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David Maria, un’esistenza da resistente

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(da Letture.org)

Guerino Dalola, lei ha curato con ANPI Franciacorta l’edizione del libro “David Maria Turoldo il Resistente”, edito da Mimesis: cosa significava per padre Turoldo essere Resistente?
Nelle decine e decine di volumi pubblicati su David Maria Turoldo difficilmente si prende in considerazione la sua partecipazione alla lotta di liberazione in Italia 1943-45. Nei pochissimi casi in cui questo si verifica, se ne parla quasi sempre di sfuggita, di passaggio; solo qualche volta, nella migliore delle ipotesi, si dedica all’argomento un capitolo specifico. La Resistenza, però, non è stata per Turoldo né un momento di secondaria importanza né un solo capitolo della vita.
Ordinato sacerdote nel 1940, avvia il suo ministero nel cuore di Milano nell’autunno del 1940, in piena guerra, in circostanze in cui si trova a scegliere fra ciò che lui stesso definisce non umano (il fascismo che umilia, degrada ed annienta la persona umana) e ciò che è umano (la riaffermazione della dignità e della libertà dell’uomo, la Resistenza). Per considerare la Resistenza un mondo di valori, è però necessario avere ben chiari e non dimenticare mai i contenuti del “mondo del non valore” che è il fascismo, cioè – secondo Turoldo – corruzione a danno della verità e della libertà, stanchezza di ragionare, vecchiaia dello spirito, sopraffazione e terrore, violenza come sistema, paura di guardare al futuro, vigliaccheria…
“E naturalmente non potevo non buttarmi nella Resistenza!” esclama con la forza di chi è capace solo di “buttarsi” in ciò che crede. È una scelta che non rinnegherà mai più, perché la Resistenza diventa “un valore essenzialmente teologale, una categoria dello spirito… da allora sono convinto che il cristiano o è un resistente o non è cristiano…”.
Sembra addirittura voler affermare che essendo prete deve essere ancora più resistente degli altri.
Simpatica e significativa la battuta di padre Ernesto Balducci, suo grande amico ed estimatore, quando afferma che padre Turoldo è come un ferro da stiro: se gli togli la resistenza, è da buttare…!
– Quali vicende hanno segnato l’esperienza partigiana di padre Turoldo?
Due sono sostanzialmente le mansioni più o meno ufficiali che vengono affidate a Padre Turoldo (ed all’inseparabile confratello padre Camillo De Piaz):
1. l’assistenza spirituale (che non tarderà a diventare sociale, psicologica, economica, abitativa… ai partigiani, ai collaboratori ed alle famiglie, ai perseguitati politici, ecc.) demandata loro dal CLNAI e che consentirà loro, nella realtà, di essere a fianco delle persone colpite ed offese…
2. la predicazione in Duomo a Milano, alla messa domenicale delle 12,30 frequentata dalla Milano-bene cui Padre Turoldo rivolgerà – come suo solito – sermoni focosi e travolgenti, suscitando sia notevoli entusiasmi che feroci polemiche da cui dovrà proteggersi anche con la fuga e la collaborazione di amici e dell’arcivescovo.
Non poche sono però le iniziative che – all’infuori degli incarichi ufficiali – i due frati realizzano o concorrono a realizzare. Tra le più significative, non possono essere dimenticate:
1.la collaborazione con il CLN ed i suoi sforzi perché la lotta di liberazione sia unitaria ed unitario sia il coinvolgimento di tutte le forze politiche antifasciste.
Dal gennaio del 1944, iniziano – nel convento dei due frati – importanti incontri fra dirigenti comunisti ed esponenti del mondo cattolico. Incontri che porteranno alla nascita del Fronte della Gioventù cui aderiranno sia rappresentanti dei movimenti giovanili dei partiti (dai comunisti ai liberali, dai democristiani agli azionisti, dai socialisti ai repubblicani) sia esponenti di gruppi giovanili di altro genere, sia ancora di singoli giovani che desiderano partecipare. Il Fronte della Gioventù – da una felice intuizione di Eugenio Curiel – fornirà un preziosissimo contributo alla Resistenza; nasceranno diverse brigate partigiane specifiche e molti di quei giovani sacrificheranno la loro vita nella lotta per la libertà, fucilati, impiccati, bruciati vivi, deportati nei lager…
2. la realizzazione e la diffusione della stampa clandestina, con la nascita di due giornali partigiani che saranno diffusi in migliaia di copie in molte città grazie al silenzioso esercito di staffette e volontari.
3.fin dall’autunno del 1943, vede la luce “L’Uomo”, testata già significativa di per se stessa, promossa soprattutto, oltre che da padre Turoldo, dal professor Dino Del Bo, con la collaborazione sempre più numericamente significativa e convinta di molti insegnanti, laureati e laureandi dell’Università Cattolica
4.nel marzo del 1944, su intuizione e proposta di Teresio Olivelli, tra le mura del Convento dei Servi di Maria (cui appartengono sia padre Turoldo che padre De Piaz) nasce “il ribelle” che sarà poi realizzato e distribuito soprattutto dalle Fiamme Verdi bresciane di cui sarà portavoce. L’ultimo numero del giornale – il numero 26 del 16 giugno 1945 – sarà interamente dedicato alla memoria del fondatore Teresio Olivelli che nel frattempo ha perso la vita nel lager di Gusen.
Due gesti significativi indicano inoltre l’inizio e la fine dell’attività resistenziale di Turoldo: il 26 luglio 1943 salva la vita ad un gerarca fascista che sta per essere linciato per strada, e nel luglio 1945 va nei lager europei alla ricerca degli ex-internati dimenticati da tutti.
– Quali tracce ha lasciato in padre David Maria Turoldo l’esperienza partigiana?
Categorico padre Turoldo: “Da allora ho continuato a resistere. Da allora è stata tutta un’altra storia. I miei amici di dopo sono tutti uomini della Resistenza…”
Appena dopo la Liberazione del 25 Aprile 1945, padre Turoldo visita ventinove lager, alla ricerca di sopravvissuti e riporta a casa in salvo circa duecento prigionieri: in che modo tale gesto eroico può dirsi oggi profetico per la memoria di quanto è accaduto e per un’Europa nuova, quella che Lui stesso definisce «la sola possibile, quella della solidarietà dei sopravvissuti»?
Padre Turoldo ed i suoi collaboratori partono da Milano ai primi di luglio del 1945, mentre in Italia ancora si festeggia (tra lacrime e lutti e rovine) la liberazione, con una quarantina di camions ed automezzi di vario genere messi insieme con la collaborazione della Curia di Milano. Vanno alla ricerca dei dimenticati negli ex-lager, dei dispersi, di coloro che magari non sanno neppure che nessun reticolato li trattiene ancora. Ne porteranno a casa circa duecento. L’esperienza, per Turoldo, sarà orribile e sconvolgente: non avrà difficoltà ad ammettere che non gli sarà possibile dimenticarla. Non solo per le condizioni disumane in cui aveva trovato gli ex-internati praticamente lasciati a se stessi an che se in fin di vita o incapaci di reggersi in piedi, ma anche, (forse soprattutto) per le tresche, i furti, le gravissime ingiustizie di cui è stato vittima perché si occupava di quella gente, per gli episodi di accaparramento, di disonestà, di corruzione e di sfruttamento di cui è stato impotente spettatore, per le cocenti delusioni che i comportamenti anche di persone d ambienti religiosi gli hanno provocato, per la sensazione sconfortante che di fronte a certi meccanismi non esiste nessun esercito liberatore.
Durante un pellegrinaggio a Mauthausen nel maggio del 1979 ribadisce che c’è una sola possibilità perché quanto successo non succeda più: ricordare e capire, far ricordare e far capire. Nella stessa occasione suggerisce anche un forte elemento di speranza per il futuro: la possibile nascita di una Europa che abbandoni definitivamente l’assurdo pregiudizio della propria superiorità nel mondo (di cui Hitler è stato la più tragica espressione) e diventi l’Europa “della solidarietà dei sopravvissuti”.
“Ho visto gli jugoslavi portare ghirlande al monumento dei russi; russi e jugoslavi portare ghirlande sul monumento dei tedeschi e degli italiani e degli spagnoli; ho visto italiani spagnoli e tedeschi portare ghirlande sul monumento dei cecoslovacchi, dei polacchi, dei bulgari; e così ebrei e francesi e rumeni intrecciarsi in silenzio, tutti con ghirlande, inchinarsi sui monumenti gli uni degli altri. Questa è la sola Europa in cui credo; come dicevo, forse la sola possibile.”
– Come si è manifestato l’impegno di Resistente di padre Turoldo anche successivamente alla fine della lotta partigiana?
È in prima fila nelle manifestazioni di protesta là dove i diritti fondamentali della persona umana non sono rispettati. Si batte per la pace. Contro le dittature. Contro i pregiudizi. Contro le forme più o meno violente di razzismo e di emarginazione. Sostiene le iniziative internazionali che possono favorire la distensione e la collaborazione tra i popoli…
Si schiera a favore dei movimenti di liberazione dell’America Latina soffocata dalle dittature: alza il suo grido accusatore contro i regimi che si professano cristiani e torturano e massacrano gli oppositori, come in Cile, in Uruguay, Paraguay e Argentina… fa conoscere al mondo Rigoberta Menchu, coraggiosa guatemalteca che affronta il potere ritornando con gli esuli indigeni dall’esilio nel Messico alla loro terra… condivide con la Chiesa latinoamericana quella passione per la Parola di Dio collocata tra le mani dei poveri come vessillo di libertà, canto di lotta, speranza e risurrezione..
Tuona a gran voce contro l’uccisione di martiri latino-americani più o meno conosciuti: da padre Camillo Torres (sacerdote e guerrigliero colombiano, caduto in una imboscata a 37 anni di età nel febbraio 1966) a Salvador Allende, presidente del Cile, democraticamente eletto dai cileni, deposto e “suicidato” dai militari nel settembre del 1973; da Chico Mendes, sindacalista ed ambientalista brasiliano, abbattuto a fucilate a 44 anni nel dicembre 1988 a Frei Tito, frate domenicano brasiliano, vittima di torture e violenze inenarrabili che lo spingeranno al suicidio a 29 anni di età, nel 1974, al vescovo Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, assassinato durante la celebrazione di una messa…
In Italia, Turoldo non manca di manifestare il suo disaccordo con la Chiesa schierata a favore di una specifica area politica, perchè il cristiano deve sentirsi libero di decidere secondo la propria coscienza. La fede è libertà. in tutti i campi. In occasione degli appositi referendum, vota contro l’abrogazione sia del divorzio (nel 1974) che dell’aborto (nel 1981), perché i principi religiosi non possono essere imposti a chi non crede: la religione deve essere spiegata e proposta, mai imposta con una legge.
Nella primavera del 1978, sempre insieme al confratello De Piaz, cerca di avviare una trattativa con le Brigate Rosse per la liberazione di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, sequestrato il 16 marzo. L’iniziativa – cui partecipa anche il Vescovo di Ivrea monsignor Luigi Bettazzi, presidente di Pax Christi – viene bloccata dall’opposizione delle autorità ecclesiastiche.
Padre Turoldo “si butta” nell’esperienza di Nomadelfia.
Fondata da don Zeno Saltini – prete dal 1931, partigiano, schierato dalla parte di chi vive nel bisogno, con particolare attenzione ai bambini resi orfani dalla guerra o dispersi sulle strade – Nomadelfia, al suo nascere e nei primi anni di vita, gode dell’appoggio ufficiale anche delle massime autorità ecclesiastiche, dal Papa Pio XXII al Cardinal Schuster Arcivescovo di Milano (famosa la sua frase “Questo è Vangelo, il resto è cornice”). Praticamente fino al 1951.
Quando – per gli orientamenti e le iniziative che vi si stanno realizzando (un nuovo concetto di famiglia, certe forme di democrazia diretta, le “mamme di vocazione”, una nuova concezione di carità… ) o che incominciano ad essere proposti (un movimento politico) e per l’importanza e le dimensioni che la comunità sta assumendo (coinvolte fino a 1.500 persone come volontari, ragazzi accolti o ospiti senza casa né lavoro… ) sorgeranno ostilità sempre più forti sia da parte di numerose alte personalità ecclesiastiche sia da parte di istituzioni ed organi del Governo che interromperanno anche i contributi (il Ministro degli Interni Mario Scelba dichiara ufficialmente di non approvare Nomadelfia “né assistenzialmente, né socialmente, né politicamente”); ostilità che nel volgere di qualche anno, unitamente ad oggettive difficoltà economiche, renderanno sempre più difficile la vita di Nomadelfia e porteranno al suo temporaneo scioglimento.
Con l’aiuto di padre Camillo, dà vita alla “Corsia dei Servi”, articolata in diverse iniziative che fanno riferimento principale a tre settori (attività di carattere editoriale, attività di carattere culturale-formativo, una “corsia del libro cattolico”) e, senza riserve di carattere ideologico e/o religioso, punta anche ad approfondire le amicizie intellettuali e spirituali già in atto, a facilitarne e stimolarne altre, ad incrementare l’opera di formazione culturale religiosa parallelamente a quella caritativa, aprendosi e sollecitando rapporti anche con esponenti della cultura laica. Accoglie sia religiosi che laici nella massima libertà: gli uni e gli altri hanno uguale importanza e responsabilità. Ma, in tempi in cui tutto l’associazionismo cattolico è diretto e gestito dai preti, un gruppo nel quale sacerdoti e laici collaborano alla pari, cioè sullo stesso piano in un riunirsi spontaneo, in modo laico e fraterno, senza formalità gerarchiche non può non creare scandalo. La Corsia realizzerà i suoi atti costitutivi formali nel 1952 e diventerà un centro sempre più frequentato da scrittori ed intellettuali anche stranieri, impegnati nella lotta per la libertà con iniziative tese a “riscattare l’umano dal disumano”: dalla protezione dei ricercati, perseguitati e sbandati, alla traduzione ed alla diffusione di testi censurati, al cinema-studio (cineforum)…
Ancora una volta, però, le scelte che la Corsia man mano propone e cerca di realizzare provocano tensioni sempre più gravi all’interno dell’Ordine dei Servi di Maria; tensioni che saranno abilmente sfruttate anche da autorità ecclesiastiche esterne all’Ordine. Sia padre Turoldo che padre De Piaz saranno allontanati da Milano e la Corsia sopportata nei locali del convento fino al 1974; anno in cui, con la scusa delle posizioni assunte a favore del divorzio in occasione dell’apposito referendum, si verificherà la rottura definitiva e la Corsia dovrà lasciare il convento dei Servi di Maria.
– Qual è l’eredità di padre David Maria Turoldo?
“Speranza” è una delle parole più usate a care a padre Turoldo sia perché il concetto di speranza è diventato uno dei pilastri fondamentali del suo messaggio e della sua esistenza, sia perché è in stretto collegamento con il concetto di Resistenza che a sua volta ne diventa significativa espressione. La Resistenza infatti non è soltanto la cacciata dell’invasore tedesco e l’abbattimento della dittatura fascista; è innanzitutto l’attesa, il bisogno, la ricerca di un profondo rinnovamento, cioè la speranza di essere uomini diversi, buoni, fratelli; è una scelta di vita, un impegno che non consente distrazioni, un percorso da realizzare giorno per giorno…
La speranza – secondo padre Turoldo – diventa il momento in cui si traduce in realtà la fede in cui credi, diventa uno “scandalo” perché in certi momenti di vita personale o generale è molto più difficile sperare che credere; si spera in quello che si crede, ma se non si crede in nulla, non si spera in nulla. La speranza è cambiare le cose, dare valore alla propria vita, gli ideali che si vuol realizzare. Allo “scandalo della speranza” padre Turoldo dedica un’opera teatrale che vede la luce nel 1965, ventesimo anniversario della liberazione, è rappresentata la prima volta a Sesto San Giovanni e trae ispirazione anche dalle lettere dei condannati a morte della Resistenza europea.
È una “liturgia della libertà” che si realizza come una vera e propria santa messa, così che la Resistenza stessa diventa fonte di una sacralità che celebra l’uomo e l’intera umanità. In sintonia anche con l’aspirazione di Teresio Olivelli che – nella “Preghiera del ribelle” – invoca accoratamente Dio perchè il sangue dei caduti nella lotta per la libertà possa unirsi a quello di Cristo per far crescere nel mondo la giustizia e la carità.
L’opera – pubblicata nel volume “I giorni del rischio: maledetto colui che non spera” (Servitium editrice, 2013) si conclude con un colpo di scena che può sembrare paradossale: il padre dei sette fratelli Cervi massacrati dai fascisti durante la Resistenza “Riaggiustò la casa / ricongiunse le strade interrotte / e innalzò nuovi alberi nelle grandi fosse, / riprese l’aratro e ritornò ai campi. / ‘A raccolto distrutto, uno nuovo se ne prepari’ / disse.

Addio Ernesto

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di Alfredo Luís Somoza

Con Ernesto Cardenal scompare uno degli ultimi protagonisti della Teologia della Liberazione in America Latina. Nato nel 1929 a Granada (Nicaragua), in una famiglia dell’aristocrazia nicaraguense, studia Lettere a Managua e poi in Messico.
Ma è negli Stati Uniti che cambia la sua vita diventando frate trappista dopo avere conosciuto il monaco-scrittore Thomas Merton. Torna in Nicaragua dove fonda una comunità religiosa nell’isola di Solentiname, che presto diventerà il centro culturale più stimolante del piccolo paese centroamericano.
Qui nasce una scuola di pittura primitivista e soprattutto una scuola di poesia che trascende i confini del paese. Ma la comunità fu anche partecipe della lotta armata contro la Dittatura di Somoza e Cardenal stesso divenne un quadro del fronte di Liberazione sandinista dovendo fuggire all’estero.
Il 19 luglio 1979 lo ritroviamo entrando a Managua insieme ai partigiani che avevano sconfitto il tiranno aderenti al fronte sandinista, una coalizione che includeva liberali, marxisti e cattolici. Cardenal diventa ministro della Cultura del primo governo sandinista. Suo fratello Fernando, sacerdote gesuita, diventa ministro dell’educazione e ancora a un altro sacerdote, Miguel D’Escotto, venne affidato il Ministero degli Esteri.
(….) Ernesto Cardenal era diventato il più importante poeta centroamericano, ma lascia un segno profondo come ministro. Lui sarà una delle guide della Crociata di alfabetizzazione lanciata da suo fratello Fernando e riconosciuta come esempio mondiale dall’UNESCO: nel paese con il più alto tasso di analfabetismo della regione, oltre il 50% degli abitanti, 500.000 persone impareranno a leggere e scrivere.
Cardenal continuò tutta la sua vita a dedicarsi agli ultimi proponendo l’arte come imprescindibile anche per chi soffre povertà e privazioni. Nel 1994, come tanti fondatori del movimento, rompe con il sandinismo ormai diventato strumento di potere personale di Daniel Ortega.
Nel 2014, Papa Francesco cancella la sospensione a divinis che era stata inflitta dal suo predecessore ai tre sacerdoti nicaraguensi che furono ministri. Una riappacificazione a posteriori con la Chiesa e il recupero di un’esperienza ricchissima come quella della Teologia della Liberazione che rinnovò la Chiesa in America Latina spostandola per la prima volta in 500 anni dalla parte dei poveri.
Fede e impegno, insieme ai laici, per una causa comune superiore. L’arte al servizio del cambiamento, inteso come diritto per tutti, senza distinzioni. Questo l’insegnamento che lascia la vita di Ernesto Cardenal.

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“IL POTERE CORROMPE OGNI COSA”

Intervista a Ernesto Cardenal su “poesia e rivoluzione” dell’8 settembre 2004 per “Vita.it”

di Marco Dotti

MD
Fin dalle sue prime
esperienze poetiche, lei ha dichiarato di nutrire una costante attenzione «per le cose». Come se la scrittura dovesse modellarsi, o trasformarsi, al contatto con esse, riscoprendo, al contempo, grazie all’uso frequentissimo nella sua poesia di espressioni colloquiali e di termini prosaici, una specie di «luogo comune del linguaggio», una sorta di denominatore, minimo delle sensibilità individuali. In questa ottica, lei è stato fra i promotori di una corrente letteraria definita «exteriorismo». Ce ne vuole descrivere i punti principali?

EC
L’ «exteriorismo» è la cifra, la chiave di volta di tutta la mia poesia. In verità, il termine è infelice, poiché non si tratta, ne si trattò mai, di una «scuola», nel senso in cui la intendono i fondatori di dogmi e legami. Fu José Coronel Urtecho, con cui ho condiviso parte del mio cammino, a dare questo nome al nostro movimento nei primi anni `50. Non volevamo introdurre un altro «ismo», accanto ai molti che già c’erano, e a quelli, sempre più numerosi, che continuano e continueranno ad esserci. La questione era un’altra, volevamo rompere con il grado troppo intimista, retoricamente piegato su se stesso, della poesia ispanoamericana di quegli anni. Avremmo potuto e dovuto chiamarla, piuttosto, «poesia concreta», perché di questo, in fondo, si trattava. Concreta, in opposizione a tutto quanto è astratto, lontano dalla realtà, dalle persone. Parole piene di idee, certamente, ma le idee le cercavamo e le trovavamo solo nelle cose. Poesia come atto rivoluzionario, come scelta di vita e resistenza, e come vocazione al cambiamento sociale. Poesia concreta, dunque, non surrealismo.

MD
A proposito di surrealismo, nel 1948 – dunque pochi anni prima che decideste di sfidare una certa tradizione poetica – Julio Cortázar forniva una delle migliori chiavi di lettura per intendere il surrealismo: «è cosmovisione» – scriveva. E alludeva a una «visione» che non sembra possibile contrapporre a una concretezza di altro ordine o grado. Come descriverebbe quel che distanzia la sua visione del surrealismo da quella di Cortázar?

EC
Messa in questi termini, non posso che accettare la definizione di Cortázar. Ma io intendevo qualcosa che suona astrattamente, che non pulsa, rispetto alla nostra idea di concretezza e di senso della realtà. La nostra era una specie di apertura, apertura alla grande poesia. Concreta è la poesia cinese classica, l’ideogramma, quella giapponese, quella greca, tutta la poesia che chiamiamo «primitiva». Walt Whitman e Omero, Dante e Shakespeare sono «poesia concreta». Anche quella di Pound è una poesia concreta e diretta.

MD
Nel 1980, su «Barricada», una rivista stampata a Managua, lei ha pubblicato un testo dal titolo «Unas reglas para escribir poesía»: è una sorta di breviario della composizione poetica, in dieci punti, molto precisi, in cui riprende temi e idee che già aveva elaborato e espresso negli anni `50. Ce li riassume?

EC
Sì, composi quel testo per dare un segno contro le «scuole» che in Nicaragua pretendevano di insegnare poesia semplicemente negandola nei fatti. In Nicaragua c’è stata una guerra, ma un’altra guerra ancora più aspra si è combattuta contro e dentro la Rivoluzione. Rosario Murillo, la moglie di Daniel Ortega – il comandante «Cero», leader del fronte sandinista – ha condotto una battaglia personale contro la poesia e contro l’esteriorismo e, dunque, contro di me. Voleva imporre «ricette» artificiali e astratte per la poesia. Lei e altre persone servili hanno abusato del loro potere per togliere libertà alla gente e imporre stretti dettami nelle scuole, dettami che di fatto erano la negazione di ogni poesia. Ma non si può privare della libertà un poeta. Per questo, in quel decalogo, io non fornisco che poche regole, semplici e chiare, indicando una via, per quanto possibile, all’ispirazione di ognuno. Do solo alcune raccomandazioni. I versi devono essere liberi, secondo la propria sensibilità, ma non devono essere in rima; la rima va bene per le canzoni ed è appropriata per le consegne militari: un esempio che portavo sempre a mo’ di provocazione è «Vencimos en la insurrección – Venceremos en la alfabetización». In ogni caso, la buona poesia si fa con cose tangibili, che si gustano, che si vedono, e che si sentono. Ma, soprattutto, si tratta di ridurre e abbreviare, per quanto possibile. Bisognerebbe scrivere come se si trattasse di comporre un telegramma o disegnare un’insegna stradale. Certo, un poema puo essere molto lungo, ma ogni riga deve essere scritta con un linguaggio asciutto, cesellato,

MD
Nel 1969, dopo la sua ordinazione sacerdotale, lei ha dedicato un poema, Homenaje a los indios, alla visione, alla sensibilità, all’eredità etica dei popoli precolombiani. Temi sui quali è tornato nei suoi saggi, e, nel 1986, nel poema dedicati al mito tolteco di Quetzalcóatl, il «dio dei vinti», affrontando anche la questione politica dell’esodo. Trova che la sua lingua, a contatto con quanto si prefiggeva di rievocare, si sia modificata, o – per usare un aggettivo a lei caro -«purificata»?

EC
Non sono un filologo e non ho lavorato sulla lingua come un ricercatore, ma mi affascinava il fatto che la poesia e il verso fossero la forma principale, la più naturale, di comunicazione di questi popoli. Le propongo un verso che dice «Verità religiosa, e verità politica, erano per il popolo una sola verità». Gli indios custodivano un segreto, e «Il segreto di Machu Picchu» è anche il titolo di un mio poema. Machu Picchu era invisibile, a suo modo. Dove i conquistadores credevano non vi fossero che macerie si celava l’anima india, immortalata in geroglifici inintelleggibili, ed evocata, a livello pololare, in tante canzoni sulla «paloma», l’uccello sacro, simbolo della dignità, della lotta, del rigore dei «vinti». Gli spagnoli sentivano cantare, sentivano quelle canzoni, ma non capivano che si trattava di parole di resistenza. Machu Picchu, infatti, era un centro di resistenza, un città che fuse quella lotta alla tradizione india, e il suo segreto è stato custodito per molti secoli. Un giorno ho scritto, e lo ripeto qui, che «l’uomo dell’antica America per me altri non è che l’americano del futuro». Ma non ho mai pretesto di scoprire qualche segreto nella lingua antica, o nella cultura náhuatl. La mia poesia è razionale, sempre.

MD
Nella sua esperienza poetica quale importanza ha avuto l’incontro con Thomas Merton? Ricordo la passione di Merton per l’Oriente, lo zen, le forme altre di ragione…

EC
Merton ha avuto una grande influenza spirituale e «mistica» su di me, ma senza ricadute sulla mia poesia. Dalle note e dagli appunti inediti che ha lasciato si capisce che Merton, invece, è stato influenzato, poeticamente, dalla mia scrittura. Hora cero fece una grande presa su di lui. La mia poetica è sempre rimasta la stessa, sono cambiati i temi, i problemi, non altro. E i miei referenti erano soprattutto nordamericani. La mia ricerca è sempre stata «exteriorista»: le mie scelte, le mie esperienze, tra cui quella nel governo del Nicaragua libero, non hanno influito sulla mia ricerca poetica.

MD
Proprio in Hora cero, la raccolta composta tra il 1959 e il 1960, dopo il trauma dell’insurrezione fallita contro Somoza, lei accenna a un processo di colonizzazione sottile, un lavoro lento di corruzione delle forme e del linguaggio: la «Compagnia – scrive – corrompe anche la prosa». E ancora, in un verso che segue: «Corrompono la prosa e corrompono il Congresso».

EC
Corrompono ogni cosa, è così che agisce il potere. In Hora cero c’è un epigramma in cui parlo di questa esigenza di purificare, tramite la poesia, il linguaggio di tutto un popolo. Le dittature, difatti, entrano anche dentro il linguaggio. È difficile sradicarle, crescono tutto intorno, anche a distanza di anni fanno sentire il loro tarlo. In Nicaragua, ad esempio, dopo la rivoluzione che ci ha lasciato in eredità libertà e democrazia, la corruzione ha ricominciato a presentarsi come modo comune, quasi naturale, di gestire le cose, i rapporti, le forze. Se escludiamo il Venezuela, e forse il Brasile di Lula, tutta l’America latina si trova in questa condizione. Una corruzione generalizzata, che non mi pare, del resto, risparmi neppure altre parti del pianeta. L’importante è fare un costante lavoro di critica, ricominciando da sé, e da una forma di resistenza individuale. Partire da sé, e poi tendere verso l’altro. Questa lavoro, per me, è la rivoluzione.

MD
Dunque, ancora tra Cristo e Marx. D’altronde lei ha scritto che non si capirebbe Marx senza San Giovanni della Croce…

EC
È una frase non mia, mi è stata attribuita molti anni fa; l’ha detta, in realtà, un comunista francese, ma io la condivido.

MD
E Giovanni della Croce, lo capiremmo senza ricorrere a Marx?

EC
Non credo (ride).

I “Luf”: Verso un altro altrove

 

di Matteo Manente

“Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti” cantava Fabrizio De André per introdurre i disordini del maggio francese nel suo Storia di un impiegato.

Lo stesso verso si potrebbe utilizzare per condensare in un unico commento il disco dei Luf, uscito nel 2016.

“Delaltér. Verso un altro altrove” infatti è un concept album che costringe chi lo ascolta a porsi delle domande, a riflettere su quel che accade nel mondo e, alla fine, a sentirsi per forza di cose coinvolto con le storie raccontate.

Tutto questo perché sono storie con radici ben piantate nel nostro presente, intrise della drammatica quotidianità dei migranti in fuga ma, più in generale, perché ci pongono di fronte alle vicende di chi nella vita si trova a viaggiare, sia in senso fisico, sia in quello metaforico.

Ci si può anche illudere che Lampedusa – immortalata nella struggente “Lampecrucis” – sia a migliaia di km di distanza da casa nostra, ma il carico di dolore e umanità che si porta dietro non può certo lasciare indifferenti, né tantomeno assolvere le nostre coscienze proprio per questa lontananza geografica.

Ecco quindi la forza di questo progetto discografico dei Luf: parlare di uno dei maggiori drammi contemporanei – quello della condizione di chi fugge o di chi comunque è costretto a muoversi “verso un altro altrove”, per l’appunto – declinando il tutto in chiave fortemente poetica, con musiche a tratti anche festose, come per restituire a tutti questi migranti un po’ di dovuta umanità, oltre che per combattere la nostra assuefazione da telegiornale, che rischia altrimenti di far naufragare quel rimasuglio di pietà umana che fortunatamente alberga ancora dentro di noi.

Non tutto il disco parla di migranti, profughi o disperati in fuga da guerre e devastazioni: Delaltér è un disco sul senso del viaggio e sui viaggiatori, un disco su chi – citando ancora De André – si muove spesso e volentieri “in direzione ostinata e contraria”, magari “per la sola ragione del viaggio” o per scappare da un luogo o da una situazione non più sostenibile.

Chiaramente il trittico iniziale demarca in maniera netta i confini entro cui si muove la narrazione dei Luf, segna il tracciato entro cui le nuove canzoni vanno a incanalarsi, pone i paletti tematici di quello che a tutti gli effetti è un vero e proprio concept album.

Verso un altro altrove, che apre le danze, è il canto di speranza di chi si lascia alle spalle un pezzo di storia, legami, affetti e quant’altro, per intraprendere un viaggio che non sa ancora dove lo porterà. E’ un invito al viaggio, una sorta di incoraggiamento da dedicare a chi parte senza conoscere la meta di destinazione: “Adelante Comandante, nelle scarpe del migrante / nelle tasche di chi ha niente una rosa nascerà…”.

Lampecrucis si muove laddove i Gang hanno dato voce a Marenostro, ovvero in quei territori dove ha ancora senso parlare di canzone d’autore a tutti gli effetti: impegno e poesia sono messi in musica per dare voce al grido degli ultimi, dei disperati che però non cadono mai nella rassegnazione: “Non puoi cambiare il colore del vento / non puoi fermare il respiro del mare / non puoi respingere i figli degli ultimi / scortati da Dio sanno già dove andare…”. Ecco, se c’è una speranza di sopravvivenza per la tradizione cantautorale italiana, è proprio grazie a brani come questo!

Lo stesso identico discorso vale per la successiva “Ave Maria migrante”, che è a tutti gli effetti una preghiera, un’invocazione di protezione e di riparo per chi si trova ad attraversare un mare troppo grande, senza sapere cosa ci sarà dall’altra parte della riva: “Ave Maria dei poveri che vengono dal mare / hanno un solo sogno, quello di poter sognare / Ave Maria che navighi negli occhi dei bambini / Ave Maria migrante madre di tutti i clandestini / Ave Maria che hai pianto il tuo figlio sulla croce / ascolta queste lacrime, sono di chi non ha più voce…”.

Delaltér – traducibile letteralmente come “dall’altra parte” – usa il dialetto camuno e il folk tradizionale intriso di banjo e violino per dar vita a una danza scatenata in tipico stile luffico, ambientata tra le montagne delle valli camune: è un prontuario di istruzioni pronte all’uso di chi deve muoversi, una specie di bussola da usare per orientarsi nel proprio girovagare quotidiano: “Se non sai dove andare prendi un sentiero / piuttosto che star seduti meglio perdersi / piuttosto che andare piano meglio correre / ma se non sai nuotare stai sulla sponda…”.

“Questa macchina” è invece una ballata molto intensa che torna a suoni più acustici e raccolti, dedicata a tutti quei viaggiatori che tramite questo mezzo condividono l’emozione e il ricordo di un tratto di strada fatto in compagnia di qualcuno che ora forse non c’è più: “Questa macchina mi porterà all’inferno / sul sedile i sogni fatti e che farò / nello specchio vedo i volti di chi ho perso / penso agli occhi di chi non rivedrò… / Stella senza luna, luna senza stelle / il cielo è troppo grande per due anime gemelle…”.

Con “Don Vecare” si torna ai ritmi sostenuti del folk, per una vicenda incastonata al confine tra storia e leggenda: è il racconto epico – naturalmente in dialetto camuno! – di un bandito che sognava realmente l’indipendenza della Val Camonica, ma dopo aver compiuto malefatte di ogni genere, finisce male: “Apri la porta, apri il balcone / Don Vicario non fa più paura a nessuno / apri il balcone, spalanca la porta / con Don Vicario è morta la paura…”.

“Stelle” descrive quello che succede spesso ai concerti, ovvero la magia dell’incontro scaturito da un viaggio che si instaura tra chi suona sopra un palco e chi ascolta da sotto: “Ma questo viaggio non dovrà finire mai / da qui ogni sera ti racconterò i miei guai / su questa strada dove tu non sarai mai più sola / con la musica che uccide e poi consola…”.

Un viaggio può essere anche un cammino dettato dai sentimenti, più o meno corrisposti come nel caso della “Signora dai lunghi pensieri”, un brano smaccatamente folk che farà ballare chiunque lo ascolterà: “Signora dai lunghi pensieri / confondi i domani con ieri / mi dici ti amo, ma tu sei lontano e io resto qua…”.

Allo stesso modo, le canzoni di per sé costituiscono un viaggio da percorrere ed è esattamente quello che esprime con forza “Camminando e cantando”, cover del brano interpretato negli anni Sessanta da Sergio Endrigo: “Camminando e cantando la stessa canzone / imparando e insegnando una nuova lezione / fa chi vuole fare e chi vuole andare va / chi è stanco di aspettare una strada troverà…”.

Non sempre però il viaggio è sinonimo di gioia e spensieratezza: a volte capita di inciampare e la vita ci mette di fronte ad inconvenienti e difficoltà tremende, come la perdita delle persone più care: in questi casi c’è poco da fare, l’unico rimedio è quello di buttar fuori il dolore, magari attraverso una canzone come La luna le ‘na randa mata, nella quale si lascia spazio al ricordo di chi non è più con noi: “La luna è una falce folle / nelle mani del Signore / la luna è una falce folle / sbaglia a tagliare i fiori / la luna va e viene / ma non torna mai indietro…”.

Dopo una seconda versione di Verso un altro altrove, cantata insieme al giovane cantautore bresciano Alessandro Sipolo, il nuovo disco dei Luf si chiude con “Bare a vela”, piccola gemma acustica che nel suo minuto e poco più di durata suggella tutto il lavoro, senza tralasciare la poesia per contrastare l’orrore infinito di quelle troppe bare stese al sole di Lampedusa o di altri posti simili: “Di chi sono queste lacrime amare / che solcano il cielo ed il mare / di chi sono queste lacrime amare / chi ha messo le vele alle bare lo sai solo tu…”.

Di fronte a immagini viste ormai troppe volte, viene naturale rivolgersi a qualcuno di “superiore” per cercare di trovare una spiegazione che chissà se c’è o se arriverà, per tentare di razionalizzare il dolore e l’impotenza di fronte all’ennesimo viaggio della speranza – quello “verso un altro altrove”, per dirla ancora come i Luf – che si è infranto tra le onde di un mare troppo difficile da attraversare.(….)

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Adelante comandante questa notte sei distante
il sentiero è del viandante e il suo dio l’aiuterà

Adelante comandante niente stelle nel sestante
niente vento da levante quale dio ci guiderà

Adelante comandante nelle scarpe del migrante
nelle tasche di chi ha niente una rosa nascerà
è una lacrima di sangue levata verso oriente
per rendere più dura questa stanca civiltà

Verso un altro altrove verso dove verso dove
verso un altro altrove verso dove verso dove

L’acqua salda l’orizzonte niente sole dopo il ponte
niente lupo dopo il monte vale oro il mio destino
ho pagato con la vita il mio debito a Caronte
io non fuggo io cammino sono il vento clandestino

verso un altro altrove verso dove verso dove

Tra gli ulivi e le lampare adesso crescono le bare
nel sorriso di chi parte ho visto scritto libertà
il mio sogno e il mio futuro li hanno spenti con un muro
apro gli occhi e non mi sveglio buona notte libertà

Verso un altro altrove verso dove verso dove
verso un altro altrove adelante adelante
verso un altro altrove verso dove verso dove
verso un altro altrove adelante comandante.


Grazie Carlo


carlo-carretto

di fratel Tommaso Bogliacino

A Spello, con Carlo Carretto, ho imparato che il cammino è senza fine.

Sono in cammino (pellegrino) al seguito di Gesù di Nazareth, nella spiritualità di fr. Charles de Foucauld, grazie a fratel Carlo Carretto.

La mia vocazione come religioso, come piccolo fratello del Vangelo, ha radici spellane, cioè data dalla prima venuta a Spello: nel chiostro di S. Girolamo dove si celebrava una liturgia viva; nella cappella con il grande crocifisso e Carlo che, inginocchiato all’araba con lo sgabello, fa adorazione; negli oliveti al lavoro con Antonio Timio, Guerrino o Vincenzo.

Come prete diocesano dovevo fare una settimana di ritiro. Avendo sentito di fratel Carlo,che già conoscevo, e dell’eremo di Spello, scelsi di fare lì la settimana.

Scoprii un altro modo di fare ritiro. Non le 4 prediche al giorno, non la fuga dal mondo, bensì un andare più a fondo nella relazione con Dio riscoperto nella creazione, nell’adorazione come silenzioso dialogo d’amore, nella Parola condivisa; un incontrare gli altri in ascolto reciproco, imparando a diventare fratelli e sorelle; un andare dentro se stessi liberando le paure, senza sensi di colpa, imparando a camminare liberi e leggeri.

In questi due giorni, a cent’anni (passati) dalla nascita, sono venuto per continuare il cammino cercando di respirare lo spirito di Carlo che aleggia più che mai su queste Colline della speranza (così cominciò a chiamarle a partire dagli anni 70): uno spirito di umanità vera, di libertà, di accoglienza, di convivialità, di speranza. Dirò cose piccole senza pretesa alcuna; niente di nuovo, ma colorato a modo mio. Carlo ha scritto ‘Io Francesco’, colorato a modo di Carlo, armonioso.

Ma io non so volare; ho un’ala soltanto. Sono venuto qui a fare memoria perché ho bisogno della vostra ala, dell’ala di Carlo per volare ancora, per tentare di essere a mia volta ala per tanti che sono(come già ai tempi di Carlo) in ricerca, per tanti che appesantiti dal mito del mercato, dal potere, dal denaro prima di tutto, dall’apparire, o feriti dallo sfoggio purpureo e ancora troppo fastoso di vesti cardinalizie, giacciono a terra senza librarsi -deboli nella fede- nel cielo di Dio, della vita donata per amore.

Carlo: un uomo che ha saputo librarsi con Dio, con gli altri, con la chiesa, un uomo libero.

 Si, a Spello, circa 40 anni fa, ho incontrato prima di tutto un uomo (mentre ancora mi aspettavo un frate con l’abito e gli abiti da frate), un uomo libero, in cammino di liberazione senza fine. Un uomo leggero, pur con il suo peso, accogliente, semplice, ridiventato bambino , innamorato di Dio, dell’Uomo e della Chiesa.

Negli occhi, una luce particolare, uno sguardo penetrante; nella voce un suono familiare, attraente coinvolgente; nella mani una presa affettuosa e sicura, avvolgente, che rialza dalla caduta, che si appoggia al bastone, si, perché …; nelle gambe una storta da iniezione sbagliata. Ma ciò che poteva essere (e di fatto era) una disgrazia, si avvertiva che era divenuta strumento d’incontro e di relazione rinnovata con Dio,con gli altri e con se stesso.

Carlo aveva sognato di fare una fraternità sulle Alpi. Non dalle Alpi alle piramidi, ma dalle Alpi ha dovuto scendere alle colline, divenute le Colline della Speranza, e usare la sua famosa maggiolino che guidava con il piglio di un pilota Ferrari.

Quante discese nella vita di Carlo per librarsi in volo, per salire in umanità vera, in sapienza e grazia! Vorrei solo ricordare, come esemplare, cio’ che un p. fratello francese -non troppo in simpatia con lo stile di Carlo- nei primi anni di Spello rispondeva a chi arrivando al S. Girolamo aveva la disavventura di chiedere: dov’è il professore ? riferendosi a Carlo. La risposta: il professore è morto! Come? Si, il professore è morto. Se cerca fratel Carlo è in cucina o dalle galline …

Lo ricordo, seduto sul muretto del Giacobbe, con a fianco Giovanna, sorella pellegrina, le gambe accavallate (“ E’ in questa posizione che riposo meglio”) -lo sguardo attento e meravigliato sulla vallata di ulivi e il paese là in fondo, luminoso, sotto il sole cadente- a sgranare sapienza umana, evangelica con giovani e adulti, vecchi amici e nuovi, a ridere di cuore con chi era nella gioia e piangere nel cuore con gli afflitti. Sempre però abitato dalla speranza: “E’ più difficile scappare da Dio, molto più difficile che rimanere in Lui. Perché Lui, Gesù, è sceso in fondo, nello sporco, nel dolore di ognuno e là ti aspetta e ti ama, ti prende in spalla e ti innalza ….” ‘E Dio vide che era cosa buona’ è l’ultimo suo libro, quando, già molto malato,traduce in scritto ciò che sta vivendo, a Ponte di legno in Val Camonica, a casa dei Morra, grandi amici dai tempi della fraternità di Bindua, in Sardegna dove Carlo era stato per un tempo.

Al Giacobbe, a S. Girolamo, negli eremi, il ricordo più vivo e indelebile che ho:

fratel Carlo persona libera. Di una libertà che è sempre dono di Dio, ma acquistata, palmo a palmo, nei suoi lunghi momenti di preghiera, vissuti spesso nelle lotte con il suo Signore e Fratello, come era avvenuto per Giacobbe. Di qui il nome dell’eremo dove Carlo viveva più di frequente. Quante volte ho sentito commentare l’episodio biblico di Giacobbe al guado, della lotta con l’Angelo, con toni appassionati e in cui si sentiva l’esperienza personale. Libertà acquistata nei numerosi contrasti che si era trovato ad affrontare e che a costo di pagare di persona aveva sempre cercato di risolvere seguendo fino in fondo la propria coscienza.

“L’ultimo appello, la tua coscienza”, Tommaso. E questa frase la dice lunga su una fede vera, legata a Dio e alla responsabilità nostra, di uomini, non a religioni, chiese, leggi.

Carlo non era caratterialmente una persona molto domabile. I suoi fratelli di fraternità e/o superiori lo conoscevano bene e pur stimandolo ed amandolo profondamente, lo seguivano con una certa apprensione per la paura che, attirando tutte quelle folle, stravolgesse il carisma proprio dei Piccoli fratelli votati al nascondimento e alla semplicità della vita quotidiana. Conosciutissimo per il suo passato in A. C. e il suo rientro in Italia con il libro ‘Lettere dal deserto’ (nato dagli anni nel Deserto del Sahara), Carlo era facilmente a portata dei giornalisti. