Il “profetismo” di Giovanni Franzoni, instancabile cercatore di una fede autentica

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Brevi note introduttive

di Piero Murineddu

Tre testi che aiutano la conoscenza di un uomo è un credente del tutto particolare com’è stato dom Franzoni.

Nel primo, insieme al ricordo appassionato durante il convegno di due giorni in memoria dell’amico ed ex abate ad un anno dalla sua morte avvenuta nel luglio 2017, Luigi Sandri parla delle motivazioni e traccia i momenti salienti che hanno caratterizzato la vita della Comunità di Base di via Ostiense 152b a Roma, nata al seguito delle dimissioni imposte dalle gerarchie vaticane all’allora abate della vicina Basilica di S.Paolo fuori le mura. Col suo intervento, Sandri, giornalista e scrittore, oltre che membro egli stesso della Comunità romana, che diversi anni fa ebbi personalmente l’ opportunità di conoscere durante la mia partecipazione ad un loro raduno domenicale, ci aiuta a conoscere meglio la realtà di queste piccole comunità di cristiani che, in modo consapevole e maturo, si sforzano di portare avanti un continuo lavoro di ricerca per vivere una fede non avulsa ma al contrario completamente incarnata nella realtà sociale, con non rare prese di posizione che divergono dalle indicazioni delle gerarchie ecclesiastiche. Ciò potrebbe e dovrebbe essere motivo di arricchimento per tutti, e non solo per chi si ritiene appartenente alla Chiesa, sia essa cattolica o di altre confessioni.

Nel secondo articolo di Fabrizio Giusti, scritto all’ indomani del decesso, veniamo a conoscenza di alcuni particolari che portarono, quasi costrinsero Franzoni ad avviare una Comunità di Base a pochi passi dall’ abbazia.

Nel terzo scritto, tratto dalla sua “Autobiografia di un cattolico marginale”, è lo stesso Giovanni che si racconta

Il “profetismo” di dom Franzoni

di Luigi Sandri

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In quanto Abate della basilica di san Paolo fuori le mura, Franzoni partecipò alle due ultime sessioni del Vaticano II, nel 1964 e ’65: fu, dunque, a tutti gli effetti, un “padre” del Concilio. In quella sede egli non intervenne mai nelle sedute plenarie, ma soltanto nelle riunioni dell’episcopato italiano; racconterà, poi, che egli entrò in quella solenne assemblea come “conservatore” e, a poco a poco, cambiando opinione su molti temi “caldi”, si avvicinò ai “progressisti”. Non inventiamo noi queste categorie che, prese con discrezione, allora erano usate dagli stessi padri conciliari.

“Padre” del Concilio, Giovanni volle diventarne “figlio”, e cioè impegnato a fare di quel magistero la stella polare del suo agire come monaco, come abate e come cristiano. Da questa scelta programmatica tutto, logicamente, discese.

Fu un cammino coerente e, proprio per questo, cosparso di spine. Del resto, non fu facile per nessuna persona nella Chiesa cattolica romana fare propri i nuovi paradigmi ecclesiali dischiusi dal Vaticano II, e calarli nella propria realtà, personale e istituzionale, per meglio vivere l’Evangelo.

Giovanni si impegnò, dunque, nell’ecumenismo, promuovendo i “Colloqui paolini” dove studiosi cattolici ed evangelici approfondivano insieme il messaggio dell’apostolo delle genti; accogliendo con grande calore, nella basilica Ostiense, il patriarca di Costantinopoli Athenagoras e il patriarca di Alessandria e papa copto, Shenouda III.

Si impegnò nel campo liturgico, per dare attuazione a quella partecipazione del popolo di Dio alla celebrazione eucaristica, tanto raccomandata dal Concilio. Proprio questa decisione portò a conseguenze che, là per là, non furono forse previste. A livello locale, cioè nella concreta situazione del minuscolo territorio sul quale l’abate aveva autorità magisteriale, e nella parrocchia di san Paolo, “popolo di Dio” significava operai, operaie, casalinghe, impiegati e insegnanti uomini e donne, teologi, ragazzi e ragazze variamente impegnati in attività sociali.

I diversi gruppi di giovani, sia quelli dell’Azione Cattolica che quelli appartenenti agli scout, cominciarono a incontrarsi e, con le loro riflessioni, aiutarono a incarnare il Vangelo nella realtà quotidiana, anche realizzando concreti episodi di solidarietà come, ad esempio, quello che vide la partenza di una di loro come “missionaria laica” per curare malati di lebbra in Ruanda.

Giovanni più e più volte invitò i suoi fedeli a partecipare, sabato sera, nella “sala rossa” del monastero, a riflettere con lui sulle letture bibliche della domenica seguente. L’avvio fu timido e lento ma, a poco a poco, un centinaio di persone si unì all’impresa. Quella fu per tutti e tutte una grande scuola: per la prima volta – almeno in quella zona di Roma – la gente comune prendeva la parola di fronte al suo pastore e, insieme con lui, iniziava a confrontarsi sulla Bibbia. E, da parte sua, l’Abate imparò a rendersi più consapevole dei problemi della gente.

