Andrea Pilo e il suo appassionato lavoro di Ricerca

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di Piero Murineddu

Una vecchiaia faticosissima quella di Andrea, affetto com’era da diverse patologie che gli condizionavano fortemente la vita quotidiana. Mentalmente, invece, un entusiasmo nella ricerca e nell’approfondimento che non lo ha mai abbandonato. Fin quando la vista e la mano ferma gliel’hanno consentito, lui continuava   meticolosamente a scrivere appunti e a conservare ritagli, con l’obiettivo di dare alle stampe la continuazione dei suoi Ammenti:

O Piè, un piazzèri ti dummandu. Mi dubaristhi và una fotografia di li trabagli ghi sò fendi i la boccia di la Zimbonia e zischamminni un’althra cu lu cabbu di una giaddhina….”.

Per i lavori di copertura della cupola di San Pantaleo, la cosa mi sembrava comprensibile, dal momento che sulla parrocchiale storica di Sorso nel 2000 ha pubblicato un volume, affidandone a vari artisti la raffigurazione pittorica, ciascuna commentata da lui, appassionato ed esperto d’arte. La motivazione della seconda foto mi rimarrà purtroppo sconosciuta. Anche se non immediatamente, l’avevo accontentato, ma le cose che ci dicevamo quando lo andavo a trovare erano talmente tante, che mi è sempre sfuggito di chiedergli il motivo di questa foto della gallina.

In altro spazio ho avuto modo di parlare del mio grande senso di riconoscenza nei suoi confronti per il lavoro certosino che aveva fatto nel raccontare la Sorso dei suoi ricordi attraverso due volumi, e il farlo attraverso lo scritto non dev’essere stata sicuramente cosa facile. Mi ricordo alcune critiche sentite da concittadini riguardo alla scrittura di certi termini, al tradurre in lettere certi suoni che abbiamo solo nella nostra particolare parlata. Certo, una grammatica in tal senso è ancora tutta da definire, ma intanto lui, con l’aiuto del suo amico Peppino Manzoni, ci aveva provato, e a mio avviso con ottimi risultati, considerando quanto la cosa non sia per niente agevole.
Qualche tempo fa, riscrivendo per la pagina FB ” Banca della Memoria” alcune registrazioni effettuate con persone anziane, avevo fatto la scelta di scrivere le parole come si pronunciano, al fine di migliorarne la lettura, come si fa col romanesco  o col napoletano, ma sicuramente anche questo  è discutibile. Aspettiamo che persone titolate diano indicazioni autorevoli a cui attenerci. L’importante è che la parlata  usata nelle case dove siamo cresciuti e con la quale abbiamo comunicato coi nostri genitori e fratelli, non venga soppiantata miseramente e definitivamente dalla sempre più insistente e a volte alquanto approssimativa terminologia di inglesismi vari. Dalle nostre parti, ma non solo, è da molto ormai che quasi ci si vergogna di parlare in dialetto, oppure, soprattutto le nuove generazioni, non lo si conosce proprio, e se si tenta di parlarlo, il risultato è alquanto miserevole. Nel contempo, si tende ad usare (e sfoggiare!) termini di derivazione anglosassone. Il conoscere lingue estere è sicuramente cosa positiva, ci mancherebbe, specialmente per permettere la comunicazione con persone che sempre in numero crescente – nonostante la tendenza al “respingimento” legalizzato dai governanti che si stanno susseguendo in Italia da troppo tempo – stanno arrivando da luoghi lontani, ma il voler ad ogni costo dimenticare, se non addirittura rinnegare quello che siamo stati, è senz’ombra di dubbio segno di debolezza.

A Sorso questo rischio di perdita di identità è sempre più evidente, probabilmente perché, ripeto, ci si vergogna di quello che son state le generazioni passate e si fa di tutto per allontanarsene. Ci son paesetti in Sardegna orgogliosissimi delle loro tradizioni, e per esempio attraverso un piccolo museo, ne perpetuano la conoscenza. Da noi sembra che si faccia tutto il contrario. I politici che si susseguono sono prevalentemente impegnati a mantenere il più a lungo possibile il piccolo potere  raggiunto, producendo più fumo che arrosto e infischiandosene (perché incapaci?) di operare seriamente per il progresso culturale dei propri amministrati. Ma anche da parte della cittadinanza sembra che non ci sia molto interesse per accrescere il senso di appartenenza e curare la propria storia. La mancanza assoluta di associazionismo che operi in tal senso ne è la prova. Adesso le cause di quest’immobilismo culturale vengono ricondotte all’infinita crisi economica, ma a mio discutibilissimo parere, è perché non vi è interesse, e l’interesse non vi è forse perché non c’è vero apprezzamento per la propria storia  e la propria cultura. Se ciò fosse vero, sarebbe un grosso e pericoloso rischio, specialmente per le generazioni future. Duole dire queste cose, ma i fatti, o meglio i non fatti, lo confermerebbero. Il praticare il proprio dialetto, parlata o lingua locale, chiamatela come volete, oppure il volersene allontanare il più possibile, è spia evidente di questa volontà o meno di recuperare l’identità perduta.

