pieno di risorse e di ingegno, istrhavaganti che lu poipu, abbia voluto fare un monumento al suo paese, chiedendo a tanti pittori qualificati sardi e non sardi, che ha potuto incontrare, e giudicare di ingegno, una interpretazione della zimbònia.

Devo ammettere che questo simbolo così calato nell’immaginario popolare ha trovato, anche presso di loro, consensi e riscontri davvero interessanti. I pittori, si sa, come tutti gli artisti, per mestiere operano sull’immaginario e sui simboli e non hanno difficoltà a crearli o  reinterpretarli

Aveva cominciato un grande pittore sorsense, forse il massimo che abbiamo avuto, Pietro Antonio Manca, con una sua minuscola zimbònia che svapora azzurra nel cielo. Ma, Andrea ha voluto coinvolgere, a più riprese, mio fratello Ausonio, che dei sorsensi aveva assimilato virtù e difetti, in misura considerevole, e pochi hanno potuto eguagliare la sua capacità di mitizzare. È stato sempre desideroso di comunicare, di sedurre, di lasciare un segno di sé, della sua presenza, e ancora continua a parlarci, ad affascinarci coi suoi quadri, colle sue nature morte. le sue marine, le sue stazioni, i suoi pescatori. Continua insomma ad esercitare quella sua arte della seduzione, insomma, quella capacità di coinvolgere l’osservatore o il suo interlocutore, con l’energia persuasiva della fantasia. Quale si può percepire in queste sue interpretazioni della zimbònia che testimoniano una memoria appassionata di questo simbolo archetipico del suo paese di origine.

Con questa simbolica cupola si sono confrontati inoltre gli altri pittori, sardi e non sardi. Tutti ne hanno avvertito la magia e l’imponenza e sono riusciti a darne una rappresentazione, o mitica o favolosa, nel rilevarne lo slancio ascensionale, A quell’ansia, propria del monumento, di ricondurre verso l’alto lo sguardo dell’osservatore, di voler richiamare la comunità dei fedeli, quella interna alla chiesa, verso la simulata volta del cielo, e quella esterna verso quei nobili valori di cui la cupola era e resta il simbolo. Alcuni l’hanno vista sospesa al cielo con fili e tirata su da un coro di angeli, altri, come in una favola delle Mille e una notte, con una mezzaluna incombente che ne accentua il carattere orientale, quasi una moschea. Qualcuno l’ha circondata di nastri e di fiocchi che corrono, portati dal vento sulle strade dandogli l’aspetto festoso di un pacco natalizio. Qualcun altro è riuscito a conferirgli un alone quasi metafisico, o l’ha incendiata di rosso acceso, degno di Scipione, o l’ha evocata dalle nebbie dei ricordi. Ancora, qualcuno ne ha tracciato un disegno delicato e leggero smaterializzandone la possanza, oppure isolata e sospesa su un drappo di porpora ornandola con un ramo d’ulivo. C’è stato perfino chi, giustamente, l’ha interpretata come una nuova arca di Noè, consapevole che quei valori comunitari, che essa rappresenta e che hanno caratterizzato nel passato il paese, non possono andare dispersi, poiché costituiscono, come ci auguriamo davvero, la speranza di una continuità tra passato e futuro.

 

Di seguito la postfazione al volume di Gianfranco Sias

“La Zimbonia” e l’invito di Gianfranco Sias a recuperare un’identità che va perdendosi

Autostima non solo per migliorare se stessi, ma l’intero mondo circostante

Quando si è avuta una vita difficile come la mia….

di Antonio Catta

La tendenza da parte dei genitori ad isolarsi nel proprio dolore e molto forte, a volte, la presenza di un figlio disabile può mettere in discussione l’equilibrio familiare e conseguentemente quello sociale; la comunità si difenderà emarginando il nucleo familiare che a sua volta identificherà nell’handicap la causa di tutti i problemi e sarà la famiglia a scaricare sul figlio disabile le proprie frustrazioni e il senso di impotenza. Se nei genitori prevale l’amarezza e la sfiducia, la gestione delle tappe evolutive non potrà essere adeguata, verrà meno la maturazione e preparazione alla vita del figlio, poiché i genitori saranno incapaci di immaginare un futuro e un senso per la sua vita. Abbiamo imparato che l’autostima è l’arma più efficace che i genitori dei figli disabili devono necessariamente sviluppare.

Per quanto riguarda la mia persona posso dire in tutta sincerità che non so recitare, mi mostro sempre per quello che sono, con l’umore che ho: se sono contento mi mostro contento, se sono arrabbiato mi mostro arrabbiato, senza preoccuparmi di come possono reagire gli altri. Quando si è avuta una vita difficile come la mia, non ci si preoccupa di come reagiscono. Ho sempre creduto nelle mie forze e sempre creduto di farcela. Molte volte ho fallito. Sono caduto, mi sono rialzato, sono caduto ancora e nuovamente mi sono rialzato, ricominciando dal punto dove ero caduto. Dalla nascita di Maria è stato così, e lo sarà fino alla fine dei miei giorni. Se un individuo pensa che non ce la farà, non ce la farà mai. Anche se è intelligentissimo, anche se ha mille talenti. Per farcela occorre avere fiducia in sé stessi.

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Alcune considerazioni

di Piero Murineddu

Quanto su riportato è una paginetta del volume “Cara moglie, cara mamma” che Antonio Catta, vigile in pensione di Sennori, cittadina sarda che si affaccia sul golfo dell’ Asinara, due anni fa circa scrisse col validissimo contributo della moglie Maria Agostina Ruiu. Nella pubblicazione si ripercorrono la varie tappe, principalmente emotive, che hanno toccato la nascita, l’accettazione e la crescita dei loro due figli disabili Maria e Giuseppe.

In fondo indico la pagina che lo scorso settembre dedicai al lavoro letterario di Antonio e alla sua  famiglia, straordinaria seppur nell’ ordinarietà della loro vita quotidiana.

Come scrivevo allora, personalmente considero questo libro – il cui autore è uno dei soci fondatori oltre 30 anni fa di ABC Sardegna Associazione Bambini Cerebrolesi (www.abcsardegna.org) – da tenere sempre a portata di mano senza assolutamente aver fretta di arrivare all’ ultima pagina per poterlo risistemare nello scaffale. Probabilmente per volerne continuare la lettura solo in quei particolari momenti in cui si ha bisogno di soffermarsi sui tanti passaggi e concetti che vi si trovano dentro e che descrivono si la vita di un piccolo nucleo familiare, ma in fondo per riflettere su come personalmente ci poniamo davanti alla nostra personale esistenza e alle scelte continue che essa comporta per poterci considerare delle Persone Autentiche, libere dalle tante maschere che spesso i contatti sociali costringono ad indossare.

Essere se stessi, coi normalissimi limiti e con eventuali pregi, avere la libertà di poter guardare l’altro negli occhi senza dover abbassare o distogliere lo sguardo, chiunque esso sia e qualunque ruolo ricopra nella società, non avere la forzatura di fingere quel che non si è per sentirsi accettati….

Per arrivare a questo, necessariamente occorre avere una buona dose di autostima, non sempre innata ma frutto di un lavoro personale e spesso faticoso. È quanto ci dice Antonio nelle sue parole, e non potrebbe essere altrimenti, impegnato com’ è stato insieme alla moglie ad aiutare a crescere due figli “diversi”, grazie ai quali si sono arricchiti e continuano ad arricchirsi di quel tesoro preziosissimo e impagabile che è la Piena Umanità.

Su “Cara moglie, cara mamma” e alcuni diversi obiettivi nello scrivere

 

Ricordando la forza di Adriano e di Susanna

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di Piero Murineddu

Venni a conoscenza della morte di Adriano Stagnaro il 4 ottobre 2011. Era stata una scoperta casuale, e seppur a distanza di tempo, piansi per la sua scomparsa.Non lo conoscevo personalmente Adriano. Tempo addietro avevo scoperto il suo sito, dove con meticolosità aggiornava sull’evoluzione della malattia che giorno dopo giorno lo stava consumando. SLA, sclerosi laterale amiotrofica. Descriveva in modo particolareggiato le sue giornate, le uscite con gli amici,le terapie, la perdita graduale della sensibilità del suo corpo. Grande appassionato di sport e di vita all’aria aperta prima che la malattia lo colpisse.

Leggendo tra le pagine, avevo scoperto che una poesia del poeta indiano Tagore, “Rendimi libero“, era diventata per lui aiuto e motivazione per non arrendersi mai. Era il testo, seppur con qualche adattamento, che diverso tempo prima avevo messo in musica. Decisi di farne un filmato e di dedicarglielo, cosa che Adriano apprezzò molto e che custodiva in una pagina dello strumento di comunicazione che gli offriva internet, col quale son certo aiutava tanti altri ad affrontare le avversità della vita con quella misteriosa forza qual’é il Coraggio di sperare contro ogni speranza.

Registrata parecchi anni fa davanti ad una fotocamera, mi rendo conto che un tantino meno affrettata sarebbe stata meglio. La riascolto col pensiero fisso sullo sguardo dell’amico purtroppo mai incontrato e su quello di tutte le persone che in questo momento sono impedite da malattie che giorno dopo giorno rubano la loro libertà.

In seguito avevo saputo che anche una mia conterranea che pativa la stessa malattia, orafa a Sassari, nel 2017 aveva concluso il suo faticoso cammino terreno. Come Adriano, il moderno mezzo informatico le permetteva di liberarsi dalla prigionia in cui la costringeva la grave patologia.

Insieme alla presentazione che Adriano faceva di se stesso nel suo sito ormai inattivo, riporto anche il particolarissimo “Te Deum”  di Susanna.

Per chi lo desidera, legato all’ argomento un bellissimo film visto nei giorni scorsi e tratto da una storia vera:

https://www.raiplay.it/video/2020/03/ogni-tuo-respiro-e02bb3a7-ab63-472d-a87c-20ab8d6b3c3c.html?wt_mc=2.www.wzp.raiplay_dati

 

Mi preparo alla morte, amando la vita fino all’ultimo secondo

 di Adriano Stagnaro

Ci sono malattie talmente terribili e devastanti  che, istintivamente, siamo portati a pensare che non possano colpirci, che siano  destinate agli “altri”.

Poi, un  giorno, ci accorgiamo con terrore di essere diventati noi stessi “gli altri” di  qualcuno.

Mi chiamo Adriano Stagnaro, sono nato il 29 settembre del 1970 ed ho la SLA. Anzi, forse sarebbe più corretto dire che ho una  qualche forma di Malattia del Motoneurone, di cui la SLA (Sclerosi Laterale  Amiotrofica) è la variante più nota e diffusa.Malattia irreversibile, incurabile e letale.

La SLA è una malattia bastarda, che non si limita  a distruggere le cellule nervose che trasmettono gli impulsi motori ai muscoli  volontari, portando il corpo ad una progressiva paralisi. La SLA, morso dopo  morso, si mangia tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta: prima  inghiotte il tuo futuro, poi comincia a sbocconcellarsi il tuo presente. L’appetito della SLA si rivolge preferenzialmente  ai progetti, ai sogni, alle speranze, alle passioni. E’ una malattia prepotente  ed egoista: non sopporta di essere messa in secondo piano, ma vuole a tutti  costi diventare il tuo Pensiero Unico.

Il Pensiero Unico, piano piano, come un cuculo nel  nido altrui, fa strage di tutti i tuoi interessi. A questo punto, nella tua  vita, resti solo tu e la malattia, non riesci più a vedere altro, non esiste più  altro. E’ come essere già morti, da vivi. Ma la SLA non ha fatto i conti con me.

Il Sito delle Anime Fiammeggianti nasce con lo  scopo di fungere da baluardo di tutto ciò che mi appassiona, di tutto ciò per  cui vale la pena combattere.È il fortino di quella vita interiore che nessuna  malattia, per quanto subdola e spietata, riuscirà mai a strapparmi.

Un anziano sacerdote, don Albino, un giorno mi disse:

“Se nessuno berrà alla fonte della tua anima, la  sorgente diverrà pantano e non servirà più a niente”.

E’ per questo che ho deciso di condividere con voi  le passioni della mia vita, attraverso il sito “Anime fiammeggianti”. Voglio raccontarvi di come io  mi preparo alla morte, amando la vita fino all’ultimo secondo. E di come si  possa continuare ad amare Dio e ad aver fede in Lui anche dopo che la nostra  vita ci è stata strappata dal Male.

Vedete, io non ho alcuna paura della morte, perché  credo nella vita eterna. E’ ciò che verrà prima della morte che mi spaventa. La morte sarà un’amica che verrà ad invitarmi a  fare un giro. Io uscirò dal mio corpo e andrò con lei, finalmente libero.

Te Deum laudamus per ogni nuovo giorno strappato alla Sla

di Susanna Campus

Cari amici, questo è il Te Deum di una malata di Sla. Sapete, quando ci si ammala, si guarda la vita con un’ottica diversa, ed è quello che è accaduto a me. Prima vivevo “distratta” dagli impegni quotidiani che riempiono le nostre giornate. Oggi, invece, ancorata al mio letto, sono costretta a guardare tutto dando un peso “diverso” (e io dico: più profondo) a ogni cosa che mi circonda. Quest’anno è stato un susseguirsi di buone e cattive notizie, eppure – se proprio devo dire con una sola parola quello che è il mio stato d’animo – quella parola è “grazie”. Sono ancora qui fra voi.