Dunque, collegare i messaggi delle Scritture con la vita delle persone e con i drammi del mondo, spostò l’asse di una predicazione ecclesiastica, prima, di solito, astratta e lontana.

Proprio per favorire la partecipazione alla liturgia, l’Abate sollecitò le persone presenti ad intervenire spontaneamente alla “preghiera dei fedeli”, durante la messa domenicale di mezzogiorno in basilica: all’inizio sembrava un momento di pie orazioni ma, quando si pregò perché strutture ecclesiastiche non collaborassero ad operazioni bancarie torbide, in Vaticano cominciarono a turbarsi.

Ancora, guardando al mondo del lavoro, Franzoni espresse piena solidarietà agli operai di una fabbrica della zona, licenziati. Accolse, a “pari merito”, chi votava per partiti legati alle gerarchie ecclesiastiche, e chi sosteneva quelli di sinistra.

Scoprì, poi, l’Abate, insieme ad alcuni dei suoi “parrocchiani”, anche il mondo del disagio mentale favorendo, in ciò aiutato da psichiatri già collaboratori di Basaglia, l’uscita e la cura di ragazzi prima in pratica rinchiusi a Santa Maria della Pietà, il manicomio di Roma, fino ad accogliere in casa sua uno di loro.

Pure la questione della guerra e della pace fece il suo ingresso nel monastero benedettino di san Paolo: l’abate Giovanni, e le persone più vicine a lui, affrontarono, anche alla luce della testimonianza di Gandhi, il problema della nonviolenza come metodo per sciogliere i nodi cruciali del mondo.

Nel 1970 Franzoni scrisse al presidente Saragat, perché alla festa del 2 giugno non fossero più soldati in armi a sfilare, ma rappresentanti della società civile. L’anno dopo, quando scoppiò la guerra che avrebbe infine portato alla nascita del Bangladesh, Franzoni digiunò invocando pace.

Coerentemente con questa ispirazione, Giovanni dette piena solidarietà agli obiettori di coscienza rinchiusi nel carcere militare di Gaeta e incoraggiò poi chi decise di partire per il servizio civile.

Alfiere della libertà di parola, anche nella Chiesa romana, Giovanni diede un apporto fondamentale alla nascita nel 1972 di Com, che poi si unì al periodico evangelico Nuovi Tempi e, infine, si trasformò in Confronti, rivista da lui sostenuta e a cui collaborò fino alla fine per riflettere sul sempre nuovo intreccio fede-politica-vita quotidiana.

L’anno dopo, era il 1973, Franzoni celebrò due matrimoni anticoncordatari, significativi di un impegno civile a cui resterà sempre fedele.

Nel giugno del 1973 l’abate Franzoni pubblicò la lettera pastorale “La terra è di Dio” nella quale denunciava, fra le altre, le responsabilità vaticane nella speculazione edilizia a Roma. La misura, secondo le autorità d’Oltretevere, già preoccupatissime per le preghiere “libere” in basilica, era colma.

Giovanni, in luglio, accettò di dimettersi e lasciò il monastero: lo accompagnò una parte di quelle persone più convinte della bontà dell’impegno ecclesiale e sociopolitico da lui auspicato.

Sorgeva in tal modo, formalmente, la Comunità cristiana di base di san Paolo, in germe già nata con le riflessioni pubbliche sulle Scritture e la partecipazione attiva alla celebrazione domenicale in basilica.

Iniziò così la nuova vita – in certo senso – di Giovanni. Questo cammino si intrecciò da subito con un evento politico di grande rilevanza in Italia: il referendum per la legge sul divorzio.

Egli, pur sempre monaco benedettino, si batté per la libertà di coscienza e, siccome il Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana nel febbraio del 1974 aveva fortemente invitato a votare “SI” per l’abrogazione, egli due mesi dopo, con un piccolo ma denso libro, intervenne sostenendo il diritto alla libertà di coscienza, anche per i cattolici, in quel voto; e precisando che lui, il 12 maggio, avrebbe votato “NO” all’abrogazione di quella legge.

Gli fu allora proibito, dalle autorità ecclesiastiche, di andare in giro a fare conferenze su quel tema; egli obbedì ma, ugualmente, fu sospeso a divinis. E quando, due anni dopo, annunciò che alle elezioni del giugno del 1976, avrebbe votato PCI, fu ridotto allo stato laicale.

Valutando a diversi decenni di distanza questi eventi, non si può evitare di porsi una domanda: “Con quelle sue scelte, Giovanni fu fedele al Concilio, o un interprete arbitrario dei suoi contenuti?” Per noi, che abbiamo accompagnato i suoi passi per oltre quarantacinque anni, la risposta è: fu fedele.

Intanto, anche – ma non solo – per la nuova situazione canonica in cui era stato posto Giovanni, nella Comunità di san Paolo si avviò una corale ed approfondita riflessione su un problema di straordinaria importanza: i ministeri ecclesiali.

Con l’aiuto di illustri esegeti, approfondimmo il pensiero e la prassi di Gesù in proposito: scoprimmo che egli, per i suoi, non parla mai di “sacerdozio”, ma ipotizza “ministeri”, cioè servizi alla comunità, e ci spiega che solo l’amore per l’altro, tanto più se questi è uno degli ultimi della terra, è sacro.

