“Vietato l’ingresso agli zingari”
Intervista a Piero Terracina
Il cartello “Vietato l’ingresso agli zingari” non può non richiamarmi alla mente ciò che accadde allora: era una infamia allora e lo è anche oggi (P.Terracina)
Piero Terracina, nasce a Roma in una famiglia ebraica, ultimo dei quattro figli di Giovanni Terracina e Lidia Ascoli. Nell’autunno del 1938 gli viene vietata la prosecuzione della scuola pubblica dalla promulgazione delle Leggi razziali fasciste in Italia. Nonostante il divieto il padre, un professionista, lo manda ugualmente a scuola, dove la maestra gli dice di restare fuori, perché ebreo, tra l’indifferenza dei suoi compagni. Terracina proseguì gli studi nelle scuole ebraiche fino a che, dopo essere sfuggito all’arresto durante il rastrellamento del ghetto di Roma del 16 ottobre 1943, venne arrestato a Roma il 7 aprile 1944, su segnalazione di un delatore, con tutta la famiglia: i genitori, la sorella Anna, i fratelli Cesare e Leo, lo zio Amedeo, il nonno Leone David. Detenuti alle carceri di Roma, dopo un breve soggiorno nel campo di Fossoli, nella notte del 17 maggio del ’44 comincia il viaggio di deportazione in un treno di prigionieri italiani di origine ebraica.
Degli otto componenti della sua famiglia, Piero Terracina sarà l’unico a fare ritorno in Italia. Il dramma si consuma il giorno stesso dell’arrivo a Auschwitz: immatricolato con il n. A-5506, per Terracina comincia la quotidiana lotta per la sopravvivenza. Finalmente, il 27 gennaio 1945, arriva la liberazione, che Terracina può condividere con l’amico Modiano e pochi altri italiani sopravvissuti, tra cui Primo Levi.Ma il ritorno alla
vita fu per tutti lungo e difficile. Piero Terracina, dopo il ritorno dall’internamento, venne accolto ed integrato dalla comunità ebraica romana. Da allora Terracina vive a Roma, dove ha svolto l’attività di dirigente d’azienda.
Che reazione produce in lei la notizia della affissione del cartello “Vietato l’ingresso agli zingari”?
«Ritengo che questa sia una infamia. Ricordo quando furono emanate le leggi razziali contro gli ebrei in Italia. Erano leggi rivolte esclusivamente
agli ebrei, le altre minoranze, qui in Italia quantomeno, non erano a rischio, non erano perseguitate. Bisogna pensare che all’epoca gli italiani erano per la stragrande maggioranza fascisti e questo facilitò la promulgazione di queste leggi razziste, anch’esse un’infamia.
Gli ebrei – da cittadini che vivevano ormai da oltre ventidue secoli in questi territori – cittadini italiani a pieno titolo che, né più né meno
degli altri, avevano contribuito al progresso e alla civiltà del nostro Paese, si trovarono ad essere perseguitati. Furono emanate queste leggi
e la gente si adeguò immediatamente, andando forse oltre anche quelle che erano già provvedimenti vessatori. Non esistevano leggi che vietavano agli ebrei di frequentare i negozi, però, qualche commerciante fascista, di propria iniziativa, decise di affiggere su alcune vetrine cartelli con su scritto il divieto d’ingresso rivolto “Ai cani e agli ebrei”. È stata
per noi una cosa assolutamente scioccante, per noi che avevamo vissuto in pace e in amicizia con tutti quanti fino ad allora. È difficile spiegare come possa accadere una cosa del genere. Di sicuro la maggioranza dei cittadini non ragionava più in maniera autonoma, ma con la testa del duce. Una frase allora ricorrente era «Il duce ha sempre ragione». Oggi in Italia non c’è un duce e ci auguriamo che non ci sia mai più in futuro. Questo fatto del cartello “Vietato l’ingresso agli zingari” non può non richiamarmi alla mente ciò che accadde allora, quindi posso dire che era una infamia allora e lo è anche oggi».
Perché secondo lei questo accade ai rom? Quali possono essere le ragioni che motivano un gesto come questo?
«Credo che esistano dei motivi che non sono certo delle giustificazioni.