Dovete sapere che per comunicare utilizzo un sintetizzatore vocale, che nei primi mesi del 2013, dopo anni di onorato servizio, si è rotto lasciandomi senza voce. Provate a immedesimarvi. Da un giorno all’altro non potete più non solo parlare (io quello non lo faccio più da tempo), ma proprio comunicare con gli altri. Così ho dovuto ricominciare a “parlare” col cartello (cioè a “dettare” con lo sguardo le lettere raffigurate su un pannello che poi vanno a formare il mio pensiero). Non solo. Essendosi rotto il computer ho dovuto smetterla di navigare con gli occhi su internet. Una vera sciagura per una impicciona come me, cui piace moltissimo sbirciare negli affaracci altrui. E non potevo più nemmeno scrivere. su un giornale online e rispondere alle email degli amici. Così quella santa donna di mia sorella Immacolata ha fatto da computer, interpretando il movimento delle mie pupille, trascrivendo i miei pensieri, rincuorandomi quando mi deprimevo perché non capiva. Una fatica bestiale!

Poi la Sla (come fa ormai da diciassette anni a questa parte) ha ricominciato a perseguitarmi. Con i primi di luglio ho iniziato a respirare male e, quando ho fatto il cambio cannula e la broncoscopia, i medici hanno visto che la mia trachea era in procinto di rottura. Quando ho visto i volti dei miei rianimatori sbiancare ho capito che la situazione si era fatta grave. La Sla voleva ancora una volta “impedirmi di vivere” e a settembre, quando hanno dovuto ricoverarmi perché avevo un foro nella trachea, ci è quasi riuscita. Sono messa così male che non si è trovato un medico disposto a operarmi. Ora sono qui solo grazie al dottor Demetrio Vidili (che io chiamo affettuosamente “babbo”) che ha “messo una pezza” sostituendomi la cannula. Che dire? Fino ad ora sono qui anche se mi piange il cuore a pensare che, a causa di tutti questi intoppi, non sono potuta andare a Cagliari a incontrare quel gigante di papa Francesco.

Vivere in bilico, ogni giorno dover lottare non solo contro la malattia ma anche contro la tentazione di mollare tutto, non è facile. Ma, sarà che sono un tipo caparbio, sarà che sono circondata da una famiglia meravigliosa e da un’infinità di amici che mi sostengono, anche queste prove possono essere superate. La gratitudine che nasce dall’aver strappato “ancora un giorno” alla Sla è il sentimento che caratterizza la mia quotidianità. Non so, ma mi pare che questo mi aiuti anche a vedere le cose secondo una nuova prospettiva: tutto diventa importante se capisci che ti è stato donato.

Certo, la mia vita, e quella di tanti malati di Sla, non è più un’autostrada; assomiglia di più a una stradina di montagna, tortuosa e a tornanti, ma si addice bene al mio spirito da scalatrice che non s’arrende alle prime difficoltà. E poi, sapete, la strada che conduce alla vetta è ricca ogni giorno di sorprese che bisogna imparare a cogliere.

Andrea Pilo e il suo appassionato lavoro di Ricerca

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di Piero Murineddu

Una vecchiaia faticosissima quella di Andrea, affetto com’era da diverse patologie che gli condizionavano fortemente la vita quotidiana. Mentalmente, invece, un entusiasmo nella ricerca e nell’approfondimento che non lo ha mai abbandonato. Fin quando la vista e la mano ferma gliel’hanno consentito, lui continuava   meticolosamente a scrivere appunti e a conservare ritagli, con l’obiettivo di dare alle stampe la continuazione dei suoi Ammenti:

O Piè, un piazzèri ti dummandu. Mi dubaristhi và una fotografia di li trabagli ghi sò fendi i la boccia di la Zimbonia e zischamminni un’althra cu lu cabbu di una giaddhina….”.

Per i lavori di copertura della cupola di San Pantaleo, la cosa mi sembrava comprensibile, dal momento che sulla parrocchiale storica di Sorso nel 2000 ha pubblicato un volume, affidandone a vari artisti la raffigurazione pittorica, ciascuna commentata da lui, appassionato ed esperto d’arte. La motivazione della seconda foto mi rimarrà purtroppo sconosciuta. Anche se non immediatamente, l’avevo accontentato, ma le cose che ci dicevamo quando lo andavo a trovare erano talmente tante, che mi è sempre sfuggito di chiedergli il motivo di questa foto della gallina.

In altro spazio ho avuto modo di parlare del mio grande senso di riconoscenza nei suoi confronti per il lavoro certosino che aveva fatto nel raccontare la Sorso dei suoi ricordi attraverso due volumi, e il farlo attraverso lo scritto non dev’essere stata sicuramente cosa facile. Mi ricordo alcune critiche sentite da concittadini riguardo alla scrittura di certi termini, al tradurre in lettere certi suoni che abbiamo solo nella nostra particolare parlata. Certo, una grammatica in tal senso è ancora tutta da definire, ma intanto lui, con l’aiuto del suo amico Peppino Manzoni, ci aveva provato, e a mio avviso con ottimi risultati, considerando quanto la cosa non sia per niente agevole.
Qualche tempo fa, riscrivendo per la pagina FB ” Banca della Memoria” alcune registrazioni effettuate con persone anziane, avevo fatto la scelta di scrivere le parole come si pronunciano, al fine di migliorarne la lettura, come si fa col romanesco  o col napoletano, ma sicuramente anche questo  è discutibile. Aspettiamo che persone titolate diano indicazioni autorevoli a cui attenerci. L’importante è che la parlata  usata nelle case dove siamo cresciuti e con la quale abbiamo comunicato coi nostri genitori e fratelli, non venga soppiantata miseramente e definitivamente dalla sempre più insistente e a volte alquanto approssimativa terminologia di inglesismi vari. Dalle nostre parti, ma non solo, è da molto ormai che quasi ci si vergogna di parlare in dialetto, oppure, soprattutto le nuove generazioni, non lo si conosce proprio, e se si tenta di parlarlo, il risultato è alquanto miserevole. Nel contempo, si tende ad usare (e sfoggiare!) termini di derivazione anglosassone. Il conoscere lingue estere è sicuramente cosa positiva, ci mancherebbe, specialmente per permettere la comunicazione con persone che sempre in numero crescente – nonostante la tendenza al “respingimento” legalizzato dai governanti che si stanno susseguendo in Italia da troppo tempo – stanno arrivando da luoghi lontani, ma il voler ad ogni costo dimenticare, se non addirittura rinnegare quello che siamo stati, è senz’ombra di dubbio segno di debolezza.

A Sorso questo rischio di perdita di identità è sempre più evidente, probabilmente perché, ripeto, ci si vergogna di quello che son state le generazioni passate e si fa di tutto per allontanarsene. Ci son paesetti in Sardegna orgogliosissimi delle loro tradizioni, e per esempio attraverso un piccolo museo, ne perpetuano la conoscenza. Da noi sembra che si faccia tutto il contrario. I politici che si susseguono sono prevalentemente impegnati a mantenere il più a lungo possibile il piccolo potere  raggiunto, producendo più fumo che arrosto e infischiandosene (perché incapaci?) di operare seriamente per il progresso culturale dei propri amministrati. Ma anche da parte della cittadinanza sembra che non ci sia molto interesse per accrescere il senso di appartenenza e curare la propria storia. La mancanza assoluta di associazionismo che operi in tal senso ne è la prova. Adesso le cause di quest’immobilismo culturale vengono ricondotte all’infinita crisi economica, ma a mio discutibilissimo parere, è perché non vi è interesse, e l’interesse non vi è forse perché non c’è vero apprezzamento per la propria storia  e la propria cultura. Se ciò fosse vero, sarebbe un grosso e pericoloso rischio, specialmente per le generazioni future. Duole dire queste cose, ma i fatti, o meglio i non fatti, lo confermerebbero. Il praticare il proprio dialetto, parlata o lingua locale, chiamatela come volete, oppure il volersene allontanare il più possibile, è spia evidente di questa volontà o meno di recuperare l’identità perduta.

In questo senso, per me il carissimo e compianto Andrea continuerà ad essere un punto di riferimento.

Parlavo di colonizzazione culturale, e la festa di “Halloween” ne è un chiaro esempio. Nel testo che segue, a modo suo Andrea racconta cosa in questi giorni avveniva dalle nostre parti.

A conclusione, quanto Nicola Tanda scrisse di Andrea nel secondo volume “Ammenti” del compianto e indimenticabile prof di disegno

Lu cabbu di lu morthu

di Andrea Pilo

Da una zucca tumbariga, chi li babbi o li fraddeddhi l’arrigabani da campagna, ni tagliabani da la parthi di sobbra un pezzu tuttu paru chi sivia pà fa lu tappu. Pianu pianu ischuminzabani a imbiudalla cabendinni la mazza e lu semini chi no zi gittabani ma li lababani e li puniani ad asciuttà innantu a la preddabaina di li baischoni pa magnassiri più  a tardhu. Candu l’abiani beddha puridda, la trabagliabani.

La prima cosa chi faziani erani l’occi tondi tondi, lu nasu inveci era un’isthampa a trianguru, la bocca cu li denti a serrachinu era manna ma isthrinta. Finiddu chisthu appentu, furabani da casa un muzziggoni d’isthiarica chi puniani in una isthamparedda in fondu a la zucca e l’azzindiani. A lu buggiu paria avveru un cabbu di morthu. Tandu allegri e dizendi parauri impriasthaddi pa fa a timì li femmini vecci e li pizzinneddhi, girabani pa l’isthrinti senza luzi, ma era poggu e nuddha in dugna loggu, finza a candu caschunu no s’’arrabiaba e li pissighia. Fuggiani a “pedi mei aggiuddami”, e umbè di bosthi currendi pa no intrà in manu e buschassi una mazzadda da truncalli l’ossi, pirdhiani puru lu cabbu di lu morthu.

Traduzione

Da una zucca grande gialla, che i padri o i fratelli più grandi portavano da campagna, tagliavano dalla parte superiore, un pezzo che finito il lavoro serviva da tappo. Piano piano cominciavano a svuotarla ma senza buttare i semi che li lavavano e li mettevano ad asciugare sull’ardesia delle finestre per poterli mangiare più tardi. Quando l’avevano pulita bene internamente la lavoravano. Per primo facevano gli occhi che dovevano essere rotondi, il naso invece era a forma di triangolo, la bocca seghettata ma larga e stretta. Finito di lavorarla prendevano da casa, di nascosto, un pezzo di candela, la mettevano in un piccolo buco ricavato nel fondo della zucca e l’accendevano. Al buio sembrava veramente una testa di morto o meglio un teschio. Allora contenti e felici e dicendo strafalcioni per mettere paura alle donne vecchie ed ai bambini piccoli giravano per i vicoli senza luce, ma era molto poca ovunque, fino a quando qualcuno non perdeva la pazienza, si adirava e l’inseguiva. Scappavano a gambe levate e speso correndo perdevano anche la testa di morto.

Andrea, amico mio da una vita

di Nicola Tanda

Con Andrea ho cominciato a giocare a pallone, come lui ho collezionato “Il calcio illustrato” con i disegni di Silva,, anni luce prima della televisione. Con lui ho attraversato il mare per Roma sulla motonave “L’ Abbazia” della Tirrenia. Siamo cresciuti insieme con i coetanei, quelli di Sant’Anna, di lu Cabu Cossu, di Corthi Alessandria, di La Fiorentina, di La Bicocca, di Cunventu, di Pian di Gesgia, di Santa Crozi, di Lu Pultheddhu e di Cabuzzini. Eravamo uno più uno: ci conoscevamo tutti. Gli amici delle elementari erano amici per sempre. Insieme andavamo al catechismo (duttrina) e al cinema, facevamo sport, partecipavamo alle feste. Una comunità di ragazzi dentro la comunità dei grandi. Quel sodalizio, costituito nelle elementari, veniva confermato durante i viaggi in treno. Lo prendevamo quasi tutti, quelli che proseguivano gli studi superiori e quelli che lavoravano a Sassari. Andrea è stato sempre libero e autonomo nei suoi giudizi, fermo nella sua fede religiosa, artistica, sportiva, testimone della civiltà di un paese. Paese allora tranquillo, di esempio per livello culturale e morale. Paese di grandi e teatrali litigate, per strada, non di odi e vendette. Un universo generalmente ispirato dalla fede e dalla saggezza, e perciò dal rispetto e dalla tolleranza.

Carlo Maria, una Grande Persona



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di Piero Murineddu

Sono trascorsi 11 anni da quell’ ultimo giorno d’agosto quando smise di patire  per la salute malferma e per come si era ridotta la Chiesa, luogo di arroccamento sulle sue dogmatiche ed intoccabili posizioni invece che essere casa di ricerca comune, dialogo vero nel rispetto reciproco e, sopratutto, focolare accogliente per tutti, nessuno escluso.Sono certo che avrebbe dato un importante aiuto e sostegno a Francesco nel suo faticoso e osteggiato sforzo di fare pulizia nelle gerarchie cattoliche e ricondurre molti battezzati a seguire il Messaggio originario del Maestro, distogliendoli dalle falsità e dalle ripugnanti parole d’odio propagate da certi attuali e meschini politicanti.

Mi piace onorarne la memoria riportando una sua lunga riflessione pubblicato nel dicembre del lontano 1994, a riprova che il fenomeno migratorio e l’ importanza vitale di tentare tutti gli sforzi per dare risposte che non siano dettate dalla paura che porta unicamente e illusoriamente al respingimento, non è un problema nato in questi ultimi tempi.

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Ripensare un modo nuovo che permetta una convivenza pacifica

di Carlo Maria Martini

l fenomeno dell’immigrazione deve essere compreso sempre meglio come sfida che le nostre città, e ogni metropoli europea, hanno di fronte in tutta la sua evidenza e vastità.

Non è possibile pensare a interventi semplicemente di natura assistenziale né tanto meno solo di contenimento; non è possibile continuare a proporre una visione del fenomeno immigratorio come problema e non anche come possibile risorsa.

La sua complessità esige una molteplicità di attenzioni, interpella anzitutto la società, ma pure la Chiesa, la sua dimensione pastorale, i suoi processi formativi, la sua missione evangelizzatrice.

Vanno superate le impressioni sommarie e superficiali rispetto al fenomeno immigratorio che, invece, va ormai considerato quale realtà “ordinaria”, non quale emergenza.

