Autore archivio: piero-murineddu

Accademia Militare, Gabriele D’Annunzio e quei suicidi

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Una mostra su Gabriele D’Annunzio ospitata dall’Accademia militare tra le più antiche al mondo, quella di Modena, offre lo spunto per parlare di disobbedienza e antimilitarismo.

 

di Rossella Famiglietti

Nell’epoca del Grande Conformismo, dove tutti i movimenti di militari occidentali in giro per il mondo sono “missioni di pace” o virtuose “esportazioni di democrazia”, vale ancora la pena chiedersi il senso e il valore di un’educazione militare. Cosa spinge, oggi, un ragazzo o una ragazza a scegliere la via della cieca obbedienza del soldato? A rispondere ci aiuta anche un insospettabile Gabriele D’Annunzio, in mostra a Modena, in una delle accademie militari più antiche al mondo.

Se conosci il nemico e conosci te stesso, nemmeno in cento battaglie ti troverai in pericolo. Se non conosci il nemico ma conosci te stesso, le tue possibilità di vittoria sono pari a quelle della sconfitta. Se non conosci né il nemico né te stesso, ogni battaglia significherà per te la sconfitta.
Sun Tzu, L’arte della guerra (VI sec a. C.)

 

Andare a conoscere il “nemico”. Ecco quello che succede ad un antimilitarista quando entra nell’Accademia militare di Modena, con la scusa di visitare la mostra, aperta tra dicembre e febbraio 2015, dedicata a Gabriele D’Annunzio soldato. I cimeli delle avventure militari del Vate, l’immaginifico, il soldato della Grande Guerra sono in prestito infatti alla storica Accademia che si fregia del motto “Preparo alle glorie d’Italia i nuovi eroi”.

L’ingresso dell’Accademia è solenne: lapidi alla memoria e fuochi perpetui.
Oltre il portone centrale si accede, infatti, al Lapidario con incisi su marmo i nomi dei 7811 Ufficiali, ex allievi, caduti nelle guerre per l’Unità, l’Indipendenza e la Liberazione. Il sabato pomeriggio è facile imbattersi nei cadetti in libera uscita per le vie del centro, oppure a colloquio con i loro familiari in visita in salottini a cui è vietato l’ingresso agli estranei. Vietato ai visitatori è il passaggio attraverso il Cortile d’Onore del Palazzo ducale che ospita l’Accademia e, in occasione della mostra, la sorveglianza è strettissima. Quando Francesco I d’Este arrivava a cavallo nel grande cortile, tutta la corte e la cittadinanza erano pronti ad acclamarlo e a vederlo salire a cavallo lo Scalone d’onore, almeno così vuole la leggenda. Da quando, nel 1861, il Palazzo è diventato zona militare, la cittadinanza si è vista privata di questo spazio.

 

Pronti ad agire, in ogni situazione, in Patria e all’estero

«L’Accademia Militare ti prepara per diventare Ufficiale dell’Esercito Italiano e un comandante di uomini. Oltre ad un percorso di formazione completo ed avvincente, l’Accademia Militare ti permette di apprendere tutto ciò di cui hai bisogno per essere pronto ad agire in ogni situazione, in Patria e all’estero», così recita il sito dell’Esercito italiano-Ministero della difesa alla voce “Arruolamenti”.

Due sono le domande che balzano alla mente. La prima: cosa possa spingere oggi un ragazzo o una ragazza a scegliere la via della cieca obbedienza che impone il codice militare. La seconda: come sia stato possibile assimilare il più sfrenato amante del piacere e della disobbedienza di inizio Novecento a un baluardo di ordine e disciplina.

Come risposta alla prima domanda, probabilmente, resta ancora valida quella che diede involontariamente Federico II di Prussia, campione di militarismo: «se i miei soldati cominciassero a pensare, nessuno rimarrebbe nelle mie file».

In questo palazzo, il più antico istituto di formazione militare al mondo, direttamente legato all’Accademia militare di Savoia, fondata il 1º gennaio del 1678 per volontà di Carlo Emanuele II e della reggente Maria Giovanna di Savoia Nemours, sono passati 116.000 allievi, sei Presidenti del Consiglio e trentuno ministri, oltre a Vittorio Emanuele III, Umberto II di Savoia Re d’Italia, Edmondo de Amicis, Giovanni Agnelli, Armando Diaz, Luigi Cadorna, Pietro Badoglio, Francesco Baracca, uomo di culto per le sue imprese aviatorie spericolate sotto il marchio del cavallino rampante, recentemente omaggiato nel museo dell’Accademia con l’esposizione di uno degli aerei da lui pilotati nel primo conflitto mondiale.

Ingoiare lacrime in silenzio

Questi uomini hanno appreso l’arte del comando, e conseguito una Laurea, tra le altre, in Scienze Strategiche, Ingegneria o Medicina e Chirurgia, sottoponendosi ad un addestramento il più possibile realistico, come spiega il prof. Marco Costa, docente di Psicologia generale dell’Università di Bologna e dell’Accademia, nel suo “Psicologia militare. Il mestiere delle armi” (2002). Gli allievi devono sentire l’odore della guerra, devono percepire lo stesso e identico pericolo, solo così saranno il generale che tutti sognano di essere: quello con le truppe disposte a morire per lui.

Non tutti riescono a tenere testa al duro addestramento: bisogna imparare ad «ingoiare lacrime in silenzio», come ricorda il motto di “Mamma” Accademia. Il periodo più difficile è quello iniziale, quando gli allievi sono solo “aspiranti” e i superiori mettono alla prova la loro motivazione, come si legge nella sentita rievocazione del generale Chiavarelli, conservata sul giornale on line “Pagine di difesa”:

«Si era aspiranti allievi, un qualcosa d’indefinito, materia informe da sbatacchiare, maltrattare, strapazzare dalla mattina alla sera per testare se la voglia di fare l’ufficiale era reale, ponderata, convinta ed eliminare i tiepidi e i deboli. Eravamo assolutamente certi che tutti ce l’avessero con noi e manifestassero il loro livore urlandoci contro dalle sei del mattino fino al momento di coricarci. Ogni spostamento andava fatto di corsa e sembrava che un sadico avesse fatto in modo che le lezioni e gli addestramenti fossero sempre dalla parte opposta a quella in cui ci trovavamo. Di continuo, plotoni di centometristi affannati, sudati, puzzolenti, si incrociavano per scale e corridoi gridando “Tenere la destra! Tenere la destra!” Chi non lo avesse fatto sarebbe stato inesorabilmente travolto».

 

I suicidi in Accademia

L’Accademia militare di Modena ha registrato negli ultimi anni cinque suicidi. L’ultimo, del 24 gennaio 2012, riguarda non un cadetto ma un dipendente civile in servizio presso il Palazzo Ducale. Il primo suicidio risale al 1996, quando il cadetto napoletano ventenne Pierpaolo Signudi, dopo essersi svegliato alle 6.30 e aver messo in ordine la stanza, ha atteso l’uscita dei suoi compagni per buttarsi, in divisa, dal quarto piano. Cento giorni dopo sarebbe diventato sottotenente dei carabinieri. A distanza di soli sei mesi, il 28 novembre dello stesso anno, il diciannovenne ennese Luigi Chirdo, indossata la divisa, si è lanciato dalla finestra del bagno per schiantarsi, dopo un volo di quindici metri, nel Cortile delle Colonne. Luigi ha lasciato una lunga lettera in cui chiede perdono ai genitori che lo volevano in divisa, dichiarandosi un fallito. “La vita militare l’ha affrontata volentieri”, dichiara il Professore Aragona, preside del Liceo scientifico frequentato dal ragazzo, alle pagine de L’Unità, “per fare un piacere ai genitori che ci tenevano molto. Forse si è scontrato con una realtà troppo dura”. Come se non bastasse la preoccupazione scatenata da queste morti, enorme scandalo hanno suscitato le dichiarazioni dell’allora comandante dell’Accademia, generale Bruno Loi.