Oggi in Italia abbiamo tante difficoltà, lo sappiamo. Difficoltà economiche e culturali: siamo rimasti indietro un po’ in tutti i campi e, quando ci sono queste fasi, la maggioranza sente il bisogno di addossare le colpe di queste difficoltà ad una minoranza. Lo fa perché, in quanto minoranza, non ha la possibilità di difendersi. Gli ebrei allora erano raffigurati come i portatori di tutti i mali e oggi, nel caso del cartello in questione, seppure si sia trattato dell’iniziativa di una singola persona,
ciò che temo è che si formi un gruppo sociale che porti avanti queste idee infami. È facile addossare le colpe ad una minoranza. L’unica cosa che si può fare, a mio avviso, è organizzare una protesta non soltanto da parte di chi è stato offeso, ma da parte di simile. Quindi tutte le organizzazioni che difendono i diritti delle minoranze sarebbe bene che si unissero e
che portassero avanti una lotta comune, poiché il loro scopo fondativo è quello di difendere i deboli, attivare delle iniziative, lavorando con i mezzi di comunicazione, che oggi hanno la possibilità di raggiungere molte più persone che in passato. È fondamentale bloccare ogni
iniziativa discriminatoria prima che essa si sviluppi ancor di più di quanto non lo sia già».
Uno dei commenti più significativi alla notizia del cartello è stata: «Gli ebrei hanno subito una persecuzione razzista e non si possono paragonare ai rom, che invece se lo meritano…». Perché questa differenza?
«È difficile da spiegare, e per fortuna queste non sono iniziative, oggi, perpetrate dallo Stato. Lo Stato, certamente, avrebbe il dovere di fare qualcosa per proteggere queste minoranze, perché sono esseri umani come tutti gli altri. Bisognerebbe che lo Stato sostenesse il progresso, anche culturale, di queste minoranze. Io frequento molto le scuole e mi capita spesso di incontrare ragazzi di etnia rom o sinti. Mi preoccupo sempre di conoscere la loro condizione all’interno della scuola, a
volte le insegnanti ne sottolineano le difficoltà legate ai disagi esistenziali che essi sono costretti a vivere e che hanno riflessi sul percorso scolastico, mentre ne ho incontrati altri che non hanno difficoltà e che affrontano con successo la loro formazione e spesso mi capita di
incontrarli alle scuole superiori. Come me ne accorgo? Perché nella mia attività di testimone che va ovunque ci sia qualcuno disposto ad ascoltarmi, e in particolar modo nelle scuole, io racconto sempre quello che ho vissuto in prima persona. Io non posso dire di aver assistito, ma sono certamente un testimone dello sterminio di rom e sinti avvenuto ad
Auschwitz il 2 agosto del 1944. Io ero là, era notte, e naturalmente nessuno di noi poteva uscire dalle baracche in ragione del coprifuoco. Mi trovavo nel campo D di Birkenau, che era diviso in vari settori, il settore A – era quello di quarantena – e il settore B. Nel settore B, al mio arrivo, vi erano i cecoslovacchi che, non so perc hé, erano stati ancora risparmiati dalla soluzione finale. Li avevano lasciati in quel settore, probabilmente per tentare uno scambio con dei prigionieri di guerra
tedeschi. Venivano dal campo di Theresienstadt, ma evidentemente
quell’accordo non fu raggiunto. La notte del 2 agosto del 1944 furono assassinati tutti i rom e sinti presenti nel settore E, che vivevano a pochi
metri da dove mi trovavo, separati soltanto da filo spinato della alta tensione. Non ho visto niente ma ho sentito tutto: la confusione terribile che ci fu all’arrivo delle SS, poiché evidentemente si era ormai compreso
cosa stesse per succedere. Fino a quel momento lo Zigeunerlager, come veniva chiamato, a me sembrava un’oasi felice, soprattutto perché c’erano tanti bambini e certamente molti di questi erano nati là dentro poiché uomini e donne erano rinchiusi assieme. E dove ci sono
bambini c’è speranza, c’è futuro.A me sembrava che fosse davvero un luogo felice. Invece quella notte del 2 agosto 1944 si levò una grande
confusione seguita da un profondo silenzio. Al mattino successivo, appena svegli, andammo subito a guardare dall’altra parte del filo spinato. Non c’era più nessuno, c’era solo silenzio, un silenzio doloroso, un silenzio agghiacciante. Siccome non erano arrivati trasporti di prigionieri il giorno prima, e si vedevano le ciminiere dei fori crematori