Ritengo quindi importante creare occasioni di studio su questo argomento in modo approfondito e lungimirante. Infatti, la mancanza di una comprensione sufficientemente articolata e seria del fenomeno immigratorio porta a una ricerca affannosa di soluzioni, priva di spazi necessari per riflettere e progettare, condannandosi così a riprodurre nuove gestioni, ma pur sempre di emergenza.

Ogni Stato, europeo in particolare, ha nel suo passato, remoto o recente, una storia di immigrazione interna ed esterna. Proprio l’Italia è un esempio significativo di immigrazione interna, nei decenni che vanno dal 1930 al 1970 e, più indietro, di grandissimi flussi di migrazione verso l’estero.

Secondo le statistiche, oltre ai diversi milioni di cittadini italiani tuttora residenti all’estero, ben sessanta milioni di persone, pur non avendo la cittadinanza, discendono da emigrati italiani.

Oggi l’immigrazione ha dunque le caratteristiche di un fenomeno planetario, anche per le condizioni di sottosviluppo in cui versa gran parte dell’umanità. Come ha ricordato Giovanni Paolo II: “Una volta si emigrava per cercare migliori condizioni di vita; da molti Paesi oggi si emigra semplicemente per sopravvivere”. Inoltre, ai tradizionali movimenti dal Sud al Nord, si sono aggiunti nuovi esodi da Est a Ovest.

Si evidenzia, possiamo dire, la realtà dell’interdipendenza tra i popoli: “La pace e la prosperità, infatti, sono beni che appartengono a tutto il genere umano, sicché non è possibile goderne correttamente e durevolmente se esse vengono ottenute a danno di altri popoli e nazioni, violando i loro diritti o escludendoli dalle fonti del benessere”.

Bisogna allora riconoscere che siamo di fronte a una situazione strutturale mondiale, che chiama in causa la comunità internazionale. Ecco perché l’immigrazione in casa nostra non è fenomeno marginale o di emergenza; è piuttosto occasione di riflessione, è segno che richiede una mentalità nuova, una disponibilità a guardare i problemi con uno sguardo ampio e consapevole.

Alla nostra Fondazione S. Carlo abbiamo appunto chiesto di collocare la propria attività dentro l’orizzonte planetario. Non ignoriamo affatto gli abusi a cui dà luogo il fenomeno migratorio: pensiamo, ad esempio, a quello che i sociologi chiamano “immigrazione di assaggio”, proveniente soprattutto da alcuni Paesi vicini e pure dal Sud America, e che si caratterizza per la temporaneità e l’estrema mobilità sul territorio. Si tratta di espatrii motivati da illusioni di facile guadagno, dalla ricerca, comunque, di una rapida monetizzazione, risparmiando su tutto, approfittando di ogni occasione assistenziale, dedicandosi magari a espedienti e a traffici illegali.

Questo tipo di catena migratoria distorta, alimentata dalla grande facilità di movimento, sembra non interrompersi ed è incentivata da organizzazioni che illudono, truffano, commettono illegalità di ogni genere, estorcono fortune a tali persone. E, per questo, da una parte si esige un controllo serio e chiaramente repressivo nei confronti di chi svolge traffico illegale; ma dall’altra si richiede una capacità di esplorare tutte le possibilità di un’accoglienza mirata che formi, qualifichi e prepari anche un rientro serio nel Paese di origine o un’integrazione sufficiente e dignitosa.

Siamo giunti al punto centrale della nostra riflessione: la formazione professionale dell’immigrato. Al riguardo, tutte le realtà di ispirazione laica o cristiana, impegnate nel campo della formazione professionale, dovranno sentirsi coinvolte.

È il momento, infatti, di occuparsi attentamente dei problemi dell’inserimento e delle seconde generazioni, per non farsi trovare ancora una volta impreparati alle sfide di lungo periodo.

Sembra che le energie sia pubbliche, sia private, e la capacità propositiva sociale, siano state spese soprattutto per la fase di prima accoglienza e, per di più, affrontata spesso in modo non programmato, sulla spinta dell’emergenza, in un’ottica solo di contenimento che ha prodotto notevoli squilibri sociali.Noi crediamo che, pur se dovremo sempre far fronte all’emergenza, soltanto un’accoglienza che sviluppi la vera integrazione favorirà la capacità di governare socialmente la grande sfida posta dall’immigrazione. Questa è la ragione dei Centri di seconda accoglienza.

Ponendosi l’obiettivo di accompagnare l’inserimento nel lavoro e la ricerca della casa, favorendo una prospettiva di scambio culturale e di confronto, creando uno spazio di comunicazione rivolto all’intera città, fanno prospettare in concreto la speranza e la possibilità che l’immigrato riesca a diventare una risorsa per tutti, non un problema da subire o magari da allontanare.

Si tratta per il momento di progetti sperimentali, che intendono stimolare chi si sta scoraggiando; si registrano infatti sintomi di una certa stanchezza nel volontariato, spesso abbandonato a se stesso nell’affrontare i problemi legati alla prima accoglienza e isolato di fronte a situazioni sempre più gravi. Questo isolamento non è giusto.

Non può dunque cessare l’azione politica in tale campo e, applicando e rinnovando lo sforzo legislativo, la comunità civile non deve temere di occuparsi degli immigrati.

Se l’azione pubblica si ritrae, si finisce per incentivare la marginalizzazione dell’immigrato, considerandolo come un povero da affidare alle cure del volontariato e, talora, come un soggetto pericoloso per l’ordine pubblico. Si rischia così di favorire, a volte anche in modo strumentale, una mobilitazione popolare al rifiuto, anziché all’accoglienza.D’altra parte la stessa Chiesa deve ripensare al suo impegno pastorale di fronte all’immigrazione.

Tra mille difficoltà umane e strutturali, spesso in assenza dell’impegno pubblico, gli operatori ecclesiali si sono mossi con grande generosità offrendo e favorendo migliaia di occasioni di lavoro, di alloggio, di formazione professionale, di festa, di incontro, di sensibilizzazione.

Uguale attenzione si è avuta nelle comunità parrocchiali; ma non da parte di tutte c’è stato il medesimo impegno.Sul piano pastorale, ora, si deve reagire con forza al compito esclusivamente volontario e prevalentemente di carattere assistenziale. Non va alimentata la mentalità che considera sempre e unicamente lo straniero come un “povero”, dimenticandosi della sua cultura, del fatto che anch’egli può sbagliare; inoltre, non si possono chiedere solo diritti, bensì è necessario rispettare i doveri.

Assistere, dunque, non è sufficiente, occorre un’azione globale per l’immigrazione. È indispensabile che le Istituzioni affrontino, programmino, coordinino politiche volte all’inserimento e all’integrazione; in tale impegno non dovrà mancare la collaborazione attiva del volontariato, ma ad esso non può essere delegato ciò che attiene a responsabilità più ampie.

Sappiamo che il fenomeno migratorio è ben conosciuto nella storia della salvezza: “L’esperienza di una vita di stranieri, in esilio o comunque rifugiati in terra non propria, attraversa in profondità gli uomini e le donne delle Scritture, fino al Nuovo Testamento”.

I credenti, noi tutti, siamo un popolo in cammino verso nuovi cieli e terre nuove; per noi “Ogni terra straniera è patria e ogni patria è terra straniera”. Per questo la Chiesa avverte la tematica dell’accoglienza degli stranieri quale esperienza vicina alle proprie origini, quale occasione per rinnovare la nostra coscienza.

Possiamo dunque affermare che l’immigrazione può essere una circostanza provvidenziale anche per l’Occidente, per impegnarsi in profondità. Occorre una disposizione del cuore e vedere in tale fenomeno un appello a un mondo più fraterno e solidale, a un’integrazione multirazziale che sia segno e inizio della presenza di grazia di Dio in mezzo agli uomini.

L’immigrazione è davvero un’occasione storica per il futuro dell’Europa, occasione di bene o di male, a seconda di come la governeremo. Il mio invito è di prendersi a cuore questa realtà non come un peso da sopportare, bensì quale grande appello della Provvidenza per un nuovo modo di vivere.

Ricordiamoci che, affrontando correttamente i problemi che quotidianamente vivono nel nostro Paese gli stranieri, contribuiremo alla soluzione di tanti problemi strutturali riguardanti pure gli italiani. Non si tratta di scatenare pericolose rivalità tra persone in stato di bisogno; si tratta piuttosto di affrontare globalmente i problemi posti sul piano sociale dall’immigrazione, con vantaggio per tutti, a partire dai più deboli e dai più sfortunati.

Concludo, permettendomi di sottolineare alcune problematiche forti.

Innanzi tutto quella giuridica. Le leggi esistenti devono certo essere applicate fino in fondo, in ogni loro aspetto. Se tuttavia come sembra essersi verificato, le norme, frutto di un’elaborazione svolta in un clima di concitata emergenza, risultano lacunose, a volte imprecise, e lasciano spazio ad abusi, allora è necessario porre mano con urgenza a una nuova legge organica sulla condizione giuridica dello straniero, che tenga conto del quadro reale del nostro Paese e non sia fatta sotto la spinta di emotività sociali o per finalità di carattere strumentale.

Inoltre, accanto a quella della casa e del lavoro, è decisiva la problematica della famiglia. I problemi della donna, dei minori, della coppia, appaiono, di fatto, sottovalutati. D’altra parte, poiché molti stranieri extracomunitari sono ormai lavoratori regolarmente occupati e residenti, va posta attenzione ai ricongiungimenti familiari, unitamente all’incontro e all’amicizia tra famiglie italiane ed estere.Il successo dell’integrazione degli immigrati stranieri nella nostra società si gioca proprio sulle seconde generazioni.

Mi permetto dunque di invitare i pubblici poteri, gli operatori sociali, le comunità cristiane, il volontariato, a restare vigili su tutte le cause e le sempre nuove problematiche dell’immigrazione, a non farsi trovare impreparati e, di conseguenza, costretti all’improvvisazione e alla rincorsa affannosa delle continue emergenze.

Impariamo a governare pacificamente i conflitti, con senso di responsabilità e con amore del bene comune; cerchiamo di alzare lo sguardo e di guardare lontano; sforziamoci di lavorare insieme con lungimiranza; non temiamo di rischiare nell’iniziativa, consapevoli delle difficoltà ma insieme della grande occasione che stiamo vivendo.

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2 agosto 1940: memoria di un genocidio

Il 2 agosto in tutta Europa si ricorda uno dei meno noti tra gli stermini di massa del Novecento: 79 anni fa tremila rom furono soffocati in una sola notte

Il 2 agosto del 1944 un gruppo di soldati e ausiliari delle SS circondò le baracche che nel campo di Auschwitz ospitavano le persone rom e sinti. Dopo aver vinto una breve resistenza, le guardie sospinsero quasi 3 mila persone, quasi tutti donne, anziani e bambini – gli uomini erano stati allontanati qualche settimana prima per evitare problemi – fino alla camera a gas numero 5 del campo, dove li fecero entrare, nudi, a forza di spinte, calci e pugni. Entro la mattina successiva erano stati tutti uccisi e i resti carbonizzati dei loro corpi sepolti in fretta nelle fosse comuni scavate intorno ai forni crematori del campo.

Nella loro lingua, i rom chiamano gli anni dello sterminio Porajmos, o Porrajmos, che significa “la distruzione”, oppure Samudaripen, che significa “tutti morti”. Non sapremo mai quanti furono i rom a essere uccisi: di sicuro furono centinaia di migliaia, più di un milione secondo le stime più ampie, circa 250 mila secondo quelle più conservative. Le persone rom furono uccise dal regime nazista con la complicità dei suoi alleati, tra cui spiccava l’Italia fascista che iniziò le sue persecuzioni anni prima che Adolf Hitler arrivasse al potere.

Anche se non ebbe precedenti nella sua brutalità, il Porajmos non fu improvviso e inaspettato, come non lo fu la Shoah. Come gli ebrei, anche i rom erano da secoli percepiti come una sorta di corpo “estraneo” e “diverso” dal resto degli europei, additati cinicamente dai leader politici e religiosi come causa dei mali delle comunità nelle quali si trovavano a passare (nel 2000 la Chiesa Cattolica chiese ufficialmente perdono per aver appoggiato le persecuzioni dei rom).

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Mentre gli ebrei erano accusati di essere avidi usurai, i rom erano considerati truffatori, ladri e briganti: persone poco raccomandabili a causa del loro stile di vita vagabondo e irregolare. Diversi governanti del Medioevo e dell’età moderna cercarono di farli sparire, vietandogli per esempio di sposarsi tra di loro, con l’idea che costringendo le loro donne a sposare “buoni cristiani” si sarebbe arrivati a una naturale estinzione del gruppo. Oppure sottraendo loro i figli e assegnandoli ad altre famiglie, una pratica che ha avuto un curioso contraltare nella frequente accusa ai rom di rubare i bambini (anche alle famiglie ebree furono sotrattati per secoli i bambini e, nonostate questo, furono spesso accusati di essere loro a rubare i bambini dei “cristiani”).

Nell’Ottocento l’ostilità nei confronti dei rom venne in qualche modo temperata, almeno tra i ceti istruiti, grazie al fascino subìto dagli intellettuali romantici per le figure ai margini della società (così Victor Hugo poté rendere la gitana Esmeralda protagonista del romanzo Notre Dame e Giuseppe Verdi poteva assegnare ai rom, che chiama “zingari”, un ruolo tutto sommato positivo nella sua opera Il Trovatore). Ma alla fine del secolo, e poi sempre più nel corso dei primi anni del Novecento, il nazionalismo espasperato e la diffusione sempre più capillare del razzismo parascientifico segnarono l’inizio del periodo più difficile nella storia del popolo rom.

Persecuzioni e discriminazioni si diffusero in tutta Europa, anche nei paesi democratici, ma furono i regimi fascisti a portarle a un nuovo livello. Nelle Leggi di Norimberga del 1935, con cui il regime nazista stabiliva la persecuzione degli ebrei, i rom venivano privati della loro cittadinanza e del diritto di voto. Le deportazioni nei campi di concentramento cominciarono poco dopo, mentre con l’invasione dell’Europa Orientale alle squadre della morte delle SS (i cosiddetti “Einsatzgruppen”) fu dato l’ordine di radunare e assassinare, oltre agli ebrei e ai membri del Partito Comunista, anche tutti i rom che incontravano sulla loro strada.

Nel 1942 il capo delle SS Heinrich Himmler diede l’ordine di spostare tutti i rom dai campi di concentramento e dai ghetti ai campi di sterminio e di risolvere con il genocidio la Zigeunerfrage, il “problema degli zingari”. A soffrire di più furono i rom che abitavano nella penisola balcanica. Quasi centomila, secondo alcune stime, furono uccisi nella sola Jugoslavia dai nazisti o dal locale governo collaborazionista. Altre decine di migliaia furono uccise, lasciate morire di fame o deportate in Germania dai governi di Ungheria e Romania e dai funzionari nazisti che amministravano Cecoslovacchia e Polonia, mentre le squadre della morte SS uccidevano decine di migliaia di rom durante l’avanzata delle truppe naziste nelle immense steppe dell’Unione Sovietica.

Anche l’Italia fece la sua parte nella persecuzione dei rom, e la fece ancora prima dell’avvento al potere di Adolf Hitler. Già nel 1926 una circolare del ministero dell’Interno, di cui era titolare lo stesso Benito Mussolini, parlava della necessità di «epurare il territorio nazionale dalla presenza di zingari», accusati di essere individui criminali e asociali per «loro stessa natura». A partire dal 1938 le persecuzioni divennero sistematiche e si intensificarono ulteriormente dopo l’invasione della Jugoslavia, nel 1940, quando numerosi rom cercarono scampo in Italia dalle persecuzioni compiute dai nazionalisti sloveni e croati.

Anche se alcuni italiani, compresi alcuni funzionari pubblici, si comportarono nobilmente e cercarono di mettere in salvo più persone che potevano, le istituzioni approvarono e portarono avanti una persecuzione sistematica. Polizia e ministero dell’Interno non parlavano più di intenzioni future (“epurare il territorio”), ma ordinavano nel dettaglio come comportarsi immediatamente nei confronti della “razza” indesiderata. In un famoso documento inviato l’11 settembre del 1940 a tutti i questori e prefetti, il capo della polizia italiana ordinava di deportare immediatamente tutti i rom in località isolate e di sottoporli a sorveglianza speciale.

Il modello da seguire era quello dei campi di concentramento nazisti. Alcuni di questi campi probabilmente esistevano già da tempo, come il campo di Perdasdefogus in Sardegna, che sembra fosse attivo fin dal 1938. Su questo tema purtroppo la ricerca storica è ancora molto lacunosa e i campi di concentramento, i loro nomi, il numero di persone che vi erano detenute e le condizioni di vita al loro interno sono conosciute, ancora oggi, soprattutto per le testimonianze di chi ci è passato, più che per l’analisi accurata dei documenti dell’epoca. Sappiamo che furono creati almeno cinque campi di concentramento, mentre probabilmente prefetti e questori ne crearono molti altri, più piccoli e di fortuna, di cui non sono rimaste tracce o quasi. Dalle lettere e i racconti dei testimoni sappiamo che in alcuni campi le condizioni erano tutto sommato sopportabili, mentre in altri si moriva di fame o malattia.

Quando nel 1943 il regime fascista cadde, la maggior parte dei rom rinchiusi nel Centro e nel Sud del paese riuscì a sfuggire, ma per le migliaia tenuti prigionieri a Nord, come quelli detenuti nel campo di Greis vicino a Bolzano, la situazione si fece ancora peggiore. C’era poco cibo, nessuna disponibilità di cure mediche e il costante rischio di essere consegnati ai tedeschi. Sappiamo che la Repubblica di Salò, lo stato fantoccio nazista che aveva sostituito il regime fascista, consegnò o non si oppose al rastrellamento e all’invio in Germania di numerosi rom, anche se probabilmente non sapremo mai quanti esattamente. Alcuni di quelli che riuscirono a sopravvivere alle persecuzioni divennero partigiani. Dei dieci “martiri di Vicenza”, un gruppo di partigiani fucilati nel 1944, ben quattro erano di origine rom (i loro nomi erano Walter Catter, Lino Festini, Renato Mastini e Silvio Paina).

Dopo la fine della guerra, il destino che aveva tenuto uniti nelle persecuzioni ebrei e rom tornò a separarli. L’orrore dell’Olocausto rese politicamente intoccabile qualsiasi plateale accenno all’antisemitismo e rese impensabile l’introduzione di nuove forme di discriminazione legale nei confronti degli ebrei (da allora, anche quando l’antisemitismo è tornato a infiltrarsi nella vita politica, lo ha fatto in forme e modi in genere subdoli e meno visibili); per i rom invece le cose andarono diversamente. Il Porajmos, o Porrajmos,numericamente meno consistente della Shoah e meno studiato, rimane ancora oggi un evento sconosciuto a milioni di europei, mentre le discriminazioni, anche legali, nei confronti dei rom non sparirono mai completamente.

Nei regimi comunisti, per esempio, nonostante la promessa di eguaglianza tra tutti i cittadini, gran parte dei governi mantenne politiche segregazioniste e discriminatorie nei confronti dei rom, che rimasero per decenni soggetti a periodiche ondate di violenza, obbligati a frequentare scuole e ambienti diversi dal resto della popolazione.

Con l’allargamento a est dell’Unione Europea nei primi anni Duemila, migliaia di rom di nazionalità rumena e bulgara hanno potuto iniziare a viaggiare per l’Europa e moltissimi hanno scelto di abbandonare quei paesi dove vivevano da secoli sottoposti ad abusi e violenze. Spesso, però, il loro arrivo nell’Europa Occidente è stato accompagnato dalla rinascita di quegli stessi sentimenti da cui cercavano di fuggire, come si può toccare con mano ancora oggi in Italia come in gran parte del resto dell’Unione Europea.

Bruno Borghi e i Preti operai per consapevolissima scelta

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di Valerio Gigante (adista.it)

Insieme a figure come Giorgio La Pira, Ernesto Balducci, David Maria Turoldo, Giulio Facibeni, Luigi Rosadoni, Giovanni Vannucci, Lorenzo Milani, Enzo Mazzi, don Bruno Borghi è senz’altro tra coloro che più fortemente hanno influenzato e favorito la nascita di quell’originalissimo laboratorio politico ed ecclesiale che fu la Toscana degli anni ‘50 e ‘60. E che diede origine, oltre che alla grande stagione del rinnovamento conciliare, anche all’apertura del dialogo tra cattolici e comunisti. La sua figura è forse meno conosciuta di altri protagonisti di quel periodo, Borghi fu però tra coloro che, in ambito ecclesiale, fecero le scelte più coraggiose e dirompenti, “sempre in prima linea – scriveva Enzo Mazzi – nella scelta delle realtà umane più emarginate, umiliate e offese. Ma è troppo facile parlare – come spesso si fa nel mondo cattolico – di scelta dei poveri o di ‘scelta preferenziale dei poveri’, come dire si scelgono sia i poveri che i ricchi con un occhio di preferenza verso i poveri. Il che significa sostanzialmente elemosine coi soldi dei ricchi e moralismo. No, per Bruno Borghi la scelta dei poveri, fin dal seminario negli anni Quaranta, ebbe il significato politico in senso lato di scelta di classe”.

Nato nel 1922, don Borghi fu ordinato prete alla fine degli anni ‘40: nel seminario di Firenze era stato compagno di don Lorenzo Milani, con il quale conservò una profonda amicizia. Milani (come testimonia l’epistolario tra i due, in parte pubblicato nell’edizione Mondadori delle Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana) trovò in Borghi, più vecchio di lui di qualche anno, un esempio ed un solido punto di riferimento nel suo processo di “sborghesizzazione”.

Già nel 1950, infatti, Borghi aveva scelto, subito dopo la scomunica di Pio XII ai comunisti e in piena guerra fredda, di lavorare in fabbrica. Don Bruno desiderava immedesimarsi totalmente nella condizione della classe operaia, in cui vedeva la presenza di valori e istanze capaci di rivitalizzare una realtà sociale ed ecclesiale in cui cominciavano, dalla base, a nascere i primi fermenti del rinnovamento.

Lavorò in diverse fabbriche fiorentine, con un progetto complessivo, capace di coinvolgere dal basso diversi soggetti sociali, di integrare fabbrica e territorio, lotte sindacali e lotte per i servizi e le riforme, impegnandosi perché la classe operaia uscisse dalla propria condizione di separatezza e trovasse collegamenti con altri soggetti sociali di trasformazione, le donne, gli studenti, i preti e i cristiani impegnati nel territorio e nelle parrocchie più avanzate.

Nell’ottobre 1964 fu autore, insieme a don Milani, di una “Lettera ai sacerdoti della diocesi fiorentina”, in cui chiedevano ai loro colleghi sacerdoti di rompere il muro di omertà ecclesiastica e di prendere apertamente le difese di padre Balducci e di mons. Gino Bonanni (rettore del seminario di Firenze), contro l’autoritarismo del vescovo Ermenegildo Florit, espressamente inviato a Firenze per normalizzare la diocesi dopo la stagione del card. Elia Della Costa. Durissima, pochi giorni dopo, la risposta di Florit, che parla di due sacerdoti che “tanto avventatamente e nella forma più inopportuna, hanno dato a me, loro Vescovo, pubblico motivo di sofferenza ed alla Comunità diocesana ragione di frattura e di dissenso”. A Milani e Borghi il cardinale assicura di poter ottenere da lui, “in ogni momento, le lettere di escardinazione e procurarsi così quella libertà e serenità che è da loro richiesta, scegliendosi una Diocesi che sia in grado di corrispondere alle loro esigenze”.

Negli anni successivi, Borghi, di nuovo a fianco di Milani nel denunciare l’ambiguo ruolo dei cappellani militari nell’esercito e nella difesa dell’obiezione di coscienza, allora (e fino al 1972) fuori legge: fu infatti autore di una Lettera aperta ai cappellani militari di poco precedente alla più famosa “Lettera ai cappellani militari” di Milani.

Nell’ottobre del 1968, fu al fianco di un altro ex compagno di seminario, don Enzo Mazzi, che la Curia aveva cacciato dalla parrocchia dell’Isolotto insieme a don Paolo Caciolli. Contro l’autoritarismo del vescovo e delle gerarchie, la comunità dell’Isolotto occupò la chiesa in segno di protesta. In quell’occasione don Sergio Gomiti, parroco della Casella (periferia di Firenze), diede le dimissioni dichiarandosi corresponsabile delle accuse che avevano portato all’allontanamento dei preti dell’Isolotto. La stessa cosa, poco dopo, fece anche don Bruno Borghi, allora parroco di Quintale. Nel dicembre del 1969 Borghi sarà in piazza dell’Isolotto a celebrare, con don Enzo Mazzi e il teologo spagnolo Ruiz Gonzalez, la prima veglia di Natale all’aperto celebrata dalla comunità dell’Isolotto.

In seguito Borghi abbandonò il sacerdozio. Decise di dare vita ad una famiglia ed ebbe un figlio. Se terminò il suo impegno all’interno della istituzione ecclesiastica, non finì quello in difesa degli oppressi. Negli ultimi anni Borghi era impegnato a fianco dei carcerati, come volontario nel carcere fiorentino di Sollicciano. Nessun intento assistenzialistico, ma – come nella stagione vissuta da prete operaio – la volontà di vivere accanto agli ultimi per lottare al loro fianco.

Per questo, nei mesi prima di morire, era tornato a denunciare pubblicamente il clima di intimidazione e le violenze psicologiche e fisiche cui vengono sottoposti i detenuti: “Quando sentiamo raccontare – aveva scritto – con quale rituale si svolgono alcune di queste violenze, il pensiero corre a Guantánamo, ad Abu Ghraib. Questi luoghi dell’orrore possono incendiare la fantasia di menti malate, fare scuola? Come volontario vengo da un’altra scuola. Si chiama Costituzione della Repubblica Italiana. L’art. 27 della Costituzione dice: ‘Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e devono tendere alla rieducazione del condannato’. La mia presenza a Sollicciano nasce direttamente da questo articolo. Se la finalità della pena è esclusivamente educativa, è incompatibile con ogni tipo di violenza”. Perché se “l’utopia di una società senza carcere è molto lontana”, “l’art. 27 della Costituzione ci fa sperare che possiamo liberarci di questo carcere”.

https://pretioperai.it/chi-siamo/

Relazione di Matteo Zuppi del 19 giugno scorso a Bologna, durante il primo seminario nazionale dedicato ai preti operai, oggi in Italia circa 110

https://pretioperai.it/bologna-19-giugno-2023-3-la-relazione-del-card-matteo-zuppi/

Il prete in fabbrica per lavorare, non per predicare

di Carlo Giorni ( FQ)

1968. Scoppia la rivolta degli studenti, la Fiorentina ye-ye vince a sorpresa lo scudetto e a Firenze entra in crisi il rapporto tra mondo cattolico e industriali. Succede infatti che alla Gover, fabbrica di prodotti di gomma, il proprietario Ugolino Ugolini, che nel 1971 diventerà presidente della squadra viola (sarà lui ad acquistare Giancarlo Antognoni) licenzia un operaio un po’ particolare che indossa la tuta blu ma è un prete. Si chiama don Bruno Borghi, grande amico di don Lorenzo Milani. Motivo? Appena messi i piedi alla Gover, don Borghi si era subito schierato dalla parte degli operai e aveva iniziato a denunciare le condizioni sanitarie in fabbrica, i turni di notte, il lavoro massacrante. Così un giorno Ugolini sbrocca e, attorniato da duecento operai, inveisce e urla contro il prete: “Se ne vada via dalla fabbrica, lei me la rovina”. Il licenziamento di don Borghi, il primo prete operaio in Italia, nel 1950 alla Pignone, diventa un caso nazionale. Il direttore della Nazione Enrico Mattei titola un suo editoriale: Sacerdoti comunisti. Ma in difesa del prete operaio scende in campo Giorgio La Pira con una lettera al papa Paolo VI (“Don Borghi? Parla poco, prega, lavora, soffre, ama”), pubblicata per la prima vota da Beniamino Deidda nella biografia “Bruno Borghi. Una vita senza padroni”, con prefazione di Tomaso Montanari.
L’esempio di don Borghi si diffonde in Italia. Nel 1956 a Viareggio don Sirio Politi inizia a lavorare in un cantiere navale e a Firenze don Renzo Fanfani in una vetreria. Il fenomeno si allarga. La questione operaia infiamma la coscienza di molti preti che scelgono la fabbrica come il luogo per eccellenza della loro missione sacerdotale. Sull’esempio di quanto era avvenuto in Francia, subito dopo la guerra. Tutto è iniziato nel 1943 quando uscì il libro inchiesta “Francia: terra di missione” dell’abate Godin che metteva in evidenza la lontananza dalla Chiesa della classe operaia. Il cardinale di Parigi Emmanuel Suhard decide di fondare la Missione di Francia per recuperare i “lontani” a Dio e concede ad alcuni preti di indossare la tuta degli operai. Ma l’esperienza dura pochi anni perché nel 1954 Pio XII ordina a tutti i preti operai di abbandonare le fabbriche e di tornare in parrocchia.
Da noi, in Italia, l’esperienza dei preti operai riprende con fatica e molti pregiudizi – ricorrente l’accusa di comunismo – sulla spinta del Concilio Vaticano II. Pochi i vescovi però che tollerano l’esperienza: Michele Pellegrino a Torino, Enrico Bartoletti a Lucca e Alfredo Battisti a Udine. Nel 1985 la Cei , la conferenza italiana dei vescovi, invita due rappresentanti del movimento dei preti operai al convegno di Loreto dal titolo “Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini”. Ma è l’ultimo invito. Nella Chiesa di papa Wojtyla e poi di Ratzinger non c’è posto per i preti in tuta.

Il filo spezzato è stato riannodato in questi giorni, 38 anni dopo, ad opera del cardinale Matteo Zuppi che ha convocato a Bologna i preti operai ancora vivi e operanti per dire loro che sono un fiore all’occhiello di papa Francesco: “Talvolta la vostra aspra critica alla Chiesa può aver radicalizzato le posizioni, ma penso che oggi sia il momento di ribadire a tutto tondo che la vostra è un’esperienza di Chiesa. Senza di voi i modelli di evangelizzazione sarebbero più stantii. Per questo desidero rendere lode al Signore per quello che siete e che siete stati”.

Il “profetismo” di Giovanni Franzoni, instancabile cercatore di una fede autentica

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Brevi note introduttive

di Piero Murineddu

Tre testi che aiutano la conoscenza di un uomo è un credente del tutto particolare com’è stato dom Franzoni.

Nel primo, insieme al ricordo appassionato durante il convegno di due giorni in memoria dell’amico ed ex abate ad un anno dalla sua morte avvenuta nel luglio 2017, Luigi Sandri parla delle motivazioni e traccia i momenti salienti che hanno caratterizzato la vita della Comunità di Base di via Ostiense 152b a Roma, nata al seguito delle dimissioni imposte dalle gerarchie vaticane all’allora abate della vicina Basilica di S.Paolo fuori le mura. Col suo intervento, Sandri, giornalista e scrittore, oltre che membro egli stesso della Comunità romana, che diversi anni fa ebbi personalmente l’ opportunità di conoscere durante la mia partecipazione ad un loro raduno domenicale, ci aiuta a conoscere meglio la realtà di queste piccole comunità di cristiani che, in modo consapevole e maturo, si sforzano di portare avanti un continuo lavoro di ricerca per vivere una fede non avulsa ma al contrario completamente incarnata nella realtà sociale, con non rare prese di posizione che divergono dalle indicazioni delle gerarchie ecclesiastiche. Ciò potrebbe e dovrebbe essere motivo di arricchimento per tutti, e non solo per chi si ritiene appartenente alla Chiesa, sia essa cattolica o di altre confessioni.

Nel secondo articolo di Fabrizio Giusti, scritto all’ indomani del decesso, veniamo a conoscenza di alcuni particolari che portarono, quasi costrinsero Franzoni ad avviare una Comunità di Base a pochi passi dall’ abbazia.

Nel terzo scritto, tratto dalla sua “Autobiografia di un cattolico marginale”, è lo stesso Giovanni che si racconta

Il “profetismo” di dom Franzoni

di Luigi Sandri

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In quanto Abate della basilica di san Paolo fuori le mura, Franzoni partecipò alle due ultime sessioni del Vaticano II, nel 1964 e ’65: fu, dunque, a tutti gli effetti, un “padre” del Concilio. In quella sede egli non intervenne mai nelle sedute plenarie, ma soltanto nelle riunioni dell’episcopato italiano; racconterà, poi, che egli entrò in quella solenne assemblea come “conservatore” e, a poco a poco, cambiando opinione su molti temi “caldi”, si avvicinò ai “progressisti”. Non inventiamo noi queste categorie che, prese con discrezione, allora erano usate dagli stessi padri conciliari.

“Padre” del Concilio, Giovanni volle diventarne “figlio”, e cioè impegnato a fare di quel magistero la stella polare del suo agire come monaco, come abate e come cristiano. Da questa scelta programmatica tutto, logicamente, discese.

Fu un cammino coerente e, proprio per questo, cosparso di spine. Del resto, non fu facile per nessuna persona nella Chiesa cattolica romana fare propri i nuovi paradigmi ecclesiali dischiusi dal Vaticano II, e calarli nella propria realtà, personale e istituzionale, per meglio vivere l’Evangelo.

Giovanni si impegnò, dunque, nell’ecumenismo, promuovendo i “Colloqui paolini” dove studiosi cattolici ed evangelici approfondivano insieme il messaggio dell’apostolo delle genti; accogliendo con grande calore, nella basilica Ostiense, il patriarca di Costantinopoli Athenagoras e il patriarca di Alessandria e papa copto, Shenouda III.

Si impegnò nel campo liturgico, per dare attuazione a quella partecipazione del popolo di Dio alla celebrazione eucaristica, tanto raccomandata dal Concilio. Proprio questa decisione portò a conseguenze che, là per là, non furono forse previste. A livello locale, cioè nella concreta situazione del minuscolo territorio sul quale l’abate aveva autorità magisteriale, e nella parrocchia di san Paolo, “popolo di Dio” significava operai, operaie, casalinghe, impiegati e insegnanti uomini e donne, teologi, ragazzi e ragazze variamente impegnati in attività sociali.

I diversi gruppi di giovani, sia quelli dell’Azione Cattolica che quelli appartenenti agli scout, cominciarono a incontrarsi e, con le loro riflessioni, aiutarono a incarnare il Vangelo nella realtà quotidiana, anche realizzando concreti episodi di solidarietà come, ad esempio, quello che vide la partenza di una di loro come “missionaria laica” per curare malati di lebbra in Ruanda.

Giovanni più e più volte invitò i suoi fedeli a partecipare, sabato sera, nella “sala rossa” del monastero, a riflettere con lui sulle letture bibliche della domenica seguente. L’avvio fu timido e lento ma, a poco a poco, un centinaio di persone si unì all’impresa. Quella fu per tutti e tutte una grande scuola: per la prima volta – almeno in quella zona di Roma – la gente comune prendeva la parola di fronte al suo pastore e, insieme con lui, iniziava a confrontarsi sulla Bibbia. E, da parte sua, l’Abate imparò a rendersi più consapevole dei problemi della gente.

Dunque, collegare i messaggi delle Scritture con la vita delle persone e con i drammi del mondo, spostò l’asse di una predicazione ecclesiastica, prima, di solito, astratta e lontana.

Proprio per favorire la partecipazione alla liturgia, l’Abate sollecitò le persone presenti ad intervenire spontaneamente alla “preghiera dei fedeli”, durante la messa domenicale di mezzogiorno in basilica: all’inizio sembrava un momento di pie orazioni ma, quando si pregò perché strutture ecclesiastiche non collaborassero ad operazioni bancarie torbide, in Vaticano cominciarono a turbarsi.

Ancora, guardando al mondo del lavoro, Franzoni espresse piena solidarietà agli operai di una fabbrica della zona, licenziati. Accolse, a “pari merito”, chi votava per partiti legati alle gerarchie ecclesiastiche, e chi sosteneva quelli di sinistra.

Scoprì, poi, l’Abate, insieme ad alcuni dei suoi “parrocchiani”, anche il mondo del disagio mentale favorendo, in ciò aiutato da psichiatri già collaboratori di Basaglia, l’uscita e la cura di ragazzi prima in pratica rinchiusi a Santa Maria della Pietà, il manicomio di Roma, fino ad accogliere in casa sua uno di loro.

Pure la questione della guerra e della pace fece il suo ingresso nel monastero benedettino di san Paolo: l’abate Giovanni, e le persone più vicine a lui, affrontarono, anche alla luce della testimonianza di Gandhi, il problema della nonviolenza come metodo per sciogliere i nodi cruciali del mondo.

Nel 1970 Franzoni scrisse al presidente Saragat, perché alla festa del 2 giugno non fossero più soldati in armi a sfilare, ma rappresentanti della società civile. L’anno dopo, quando scoppiò la guerra che avrebbe infine portato alla nascita del Bangladesh, Franzoni digiunò invocando pace.

Coerentemente con questa ispirazione, Giovanni dette piena solidarietà agli obiettori di coscienza rinchiusi nel carcere militare di Gaeta e incoraggiò poi chi decise di partire per il servizio civile.

Alfiere della libertà di parola, anche nella Chiesa romana, Giovanni diede un apporto fondamentale alla nascita nel 1972 di Com, che poi si unì al periodico evangelico Nuovi Tempi e, infine, si trasformò in Confronti, rivista da lui sostenuta e a cui collaborò fino alla fine per riflettere sul sempre nuovo intreccio fede-politica-vita quotidiana.

L’anno dopo, era il 1973, Franzoni celebrò due matrimoni anticoncordatari, significativi di un impegno civile a cui resterà sempre fedele.

Nel giugno del 1973 l’abate Franzoni pubblicò la lettera pastorale “La terra è di Dio” nella quale denunciava, fra le altre, le responsabilità vaticane nella speculazione edilizia a Roma. La misura, secondo le autorità d’Oltretevere, già preoccupatissime per le preghiere “libere” in basilica, era colma.

Giovanni, in luglio, accettò di dimettersi e lasciò il monastero: lo accompagnò una parte di quelle persone più convinte della bontà dell’impegno ecclesiale e sociopolitico da lui auspicato.

Sorgeva in tal modo, formalmente, la Comunità cristiana di base di san Paolo, in germe già nata con le riflessioni pubbliche sulle Scritture e la partecipazione attiva alla celebrazione domenicale in basilica.

Iniziò così la nuova vita – in certo senso – di Giovanni. Questo cammino si intrecciò da subito con un evento politico di grande rilevanza in Italia: il referendum per la legge sul divorzio.

Egli, pur sempre monaco benedettino, si batté per la libertà di coscienza e, siccome il Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana nel febbraio del 1974 aveva fortemente invitato a votare “SI” per l’abrogazione, egli due mesi dopo, con un piccolo ma denso libro, intervenne sostenendo il diritto alla libertà di coscienza, anche per i cattolici, in quel voto; e precisando che lui, il 12 maggio, avrebbe votato “NO” all’abrogazione di quella legge.

Gli fu allora proibito, dalle autorità ecclesiastiche, di andare in giro a fare conferenze su quel tema; egli obbedì ma, ugualmente, fu sospeso a divinis. E quando, due anni dopo, annunciò che alle elezioni del giugno del 1976, avrebbe votato PCI, fu ridotto allo stato laicale.

Valutando a diversi decenni di distanza questi eventi, non si può evitare di porsi una domanda: “Con quelle sue scelte, Giovanni fu fedele al Concilio, o un interprete arbitrario dei suoi contenuti?” Per noi, che abbiamo accompagnato i suoi passi per oltre quarantacinque anni, la risposta è: fu fedele.

Intanto, anche – ma non solo – per la nuova situazione canonica in cui era stato posto Giovanni, nella Comunità di san Paolo si avviò una corale ed approfondita riflessione su un problema di straordinaria importanza: i ministeri ecclesiali.

Con l’aiuto di illustri esegeti, approfondimmo il pensiero e la prassi di Gesù in proposito: scoprimmo che egli, per i suoi, non parla mai di “sacerdozio”, ma ipotizza “ministeri”, cioè servizi alla comunità, e ci spiega che solo l’amore per l’altro, tanto più se questi è uno degli ultimi della terra, è sacro.

Su questa premessa cadono dunque antiche certezze e si delegittimano strutture di potere che caratterizzano le religioni e le chiese, a cominciare dalla Chiesa cattolica romana. Questa comprensione portò con sé una nuova consapevolezza della questione “donna nella Chiesa”, prima solamente accennata nella nostra comunità.

Infine, con la coscienza e comprensione evangelica via via acquisite nel nostro percorso di ricerca, le nostre celebrazioni andarono cambiando, fino ad arrivare ad una celebrazione corale, in cui nessuno occupa il posto di presidente dell’Assemblea e dove, tutti e tutte, insieme ripetiamo le parole pronunciate da Gesù nell’ultima cena e, indifferentemente, qualcuno o qualcuna di noi ripete il gesto di spezzare il pane.

Nel nostro piccolo, “l’altra metà della Chiesa” aveva ritrovato il suo posto, il suo protagonismo e la sua dignità. Giovanni, da parte sua, seppe interpretare in maniera condivisa il suo ruolo pastorale: nessun gesto magico nella nostra celebrazione, nessun riferimento al “sacro” come alibi per mantenere strutture gerarchiche e oppressive, ma solo l’affermazione di quell’amore emblematicamente, e più volte, ricordato nella parabola del buon samaritano.

La Comunità nel corso dei decenni, e sempre con l’apporto fecondo di Giovanni, è stata partecipe del movimento delle comunità cristiane che si è caratterizzato per i suoi connotati anti-autoritari e non-violenti.

Le nostre prese di posizione laiche e anticoncordatarie hanno conosciuto momenti di mobilitazione e partecipazione a campagne di opinione sui temi dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole e contro le figure istituzionali dei cappellani militari nell’esercito.

Il ricordo di una figura emblematica come quella di Giordano Bruno e del suo martirio ha visto sempre Giovanni partecipe e consapevole. Coerentemente, quando abbiamo celebrato i quarant’anni di vita della nostra Comunità, l’abbiamo definita come uno spazio di libertà e un cammino di ricerca; non quindi una struttura monolitica ma un mosaico di storie e di sensibilità personali capaci di convivere e interagire nelle loro diversità.

Tutti, a turno, organizzati in diversi gruppi su base territoriale o tematica, propongono argomenti su cui incentrare la celebrazione eucaristica, letture, preghiere, non necessariamente mutuate dal calendario liturgico.

Da questo materiale Giovanni sapeva attingere e animarlo con le sue interpretazioni “spiazzanti” del vivere la fede ma anche con le sue battaglie civili come quella in cui si schierò con le donne, con tutte le donne, a favore dell’autodeterminazione delle stesse e per la difesa della legge n°194 che regolamentava l’interruzione volontaria di gravidanza.

Tutti noi ricordiamo i suoi interventi domenicali, ricchi di dottrina e di vita quotidiana, capaci di spaziare fra suggestioni buddiste, sure coraniche o midrash della tradizione ebraica; così come la sua umana capacità di accogliere la signora Welby che si era vista rifiutare i funerali religiosi per il suo Piergiorgio e da lì prendere lo spunto per avviare una riflessione sul cosiddetto fine vita, o, meglio, sul diritto a “vivere la propria morte”.

Franzoni a tutti riconosceva diritti di cittadinanza: nella società civile e nella Chiesa. E noi con lui abbiamo faticosamente imparato le vie difficili della solidarietà: per popoli oppressi, per il Guatemala attraverso la fraternità pluridecennale con l’esperienza del “Mojoca” animato da Gerardo Lutte, per i profughi richiedenti asilo, per gli afgani, per i rom.

Ciascuna di queste realtà ha trovato in comunità diritto di cittadinanza e ascolto ospitale: dalla scuola di italiano, alla mensa solidale de “La sosta”, pensata e voluta proprio da Giovanni. A queste si aggiungono altre occasioni di solidarietà che ci siamo sforzati, pur coi nostri limiti e contraddizioni, di coltivare nel corso degli anni.

Non è certo un caso se gruppi o associazioni di omosessuali o LGBT, ogni tanto celebrino con noi l’assemblea domenicale sentendosi riconosciuti nelle loro identità.

Giovanni decise di unire la sua vita a quella di Yukiko: questo incontro con la cultura giapponese e le religioni orientali gli aprì scenari ignoti ad un occidentale e lo avvicinò ancora di più alle problematiche del pacifismo attraverso la riflessione di una società che aveva conosciuto la bomba atomica.

Continuò a spendersi per le cause ecclesiali, sociali e politiche che gli stavano a cuore. Sostenne la causa palestinese, visitando i campi profughi del Libano; ebbe (avemmo) incontri festosi e fraterni con vescovi dell’America latina legati alla teologia della liberazione, e partecipe solidarietà con l’azione e il martirio di monsignor Oscar Romero; con vari libri approfondì la questione femminile nella Chiesa e fu sensibile alle istanze della teologia e della prassi femminista; affrontò temi teologici tabù, come quello esaminato nel libro “Il diavolo, mio fratello”; si impegnò nella città, come esponente eletto in un municipio, per il bene-essere di Roma.

Pur affaticato, per i malanni dell’età, egli non abbandonò nessuna battaglia. Ma, inevitabile, arrivò a poco a poco il tramonto fisico: la quasi cecità che, negli ultimi anni, lo afflisse, fu per lui un doloroso handicap. In merito, possiamo testimoniare che egli affrontò la malattia con pazienza e, anche, con una rara dose di humour. Anche del tumore che lo colpì – e che, e lo sapeva bene, avrebbe affrettato la sua fine – egli ragionava con ammirevole distacco.

Per quanto non inattesa, il 13 luglio 2017 ci giunse, come un fulmine, la notizia della sua morte improvvisa. Nella veglia funebre, in comunità, venne a pregare con noi pure l’abate di san Paolo. E il 15 luglio, quando la bara di Giovanni veniva portata nella sala polivalente del Centro “Parco Schuster”, nei giardini antistanti la basilica, ove si sarebbe celebrato il funerale – e ad esso fu presente anche umile gente del quartiere che aveva amato, oltre a persone cristiane non cattoliche, e musulmane – per disposizione di don Roberto le campane della basilica suonarono.

Per noi Giovanni Franzoni è stato un profeta che ci ha fatto capire cosa voglia dire essere “chiesa altra”: non dunque un’altra chiesa risultato di una divisione o di uno scisma, ma un modo radicalmente altro per cercare, pur consapevoli dei suoi e nostri limiti, di vivere la memoria e la testimonianza di Gesù.

Giovanni si è battuto, anche nei suoi ultimi scritti su Confronti, contro le facili canonizzazioni e noi non gli faremo questo torto; possiamo solo testimoniare che per molti di noi è stato maestro di fede e di speranza, al di là e oltre le religioni. È dunque responsabilità nostra, e dell’intera comunità dei credenti, che la sua eredità non vada perduta. Egli ha onorato, in un tempo, ecclesiale e politico, diversissimo da quello di Benedetto da Norcia, l’antico mandato ora et labora.

Questo ha fatto Giovanni, ormai “cattolico marginale” (come lui amava definirsi), segnato da grande mitezza, passione ecclesiale e rigore laico.

La sua memoria sia in benedizione.

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Il cercatore di una fede autentica

di Fabrizio Giusti

Giovanni Franzoni non è stato un credente come gli altri: ha spaccato le opinioni, ha messo in circolo delle idee, ha fatto opinione.

Fu il più giovane italiano alle ultime due sessioni del Concilio Vaticano II. A metà degli anni settanta, le polemiche per le sue posizioni lo portarono all’estromissione dal suo incarico. Nella Santa Sede le sue critiche alla Chiesa e alle presunte collusioni con i poteri forti, il favore verso il divorzio, la dichiarazione di voto per il Pci, l’idea di far costruire dal Vaticano le case popolari per i poveri dei quartieri, non era state digerite. I tempi, quei tempi in particolare, non lo consentivano. La sua omelia si era trasformata in un fatto condiviso, in un perpetuo confronto con i laici. Sui muri del quartiere apparvero scritte come “Franzoni Giuda”.

Non fu mai scomunicato, come si è erroneamente scritto in qualche biografia, ma ridotto allo stato laicale. Animò la Comunità di Base di San Paolo, in un locale di via Ostiense. Si è definito “Un cattolico marginale” in un autobiografia pubblicata pochi anni fa da ‘Rubbettino’. Una definizione azzeccata. Dopo il rumore della guerra ideologica, è stato infatti messo ai bordi, dimenticato, pur avendo sempre voce, dialogo ed intelligenza acuta.

“In Vaticano – raccontò in un intervista a “La Repubblica”, citando i tempi dell’allontanamento – mi denigravano. Dicevano che mi ero venduto al Pci. Una domenica in basilica un giovane pregò perché suo figlio potesse crescere in una Chiesa dove non si faceva speculazione finanziaria. Paul Mayer, a quel tempo segretario dei Religiosi, reagì. Mi disse che visto che ero così “democratico” dovevo accettare le sue condizioni: sottoporre ogni atto pubblico al parere dei superiori. Presi tempo. In una riunione della Comunità si alzò Vincenzo Meale. Disse che dovevo obbedire perché altrimenti sarei stato l’unico a pagare. Però, spiegò, “è certo che se accetta le censura, la mia esperienza con la Comunità finisce qui”. Fu un lampo, un’illuminazione appunto. Risposi: “Ho capito”. E il lunedì seguente dissi a Mayer che volevo dimettermi. E così ebbe inizio la mia nudità”.

La nudità, appunto. Franzoni ardiva a recuperare il Gesù autentico, quello spoglio di orpelli, il messaggero di una nuova visione del mondo e dell’umanità, scevro da decorazioni o addirittura ricchezze. Fu soprannominato “L’Abate rosso” (ai tempi della divisione del mondo tra Ovest ed Est avere addosso un’etichetta era molto facile). Nel periodo del referendum sul divorzio, che interrogò profondamente il mondo cattolico nonostante la presa di posizione ufficiale, gli dissero di cercarsi una diocesi.

Chiese il trasferimento a Frascati, nei Castelli Romani. Nei suoi ricordi, spiegò l’aneddoto così: “Volevo che l’esperienza con il nostro gruppo di laici non finisse con la mia uscita da San Paolo. Cercai di nuovo il Cardinal Poletti, e, dopo avergli spiegato che la sentenza di sospensione a divinis era a mio avviso invalida perché io avevo ubbidito all’ingiunzione di non parlare più in pubblico disdicendo tutti gli appuntamenti, lui ammise che forse effettivamente c’era stato qualche errore ma si appellò alla mia comprensione delle procedure e delle prassi ecclesiastiche per cui non dovevo aspettarmi che la Chiesa ammettesse pubblicamente di avere sbagliato. Mi suggerì inoltre di trovare un vescovo benevolo pronto a incardinarmi nella sua diocesi.

Contattai Monsignor Luigi Liverzani, a Frascati, la diocesi più vicina. Era una persona informata, aperta, vicina al mondo del lavoro, mi avrebbe preso nella sua diocesi senza alcuna condizione. Presentai quel nome a Poletti e il vicario mi rispose che Frascati era troppo vicina a Roma. «C’è un chilometraggio minimo, vostra Eminenza?».

Così l’ex Abate aprì una sua Comunità di Base. Si era già lasciato affascinare, in quegli anni dalle tematiche contraddittorie di Roma e di un quartiere popoloso come San Paolo, in parte borghese e per larghi strati confinante e compenetrante con fasce di emarginazione, di baraccati e povertà degli altri quartieri vicini. Continuò a mettere insieme laici, donne, uomini, giovani, credenti. Lottò da pacifista e per gli operai licenziati. Quando lasciò il suo incarico, è il tempo della sua lettera pastorale “La terra è di Dio”. Fu il suo modo di pensare ‘Fuori le mura’ , come la Basilica, intraprendendo un percorso fatto di autonomia e libertà di coscienza per tutta la sua esistenza. Continuando a far discutere.

Fino alla morte è stato come ha vissuto. Marginale, sì, ma molti dei temi che affrontava allora oggi sono storicizzati, sono nella società che viviamo, e a quarant’anni di distanza da quel ‘conflitto’ doloroso hanno tutt’altro senso e fanno di ‘Dom’ (dal latino Dominus, è il trattamento riservato ai monaci benedettini) Franzoni un cristiano mai banale, originale, inedito, ricco di spunti e considerazioni che hanno diviso, certo, ma come giusto che sia.
Ricercare che ‘qualcuno che tutti cerchiamo’ (per dirla con Padre Turoldo) è sempre un cammino di strade tortuose.

Fratello più che “ex abate”

di Giovanni franzoni

La Chiesa usò la Dc, ma alla fine fu usata, come apparve allora, da Amintore Fanfani nella battaglia per il referendum sul divorzio. Mi schierai pubblicamente per il «no», no all’abrogazione della legge Fortuna-Baslini che per la prima volta in Italia dava la possibilità di divorziare.

In ogni luogo dove andavo a parlare venivo annunciato dalla pubblicità delle mie recenti dimissioni, ero già «l’ex abate». Non andavo a fare esplicita propaganda, accettavo solo gli inviti ai dibattiti sulla famiglia.A Palermo, a Taranto, a Bergamo.Ogni volta che qualcuno mi chiedeva un’opinione sul divorzio, rispondevo: credo nella libera scelta, e lo dico.

Vestivo sempre con la talare quando andavo in pubblico. Arrivai a Taranto preceduto dai titoli dei giornali locali. Seppi poi che l’arcivescovo Motulese non l’aveva presa affatto bene; aveva premuto su Roma perché si prendessero provvedimenti nei miei confronti.

Mancano poco più di due settimane al referendum, il clima è rovente. Sono a Desenzano sul Garda, sto predicando gli esercizi spirituali con un gruppo di missionari che deve partire per i Paesi europei in cui si trovano comunità di immigrati di lingua italiana: Svizzera meridionale, Lussemburgo, Francia.In convento mi arriva un telegramma firmato dall’Abate Angelo Mifsud, un maltese, (presiedeva la Congregazione Cassinese). Letterale: «Se non cessate di tenere assemblee sul divorzio sarete sospeso ipso facto a divinis». Ipso facto, contro ogni diritto moderno.

Il giorno dopo ho un convegno alla Camera di commercio di Bergamo; parto per capire come posso gestire la giornata. Arrivo nel centro storico e per strada vedo persone che manifestano, cartelli in mano. La Camera di commercio è chiusa: su pressioni democristiane l’uso della sala è stato revocato.

Seguo in macchina il flusso della gente, si stanno spostando verso la chiesa di San Pietro, gremita. C’è gente seduta con le gambe penzoloni dalle finestre. Mi faccio largo, vado all’altare e dico: «Io non posso parlare, voi non potete parlare perché vi chiudono in faccia il portone, i fatti parlano da soli».

Non avevo grande paura dei provvedimenti ecclesiastici. Immaginavo piuttosto che con il polverone alzato da una sospensione a divinis avrei potuto condizionare più pesantemente il voto dei cattolici.

Annullo l’incontro previsto due giorni dopo alla Fatme, a Roma, con il socialista Paris Dell’Unto, vice sindaco della città. Era un sabato, il 27 aprile 1974. La domenica ero su tutte le tv: «Il noto Dom Franzoni è stato sospeso a divinis».

Mi avevano sospeso, anche se non ero intervenuto al dibattito. E i giornalisti continuano a usare quel «dom» per definire un monaco, per differenziarlo dal «don» che precede un normale prete. In Italia il «dom», abbreviazione mitteleuropea di dominus non è stato mai adottato dai benedettini, ma per lungo tempo, e ancor oggi qualche volta, debbo convivere con i due appellativi che precedono la mia identità: l’ex abate, il dom. E con un sogno ricorrente: le assemblee con la Conferenza episcopale, le grandi assisi del Concilio. Io, in grandi stanze, attorno a grandi tavoli, insieme ai miei confratelli.

La firma sotto la sospensione a divinis è del Cardinal vicario Ugo Poletti che, devo dire – non per astio ma perché ne sono convinto – era persona di intelligenza modesta e di modesta cultura. Non era un conservatore né un democratico, era un uomo che sapeva muoversi insieme al vento e che teneva in massima attenzione la politica.

Accettai in silenzio, anche se in cuor mio sentivo di avere doppiamente ragione: dal punto di vista sostanziale, perché quelle erano le conseguenze di aver preso sul serio il Concilio, e dal punto di vista formale perché la procedura di sospensione a divinis era fondata su presupposti inesistenti.

Ricordo con simpatia, però, che dopo la vittoria del referendum, i radicali festeggiarono in piazza Navona urlando: «Se ci fosse ancora la possibilità di eleggere un papa per acclamazione, Franzoni sarebbe papa a furor di popolo».

Mi sono poi ritirato con la mia Comunità di base che già da quasi un anno si riuniva in via Ostiense, al 152 b, cento metri più in là dell’appartamento che condividevo con don Pierre.

Il mio impegno pro-referendum mi aveva fatto perdere di vista anche l’amico coinquilino. Era quasi sempre solo e, dopo qualche mese, decise di tornare in Belgio. Ho scoperto in quella occasione quanto sia difficile vivere insieme in un appartamento di quaranta metri quadrati e quanto si possa essere violenti senza accorgersene, scoprendo poi, magari da un gesto della bocca, di avere ferito l’altro.

Volevo che l’esperienza con il nostro gruppo di laici non finisse con la mia uscita da San Paolo. Cercai di nuovo il Cardinal Poletti, e, dopo avergli spiegato che la sentenza di sospensione a divinis era a mio avviso invalida perché io avevo ubbidito all’ingiunzione di non parlare più in pubblico disdicendo tutti gli appuntamenti, lui ammise che forse effettivamente c’era stato qualche errore ma si appellò alla mia comprensione delle procedure e delle prassi ecclesiastiche per cui non dovevo aspettarmi che la Chiesa ammettesse pubblicamente di avere sbagliato. Mi suggerì inoltre di trovare un vescovo benevolo pronto a incardinarmi nella sua diocesi. Contattai Monsignor Luigi Liverzani, a Frascati, la diocesi più vicina.Era una persona informata, aperta, vicina al mondo del lavoro, mi avrebbe preso nella sua diocesi senza alcuna condizione.

Presentai quel nome a Poletti e il vicario mi rispose che Frascati era troppo vicina a Roma. «C’è un chilometraggio minimo, vostra Eminenza?».La verità è che voleva spezzare il mio rapporto con la comunità e questo non l’avrei mai permesso. Rimasi sospeso per due anni e, contro ogni diritto canonico, vagante senza sede.

Furono tre le motivazioni vere di quel provvedimento eccessivo. Il momento storico: il Partito comunista che cresceva e il referendum sul divorzio che la Dc voleva vincere e perse; il mio ruolo: ero stato un prelato di Santa Romana Chiesa e avevo appartenuto alla Conferenza episcopale italiana; la mia sede: vivevo e operavo a Roma, a pochi chilometri dalla Santa Sede e ogni mio bisbiglio era ascoltato oltretevere.

Due anni dopo si aggiungerà il caso Lefebvre: la Chiesa non poteva accettare le sfide che quel vescovo ultraconservatore le stava portando. Per punire lui, che aveva fatto il piccolo scisma di Econe, Paolo VI fu costretto a dare un colpo anche al dissenso cattolico, e ad emarginarmi dalla Chiesa.

Avevo collaborato fin dalla sua nascita con la rivista cattolica di ispirazione conciliare «Com», che presto si fonderà con la rivista protestante «Nuovi tempi».È in quella sede che per la prima volta manifestai una adesione alle politiche sociali e sanitarie delle amministrazioni di sinistra e per la prima volta feci una dichiarazione di voto per il Pci alle politiche del 1976.

Scrissi che il Partito comunista italiano aveva dimostrato di adoperare l’analisi e la prassi marxista in modo critico, che era stato capace di mettersi al servizio del Paese e della causa antifascista, che si era sforzato di modificare alcune ipotesi iniziali, che aveva privilegiato forme di lotte civili e politiche come espressione della forza della ragione rispetto all’arroganza del potere.

«E se il voto resta un episodio», dissi, «la mia adesione politica è di ogni giorno; non prenderò la tessera solo per obbedire all’articolo 43 del Concordato che me lo impedisce».

Il 20 giugno 1976 il Pci guadagnò 3 milioni e 600mila voti arrivando a una percentuale del 34,4%, Nonostante lo scandalo Lockheed la Dc mantenne i suoi, e restò al 38,7%.

Nella domenica del voto il cardinal Poletti preparò una lettera e me la fece recapitare presso la «sedicente Comunità cattolica di base», in Via Ostiense 152b.

Tra parentesi, a questo proposito, la Comunità non è mai stata riconosciuta in alcun modo dall’Istituzione se non con lo sprezzante appellativo di «sedicente», proprio come le prime comunità cristiane che non avevano diritto di cittadinanza nel mondo romano.

Unica, rilevante eccezione mons. Clemente Riva, vescovo ausiliario di Roma sud, rosminiano, che, venutoci a trovare poco tempo prima degli eventi che sto raccontando, dopo aver pregato con noi ci disse, più o meno, ma in sostanza: «Io non sono qui per darvi un avallo che del resto non mi chiedete, tuttavia voi siete per me, nel mio settore, una comunità di fede tra le altre».

In quel periodo Poletti, che mi dà ancora del tu, mi fa sapere: «O fai ritorno umile e sincero alla disciplina ecclesiale riconoscendo pubblicamente i tuoi errori oppure sarai ridotto allo stato laicale».

Se non abiuro e mi inghiotto la dichiarazione di voto comunista le possibilità sono due; o mi autoriduco o mi puniranno loro. Rispondo che avrei sentito prima la mia comunità e la convoco per il lunedì successivo, il 28 giugno.

Quell’assemblea si apre a tutte le comunità di base e a chiunque voglia intervenire. Quattro amici salgono a San Giovanni in Laterano e invitano nel salone anche il cardinale che mi sta punendo. Poletti rifiuta seccato e proibisce a qualsiasi autorità del Vicariato di farsi vedere.

L’assemblea della comunità di San Paolo è affollata.C’è Don Enzo Mazzi da Firenze, c’è Don Lutte dalla Magliana, Suor Cleofe e l’avvocato Francesco Zanchini.

Il «Corriere della Sera» definisce il nostro salone squallido. A me sembra spoglio, non squallido. Prevale l’idea di riaprire il dialogo, senza rinunciare alle nostre convinzioni di fondo.

In quel periodo ripresero le azioni violente di Civiltà Cristiana contro la Comunità e la mia persona. Un giorno venne parzialmente incendiata la sede della Comunità e sul muro del corridoio di ingresso trovammo la scritta «Franzoni al rogo».

Intanto la Cei sta organizzando a Roma un secondo convegno, «Evangelizzazione e promozione umana».

Portiamo il nostro contributo con una lettera in cui diciamo in sostanza: «Noi cristiani ci vergogniamo di una città santa come Roma dove la Chiesa è in collusione con chi non cede un’unghia dei suoi privilegi ottenuti con il sangue dei più poveri. La chiesa è violenta quando fa passare come volontà di Dio pratiche sessuofobiche, antievangeliche e antiumane.

Nei quartieri bisognosi la Chiesa non deve invadere spazio prezioso con edifici dedicati al culto quando può bastare un locale ampio e decoroso che può essere utilizzato anche per le assemblee di quartiere».Le nostre analisi vengono accolte in città a tutti i livelli, invece il Vaticano liquida il documento come pieno di superbia.

Il Cardinal Poletti aveva mal sopportato che avessi reso pubblica la lettera con cui minacciava di allontanarmi dalla Chiesa. E allora, su «l’Osservatore Romano», tacciandomi di scorrettezza, di mancanza di stile, di voler turbare le persone inesperte e impreparate aizzandole contro la Chiesa, rende pubblica la versione integrale di quel documento.

Dice: «Don Giovanni, le tue dichiarazioni su “Com-Nuovi tempi” hanno riproposto clamorosamente davanti al popolo italiano il tuo caso e i tuoi rapporti con la Chiesa. Con il documento che notificava la sospensione a divinis da te firmato il 19 luglio 1974 ti eri impegnato a chiarire il tuo pensiero dottrinale e la tua posizione disciplinare entro sei mesi. Né la tua lettera del 23 dicembre 1974, né gli scritti successivi hanno offerto plausibile spiegazione del tuo comportamento e del tuo insegnamento. Anzi, c’è stato un progressivo deterioramento con caratteristiche sempre più aggressive verso la Chiesa e i suoi pastori. Le tue dichiarazioni su “Com-Nuovi tempi” hanno precipitato tutto, per di più in chiave elettorale, tanto lontana da una visione ecclesiale del tuo problema, suscitando meraviglia e scandalo tra il clero e il popolo cristiano».Entro dieci giorni devo rispondere, «oppure la Chiesa dovrà adottare il provvedimento di riduzione allo stato laicale».

Il giorno dopo quell’assemblea Paolo VI, seguendo la teoria degli opposti estremismi, sospende a divinis, per un anno, l’Arcivescovo Marcel Lefebvre. Nelle stesse ore io spedisco al Vicario generale una lettera in cui ribadisco la mia fede nelle maggiori verità della chiesa cattolica: «Credo in Gesù Cristo e l’amore per lui non è ignara rassegnazione, ma scelta di vita e di lotta per gli sfruttati di ogni tempo».

Dico: «La mia tensione con l’autorità ecclesiastica non è mai dipesa da motivi di fede, ma da mie scelte politiche che non ritengo erronee anche se in contrasto con la linea ufficiale portata avanti dalla Conferenza episcopale italiana. Mi sento prete fino in fondo e non chiederò mai la riduzione allo stato laicale».

Già, il Cardinal Poletti iniziava ad avanzare motivi dottrinali per giustificare le sanzioni contro di me. Nell’intervento autoritativo per la riduzione allo stato laicale, infatti, si parlerà di atti contro le verità di fede perché avevo dato la mia dichiarazione di voto per il Pci e la mia adesione alle sue lotte politiche.

Questi erano, per la mia Chiesa, «atti contro natura». Mi avrebbero telefonato e scritto miei congiunti preoccupati che avessi compiuto chissà quali perversioni.

La mia corrispondenza con le zie Anita e Nella, rende molto bene, a mio avviso, il clima di quel periodo e le reazioni umane.In Vaticano si sosteneva infatti che il comunismo era contro l’ordinamento naturale delle cose e contro la dottrina della Chiesa, ma io avevo esplicitamente detto che aderivo alle forme partecipative nel sociale del Pci e basta.

L’applicazione dei diritti in questo Paese era roba degli assessori di sinistra. Nella psichiatria, nell’handicap, nella scuola, nell’infanzia c’era sempre un’avanguardia di sinistra.

Il comunista non istituzionale Franco Basaglia, direttore dell’ospedale psichiatrico di Trieste, mi spiegava che a Gorizia e a Trieste non avrebbe fatto nulla se non vi fosse stata una giunta di sinistra.

Quando enunci dei principi sei radicale, quando devi chiudere un manicomio o devi aprire una comunità alloggio ti affidi a una prassi per niente anticristiana. Io non aderivo al marxismo, né, assolutamente, all’ateismo. Aderivo alla prassi delle giunte di sinistra in Italia. Devo anche dire, però, che in quel periodo molti preti «spretati» sono stati silenziati dallo stesso Pci: non voleva che mettessero in difficoltà le politiche di compromesso storico di Enrico Berlinguer. Il partito faceva assumere gli ex sacerdoti negli apparati amministrativi vicini al partito, loro trovavano moglie e smettevano di essere un problema. Per la Chiesa e per il Partito.

Il nuovo incontro con il Cardinal Poletti servì a poco. Il vicario mi disse che il caso non era più di sua competenza e che ne erano stati investiti organismi ufficiali ecclesiali, genericamente.

La faccenda era andata a finire nelle mani della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede (ex Sant’Uffizio), ed era intervenuto direttamente Paolo VI. Le riduzioni allo stato laicale sono infatti di diretta competenza del papa.

Una bella apertura in quei giorni arrivò da monsignor Bettazzi, che scrisse una lettera a Enrico Berlinguer. In essa il vescovo di Ivrea diceva di guardare con attenzione l’impegno del Pci a realizzare un’esperienza originale di comunismo, diversa da comunismi di altre nazioni.

Quel dialogo tra un vescovo e un segretario di partito corrispondeva al dialogo che c’era tra la base cattolica e quella comunista.