«Non ci serve chi è in lotta con se stesso, per loro non c’è futuro nell’esercito», ha dichiarato il generale nel corso nella conferenza stampa seguita ai due suicidi e ha poi aggiunto: «è un periodo nefasto per la nostra società. Questi ragazzi sembrano incapaci di far fronte agli impegni, davanti al primo problema si mettono a piangere». A queste parole fredde e distaccate hanno risposto con una lettera gli ex compagni di scuola del cadetto, come rivela l’archivio storico del Corriere della sera: «non si può essere sempre un generale» e ancora «lui era, come tutti noi, in lotta con se stesso». Gli alti comandi non hanno ceduto alle provocazioni sul presunto cinismo del militare e hanno ciecamente difeso le sue posizioni, ribadendo l’estrema durezza della vita militare, a cui spesso, secondo loro, i giovani si votano con superficialità, magari per puro interesse economico. Queste dichiarazioni ricordano le parole del generale Cadorna, di cui pure si celebrano le gesta nella mostra sulla prima guerra mondiale, all’indomani della disfatta di Caporetto. Oggi gli storici sono concordi nell’attribuire gran parte delle colpe ad una strategia spietata ed anacronistica del generale, oltre che ad una serie di ritardi e ambiguità nei comandi, eppure nel bollettino di guerra emanato il 28 ottobre 1917, il generale scarica tutte le colpe del disastro sulle truppe «vilmente ritiratisi senza combattere» o «ignominiosamente arresesi al nemico».

Il 12 maggio 2000 Francesco Antuono, militare di leva, l’ha fatta finita sui binari della Stazione di Modena lanciandosi contro il Pendolino diretto a Milano. Poi ancora nel 2003, quando il 26 gennaio un altro diciannovenne, Roberto Ciampa, decide di uccidersi buttandosi dal quarto piano e solo pochi mesi dopo, a marzo, il suo coetaneo Ermir Haxhiaj, figlio di un colonnello albanese, si impicca in bagno con una catena. Qualcuno ha parlato di frustrazione e di episodi al limite tra goliardia e nonnismo. Sono queste le ipotesi emerse dalle inchieste, senza considerare la condanna del 2012 a un anno e otto mesi di reclusione ai danni di un docente riconosciuto colpevole di abusi sessuali, perpetrati nove anni prima nei confronti di due cadetti, con la promessa di facilitazioni agli esami.

Spending review? Non per i militari

Entrare all’Accademia militare di Modena è impossibile o quantomeno difficilissimo, come rimpallano i forum degli aspiranti ufficiali. Nessuno fa cenno a timori di natura psicologica o a eventuali contrasti interiori, anzi quanto maggiori risultano le difficoltà di ingresso in questo glorioso olimpo, maggiore risulta, a quanto pare, l’autostima, la fierezza e la motivazione ad andare avanti. L’aspirazione a far parte di un ordine privilegiato è, oggi più che mai, purissima. Il riconoscimento si misura dall’ammirazione di madri e fidanzate, dallo stipendio percepito di 900 euro al mese per i primi due anni e di 1.600 euro dal terzo anno, con incrementi in base al grado, impensabile oggi per qualsiasi studente di quell’età, e dal rinnovato vigore dello spirito militarista che pervade la società italiana. Basti pensare all’incremento delle spese militari del 2015, in barba alle politiche di austerity. All’interno del budget del Ministero per lo sviluppo economico, sono stati, infatti, stanziati 2 miliardi 800 milioni (200 milioni in più rispetto all’anno scorso) solo per i caccia Eurofighter, le fregate Fremm e il programma di blindati Vbm.

D’Annunzio, l’eroe e il ribelle

Questo lusso militare avrebbe sicuramente ottenuto l’approvazione di Gabriele D’Annunzio, che del lusso ha fatto uno stile di vita e che l’Accademia militare ha deciso di celebrare come un simbolo di ineccepibile inflessibilità guerriera.

Quando si arruola volontario nella Grande Guerra, l’autore de “Il Piacere”, ha ormai 52 anni e un passato alle spalle di vita spericolata, amori appassionati e controversi, ambiguità politica e letteraria, un carico di debiti frutto di una vita “opera d’arte” vissuta al di sopra delle proprie possibilità, che lo costringe ad un esilio forzato in Francia per mettersi in fuga dai creditori. In Italia, nel fatidico, e non ancora completamente chiaro, periodo che intercorre tra lo scoppio della guerra, il mutamento di alleanze e la stipula del Patto segreto che porterà il Paese a girare le spalle ad Austria e Germania e a schierarsi con Francia e Inghilterra, abbagliato dalla riconquista delle terre irredente e dall’esaltazione della guerra in nome della Nazione, D’Annunzio ha il fondamentale ruolo di agitatore sociale in favore dell’intervento, insieme con Benito Mussolini e altri intellettuali interventisti. La mobilitazione delle masse e l’invenzione di una comunicazione politica violentemente emotiva hanno il potere di cambiare il corso della storia. Sono i giorni del maggio radioso quando, in aperta sfida con l’opinione dominante ai più alti vertici dello Stato italiano, nell’ ”Arringa al popolo di Roma in tumulto”, D’Annunzio annuncia solennemente «Compagni, non è più tempo di parlare ma di fare; non è più tempo di concioni ma di azioni, e di azioni romane. Se considerato è come crimine l’incitare alla violenza i cittadini, io mi vanterò di questo crimine, io lo prenderò sopra me solo».

Per D’Annunzio è finalmente il momento di incarnare il Superuomo, abilmente mutuato da Nietzsche a suo uso e consumo, già protagonista dei suoi romanzi: è il momento dell’azione, dove azione sta per sfida alla morte e all’autorità. «Il mondo è la rappresentazione della sensibilità e del pensiero di pochi uomini superiori», scrive ne Le vergini delle rocce, e ancora «abolisci ogni divieto; procedi sicuro e libero. Non avere mai sollecitudine se non di vivere. Il tuo fato non potrà compiersi se non nella profusione della vita». Laddove la psicologia militare esalta lo spirito di corpo e addestra gli allievi alla compattezza, alla marcia all’unisono, all’omologazione della postura, del viso e, persino, dello sguardo – “Una acies“, una sola schiera, pronunciano a gran voce i cadetti in marcia come se fossero uno solo – D’Annunzio risponde con l’azione spettacolare del singolo, anche a costo di disobbedire agli ordini dei superiori. Il Superuomo non fa gioco di squadra; è, per definizione, guida ispiratrice del gruppo ed è per questo che il suo compito primario è dare spettacolo di sé: «Sono e rimango individualista ad oltranza. Un individualista feroce», dice in un’intervista a Prezzolini.

Le azioni di guerra più celebrate del soldato D’Annunzio, di cui alcuni cimeli sono stati esposti all’Accademia militare, sono irriverenti e provocatorie. Nella Beffa di Buccari, lancia un messaggio di sfida che celebra i marinai d’Italia, «che si ridono d’ogni sorta di reti e di sbarre, pronti sempre a osare l’inosabile». Alla realizzazione del famosissimo Volo su Vienna (9 agosto 1918), ideato fin dal 1915, si oppongono i vari Comandi che reputano impossibile un volo di mille Km, di cui 800 su territorio nemico e con apparecchi ancora primitivi. Poi, fra tutte, la conquista di Fiume in opposizione alla “vittoria mutilata dell’Italia”, anticipata da un articolo intitolato “Disobbedisco” contro il capo del Governo Francesco Saverio Nitti, in cui si legge: «Ci fu chi credette ch’io fossi per dire: “Obbedisco”. Il verbo è vecchio, se bene garibaldino; e i tempi sono mutati, se bene sembri che siamo in utile regresso verso il 1910 o giù di lì. Lasciamo le parole storiche ai libri scolastici approvati dai “superiori”. Dissi invece, a voce chiara, a testa alta: “Disobbedisco”».

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Da un punto di vista antimilitarista anche questo cialtrone egocentrico, che mai ha accettato di sottoporsi alle rigidità dell’addestramento militare, che mai ha dimostrato interesse per un compenso o un privilegio che non provenisse dalla propria conclamata presunzione di eccezionalità culturale e artistica, si rivela degno di rispetto nel suo gioioso anticonformismo, in opposizione a un mondo grigio fatto di divieti esaltati dal luccichio di mura solenni, ma pur sempre mura di una prigione.

“Il nemico ci ascolta”?

L’unico modo per cercare risposte che un antimilitarista non è in grado di dare, è la caccia al cadetto, scattata nel fine settimana. Il sabato e la domenica pomeriggio è facile incontrarli per le strade di Modena. Presso un negozio di forniture militari accanto all’Accademia, una cadetta fa shopping. Di fronte alla semplice domanda sul modo in cui si svolge la sua vita militare, risponde che loro non sono autorizzati a parlare di tali argomenti. Che i loro superiori preferiscono che le cose dell’Accademia restino in Accademia. Facciamo altri tentativi. Ma la risposta è sempre la stessa: il silenzio.