che andavano alla massima potenza, si capì che quella notte furono tutti mandati a morire. Quindi il ricordo è atroce. Ma non si tratta solo di questo. Io mi sono sempre sentito vicino ai rom, anche culturalmente,
poiché non possiamo dimenticare l’origine dell’ebraismo. Mi riferisco al tempo dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe, e pure in seguito, è caratterizzato da una vita nomade. Soltanto dopo la schiavitù d’Egitto divennero stanziali, quando trovarono quella terra, la Palestina, o Israele a seconda. Quindi vi è un nomadismo delle origini nella storia ebraica. C’è una vicinanza indubbia quindi, dentro di me, con i popoli rom e sinti. E mi ripeto, per contrastare il fenomeno della discriminazione è necessario che le organizzazioni rom e le associazioni di non-rom lavorino assieme. La discriminazione indubbiamente esiste: si sentono molte persone che innanzitutto chiamano i rom zingari, e mi sembra che i rom percepiscano questo termine come dispregiativo, e soprattutto affermano il classico stereotipo che essi rubino. Allora io rispondo sempre a questa affermazione dicendo che non è vero che tutti i rom rubano, e aggiungo la domanda: «Non è che siamo noi a metterli nella condizione di dover andare a rubare?».
Quando un padre e una madre non hanno da mangiare per i propri figli è naturale che vadano a chiedere la carità. Quindi dovremmo fare qualche cosa noi, e non soltanto impedire che ci sia l’accattonaggio o che si
dedichino al furto. Posso dire questo: io sono stato ad Auschwitz e Birkenau, e non c’era odio tra i prigionieri, però c’era la lotta per l’esistenza e, anche ad Auschwitz e a Birkenau, si rubava. Si rubava, che cosa poi? Non avevamo niente, ma se qualcuno per caso si metteva in tasca un pezzetto di pane, per mangiarlo poi in un secondo momento, rischiava che gli venisse rubato! I beni erano la ciotola, il cucchiaio, le scarpe, un pezzo di pane. Erano quelle le cose che si potevano rubare. Non c’era odio tra i prigionieri, ma si doveva trovare ogni modo possibile per andare avanti, e quindi anche rubare, per sopravvivere. E credo che questo accada anche oggi per molte persone tra cui anche molti rom e sinti, seppur mi sembra che qualcosa si stia muovendo».
A che cosa si riferisce, quali sensazioni ha?
«Mi sembra che oggi molti rom siano emancipati e dovrebbero essere queste persone più capaci ad organizzare gruppi di rappresentanza per far valere la loro presenza e la loro opinione, per far conoscere la loro cultura che esiste, per tentare di risolvere i problemi che conosciamo,
che dovrebbero essere risolti dallo Stato. Ma questo deve essere stimolato fortemente dalle richieste dei gruppi di minoranza. Altrimenti è molto difficile che cambi qualcosa».
Tutti conoscono il significato della parola ebraica Shoah, mentre credo che solo una piccola minoranza conosca il nome dell’olocausto dei rom, il Porajmos, e che si sia verificato. A questo proposito c’è qualcosa che un testimone come lei potrebbe suggerire alle comunità rom?
«Bisogna evitare reazioni violente. È necessario informare, far conoscere la reale situazione, e sfruttare i vari mezzi. Soprattutto bisogna insistere sul fatto che rom, sinti, o qualsiasi altra etnia, sono esseri umani e quindi devono essere protetti ed emancipati, devono essere aiutati. Questo è il compito: far capire che si tratta di esseri umani che vivono in condizioni spesso di grande disagio e perciò debbono essere aiutati e non vessati.
Penso che anche le differenti istituzioni religiose potrebbero fare tanto, e non parlo solo della religione cattolica che rappresenta la maggioranza. Ci sono altre organizzazioni religiose che si possono adoperare per far
capire alla gente, attraverso la loro influenza, che i rom non sono cittadini di seconda categoria, ma sono persone che vanno aiutate e lo ripeto perché è la cosa più importante!».
(*) tratto dal dossier-ricerca “VIETATO L’INGRESSO”
curato dalla “Associazione 21 luglio”
Articolo tratto dal periodico “Tempi di Fraternità” Giugno – Luglio 2015