Su questa premessa cadono dunque antiche certezze e si delegittimano strutture di potere che caratterizzano le religioni e le chiese, a cominciare dalla Chiesa cattolica romana. Questa comprensione portò con sé una nuova consapevolezza della questione “donna nella Chiesa”, prima solamente accennata nella nostra comunità.

Infine, con la coscienza e comprensione evangelica via via acquisite nel nostro percorso di ricerca, le nostre celebrazioni andarono cambiando, fino ad arrivare ad una celebrazione corale, in cui nessuno occupa il posto di presidente dell’Assemblea e dove, tutti e tutte, insieme ripetiamo le parole pronunciate da Gesù nell’ultima cena e, indifferentemente, qualcuno o qualcuna di noi ripete il gesto di spezzare il pane.

Nel nostro piccolo, “l’altra metà della Chiesa” aveva ritrovato il suo posto, il suo protagonismo e la sua dignità. Giovanni, da parte sua, seppe interpretare in maniera condivisa il suo ruolo pastorale: nessun gesto magico nella nostra celebrazione, nessun riferimento al “sacro” come alibi per mantenere strutture gerarchiche e oppressive, ma solo l’affermazione di quell’amore emblematicamente, e più volte, ricordato nella parabola del buon samaritano.

La Comunità nel corso dei decenni, e sempre con l’apporto fecondo di Giovanni, è stata partecipe del movimento delle comunità cristiane che si è caratterizzato per i suoi connotati anti-autoritari e non-violenti.

Le nostre prese di posizione laiche e anticoncordatarie hanno conosciuto momenti di mobilitazione e partecipazione a campagne di opinione sui temi dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole e contro le figure istituzionali dei cappellani militari nell’esercito.

Il ricordo di una figura emblematica come quella di Giordano Bruno e del suo martirio ha visto sempre Giovanni partecipe e consapevole. Coerentemente, quando abbiamo celebrato i quarant’anni di vita della nostra Comunità, l’abbiamo definita come uno spazio di libertà e un cammino di ricerca; non quindi una struttura monolitica ma un mosaico di storie e di sensibilità personali capaci di convivere e interagire nelle loro diversità.

Tutti, a turno, organizzati in diversi gruppi su base territoriale o tematica, propongono argomenti su cui incentrare la celebrazione eucaristica, letture, preghiere, non necessariamente mutuate dal calendario liturgico.

Da questo materiale Giovanni sapeva attingere e animarlo con le sue interpretazioni “spiazzanti” del vivere la fede ma anche con le sue battaglie civili come quella in cui si schierò con le donne, con tutte le donne, a favore dell’autodeterminazione delle stesse e per la difesa della legge n°194 che regolamentava l’interruzione volontaria di gravidanza.

Tutti noi ricordiamo i suoi interventi domenicali, ricchi di dottrina e di vita quotidiana, capaci di spaziare fra suggestioni buddiste, sure coraniche o midrash della tradizione ebraica; così come la sua umana capacità di accogliere la signora Welby che si era vista rifiutare i funerali religiosi per il suo Piergiorgio e da lì prendere lo spunto per avviare una riflessione sul cosiddetto fine vita, o, meglio, sul diritto a “vivere la propria morte”.

Franzoni a tutti riconosceva diritti di cittadinanza: nella società civile e nella Chiesa. E noi con lui abbiamo faticosamente imparato le vie difficili della solidarietà: per popoli oppressi, per il Guatemala attraverso la fraternità pluridecennale con l’esperienza del “Mojoca” animato da Gerardo Lutte, per i profughi richiedenti asilo, per gli afgani, per i rom.

Ciascuna di queste realtà ha trovato in comunità diritto di cittadinanza e ascolto ospitale: dalla scuola di italiano, alla mensa solidale de “La sosta”, pensata e voluta proprio da Giovanni. A queste si aggiungono altre occasioni di solidarietà che ci siamo sforzati, pur coi nostri limiti e contraddizioni, di coltivare nel corso degli anni.

Non è certo un caso se gruppi o associazioni di omosessuali o LGBT, ogni tanto celebrino con noi l’assemblea domenicale sentendosi riconosciuti nelle loro identità.

Giovanni decise di unire la sua vita a quella di Yukiko: questo incontro con la cultura giapponese e le religioni orientali gli aprì scenari ignoti ad un occidentale e lo avvicinò ancora di più alle problematiche del pacifismo attraverso la riflessione di una società che aveva conosciuto la bomba atomica.

Continuò a spendersi per le cause ecclesiali, sociali e politiche che gli stavano a cuore. Sostenne la causa palestinese, visitando i campi profughi del Libano; ebbe (avemmo) incontri festosi e fraterni con vescovi dell’America latina legati alla teologia della liberazione, e partecipe solidarietà con l’azione e il martirio di monsignor Oscar Romero; con vari libri approfondì la questione femminile nella Chiesa e fu sensibile alle istanze della teologia e della prassi femminista; affrontò temi teologici tabù, come quello esaminato nel libro “Il diavolo, mio fratello”; si impegnò nella città, come esponente eletto in un municipio, per il bene-essere di Roma.