E non è dunque dato sapere con precisione che cosa accada fra le mura della zona militare, né che cosa spinga un giovane a fare una scelta di vita di questo tipo. Quanto possa costare l’asprezza dell’addestramento. Che sensazione si provi davanti alle urla di comando dei superiori. Che segreti abbia portato con sé chi non ce l’ha fatta. E soprattutto, se a questi giovani non sia mai venuta voglia di disobbedire, se sappiano davvero chi è stato Gabriele D’Annunzio.

Articolo tratto da

http://www.conversomag.com/la-vocazione-del-soldato/

 

 

 

 

 

Libertà di pensiero e di come divulgarlo

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di Piero Murineddu

Eh si, è proprio necessario che ogni tanto faccia chiarezza sulla mia libertà, ed in questo caso, libertà di espressione. Mi riferisco alla pagina FB  “Sorso e Sennori – Banca della Memoria”

https://www.facebook.com/pages/Sorso-e-Sennori-Banca-della-Memoria/295878337203450?fref=photo

ma questa volta non tanto per incoraggiare chiunque lo desideri ad arricchirla col proprio contributo, cosa ribadita a più riprese, quanto all’uso “improprio” che ogni tanto mi concedo, caricandovi post la cui pubblicazione ritengo utile e che all’apparenza sembrerebbe “tradire” le finalità di questo spazio.

Lo spunto me lo dà il rilievo fattomi da un  amico virtuale che ancora non ho avuto il piacere di conoscere in carne, ossa e sopratutto pensiero. Lo ha fatto a proposito del mio commento riguardo alle recenti dimissioni del ministro Lupi, che potete trovare sulla mia pagina personale    https://www.facebook.com/piero.murineddu

Nel suo intervento, mi diceva che tale argomento non c’entra niente con lo spirito della Banca, e che così facendo si usa queso spazio come “civetta” per fare politica. Probabilmente questo giudizio, particolarmente severo, trova d’accordo diversi di voi che stanno leggendo, ma vado un po’ a spiegare le mie motivazioni.

Dopo aver tolto il post ( come solitamente faccio), tramite comunicazione privata mi sono premurato di far capire all’interessato che, ritenendo la politica un ambito molto importante della nostra convivenza, ogni tanto mi concedo un’eccezione alla regola, specialmente quando sento di divulgare opinioni, mie o di altri, che riguardano la stretta attualità. Il far “Memoria” comprende anche considerare l’evoluzione (o involuzione) che realizziamo ai nostri giorni, con la nostra faticosa partecipazione o, al contrario, col comodo disinteresse.

Difficile mettere il limite tra politica e ciò che politica non è. Ma attenzione, politica non nel senso di particolare partito di appartenenza, ma politica come visione e giudizio della vita circostante. Ecco, diciamo che ogni tanto sento la necessità di farla questa benedetta eccezione, e francamente non penso di tradire le motivazioni che mi hanno spinto a creare e curare questa pagina. Non mi sento ( e non voglio essere) un freddo “tecnico” che si prende semplicemente la briga di cercare materiale – più o meno bene – per tenere viva la Memoria locale. Diciamo che questo è il mio maggiore impegno, ma, e lo ripeto, non solo.

Come già detto, questi post “estranei”  li lascio per qualche giorno, per poi eliminarli. Ho rassicurato l’ “amico” che non ho creato questa pagina come “civetta”, esclusivamente come scusa per divulgare  il mio pensiero, sottolineando che quest’accusa la ritengo offensiva e ingenerosa nei miei confronti. E dopo, non credo di avere particolari capacità di condizionare chicchessia facendo trasparire il mio pensare riguardo a taluni argomenti, sia perchè credo nell’intelligenza e libertà di chi legge, e sia perchè la circolazione delle idee la ritengo cosa positiva.

La “Banca della Memoria” non è frutto di una conduzione collegiale di diversi soggetti che si son dati delle regole ben precise sul come operare. Se arriva questa tappa, ben venga. Diciamo che per adesso sono solo io che mi dò delle regole, usando esclusivamente il buon senso e la buona fede, e questa buona fede, nel senso di onestà intellettuale, ci tengo a sottolinearla.

Nella sua risposta, l’interlocutore mi è parso convinto, e di questo lo ringrazio, invitandolo a non avere esclusivamente un atteggiamento di “gendarme” dell’ortodossia su ciò che c’entra o meno con la Memoria, ma a dare un contributo – come ho detto su – perchè la nostra Memoria Collettiva rimanga viva e ……desta.

Sorso e i suoi emigrati – Natalino Pinna, archeologo per passione

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Presentazione di Piero Murineddu

E’ una vita che non vedo Lino, quel ragazzo che ricordo sempre sorridente e disponibilissimo per le necessità spicciole che possono esserci giornalmente in una parrocchia, quella di San Pantaleo a Sorso, che anch’io frequentavo per attività varie di animazione. Lui, più che  in attività di gruppo, lo vedevo impegnato nei prepararativi per le funzioni religiose, funerali e matrimoni specialmente, srotolando e arrotolando quel lungo tappeto che dall’ingresso portava fino al presbiterio. Qualche giorno prima della Domenica delle Palme era completamente preso dal preparare rametti d’ulivo,  crocette semplici e quelle più elaborate, ricavate dalla parte tenera della palma. Contattatolo per raccontare la sua vita di emigrato, tra l’altro mi dice che il quarto di secolo trascorso dalla sua partenza ha cambiato di molto il volto di Sorso, dove periodicamente vi fa’ ritorno. Mi parla degli oliveti dove amava  trascorrere la  fanciullezza  che hanno lasciato il posto ad una quantità enorme di abitazioni, case molto carine che stanno continuando a sorgere  negli ultimi tempi, ma anche di palazzoni con una architettura non sempre di buon gusto. Rimane piacevolmente impressionato dalle nuove strutture pubbliche sorte nel suo quartiere e un tantino perplesso dal numero sempre crescente di rotatorie. Mi dice dei nuovi spazi verdi a cui però non sempre vengono date le necessarie cure ed è contrariato che siano privi di attrezzature per il gioco dei bambini. E’ informato che la disoccupazione ancora oggi è sempre una piaga molto dolorosa e sa di molti altri giovani concittadini costretti  a cercare in altri luoghi la realizzazione delle loro aspettative. Per lui, l’entrare in contatto con altre realtà, lo ha aiutato ad allargare la mente e si è sicuramente arricchito dal punto di vista umano, ma il fatto di averlo dovuto fare forzatamente, è come avere una ferita che difficilmente riesce ad emarginarsi. Il suo racconto va a toccare anche alcuni aspetti poco piacevoli della sua vita familiare, ed è anche per questo che sento di dovergli un particolare ringraziamento per la semplicità e sincerità con la quale ne parla.

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“Avvidezzi e bona furthuna”

Testimonianza raccolta ed elaborata da  Piero Murineddu 

Gli inizi burrascosi in terra germanica

Il 27 febbraio del 1991, insieme alla mia ragazza, partimmo nel nord della Germania, in una località ad una quarantina di chilometri da Amburgo, nella Lubecca Heide.  Vi eravamo stati convocati per lavorare nella gelateria di un italiano. Purtroppo dopo non molto tempo, il rapporto col datore di lavoro, che tra l’altro non ci aveva messo in regola con l’assicurazione, si deteriorò, per cui ci trovammo costretti ad andare via. Trasferitici nel quartiere multi etnico di Wihlemsburg di Amburgo, ci ritrovammo a coabitare con altri colleghi di un nuovo lavoro. Intanto nacquero delle incomprensioni con la mia ragazza, per cui, di comune accordo, decidemmo di lasciarci. Tramite la conoscenza con alcuni tedeschi conosciuti a Roma, dal 7 luglio dello stesso anno  iniziai a lavorare presso una nuova gelateria a Trier, 800 Km da Amburgo. In seguito, in una gastronomia della stessa città. Mi ritrovai a vivere nel mezzo della Renania Palatinato, antica terra celtica, ricca di siti preistorici. La cosa non mi dispiaceva affatto, considerando l’antica passione di cui andrò a parlarvi.