In questo senso, per me il carissimo e compianto Andrea continuerà ad essere un punto di riferimento.

Parlavo di colonizzazione culturale, e la festa di “Halloween” ne è un chiaro esempio. Nel testo che segue, a modo suo Andrea racconta cosa in questi giorni avveniva dalle nostre parti.

A conclusione, quanto Nicola Tanda scrisse di Andrea nel secondo volume “Ammenti” del compianto e indimenticabile prof di disegno

Lu cabbu di lu morthu

di Andrea Pilo

Da una zucca tumbariga, chi li babbi o li fraddeddhi l’arrigabani da campagna, ni tagliabani da la parthi di sobbra un pezzu tuttu paru chi sivia pà fa lu tappu. Pianu pianu ischuminzabani a imbiudalla cabendinni la mazza e lu semini chi no zi gittabani ma li lababani e li puniani ad asciuttà innantu a la preddabaina di li baischoni pa magnassiri più  a tardhu. Candu l’abiani beddha puridda, la trabagliabani.

La prima cosa chi faziani erani l’occi tondi tondi, lu nasu inveci era un’isthampa a trianguru, la bocca cu li denti a serrachinu era manna ma isthrinta. Finiddu chisthu appentu, furabani da casa un muzziggoni d’isthiarica chi puniani in una isthamparedda in fondu a la zucca e l’azzindiani. A lu buggiu paria avveru un cabbu di morthu. Tandu allegri e dizendi parauri impriasthaddi pa fa a timì li femmini vecci e li pizzinneddhi, girabani pa l’isthrinti senza luzi, ma era poggu e nuddha in dugna loggu, finza a candu caschunu no s’’arrabiaba e li pissighia. Fuggiani a “pedi mei aggiuddami”, e umbè di bosthi currendi pa no intrà in manu e buschassi una mazzadda da truncalli l’ossi, pirdhiani puru lu cabbu di lu morthu.

Traduzione

Da una zucca grande gialla, che i padri o i fratelli più grandi portavano da campagna, tagliavano dalla parte superiore, un pezzo che finito il lavoro serviva da tappo. Piano piano cominciavano a svuotarla ma senza buttare i semi che li lavavano e li mettevano ad asciugare sull’ardesia delle finestre per poterli mangiare più tardi. Quando l’avevano pulita bene internamente la lavoravano. Per primo facevano gli occhi che dovevano essere rotondi, il naso invece era a forma di triangolo, la bocca seghettata ma larga e stretta. Finito di lavorarla prendevano da casa, di nascosto, un pezzo di candela, la mettevano in un piccolo buco ricavato nel fondo della zucca e l’accendevano. Al buio sembrava veramente una testa di morto o meglio un teschio. Allora contenti e felici e dicendo strafalcioni per mettere paura alle donne vecchie ed ai bambini piccoli giravano per i vicoli senza luce, ma era molto poca ovunque, fino a quando qualcuno non perdeva la pazienza, si adirava e l’inseguiva. Scappavano a gambe levate e speso correndo perdevano anche la testa di morto.

Andrea, amico mio da una vita

di Nicola Tanda

Con Andrea ho cominciato a giocare a pallone, come lui ho collezionato “Il calcio illustrato” con i disegni di Silva,, anni luce prima della televisione. Con lui ho attraversato il mare per Roma sulla motonave “L’ Abbazia” della Tirrenia. Siamo cresciuti insieme con i coetanei, quelli di Sant’Anna, di lu Cabu Cossu, di Corthi Alessandria, di La Fiorentina, di La Bicocca, di Cunventu, di Pian di Gesgia, di Santa Crozi, di Lu Pultheddhu e di Cabuzzini. Eravamo uno più uno: ci conoscevamo tutti. Gli amici delle elementari erano amici per sempre. Insieme andavamo al catechismo (duttrina) e al cinema, facevamo sport, partecipavamo alle feste. Una comunità di ragazzi dentro la comunità dei grandi. Quel sodalizio, costituito nelle elementari, veniva confermato durante i viaggi in treno. Lo prendevamo quasi tutti, quelli che proseguivano gli studi superiori e quelli che lavoravano a Sassari. Andrea è stato sempre libero e autonomo nei suoi giudizi, fermo nella sua fede religiosa, artistica, sportiva, testimone della civiltà di un paese. Paese allora tranquillo, di esempio per livello culturale e morale. Paese di grandi e teatrali litigate, per strada, non di odi e vendette. Un universo generalmente ispirato dalla fede e dalla saggezza, e perciò dal rispetto e dalla tolleranza.

Andrea Pilo e il suo appassionato lavoro di Ricercaultima modifica: 2023-10-31T06:12:03+01:00da piero-murineddu
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