Pur affaticato, per i malanni dell’età, egli non abbandonò nessuna battaglia. Ma, inevitabile, arrivò a poco a poco il tramonto fisico: la quasi cecità che, negli ultimi anni, lo afflisse, fu per lui un doloroso handicap. In merito, possiamo testimoniare che egli affrontò la malattia con pazienza e, anche, con una rara dose di humour. Anche del tumore che lo colpì – e che, e lo sapeva bene, avrebbe affrettato la sua fine – egli ragionava con ammirevole distacco.

Per quanto non inattesa, il 13 luglio 2017 ci giunse, come un fulmine, la notizia della sua morte improvvisa. Nella veglia funebre, in comunità, venne a pregare con noi pure l’abate di san Paolo. E il 15 luglio, quando la bara di Giovanni veniva portata nella sala polivalente del Centro “Parco Schuster”, nei giardini antistanti la basilica, ove si sarebbe celebrato il funerale – e ad esso fu presente anche umile gente del quartiere che aveva amato, oltre a persone cristiane non cattoliche, e musulmane – per disposizione di don Roberto le campane della basilica suonarono.

Per noi Giovanni Franzoni è stato un profeta che ci ha fatto capire cosa voglia dire essere “chiesa altra”: non dunque un’altra chiesa risultato di una divisione o di uno scisma, ma un modo radicalmente altro per cercare, pur consapevoli dei suoi e nostri limiti, di vivere la memoria e la testimonianza di Gesù.

Giovanni si è battuto, anche nei suoi ultimi scritti su Confronti, contro le facili canonizzazioni e noi non gli faremo questo torto; possiamo solo testimoniare che per molti di noi è stato maestro di fede e di speranza, al di là e oltre le religioni. È dunque responsabilità nostra, e dell’intera comunità dei credenti, che la sua eredità non vada perduta. Egli ha onorato, in un tempo, ecclesiale e politico, diversissimo da quello di Benedetto da Norcia, l’antico mandato ora et labora.

Questo ha fatto Giovanni, ormai “cattolico marginale” (come lui amava definirsi), segnato da grande mitezza, passione ecclesiale e rigore laico.

La sua memoria sia in benedizione.

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Il cercatore di una fede autentica

di Fabrizio Giusti

Giovanni Franzoni non è stato un credente come gli altri: ha spaccato le opinioni, ha messo in circolo delle idee, ha fatto opinione.

Fu il più giovane italiano alle ultime due sessioni del Concilio Vaticano II. A metà degli anni settanta, le polemiche per le sue posizioni lo portarono all’estromissione dal suo incarico. Nella Santa Sede le sue critiche alla Chiesa e alle presunte collusioni con i poteri forti, il favore verso il divorzio, la dichiarazione di voto per il Pci, l’idea di far costruire dal Vaticano le case popolari per i poveri dei quartieri, non era state digerite. I tempi, quei tempi in particolare, non lo consentivano. La sua omelia si era trasformata in un fatto condiviso, in un perpetuo confronto con i laici. Sui muri del quartiere apparvero scritte come “Franzoni Giuda”.

Non fu mai scomunicato, come si è erroneamente scritto in qualche biografia, ma ridotto allo stato laicale. Animò la Comunità di Base di San Paolo, in un locale di via Ostiense. Si è definito “Un cattolico marginale” in un autobiografia pubblicata pochi anni fa da ‘Rubbettino’. Una definizione azzeccata. Dopo il rumore della guerra ideologica, è stato infatti messo ai bordi, dimenticato, pur avendo sempre voce, dialogo ed intelligenza acuta.

“In Vaticano – raccontò in un intervista a “La Repubblica”, citando i tempi dell’allontanamento – mi denigravano. Dicevano che mi ero venduto al Pci. Una domenica in basilica un giovane pregò perché suo figlio potesse crescere in una Chiesa dove non si faceva speculazione finanziaria. Paul Mayer, a quel tempo segretario dei Religiosi, reagì. Mi disse che visto che ero così “democratico” dovevo accettare le sue condizioni: sottoporre ogni atto pubblico al parere dei superiori. Presi tempo. In una riunione della Comunità si alzò Vincenzo Meale. Disse che dovevo obbedire perché altrimenti sarei stato l’unico a pagare. Però, spiegò, “è certo che se accetta le censura, la mia esperienza con la Comunità finisce qui”. Fu un lampo, un’illuminazione appunto. Risposi: “Ho capito”. E il lunedì seguente dissi a Mayer che volevo dimettermi. E così ebbe inizio la mia nudità”.

La nudità, appunto. Franzoni ardiva a recuperare il Gesù autentico, quello spoglio di orpelli, il messaggero di una nuova visione del mondo e dell’umanità, scevro da decorazioni o addirittura ricchezze. Fu soprannominato “L’Abate rosso” (ai tempi della divisione del mondo tra Ovest ed Est avere addosso un’etichetta era molto facile). Nel periodo del referendum sul divorzio, che interrogò profondamente il mondo cattolico nonostante la presa di posizione ufficiale, gli dissero di cercarsi una diocesi.