Nascita dei figli Giona Vittorio,Fabienne Gavina e, in seguito, Elisabetta

Qui conobbi la donna che mi diede due figli: Giona Vittorio, nato nel ’93, e Fabienne Gavina, venuta al mondo tre anni dopo. Anche il matrimonio entrò in crisi e la separazione fu inevitabile. Entrato nell’ambito dell’acciaierie, ebbi l’opportunità di fare un Corso di integrazione per stranieri, molto diffusi in Germania. Vi appresi la lingua e conseguii la qualifica di metalmeccanico, cosa che mi permise per ben sette anni di lavorare  in una fabbrica. Nel 1999 cambiai ancora lavoro. In questa nuova attività la produzione andava ottimamente, cosa che portò il proprietario a regalare ai suoi dipendenti un viaggio in Turchia, spesati di tutto. Qui conobbi quella che sarebbe diventata la mia seconda moglie. Dal nuovo e purtroppo ancora travagliato matrimonio, nacque Elisabetta. Attualmente mia figlia vive con me, mentre la mamma non manca di venire a trovarla  ogni fine settimana.

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L’anno della grande alluvione  che mi vide nascere

Ogni tanto mi ritorna in mente l’ “avvidezzi e bona furthuna” augurato dai miei genitori in lacrime, mentre partivo in nave da Porto Torres. Ed è proprio delle mie origini sussinche che ora voglio parlare.

Lino, col quale da sempre vengo chiamato, deriva da Natalino, ed essendo nato l’indomani del Natale 1967, è stato quasi d’obbligo impormi tale nome per mia madre Gavina Soddu, originaria di Sedini dove vi nacque nel ’41, e mio padre Vittorio Pinna, nato  nel ’37 in pieno regime fascista, nel paese minerario di Carbonia, chiamata ancor prima Mussolinia in onore del suo fondatore. I primi anni di matrimonio, i miei li vissero in campagna, per poi trasferirsi in paese. Nell’anno della mia nascita, il 18 settembre, dalle 13,45 alle 16 sulla Romangia si abbattè un violento nubifragio che oltre causare disastri immani nelle coltivazioni e ingentissimi danni nelle case e nelle strade, a Sorso causò la morte di una persona. A seguito dell’evento, nella zona periferica verso la Marina vennero costruite nuove case popolari, e nel 1970 alla mia famiglia ne fù assegnata una.

Passione non tanto per la scuola, quanto per la Storia

Pur avendo vissuto la scuola con molta fatica, la Storia però mi piaceva, e probabilmente è stato questo il motivo che mi ha fatto diventare un appassionato di archeologia. Gioivo nell’esplorare le campagne di Sorso alla ricerca di  segni dell’antichità, e a forza di portare a casa fossili, alla fine mia madre mi ha creato uno spazio per conservarli e mostrarli  anche con orgoglio alle persone che venivano a farci visita. Avevo raccolto gasteropodi, echinodermi e crostacei di ogni tipo. Vista la mia insistenza, la professoressa di Matematica si fece convincere a portare l’intera classe nella località Cantaparittu per raccogliere i numerosi fossili che vi si trovavano. Fu un gran bel giorno quello. Nei giorni precedenti avevo preparato per bene il terreno, fatica ripagata nel vedere tutti soddisfatti. In quell’occasione mi ero veramente reso utile all’intera scolaresca.

Lavoretti in parrocchia dietro piccolo compenso

Anche per la spinta della grande sensibilità religiosa di mia madre, venuta a mancare nel gennaio 2014 e a cui fece seguito dopo non molto anche la morte di mio padre,ammalato da tempo, buona parte degli anni giovanili li ho trascorsi cercando di rendermi utile nella parrocchia sorsese di San Pantaleo. La mia frequenza era talmente assidua che il parroco, don Giovanni Manca, decise di ripagarmi ogni tanto con un piccolo stipendietto. Diventai l’ombra del sacrestano, zio Antonino Petretto, col quale, oltre che sentirlo come padre per i 45 anni d’età che ci separavano, instaurai anche un bellissimo rapporto di amicizia. Essendo lui maestro muratore, diverse volte gli ho fatto da manovale. Alle nostre feste di famiglia, lui era sempre invitato.

Barman presso la famiglia Camboni e conoscenza con la Sovrintendente alle Belle Arti

Prima della decisione di partire in Germania, dove tuttora risiedo, ho fatto le stagioni – così si diceva – in Costa Smeralda. Il mestiere di barman l’ho però appreso  dalla famiglia Camboni alla Marina e in altri esercizi. Nel 1985 ho  lavorato nel  “Canguro”, gestito allora da Giuseppe Berzonzi, dopo di chè partii a La Spezia per fare il Servizio di Leva presso La Marina. Al rientro ho lavorato in campagna e ancora in Costa. E proprio a Poltu Cuaddu ho avuto occasione di conoscere Marilena Dander, Sovrintendente alle Belle Arti e direttrice del Museo “Sanna” di Sassari. Rimase interessata dal mio parlarle delle ricchezze artistiche presenti a Sorso e da troppo tempo trascurate. A fine stagione insieme ad altri venne  in paese insieme ad altri esperti del settore. Furono estremamente colpiti dallo stato di degrado in cui versava in modo particolare  l’antico  Crocifisso conservato nella Chiesa di Santa Croce, completamente invaso dai tarli. Nella chiesetta di Sant’Anna vi erano statuette all’interno di nicchie, anche queste in pessime condizioni. Nell’occasione furono visitate anche  le chiese di “Convento” e dei Cappuccini. La Dander si attivò per indire una gara d’appalto  per il restauro dell’altare ligneo e del prezioso Crocifisso. Purtroppo se ne persero le tracce e dovettero intervenire i carabinieri per recuperarli.

Quella volta che trovai due antichi teschi umani

Per la  passione di girovagare per le campagne alla ricerca di asparagi selvatici, nei pressi delle domus de janas in località Budduleddu, un giorno trovai un’antica sepoltura con due teschi umani. Tramite l’intervento dei carabinieri, vennero coinvolti i responsabili del museo archeologico sassarese. Avviate le ricerche, fu portata alla luce la più antica tomba del periodo post nuragico e i numerosi cocci di ceramica rinvenuti contribuirono a ricostruirne l’epoca.

 

Oggi

Per tornare all’oggi, oltre l’impegno di padre, continuo a coltivare quella  passione per l’archeologia, per conto del Museo di Treveri. Svolgo anche il corrispondente per il Consolato Generale Italiano per Francoforte sul Meno e in aggiunta dò un apporto volontario a favore degli stranieri a Trier. I miei figli sono ben integrati nella società tedesca. Fabienne, dopo aver fatto opera di volontariato presso un ospedale,  in questo periodo  svolge apprendistato presso una Cancelleria di avvocati. Il maggiore, Giona, oltre il volontario tra i vigili del fuoco, lavora in una fabbrica che produce componenti di macchine. La piccola Elisabetta frequenta la terza elementare ed ha una grande passione per il ballo, coltivata nel club che ogni anno organizza il carnevale nella città dove abitiamo, Trier Ehrang.

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Don Giorgio De Capitani su “Noi siamo Chiesa”

 

“Noi Siamo Chiesa” (NSC) è la sezione italiana del movimento cattolico progressista International Movement We Are Church (IMWAC), fondato nel novembre del 1996 a seguito di una raccolta di firme in appoggio ad un Appello dal popolo di Dio
                                         http://www.noisiamochiesa.org/?p=69
a Giovanni Paolo II con cui si chiedeva il rinnovamento ecclesiale della Chiesa cattolica poiché le “speranze aperte nella chiesa dal Vaticano II sono andate in gran parte deluse a causa del tentativo di imprigionarne lo spirito rinnovatore”.
(da Wikipedia)

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di don Giorgio De Capitani*

Riconosco gli iniziali intenti lodevoli, gli sforzi anche coraggiosi per continuare la lotta all’interno della Chiesa istituzionale per una riforma radicale.

La mia critica si limita alla sezione italiana di “Noi Siamo Chiesa”. Mi pare che ultimamente essa si sia rammollita, non sia più l’espressione della base, promuova discussioni ma senza far presa sulla massa del popolo di Dio. Mi sembra che a “Noi Siamo Chiesa” non interessi per nulla ciò che sta succedendo tra il clero più dissidente. Cito il mio caso personale. Diverse volte mi sono rivolto per chiedere solidarietà per qualche mia battaglia all’interno della Chiesa e nel campo socio-politico: neppure una risposta! Silenzio assoluto! Ma non sono l’unico caso lasciato solo a combattere, perché la Chiesa torni alle origini, ovvero al suo Fondatore, tradito subito, appena la Chiesa ha iniziato ad espandersi nel mondo.

Da quando Bergoglio è salito sulla cattedra di Pietro, “Noi Siamo Chiesa” non fa che sostenerlo, senza nemmeno chiedersi fin dove arriverà l’apertura così tanto proclamata di questo papa, dal sorriso facile, dai gesti popolari, dalle battute accattivanti.

“Noi Siamo Chiesa” dimentica un principio fondamentale della Profezia: essere sempre di stimolo, avere un occhio oltre, non salire sul carro del consenso generale, non cavalcare mai le aperture neppure quelle più promettenti di chi sta al potere. Volere o no, il papa è rivestito di un potere, ed è vittima del potere.

Essere di pungolo non significa negare l’evidenza, fare il bastian contrario ad ogni costo, contrastare ogni novità. Non nego che Papa Francesco stia dando una boccata d’aria fresca, ma non basta. Non vedo nulla di nuovo sotto il sole, oltre la facciata!

Cito l’ultimo caso: il documento inviato ai vescovi di tutto il mondo sulle: convivenze, coppie di fatto, unioni gay. La Chiesa si interroga sui grandi mutamenti che hanno cambiato il volto della famiglia. “Noi Siamo Chiesa” ha riportato un articolo, tra l’altro in inglese (senza la premura di tradurlo!), premettendo in italiano questo titolo: “Mai successo: il Sinodo dei vescovi chiede alle parrocchie di tutto il mondo di esprimersi sulle questioni che riguardano la famiglia e la sessualità”.

Io invece qualche riserva l’avrei. Mi preoccuperei di fare un lavoro capillare presso le parrocchie, perché il questionario sia presentato ai laici il più possibile nel modo corretto e si dia loro assoluta libertà di rispondere.

“Noi Siamo Chiesa” dovrebbe prestare più attenzione ai fermenti che ci sono già tra le comunità cristiane e il clero. Fermenti che vengono subito in parte fatti tacere, e che perciò andrebbero sostenuti. E invece, no! A “Noi Siamo Chiesa” piace riunirsi talora in convegni in cui si discute e non si va oltre. Ripeto, non è inserita nella località, non vive di località, ed ora, cosa del tutto inaccettabile, si sta omologando.

Bisogna partire dal basso, verso nuove comunità di base. Siamo stanchi dia parole, di assemblee, di proclami. Certo, anch’io scrivo documenti, ma per aprire la mente alla gente comune, in vista di una comunità evangelica radicale. Ho cercato di creare una comunità in tal senso, ultimamente a Monte di Rovagnate. Il problema sta nell’agganciare il laicato e nel risvegliare il clero. Senza mai stancarsi.

Sto scrivendo da una casa privata dove sono stato esiliato da un cardinale che parla anche di umanesimo e di aperture, ma che purtroppo non vuole che si possa discutere sui diritti civili.

“Noi Siamo Chiesa” si svegli e raccolga le voci di coloro che vivono nella realtà, e vorrebbero pagando di persona una Chiesa diversa. Non si faccia incantare da una rivoluzione di facciata!

 

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* Breve biografia di don Giorgio De Capitani

Ordinato sacerdote nel 1963 nell’arcidiocesi di Milano , ha esercitato a Introbio dal 1963 al1966, a Cambiago  dal 1966 al1973, a Sesto San Giovanni nella parrocchia San Giuseppe dal 1973 al 1983; inoltre è stato parroco a Balbiano e Colturano dal 1983 al1084  ed è stato sacerdote coadiutore a Cassano d’Adda dal 1984 al 1996  . Ha svolto incarichi pastorali presso la parrocchia di Rovagnate inprovincia di Lecco, dove dal 1996 al 2013 ha gestito la piccola chiesa e la comunità di fedeli nella frazione di Sant’Ambrogio in Monte. Nel luglio 2013 il cardinal Angelo Scola   ha scelto di rimuovere don Giorgio De Capitani da Monte  in seguito alle ripetute lamentele pervenute negli anni presso la Santa Sede e la Curia Milanese a causa dell’odio manifestato dal sacerdote nei confronti di Berlusconi e dell’indisponibilità dello stesso don Giorgio a chiudere il suo sito internet e rimuovere gli insulti e le ingiurie nei confronti di Berlusconi. Da settembre 2013 risiede a Dolzago, dove celebra una messa festiva la settimana.

“Noi siamo Chiesa”:papa Francesco a due anni dalla sua elezione

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DUE ANNI DI PAPA FRANCESCO
Cambiamenti epocali nella Chiesa cattolica romana?

Quando, al suo primo incontro da vescovo di Roma con i rappresentanti dei media, Jorge Mario Bergoglio, eletto il 13 marzo 2013, affermò «Ah, come vorrei una Chiesa povera, e per i poveri», egli stabilì un collegamento con la visione espressa da Giovanni XXIII all’inizio del Concilio Vaticano II (1962-65). Una visione che era sopravissuta nella Chiesa latino-americana, ma che molti martiri dovettero pagare con la loro vita, come accadde all’arcivescovo di San Salvador, Oscar Romero, che fu assassinato sull’altare il 24 marzo 1980, e il cui processo di beatificazione è stato avviato a conclusione da papa Francesco.
Dopo le dimissioni di Benedetto XVI, Francesco ora porta avanti il rinnovamento in molti campi. E’ un fondamentale cambiamento culturale che cerca di attuare oggi ciò che il Concilio Vaticano II prospettò cinquant’anni fa, a proposito delle riforme intra-ecclesiali, la partecipazione dei fedeli, l’apertura al mondo, l’ecumenismo e il dialogo interreligioso. Questo cambiamento culturale comporterà anche un cambiamento di strutture. Per questo, tuttavia, il popolo della Chiesa e le scienze teologiche debbono essere più attivamente coinvolte dai vescovi in una partecipazione che deve crescere sempre di più.
Noi chiediamo che il papa reintegri quei laici, teologi, donne e uomini ingiustamente rimossi, negli ultimi anni, per il loro impegno nella Chiesa. Nel contempo, noi chiediamo un dialogo diretto e stabile con il papa per esprimergli le nostre preoccupazioni e le nostre opinioni riguardo ai problemi che sfidano la nostra Chiesa.
Invece di prendere decisioni «dall’alto», Francesco innesca processi di partecipazione e volutamente sceglie la «via sinodale», come nel caso del doppio Sinodo sulla famiglia del 2014 e 2015. Questo cambiamento da un modo di decidere solitario ad uno interattivo appare strano a molti, nella Chiesa cattolica, eppure corrisponde all’orientamento del Concilio Vaticano II. La lista dei nuovi cardinali scelti da diverse parti del mondo nel febbraio 2015 mostra che le diversità nel mondo sono favorite. La decentralizzazione delle strutture della Chiesa deve continuare. I cardinali ed i vescovi, specialmente quelli implicati nella riforma dela Curia, hanno una grande responsabilità per far sì che l’avvio delle riforme avviato da Francesco abbia successo.
Ma la forza della resistenza ad ogni tipo di riforma all’interno dello stesso Vaticano è dimostrata dal fatto che papa Francesco è stato spinto a rivolgere aspre critiche alla Curia romana in occasione degli auguri natalizi del 2014. Questo sferzante allarme era diretto non solo ai più eminenti membri della Curia, ma anche ai cardinali e vescovi della Chiesa universale che ancora mostrano di sostenere così poco le prospettive di Francesco.
Comunque, fin dall’inizio Francesco ha avuto un grande appoggio dalla gente, come dimostrano i sondaggi. Nel dicembre 2014 lo statunitense Pew Research Centre ha reso noto numeri impressionanti. Un’inchiesta in 43 paesi mostra un alto livello in favore di papa Francesco, con una media del 60%. Particolarmente alta è stata la percentuale di persone favorevoli a lui in Europa (84%), Stati Uniti d’America (78%) ed America latina (72%).

 

Ricordi dolorosi

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di Piero Murineddu

Come ho raccontato in questa pagina nel novembre del 2013, recandomi  un giorno nella campagnetta avuta in eredità dai miei, avevo trovato una scena desolante. Nottetempo, alla maggior parte di piante da frutto, tutte fino ad allora venute su a fatica, era stato “bloccato lo sviluppo”, usando la forza brutta e una lama da taglio ben affilata, come dimostra la foto.