Noi non volevamo un nuovo sincretismo tra ideologia marxista e fede cristiana, né mettere il ministero episcopale al servizio di una parte politica, chiedevamo solo di amare Cristo nella Chiesa senza rompere la nuova solidarietà creata con i lavoratori organizzati.

(Dal sito “rubettinopills.it)

Ora il video che documenta l’ occasione nel 2014 della presentazione  delacsua autobiografia al Centro Balducci. Prima di sentire la viva voce dell’ autore, Pierluigi Di Piazza, venuto a mancare lo scorso maggio, ripercorre con particolare sensibilità la biografia di Franzoni, con diverse citazioni prese direttamente dal libro.

In quest’ intervista, e ancora in occasione dell’ uscita di un altro volume, Franzoni apre toccando il tema della “predicazione” , da sempre prerogativa del prete ma che nell’ esperienza fatta ancora come abate, diventa frutto di un confronto comunitario. Il tema  riguardante la stessa struttura delle assemblee liturgiche:ah, quanto se ne potrebbe parlare!

Per conoscere le Comunità di Base:

https://www.cdbitalia.it/

Qualche considerazione sul 2 giugno

di Alessandra Algostino     (volerelaluna.it)

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Con consapevole autolesionismo, provo a cercare notizie sulle celebrazioni del 2 giugno e prontamente compare una circolare del Ministero dell’Istruzione e del Merito (per inciso, leggere del “merito” rinnova la ripulsa verso l’elevazione a dogma di una logica contraria all’emancipazione della Costituzione) che ricorda ai dirigenti scolastici che «il 77° Anniversario di fondazione della Repubblica verrà celebrato, oltre che con la consueta solenne cerimonia di deposizione di corona di alloro presso l’Altare della Patria, anche con la successiva rivista militare in via dei Fori Imperiali» e invita «le istituzioni scolastiche interessate a partecipare all’evento».

Ora, può essere che sia prassi per la ricorrenza del 2 giugno invitare le scuole a una celebrazione “militarizzata”, ma, alla luce delle precedenti lettere, circolari e posizioni del Ministro, e di un aleggiante revisionismo storico, l’invito trasmette una certa inquietudine.

Invero, peraltro, l’inadeguatezza della celebrazione appare anche a prescindere dal colore dell’attuale Governo: perché celebrare la nascita della Repubblica con un omaggio all’altare della Patria (o con la parata militare), e non, ad esempio, con una cerimonia proprio nella e per la scuola, «organo vitale della democrazia», espressione di «uguaglianza civica», fondamentale nel permettere a ciascuna persona «di avere la sua parte di sole e di dignità» (Calamandrei)?

L’essenza della Repubblica è nella sua Costituzione (il 2 giugno 1946 insieme al referendum istituzionale monarchia/repubblica vengono eletti i membri dell’Assemblea Costituente), ovvero nei suoi principi (uguaglianza, solidarietà, diritti, pace), nel suo progetto di trasformazione della società.

La Repubblica non si risolve in un territorio presidiato da confini da difendere in armi (mentre scrivo, penso alla sorveglianza delle frontiere contro i migranti), ma è un luogo, una comunità, dove costruire la democrazia conflittuale e sociale disegnata nella Costituzione, una democrazia proiettata in una comunità internazionale di pace e giustizia.

Se pur pensiamo alla Patria, è la stessa Corte costituzionale a ragionare del «dovere di difesa della Patria, ben suscettibile di adempimento attraverso la prestazione di adeguati comportamenti di IMPEGNO SOCIALE NON ARMATO» (Corte cost., sentenza n. 164 del 1985): una posizione alla quale il giudice costituzionale giunge recependo le lotte per l’obiezione di coscienza (a ricordarci che i diritti, e la Costituzione, vivono nella storia e nei conflitti).

La Patria, da difendere, è «comunità di diritti e di doveri», una comunità «più ampia e comprensiva di quella fondata sul criterio della cittadinanza in senso stretto», che «accoglie e accomuna tutti coloro che, quasi come in una seconda cittadinanza, ricevono diritti e restituiscono doveri, secondo quanto risulta dall’art. 2 della Costituzione là dove, parlando di diritti inviolabili dell’uomo e richiedendo l’adempimento dei corrispettivi doveri di solidarietà, prescinde del tutto, per l’appunto, dal legame stretto di cittadinanza» (Corte cost., sentenza n. 172 del 1999).

Ecco, ammesso e non concesso, che il 2 giugno si voglia parlare di Patria, è questo il concetto da richiamare. La distanza rispetto a quanto si legge, da ultimo, nel testo del videomessaggio di Giorgia Meloni, per il convegno “Nazione e Patria. Idee ritrovate” (30 maggio 2023), è siderale. Nelle parole del(la) Presidente del Consiglio si sente la morsa di una nuova egemonia culturale che, sotto le insegne del “Dio, Patria e famiglia”, mira a un populismo identitario, che converge nel tributo al Capo.

La fascinazione della destra per l’idea di una Nazione insieme omologante ed escludente, inscritta nella dicotomia amico-nemico, si incontra con la freddezza di un neoliberismo competitivo che resta dogma indiscutibile e lo mistifica: costituisce una sorta di disciplinamento, consolatorio a fronte delle diseguaglianze e anestetizzante rispetto al conflitto sociale. È una narrazione antitetica rispetto a quella della Costituzione, che, non a caso, si accompagna a operazioni di revisionismo storico.

L’impulso, a questo punto, avvolta nei tempi oscuri che attraversiamo, è scrivere, nel giorno della sua celebrazione, di quanto minaccia la Repubblica:

– invio delle armi e mancate azioni per una soluzione diplomatica) in luogo della pace come mezzo e come fine (art. 11 Costituzione);

– dell’autonoma differenziata che si appresta ad affossare quanto resta dello Stato sociale e di una promessa di emancipazione uguale per tutti (art. 3, comma 2, Costituzione);

– del “presidenzialismo”, minaccia ancora nebulosa ma chiara nella volontà di sancire il potere del Capo proseguendo a grandi passi nella deriva autoritaria;

– della repressione del dissenso;

– della distruzione dei diritti dei lavoratori;

– della colpevolizzazione della povertà;

– dello svuotamento del diritto di asilo e della disumanizzazione delle persone che migrano…

Con tristezza, e con rabbia, penso alle «speranze di allora» (Calvino, Cantacronache, Oltre il ponte) e al disincanto di oggi nel vederle abbandonate, neutralizzate, negate, magari derise.

Non voglio però limitarmi a demistificare il presente e redigere un cahier de doléances ma, con i piedi saldamente sulla terra, nella consapevolezza della dialettica della storia, dei suoi corsi e ricorsi, scrivere delle “speranze di oggi”. Non è facile. Certo, la nube nera dilaga ovunque (dalle nostrane elezioni amministrative alle votazioni in Grecia, Spagna e Turchia, per restare alle ultime), le diseguaglianze crescono, le democrazie scivolano verso l’autocrazia, l’olocausto nucleare incombe ignorato, la devastazione ambientale prosegue in un mondo governato dalla logica del profitto appiattito sul presente.

Poi penso ai lavoratori della Gkn, alle lotte dei riders e dei braccianti agricoli, agli attivisti di Extinction Rebellion e Fridays for Future, alla disobbedienza civile dei ragazzi di Ultima Generazione, alle occupazioni delle scuole contro il merito e l’alternanza, alle tende degli studenti per il diritto all’istruzione e alla casa, ai tanti tentativi di convergenza dei movimenti che attraversano il paese (da ultimo, la campagna “Ci vuole un reddito”), a chi soccorre i migranti alle frontiere, alle mille associazioni che animano la società: frammenti di quella Resistenza dalla quale è nata la Repubblica. Ecco, un modo per festeggiare la Repubblica: ricordare le lotte di tutti coloro che la democrazia conflittuale e sociale praticano, e parteciparvi.

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L’ eroismo militarista?

MENTRE OGGI L’ “EROISMO” MILITARISTA SI STA FACENDO ENTRARE FURBESCAMENTE NEL CERVELLO AD INIZIARE DAI PRIMI ANNI DI SCUOLA (Piero)

di Franco Lorenzoni

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Con la presenza di Mattarella domani 27 a Barbiana per i cento anni dalla nascita di Lorenzo Milani, si chiude il cerchio delle “riparazioni istituzionali” verso questo prete scomodo, che aveva visto papa Francesco salire su quella montagna nel giugno del 2017, a cinquant’anni dalla morte del priore.

Nel suo discorso il papa aveva ricordato “quella chiesa che lo aveva tanto fatto soffrire”, ma dobbiamo ricordare che anche lo stato non fu da meno nel contrastare e condannare le prese di posizione di quel prete persuaso che, su alcune questioni di fondo, l’obbedienza non fosse più una virtù.

Milani fu infatti processato per avere sostenuto le ragioni degli obiettori di coscienza che rifiutavano il servizio militare, rispondendo a un gruppo toscano di cappellani militari, che in un comunicato avevano sostenuto che l’obiezione fosse “un insulto alla patria e un atto di viltà”.

Nel febbraio 1965 il priore di Barbiana legge sul quotidiano La Nazione di Firenze la presa di posizione di un gruppo di cappellani militari della Toscana e ne prende immediatamente spunto per discuterne con i ragazzi della scuola che aveva fondato su quella montagna, dove era stato esiliato nel dicembre del 1954 dal cardinale Florit.

Da quella lettura condivisa nacque la Risposta ai cappellani militari, primo testo di Lorenzo Milani che arriva al grande pubblico. “Auspichiamo tutto il contrario di quello che auspicate voi”, scrive in quell’occasione, criticando la dottrina dell’ ”obbedienza ad ogni costo”. Nella Risposta rivendica il diritto dei poveri a “combattere” i ricchi con “le uniche armi” che egli approva, “nobili e incruente”, vale a dire “lo sciopero e il voto”.

In quegli anni più di cento giovani erano stati reclusi per mesi e talvolta anni nel carcere militare di Gaeta per essersi rifiutati di imbracciare un fucile.

I giovani che rifiutavano con radicalità ogni contatto con le armi erano in maggioranza testimoni di Geova, anche se c’erano anche alcuni anarchici insieme a dei nonviolenti e socialisti. Il primo cattolico che rifiutò la leva fu Giuseppe Gozzini nel 1962, sostenuto da padre Ernesto Balducci, che per questo fu condannato dallo stato e fortemente attaccato dalla chiesa, come accadde qualche anno dopo allo stesso priore di Barbiana.

Per quella risposta pubblica Lorenzo Milani fu processato nel 1965 e dovettero passare più di sette anni perché si arrivasse, nel 1972, ad approvare la prima legge che consentiva di rifiutare la leva militare, allora obbligatoria, sostituendo l’anno di leva con due anni di servizio civile. Si deve tuttavia attendere fino al 1998 perché l’obiezione di coscienza sia riconosciuta non come beneficio concesso dallo stato, ma come diritto civile.

Nel processo che si tiene nel febbraio 1966 il pubblico ministero chiede otto mesi di reclusione per il priore e per Luca Pavolini, direttore di Rinascita, il settimanale del Partito comunista, unico giornale che pubblicò integralmente la risposta di don Milani. In quel processo i due furono assolti, ma il pubblico ministero fece ricorso e, nel processo di appello dell’autunno 1967, arrivò una condanna a cinque mesi. Solo per Pavolini, tuttavia, perché don Lorenzo era morto pochi mesi prima senza essere stato assolto in via definitiva.

Ciò che ancora ci colpisce, a tanti anni di distanza, fu la capacità di don Milani di trasformare la sua presa di posizione riguardo all’obiezione di coscienza in una battaglia politica di ampio respiro e, contemporaneamente, in un tema attorno a cui fare scuola con i suoi ragazzi, sapendo intrecciare in modo limpido ed efficace la dimensione politica con la dimensione educativa.

In una lettera alla madre del 26 luglio 1965 scrive: “Mi piacerebbe sapere come si può impostare la difesa perché se sapessi che si può entrare nel merito dei fatti storici allora vorrei divertirmi da qui a ottobre a studiare solo storia coi ragazzi e arrivare là tutto verve nutrita di base storica documentata e spiritosa”.

Il 18 ottobre 1965 Don Lorenzo, non potendo presenziare al processo per motivi di salute, scrive una lunga Lettera ai giudici nella quale si legge:

“Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. (…) E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede. (…) Questa tecnica di amore costruttivo per la legge l’ho imparata insieme ai ragazzi mentre leggevamo il Critone, l’Apologia di Socrate, la vita del Signore nei quattro Vangeli, l’autobiografia di Gandhi, le lettere del pilota di Hiroshima. Vite di uomini che son venuti tragicamente in contrasto con l’ordinamento vigente al loro tempo non per scardinarlo, ma per renderlo migliore”.

Lavorare per rendere migliori gli ordinamenti vigenti a partire dalla scuola, fu impegno che Lorenzo Milani intraprese con tutto se stesso. Non c’è città del nostro paese che non abbia una scuola a lui intitolata. Ma è più facile intitolargli una scuola che accogliere la radicalità delle sue posizioni e la capacità di educare sapendo andare alla radice delle ingiustizie, testimoniando con coerenza la propria obiezione a leggi inaccettabili. Assumersi fino in fondo le proprie responsabilità è infatti attitudine purtroppo rara in un paese come il nostro, propenso piuttosto all’accomodamento e al compromesso.

Eppure l’educazione civica, riproposta in tutti i gradi della scuola con una nuova legge tre anni fa, potrebbe nutrirsi delle discussioni che animarono quel passaggio fondamentale che permise a un gruppo di ragazzi di seguire passo passo e partecipare a pieno titolo al delicato ed entusiasmante processo dell’accompagnare e promuovere la trasformazione di una legge ingiusta, liberando per sempre le giovani generazioni dall’obbligo di trascorrere mesi della loro vita a formarsi per fare la guerra.