Chiese il trasferimento a Frascati, nei Castelli Romani. Nei suoi ricordi, spiegò l’aneddoto così: “Volevo che l’esperienza con il nostro gruppo di laici non finisse con la mia uscita da San Paolo. Cercai di nuovo il Cardinal Poletti, e, dopo avergli spiegato che la sentenza di sospensione a divinis era a mio avviso invalida perché io avevo ubbidito all’ingiunzione di non parlare più in pubblico disdicendo tutti gli appuntamenti, lui ammise che forse effettivamente c’era stato qualche errore ma si appellò alla mia comprensione delle procedure e delle prassi ecclesiastiche per cui non dovevo aspettarmi che la Chiesa ammettesse pubblicamente di avere sbagliato. Mi suggerì inoltre di trovare un vescovo benevolo pronto a incardinarmi nella sua diocesi.

Contattai Monsignor Luigi Liverzani, a Frascati, la diocesi più vicina. Era una persona informata, aperta, vicina al mondo del lavoro, mi avrebbe preso nella sua diocesi senza alcuna condizione. Presentai quel nome a Poletti e il vicario mi rispose che Frascati era troppo vicina a Roma. «C’è un chilometraggio minimo, vostra Eminenza?».

Così l’ex Abate aprì una sua Comunità di Base. Si era già lasciato affascinare, in quegli anni dalle tematiche contraddittorie di Roma e di un quartiere popoloso come San Paolo, in parte borghese e per larghi strati confinante e compenetrante con fasce di emarginazione, di baraccati e povertà degli altri quartieri vicini. Continuò a mettere insieme laici, donne, uomini, giovani, credenti. Lottò da pacifista e per gli operai licenziati. Quando lasciò il suo incarico, è il tempo della sua lettera pastorale “La terra è di Dio”. Fu il suo modo di pensare ‘Fuori le mura’ , come la Basilica, intraprendendo un percorso fatto di autonomia e libertà di coscienza per tutta la sua esistenza. Continuando a far discutere.

Fino alla morte è stato come ha vissuto. Marginale, sì, ma molti dei temi che affrontava allora oggi sono storicizzati, sono nella società che viviamo, e a quarant’anni di distanza da quel ‘conflitto’ doloroso hanno tutt’altro senso e fanno di ‘Dom’ (dal latino Dominus, è il trattamento riservato ai monaci benedettini) Franzoni un cristiano mai banale, originale, inedito, ricco di spunti e considerazioni che hanno diviso, certo, ma come giusto che sia.
Ricercare che ‘qualcuno che tutti cerchiamo’ (per dirla con Padre Turoldo) è sempre un cammino di strade tortuose.

Fratello più che “ex abate”

di Giovanni franzoni

La Chiesa usò la Dc, ma alla fine fu usata, come apparve allora, da Amintore Fanfani nella battaglia per il referendum sul divorzio. Mi schierai pubblicamente per il «no», no all’abrogazione della legge Fortuna-Baslini che per la prima volta in Italia dava la possibilità di divorziare.

In ogni luogo dove andavo a parlare venivo annunciato dalla pubblicità delle mie recenti dimissioni, ero già «l’ex abate». Non andavo a fare esplicita propaganda, accettavo solo gli inviti ai dibattiti sulla famiglia.A Palermo, a Taranto, a Bergamo.Ogni volta che qualcuno mi chiedeva un’opinione sul divorzio, rispondevo: credo nella libera scelta, e lo dico.

Vestivo sempre con la talare quando andavo in pubblico. Arrivai a Taranto preceduto dai titoli dei giornali locali. Seppi poi che l’arcivescovo Motulese non l’aveva presa affatto bene; aveva premuto su Roma perché si prendessero provvedimenti nei miei confronti.

Mancano poco più di due settimane al referendum, il clima è rovente. Sono a Desenzano sul Garda, sto predicando gli esercizi spirituali con un gruppo di missionari che deve partire per i Paesi europei in cui si trovano comunità di immigrati di lingua italiana: Svizzera meridionale, Lussemburgo, Francia.In convento mi arriva un telegramma firmato dall’Abate Angelo Mifsud, un maltese, (presiedeva la Congregazione Cassinese). Letterale: «Se non cessate di tenere assemblee sul divorzio sarete sospeso ipso facto a divinis». Ipso facto, contro ogni diritto moderno.

Il giorno dopo ho un convegno alla Camera di commercio di Bergamo; parto per capire come posso gestire la giornata. Arrivo nel centro storico e per strada vedo persone che manifestano, cartelli in mano. La Camera di commercio è chiusa: su pressioni democristiane l’uso della sala è stato revocato.

Seguo in macchina il flusso della gente, si stanno spostando verso la chiesa di San Pietro, gremita. C’è gente seduta con le gambe penzoloni dalle finestre. Mi faccio largo, vado all’altare e dico: «Io non posso parlare, voi non potete parlare perché vi chiudono in faccia il portone, i fatti parlano da soli».

Non avevo grande paura dei provvedimenti ecclesiastici. Immaginavo piuttosto che con il polverone alzato da una sospensione a divinis avrei potuto condizionare più pesantemente il voto dei cattolici.

Annullo l’incontro previsto due giorni dopo alla Fatme, a Roma, con il socialista Paris Dell’Unto, vice sindaco della città. Era un sabato, il 27 aprile 1974. La domenica ero su tutte le tv: «Il noto Dom Franzoni è stato sospeso a divinis».

Mi avevano sospeso, anche se non ero intervenuto al dibattito. E i giornalisti continuano a usare quel «dom» per definire un monaco, per differenziarlo dal «don» che precede un normale prete. In Italia il «dom», abbreviazione mitteleuropea di dominus non è stato mai adottato dai benedettini, ma per lungo tempo, e ancor oggi qualche volta, debbo convivere con i due appellativi che precedono la mia identità: l’ex abate, il dom. E con un sogno ricorrente: le assemblee con la Conferenza episcopale, le grandi assisi del Concilio. Io, in grandi stanze, attorno a grandi tavoli, insieme ai miei confratelli.

La firma sotto la sospensione a divinis è del Cardinal vicario Ugo Poletti che, devo dire – non per astio ma perché ne sono convinto – era persona di intelligenza modesta e di modesta cultura. Non era un conservatore né un democratico, era un uomo che sapeva muoversi insieme al vento e che teneva in massima attenzione la politica.

Accettai in silenzio, anche se in cuor mio sentivo di avere doppiamente ragione: dal punto di vista sostanziale, perché quelle erano le conseguenze di aver preso sul serio il Concilio, e dal punto di vista formale perché la procedura di sospensione a divinis era fondata su presupposti inesistenti.

Ricordo con simpatia, però, che dopo la vittoria del referendum, i radicali festeggiarono in piazza Navona urlando: «Se ci fosse ancora la possibilità di eleggere un papa per acclamazione, Franzoni sarebbe papa a furor di popolo».

Mi sono poi ritirato con la mia Comunità di base che già da quasi un anno si riuniva in via Ostiense, al 152 b, cento metri più in là dell’appartamento che condividevo con don Pierre.

Il mio impegno pro-referendum mi aveva fatto perdere di vista anche l’amico coinquilino. Era quasi sempre solo e, dopo qualche mese, decise di tornare in Belgio. Ho scoperto in quella occasione quanto sia difficile vivere insieme in un appartamento di quaranta metri quadrati e quanto si possa essere violenti senza accorgersene, scoprendo poi, magari da un gesto della bocca, di avere ferito l’altro.

Volevo che l’esperienza con il nostro gruppo di laici non finisse con la mia uscita da San Paolo. Cercai di nuovo il Cardinal Poletti, e, dopo avergli spiegato che la sentenza di sospensione a divinis era a mio avviso invalida perché io avevo ubbidito all’ingiunzione di non parlare più in pubblico disdicendo tutti gli appuntamenti, lui ammise che forse effettivamente c’era stato qualche errore ma si appellò alla mia comprensione delle procedure e delle prassi ecclesiastiche per cui non dovevo aspettarmi che la Chiesa ammettesse pubblicamente di avere sbagliato. Mi suggerì inoltre di trovare un vescovo benevolo pronto a incardinarmi nella sua diocesi. Contattai Monsignor Luigi Liverzani, a Frascati, la diocesi più vicina.Era una persona informata, aperta, vicina al mondo del lavoro, mi avrebbe preso nella sua diocesi senza alcuna condizione.

Presentai quel nome a Poletti e il vicario mi rispose che Frascati era troppo vicina a Roma. «C’è un chilometraggio minimo, vostra Eminenza?».La verità è che voleva spezzare il mio rapporto con la comunità e questo non l’avrei mai permesso. Rimasi sospeso per due anni e, contro ogni diritto canonico, vagante senza sede.

Furono tre le motivazioni vere di quel provvedimento eccessivo. Il momento storico: il Partito comunista che cresceva e il referendum sul divorzio che la Dc voleva vincere e perse; il mio ruolo: ero stato un prelato di Santa Romana Chiesa e avevo appartenuto alla Conferenza episcopale italiana; la mia sede: vivevo e operavo a Roma, a pochi chilometri dalla Santa Sede e ogni mio bisbiglio era ascoltato oltretevere.

Due anni dopo si aggiungerà il caso Lefebvre: la Chiesa non poteva accettare le sfide che quel vescovo ultraconservatore le stava portando. Per punire lui, che aveva fatto il piccolo scisma di Econe, Paolo VI fu costretto a dare un colpo anche al dissenso cattolico, e ad emarginarmi dalla Chiesa.

Avevo collaborato fin dalla sua nascita con la rivista cattolica di ispirazione conciliare «Com», che presto si fonderà con la rivista protestante «Nuovi tempi».È in quella sede che per la prima volta manifestai una adesione alle politiche sociali e sanitarie delle amministrazioni di sinistra e per la prima volta feci una dichiarazione di voto per il Pci alle politiche del 1976.

Scrissi che il Partito comunista italiano aveva dimostrato di adoperare l’analisi e la prassi marxista in modo critico, che era stato capace di mettersi al servizio del Paese e della causa antifascista, che si era sforzato di modificare alcune ipotesi iniziali, che aveva privilegiato forme di lotte civili e politiche come espressione della forza della ragione rispetto all’arroganza del potere.

«E se il voto resta un episodio», dissi, «la mia adesione politica è di ogni giorno; non prenderò la tessera solo per obbedire all’articolo 43 del Concordato che me lo impedisce».

Il 20 giugno 1976 il Pci guadagnò 3 milioni e 600mila voti arrivando a una percentuale del 34,4%, Nonostante lo scandalo Lockheed la Dc mantenne i suoi, e restò al 38,7%.

Nella domenica del voto il cardinal Poletti preparò una lettera e me la fece recapitare presso la «sedicente Comunità cattolica di base», in Via Ostiense 152b.

Tra parentesi, a questo proposito, la Comunità non è mai stata riconosciuta in alcun modo dall’Istituzione se non con lo sprezzante appellativo di «sedicente», proprio come le prime comunità cristiane che non avevano diritto di cittadinanza nel mondo romano.

Unica, rilevante eccezione mons. Clemente Riva, vescovo ausiliario di Roma sud, rosminiano, che, venutoci a trovare poco tempo prima degli eventi che sto raccontando, dopo aver pregato con noi ci disse, più o meno, ma in sostanza: «Io non sono qui per darvi un avallo che del resto non mi chiedete, tuttavia voi siete per me, nel mio settore, una comunità di fede tra le altre».

In quel periodo Poletti, che mi dà ancora del tu, mi fa sapere: «O fai ritorno umile e sincero alla disciplina ecclesiale riconoscendo pubblicamente i tuoi errori oppure sarai ridotto allo stato laicale».

Se non abiuro e mi inghiotto la dichiarazione di voto comunista le possibilità sono due; o mi autoriduco o mi puniranno loro. Rispondo che avrei sentito prima la mia comunità e la convoco per il lunedì successivo, il 28 giugno.

Quell’assemblea si apre a tutte le comunità di base e a chiunque voglia intervenire. Quattro amici salgono a San Giovanni in Laterano e invitano nel salone anche il cardinale che mi sta punendo. Poletti rifiuta seccato e proibisce a qualsiasi autorità del Vicariato di farsi vedere.

L’assemblea della comunità di San Paolo è affollata.C’è Don Enzo Mazzi da Firenze, c’è Don Lutte dalla Magliana, Suor Cleofe e l’avvocato Francesco Zanchini.

Il «Corriere della Sera» definisce il nostro salone squallido. A me sembra spoglio, non squallido. Prevale l’idea di riaprire il dialogo, senza rinunciare alle nostre convinzioni di fondo.

In quel periodo ripresero le azioni violente di Civiltà Cristiana contro la Comunità e la mia persona. Un giorno venne parzialmente incendiata la sede della Comunità e sul muro del corridoio di ingresso trovammo la scritta «Franzoni al rogo».

Intanto la Cei sta organizzando a Roma un secondo convegno, «Evangelizzazione e promozione umana».

Portiamo il nostro contributo con una lettera in cui diciamo in sostanza: «Noi cristiani ci vergogniamo di una città santa come Roma dove la Chiesa è in collusione con chi non cede un’unghia dei suoi privilegi ottenuti con il sangue dei più poveri. La chiesa è violenta quando fa passare come volontà di Dio pratiche sessuofobiche, antievangeliche e antiumane.

Nei quartieri bisognosi la Chiesa non deve invadere spazio prezioso con edifici dedicati al culto quando può bastare un locale ampio e decoroso che può essere utilizzato anche per le assemblee di quartiere».Le nostre analisi vengono accolte in città a tutti i livelli, invece il Vaticano liquida il documento come pieno di superbia.

Il Cardinal Poletti aveva mal sopportato che avessi reso pubblica la lettera con cui minacciava di allontanarmi dalla Chiesa. E allora, su «l’Osservatore Romano», tacciandomi di scorrettezza, di mancanza di stile, di voler turbare le persone inesperte e impreparate aizzandole contro la Chiesa, rende pubblica la versione integrale di quel documento.

Dice: «Don Giovanni, le tue dichiarazioni su “Com-Nuovi tempi” hanno riproposto clamorosamente davanti al popolo italiano il tuo caso e i tuoi rapporti con la Chiesa. Con il documento che notificava la sospensione a divinis da te firmato il 19 luglio 1974 ti eri impegnato a chiarire il tuo pensiero dottrinale e la tua posizione disciplinare entro sei mesi. Né la tua lettera del 23 dicembre 1974, né gli scritti successivi hanno offerto plausibile spiegazione del tuo comportamento e del tuo insegnamento. Anzi, c’è stato un progressivo deterioramento con caratteristiche sempre più aggressive verso la Chiesa e i suoi pastori. Le tue dichiarazioni su “Com-Nuovi tempi” hanno precipitato tutto, per di più in chiave elettorale, tanto lontana da una visione ecclesiale del tuo problema, suscitando meraviglia e scandalo tra il clero e il popolo cristiano».Entro dieci giorni devo rispondere, «oppure la Chiesa dovrà adottare il provvedimento di riduzione allo stato laicale».

Il giorno dopo quell’assemblea Paolo VI, seguendo la teoria degli opposti estremismi, sospende a divinis, per un anno, l’Arcivescovo Marcel Lefebvre. Nelle stesse ore io spedisco al Vicario generale una lettera in cui ribadisco la mia fede nelle maggiori verità della chiesa cattolica: «Credo in Gesù Cristo e l’amore per lui non è ignara rassegnazione, ma scelta di vita e di lotta per gli sfruttati di ogni tempo».

Dico: «La mia tensione con l’autorità ecclesiastica non è mai dipesa da motivi di fede, ma da mie scelte politiche che non ritengo erronee anche se in contrasto con la linea ufficiale portata avanti dalla Conferenza episcopale italiana. Mi sento prete fino in fondo e non chiederò mai la riduzione allo stato laicale».

Già, il Cardinal Poletti iniziava ad avanzare motivi dottrinali per giustificare le sanzioni contro di me. Nell’intervento autoritativo per la riduzione allo stato laicale, infatti, si parlerà di atti contro le verità di fede perché avevo dato la mia dichiarazione di voto per il Pci e la mia adesione alle sue lotte politiche.

Questi erano, per la mia Chiesa, «atti contro natura». Mi avrebbero telefonato e scritto miei congiunti preoccupati che avessi compiuto chissà quali perversioni.

La mia corrispondenza con le zie Anita e Nella, rende molto bene, a mio avviso, il clima di quel periodo e le reazioni umane.In Vaticano si sosteneva infatti che il comunismo era contro l’ordinamento naturale delle cose e contro la dottrina della Chiesa, ma io avevo esplicitamente detto che aderivo alle forme partecipative nel sociale del Pci e basta.

L’applicazione dei diritti in questo Paese era roba degli assessori di sinistra. Nella psichiatria, nell’handicap, nella scuola, nell’infanzia c’era sempre un’avanguardia di sinistra.

Il comunista non istituzionale Franco Basaglia, direttore dell’ospedale psichiatrico di Trieste, mi spiegava che a Gorizia e a Trieste non avrebbe fatto nulla se non vi fosse stata una giunta di sinistra.

Quando enunci dei principi sei radicale, quando devi chiudere un manicomio o devi aprire una comunità alloggio ti affidi a una prassi per niente anticristiana. Io non aderivo al marxismo, né, assolutamente, all’ateismo. Aderivo alla prassi delle giunte di sinistra in Italia. Devo anche dire, però, che in quel periodo molti preti «spretati» sono stati silenziati dallo stesso Pci: non voleva che mettessero in difficoltà le politiche di compromesso storico di Enrico Berlinguer. Il partito faceva assumere gli ex sacerdoti negli apparati amministrativi vicini al partito, loro trovavano moglie e smettevano di essere un problema. Per la Chiesa e per il Partito.

Il nuovo incontro con il Cardinal Poletti servì a poco. Il vicario mi disse che il caso non era più di sua competenza e che ne erano stati investiti organismi ufficiali ecclesiali, genericamente.

La faccenda era andata a finire nelle mani della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede (ex Sant’Uffizio), ed era intervenuto direttamente Paolo VI. Le riduzioni allo stato laicale sono infatti di diretta competenza del papa.

Una bella apertura in quei giorni arrivò da monsignor Bettazzi, che scrisse una lettera a Enrico Berlinguer. In essa il vescovo di Ivrea diceva di guardare con attenzione l’impegno del Pci a realizzare un’esperienza originale di comunismo, diversa da comunismi di altre nazioni.

Quel dialogo tra un vescovo e un segretario di partito corrispondeva al dialogo che c’era tra la base cattolica e quella comunista.

Noi non volevamo un nuovo sincretismo tra ideologia marxista e fede cristiana, né mettere il ministero episcopale al servizio di una parte politica, chiedevamo solo di amare Cristo nella Chiesa senza rompere la nuova solidarietà creata con i lavoratori organizzati.

(Dal sito “rubettinopills.it)

Ora il video che documenta l’ occasione nel 2014 della presentazione  delacsua autobiografia al Centro Balducci. Prima di sentire la viva voce dell’ autore, Pierluigi Di Piazza, venuto a mancare lo scorso maggio, ripercorre con particolare sensibilità la biografia di Franzoni, con diverse citazioni prese direttamente dal libro.

In quest’ intervista, e ancora in occasione dell’ uscita di un altro volume, Franzoni apre toccando il tema della “predicazione” , da sempre prerogativa del prete ma che nell’ esperienza fatta ancora come abate, diventa frutto di un confronto comunitario. Il tema  riguardante la stessa struttura delle assemblee liturgiche:ah, quanto se ne potrebbe parlare!

Per conoscere le Comunità di Base:

https://www.cdbitalia.it/

Il “profetismo” di Giovanni Franzoni, instancabile cercatore di una fede autenticaultima modifica: 2023-07-13T05:56:14+02:00da piero-murineddu
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