Oltre la comprensibile rabbia ma anche la pena provata per l’autore di tale gesto, in quei giorni avevo cercato di capirne il motivo:

1. Dispetto?

2. Invidia?

3. Ritorsione per qualche mio pensiero ( a lui o loro sgradito) espresso  pubblicamente?

4. Semplice e puro atto per dimostrare all’autore ( o agli autori) la propria imbecillità?

Ogni ipotesi rimane ancora aperta. Magari mi si voleva semplicemente far capire, seppur in modo inusuale, che tradizionalmente le campagne di “Tre Monti” sono adatte per la coltivazione delle viti, e non per impiantarvi “zubevia”, “nèpuraciprò“, “meragranadda” e “meraghiddogna“. Come diceva la mia povera mamma, insomma, che spesso mi aveva rimproverato di aver fatto fuori il bel vigneto che c’era una volta. Il fatto che le dicevo che la vigna non basta averla ma vuole specialmente curata e che io non ero in grado di farlo, non attenuava il suo disappunto. Quindi, che i  “sicari”  nottambuli di piante siano stati istigati dall’anima buona di mia madre, sempre indaffarata anche su in Paradiso? Mi sia concesso di dubitarne.

Guardate bene quest’altra foto

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Quelli che vedete sono gli occhi che immagino abbia l’autore dell’infame gesto, o di chi eventualmente ne abbia ispirato l’atto concreto. E’ evidente che l’espressione non richiama serenità e visioni paradisiache, nel senso che non assomiglia nè a padre Pio ( a proposito, chissà perchè lo rappresentano sempre col volto accigliato), nè a lu muddu di Sossu, quel personaggio mitico di queste parti (Sardegna nord occidentale, “Romangia” la zona) che, dopo essergli apparsa la Madonna, riacquista la parola e corre in paese ad annunciare il prodigioso evento. No, proprio questi occhi non rimandano a queste figure  “illuminate”.

Comunque, putacaso tale espressione gli sia rimasta dopo aver massacrato quelle povere ed indifese piante, si rilassi e si tranquillizzi: io da parte mia l’ho perdonato. O almeno, se lo scopro, non lo afferro per la gola per strozzarlo. Lo giuro.

Certo, spero sempre che mi si presenti prima o poi con la cenere in testa da penitente (ma non di notte, altrimenti rischio l’infarto) e magari mi sveli il motivo che l’aveva spinto ad un gesto così vile, avvilente (per lui) e vigliaccone. Qualunque sia stato il motivo, il caffè o la birra ero disposto ad offrirli allora e lo sono ancora oggi.

In attesa di tale evento miracoloso (questo si, altro che le innumerevoli e presunte apparizioni mariane!), lo saluto senza rancore. Avvidezzi sani.

TELESFORO PIANA, l’arte nelle mani e l’atletica nel cuore

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di Piero Murineddu

Telesforo è un nome più unico che raro a Sorso.Manco a dirlo,  è legato al fabbro artista che da qualche anno, purtroppo, non capita più di vedere per le strade del paese passeggiare insieme alla sua inseparabile “Messalina”, cane lupo talmente paziente che riusciva sempre a sopportare le improvvise sfuriate e le simpatiche stravaganze del frairaggiu, scultore e pittore, figlio di fabbro e nipote di un altro Telesforo, frairaggiu anche lui. Parlo di Telesforo Manca, venuto a mancare nell’agosto del 2002. Il suo omonimo nipote, Piana di cognome, credo abbia interrotto la tradizione dell’antico mestiere, riprendendo però l’attività artistica di scolpire il legno e il ferro: “Sono cresciuto guardando mio nonno che disegnava, progettava e realizzava opere d’arte. Alle elementari e alle medie ero il più bravo in disegno. M’incaricavano di disegnare cartelloni e libri di classe per la scuola come quello fatto alle medie contro il fumo e l’inquinamento”.  Sensibilizzazione per salvaguardare la salute, quindi, ma anche iniziative scolastiche per richiamare i Diritti Umani a cui ogni essere vivente ha diritto, come la vicenda dell’Apartheid africana, in vigore dal 1976 al 1993 e inserita nella lista dei crimini contro l’umanità. Telesforo assicura di conservare ancora tutti quei piccoli lavoretti.Già a 12 anni, riceve il primo premio in un simposio di pittura in Abruzzo, dove si trovava in vacanza. Il laboratorio – officina si trovava nella stessa casa di via Fermi dove il ragazzino viveva con la sua famiglia, per cui inevitabilmente capitava che il nonno gli facesse usare gli attrezzi del mestiere: “Si, devo dire che mi ha contagiato la passione per l’arte e lui mi ha insegnato tantissimo“. Finite le medie, il giovane Telesforo frequenta l’Istituto d’Arte di Sassari, diplomandosi in Grafica Pubblicitaria e Fotografia. Segue il diploma in scultura nel 2002 all’Accademia di Belle Arti. “ Nello stesso anno muore mio nonno,  non  potendo così gioire della laurea conseguita da suo nipote”

Chiedo qualcosa di nonno Telesforo: “Era come tutti i nonni coi propri nipoti. Quando eravamo piccoli stava molto in viaggio per mostre personali e quando rientrava ci portava sempre dei regali. In estate ci portava con lui e mia madre. Ci ha fatto girare tutta l’Italia e la Svizzera dove aveva più acquirenti. Era amico di Fabrizio De André e quando era in Sardegna ci portava a casa sua , all’Agnata di Tempio. Ho già detto che quando lavorava ad una sua opera, dava a me e a mio fratello un pezzo di legno e uno scalpello, insegnandoci ad usarli e a conoscere il legno, con le venature da seguire per non rovinare il taglio dello scalpello. Da bambini scappavo a giocare dopo un po’ che intagliavo il legno, però disegnavo molto”. Non evito di chiedere a Telesforo qualcosa sull’aspetto caratteriale del vecchio fabbro artista: “ A molti mio nonno appariva burbero. Sicuramente non aveva peli sulla lingua e diceva le cose come stanno soprattutto a chi non gli garbava”. Ancora la vecchia storia che si ripresenta in continuazione, quindi: per essere accettato e gradito agli occhi degli altri, spesso bisogna adattarsi a quel comune rapportarsi fatto di luoghi comuni, spesso un tantino “faccidosthi”, nel senso di ipocriti. Il vecchio artista non era uno di mezze misure, e personalmente lo posso testimoniare.

Telesforo Piana in varie città italiane ed estere ha organizzato Esposizioni personali e partecipato a varie Rassegne, Concorsi, Estemporanee e Simposi internazionali di scultura, ottenendo premi e riconoscimenti di critica e di pubblico. Fra i più recenti:

Dall’accademia Internazionale Greci Marino”titolo di Accademico del Verbano,sezione arte 2005″

International Caluma Art center from Copenaghen riconoscimento del “Royal General Certificate of Art from Danimark, Hans Christian Andersen 2005”

Dall’accademia Internazionale dei Dioscuri “Premio Roma Città Santa 2006”

Riconoscimento internazionale l’Ercole di Brindisi e nomina di “Ambasciatore dell’Arte Italiana nel mondo 2007 ” ;

Da il Quadrato di Milano segnalato dalla critica internazionale ho ricevuto il”Premio Internazionale Nobel dell’Arte 2008″;

“Premio Internazionale d’Arte città di New York 2010.

“Premio internazionale Biennale di Venezia Rialto 2010.

Oltre che scolpire e dipingere, da 11 a 22 anni Telesforo ha praticato atletica leggera. Attualmente è dirigente della squadra di atletica C.C.R.S.Sorso e continua ad allenare i ragazzi, compiendo così una grande opera sociale.

Misericordia, cioè reciproca accoglienza fra tutti

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di Raniero La Valle

 

Ci sono delle cose che papa Bergoglio ha detto fin dal principio, che sul momento non vennero capite, ma si sono capite dopo, o si stanno comprendendo solo ora.
Per esempio quando, presentandosi la prima sera al popolo sul balcone di san Pietro aveva detto: “adesso vi benedico, ma prima chiedo a voi di benedirmi” non si poteva capire, come adesso invece è chiaro, che lì c’era già l’idea di una riforma del papato: il papa non solo rientrava tra i vescovi, come aveva detto il Concilio Vaticano II, ma tornava in mezzo al popolo come uno dei fedeli, come un pastore che non solo sta in testa al gregge, ma anche sta in mezzo e dietro al gregge, perché le pecore hanno il fiuto per capire la strada e per indicare il cammino. E così il gregge diventava un popolo, e il papa si riconosceva ministro di questo popolo, insieme agli altri ministri e primo tra loro, un papa non solo uscito dal conclave ma papa benedetto dal popolo.
Un’altra cosa che non si era capita era quella parola “misericordiare”, che non esiste né in italiano né in spagnolo e che il papa usava come un neologismo, tratto dal suo motto episcopale, per definire il suo compito. Sicché alla domanda: “chi è Francesco?”, “che cosa è venuto a fare?” che risuona anche in un mio libro uscito ora per “Ponte alle grazie”, la risposta era: “sono venuto a misericordiare”.
E ora si capisce che cosa volesse dire. Fare misericordia è il programma del suo pontificato. Certo, egli ha intrapreso la riforma del papato, tanto che mai si era visto un papa così. Certo egli ha intrapreso la riforma della Chiesa, che senza cominciare dal papato non si può fare. Certo egli ha posto mano a una revisione e a un ripensamento della Curia a cui ha chiesto di conformarsi a un modello alto di Chiesa, e di non apparire, o essere, l’ultima Corte europea. Ma ancora più importante di tutto ciò è l’intento di rimettere nel mondo, che con la modernità l’ha rimossa, la misericordia di Dio. È Dio infatti, e non la Chiesa, che papa Francesco annuncia, il proselitismo gli sembra “una sciocchezza”, mentre la misericordia gli sembra l’unica e ultima risorsa per la quale il mondo possa salvarsi e vivere. Nella persuasione che se si ritrova la misericordia di Dio, si può far nascere la misericordia anche nostra.
Perciò, a cinquant’anni dal Concilio e come suo prolungamento dopo tanto deserto, egli indice il Giubileo, che vuol dire esattamente il tempo della misericordia, l’anno della misericordia.
Non si tratta di incentivare i pellegrinaggi a Roma. Dove sarebbe la novità? Si tratta di proporre al mondo un nuovo paradigma. Intanto è chiaro che con i paradigmi in atto si va alla rovina, e in tempi brevi (c’è poco tempo, sembra dire il papa anche di sé); proviamo allora con un altro paradigma, quello della misericordia, che significa riconoscere il male, proprio ed altrui, chiedere perdono e perdonare, significa la riconciliazione. Ma la misericordia non sta solo nel perdono e nella remissione dei peccati, sta anche nella remissione dei debiti. Nell’antico Israele il Giubileo voleva dire anche la pacificazione del debitore, il rientrare in possesso delle terre perdute, riscattare beni dati in pegno o espropriati, voleva dire la liberazione degli schiavi.
Nel giudicare il mondo in cui viviamo papa Francesco usa il criterio della misericordia. E per questo lancia il Giubileo. L’economia che uccide, la società dell’esclusione, la globalizzazione dell’indifferenza, i poveri che invece di essere solamente sfruttati ed oppressi, oggi sono anche scartati e messi fuori perfino dalle periferie, sono tutti giudizi che papa Bergoglio dà di un mondo che è senza misericordia.
Se avesse misericordia, rimetterebbe il debito alla Grecia, permettendo alla gente di avere la luce per la notte e il gas per cucinare, e sarebbe restituita alla Grecia la libertà politica usurpata da poteri estranei e non responsabili di fronte a quel popolo.
Se avesse misericordia non lascerebbe che masse intere di uomini e donne, e una generazione intera di giovani, fossero escluse dal lavoro, disoccupati, licenziati, esuberi, precari. Se il lavoro fosse solo il mezzo per guadagnarsi da vivere, anche un minimo di reddito assicurato a tutti potrebbe essere una soluzione. Ma se il lavoro è la dignità stessa della persona, come dice papa Francesco, allora la misericordia oltre a garantire un minimo vitale, dovrebbe mobilitare tutte le risorse, pubbliche e private, perché il lavoro per tutti torni ad essere un’altissima priorità della politica.
Se la misericordia fosse all’opera, il mondo non starebbe a trastullarsi davanti agli eccidi in Medio Oriente e in Africa, sarebbe una priorità mettere fine con tutti i mezzi legittimi, a guerre e stermini sacrificali, magari mistificati con motivazioni religiose, a cui il papa ha definitivamente tolto ogni legittimazione annunciando un Dio nonviolento.
E cosa sarebbe un vero Giubileo della misericordia, un anno di vera liberazione e riconciliazione, di fronte alla tragedia dei migranti, di fronte a un’Europa senile, sterile, come Francesco l’ha definita, che ha finito per accettare di essere sponda di un mare diventato un cimitero?
Qui si potrebbe azzardare una proposta, un sogno, o più ancora un progetto politico perché il Giubileo diventi l’anno di una misericordia reale. È la prospettiva politica di portare a compimento la marcia dei diritti inaugurata dall’illuminismo, e di abolire, a cominciare dall’Europa, l’ultima discriminazione che ancora divide gli esseri umani tra uomini e no: la discriminazione della cittadinanza, Deve finire il tempo in cui i diritti, anche i più “fondamentali” diritti umani, sono diritti del cittadino, gli altri, gli stranieri, gli extracomunitari, i profughi, i migranti, gli scarti ne sono esclusi. Come già avevano intuito i giuristi dopo la “scoperta” dell’America, il diritto di migrare, il diritto di stabilirsi in qualsiasi terra, dovunque si sia nati, è un diritto umano universale. Allora la rivoluzione cominciata da papa Francesco quando per prima cosa è andato a gettare una corona di fiori nel mare di Lampedusa, dovrebbe continuare e giungere fino alla caduta di tutte le frontiere, all’apertura di tutti i confini. Certo, allora andrebbe potenziata l’economia privata e pubblica per mantenere i livelli di vita già raggiunti dai residenti e permettere ai sopraggiunti di trovare spazio e vivere, e in tal modo la politica dovrebbe assumere veramente il compito di far crescere tutta la società.
Ma sarebbe davvero un’altra società, e un altro mondo, se per una scelta di misericordia, cioè di reciproca accoglienza tra tutti, oltre ogni barriera, per l’anno del Giubileo arrivassero a Roma non solo migliaia di pellegrini, ma tutti potessero muoversi da un Paese all’altro, viaggiando non sui barconi della morte e delle mafie, ma su treni, navi e aerei di linea.
Altrimenti la misericordia la togliamo dal mondo e la lasciamo tra i fumi degli incensi.

 

da “Il Manifesto” del 15/03/2015

 

 

Ognuno vada dove vuole andare, invecchi pure come gli pare,ma non dica a me cosa debbo fare

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di Piero Murineddu

Qualcuno mi ha rimproverato, bonariamente manontroppo, che prima di occuparsi degli “zingari”,occorre pensare alle tante situazioni di bisogno che ci sono tra noi. Benissimo, gli rispondo, inizia a occuparti tu di qualche bisogno che conosci e in cui t’imbatti, che siano necesssità materiali o di altra natura. Quell’altro che storce il naso, faccia altrettanto. Quell’altro che “prima di pensare a….bisogna pensare a…..” idem come sopra. Si dimostri di passare dalle parole ( e dalle critiche!) ai fatti concreti. Confesso che ormai a certe cretinate sterili e imbecillotte non dò neanche più ascolto. Rinuncio anzi a cercare di spiegare: stò diventando estremista ed intransigente e tentare di spiegare a qualcuno, testardamente e presuntuosamente radicato nelle sue convinzioni, lo ritengo tempo perso e incazzatura inutile.

Ciascuno faccia (faccia!) ciò che ai suoi occhi ritiene prioritario e non rompa sos cozzones a chi agisce diversamente. Attualmente sto tentando di conoscere meglio la vita delle popolazioni romanì, uno dei popoli più emarginati, a volte criminalizzati a ragione e molto più spesso a torto. Eppoi le responsabilità sono sempre individuali, non collettive, e semmai sarebbe quella persona che ha commesso il reato da perguire, e non usarlo come  pretesto  per confermare che “quelli” sono tutti uguali.Quante nefandezze bisogna che subiscano ancora? Parlando con una ragazza di famiglia Rom, anche nella scuola che frequenta da poco si vede guardata con sospetto. Eppure se è la solita sporcizia che dà così fastidio a noialtri che a volte facciamo la doccia  anche due volte al giorno, ben riscaldati, idromassaggiati, incipriati e ben profumati da far schifo, questa ragazza  si presenta a scuola ben vestita e ben lavata. Ma la vogliamo o no questa bendetta integrazione?! O vogliamo eternamente bearci nel nostro sentirci persone per bene sempre pronti a cabazzinni l’occi (scannarci!) e sempre reciprocamente all’erta per non farcelo mettere dietro dai nostri simili civilizzati? Anch’io mi sento affannato nel cercare di eliminare i miei pregiudizi e paure nei loro confronti, inculcatici  gia da bambini quando ci minacciavano di darci agli zingari se non ci comportavamo bene. Ma ci rendiamo conto quanto danno hanno fatto questi rozzi e terroristici metodi educativi? Ebbene, molti sono rimasti ancora a quelle paure infantili, senza mai esser riusciti ad elaborare con la loro testa certi messaggi distorti. Ripeto, anch’io sto dannatamente faticando a guarire dagli stupidi pregiudizi accumulatisi in questi 58 anni che mi è capitato (non per mio merito e per mia volontà) di vivere nel cosidetto mondo civile, quel mondo che spesso porta a considerarsi meglio degli altri e caratterizzato spesso da ipocrisie, invidie e penoso sgomitamento per “arrivare”. Arrivare a cosa poi, è tutto da vedere. Anzi, ce lo dice la giovane e intelligente Exjna, ricordandomi che in fondo, alla fine siamo tutti semplicemente seduti sul nostro culo, dando così un doloroso seppur metaforico calcione nel bel mezzo dei testicoletti dei vari Salvini, Bonanno e di tutti gli ancora troppi miserabili e penosi razzisti e, perchè no, anche degli alti e importanti Direttori di Enti di Stato  e Amministratori Delegati di  Aziende strapagati, che dei bisogni della povera gente se ne strafottono.

Ognuno faccia quello che ritiene, e smetta di rompere…..

 

 

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Sorso: il Sogno Svanito di una famiglia Rom e il Sogno sempre più lontano di una Nuova Civiltà

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di Piero Murineddu

Ormai la bufera creatasi intorno alla famiglia Rom si è placata. Il desiderio di coltivare il terreno e condurre una vita dignitosa ed integrata nel contesto civile, non è stato considerato ammissibile da buona parte della popolazione. I politici hanno applicato scrupolosamente le leggi, mentre le guide religiose hanno preferito continuare nel loro silenzioso e sacro ufficio “divino”: dover smascherare pubblicamente i tanti sepolcri imbiancati richiede troppo coraggio.

Andati a trovarli con mia moglie Giovanna,la frotta di pargoli ci ha accolti con calore, coinvolgendoci spontaneamente nei ritmi di vita familiare, fatta anche di  normale litigiosità tra fratelli. Eravamo andati con intenzioni “serie”, e in effetti mamma Vesna ci aveva condiviso la sua preoccupazione per l’inaudita aggressione verbale subìta, ma l’incontro provoca una naturale e allegra empatia. A seguito dell’Ordinanza di sgombero, si era tentata la possibilità di cercare un diverso alloggio,ma lo sforzo è stato vanificato dalle persistenti paure degli indigeni: chi mai avrebbe affitato una casa a dei pinghinosi zingari? Insomma, il loro destino DEVE per forza essere quello di vivere da nomadi e distanti dal contesto civile locale, per non avere il tempo di sporcarlo e comprometterlo con la loro presenza.  In questo modo, il nostro perbenismo, spesso solo di facciata, è preservato.

Quancuno scopre che la fedina penale dei due genitori non è immacolata. E’ la conferma, trionfalmente gridata dagli eroici autori dello…. scoop (!), che gli zingari sono tutti uguali! Non serve provare a dire che, trovandoci in necessità, noi, onorati e civilissimi cittadini, saremmo capaci di tutto ed anche di altro ancora. E’ inutile anche ribadire che sbagli ne abbiamo fatto più o meno tutti e che, probabilmente e furbescamente, continuiamo a farne.

Quando la sera prima della loro partenza facciamo ritorno nell’oliveto, il pallone da rugby che ho portato dà lo spunto per buttarci in una partita sfrenata. Un fiatone che non vi dico. Il mio povero cappello me lo ritrovo più tardi miseramente schiacciato. “Un po’ di pausa, vi prego! Ma ditemi, siete contenti di andare a vivere in una casa nuova?” – “A noi piacerebbe rimanere qui in campagna. E poi ci eravamo affezionati ai nostri compagni di scuola… sorsosi”. Zio Piè – mi dice una delle più grandi – sai che qualche insegnante mi ha detto che la nostra presenza l’avrebbe aiutata a svolgere meglio il suo ruolo  d’insegnante, che oltre farci conoscere la matematica, l’italiano, e le altre materie, e anche e sopratutto quello di aiutarci a guardare e capire il mondo, i popoli che vi vivono e le tante ricchezze umane e culturali che hanno ? Che non ci sono razze superiori ad altre ma che facciamo parte tutti della stessa razza umana?” Timidi squarci di civiltà.

Ora il rognoso problema a Sorso non c’è più. Zoran e Vesna hanno dovuto rinunciare al loro sogno ed accettare l’alloggio provvisorio ad Alghero, il cui canone d’affitto è anticipato dal Vescovo, in attesa dei rimborsi stanziati dalla Comunità Europea per favorire l’integrazione.

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E’ proprio qui che andiamo a ritrovare i nostri nuovi amici. Prima di recarci da loro,  e dato che mia moglie li aveva gia conosciuti a Sorso, per  me è l’occasione per conoscere la generosa  insegnante d’inglese Irene che, insieme al marito Giuseppe, oltre che occuparsi del loro unico figlio,  stanno spendendo le loro energie per abbattere le altissime barriere che ci separano da questo pacifico e disagiato popolo. Mossi da forti motivazioni principalmente umanitarie e con l’aiuto di altre persone che insieme a loro vogliono superare i tanti pregiudizi ideologici che rendono gli esseri viventi distanti tra loro e spesso nemici, hanno creato un’associazione che opera nell’ambito dell’integrazione tra immigrati e residenti. Accolti con molta semplicità e cordialità nella loro casa, vi troviamo una coppia di sposi Rom, loro amici da vecchia data. E’ la prima volta che mi trovo a far “salotto”con membri di una popolazione romanì, e la cosa mi è molto gradita. Più tardi  arriva Davide, un giovane della locale comunità Rom, sposato con sei figli (“ma con mia moglie abbiamo deciso di usare la spirale. Non possiamo avere figli ogni volta che facciamo l’amore”. Come voi, anche le nostre generazioni si stanno evolvendo, e non possiamo mettere al mondo tanti figli che poi non riusciamo al allevare come meriterebbero”). Nel mentre contatto telefonicamente i miei amici Bianca e Ignazio che vivono nella città catalana. Senza il minimo indugio acconsentono generosamente di regalare una loro bici di cui necessita  un giovane Rom per recarsi sul posto di lavoro. Il gesto acquista maggior valore, dal momento che tempo addietro avevano subìto un’esperienza negativa da parte di  alcuni rom ancora residenti nel campo nomadi, quella sorta di lager che progressivamente stanno scomparendo. La liberazione dal risentimento aiuta a rimarginare le ferite, oltre che agevolare nuovi incontri e nuovi giudizi.

Come promesso, prima di prendere la strada di ritorno, andiamo a far visita alla famiglia costretta ad allontanarsi contro voglia da Sorso. Assenti i genitori, i ragazzi ci accolgono col muso lungo. Non tardiamo a capire il loro poco entusiasmo di vivere in appartamento. L’aria aperta di campagna in effetti è tutta un’altra cosa. Mentre la sensibile Jennifer esprime a mia moglie il dispiacere di aver dovuto interrompere alcune amicizie nate nella scuola di Sorso, gli scatenati maschietti mi trascinano nel largo terrazzo per tirare qualche calcio al pallone: “ Ma questa volta facciamo piano, pa cariddai! Non vorrei rischiare l’infarto come l’ultima volta”.

Cosa dici, zio Piè, riusciremo ad abitare  a Sorso? Sai, ci stavamo affezionando ai nostri compagni “sorsosi”…..   

” E cosa volete che vi dica, chissà che qualcuno che si distingue e ragiona con la propria testa, non riesca a superare i pregiudizi dominanti e vi dia in affitto una casa in campagna, che sicuramente curerete e dove potrete scorrazzare liberamente senza disturbare i vicini. Ci vediamo presto, comunque.  E tu, ridammi il mio cappello, malandrinozzo che non sei altro!”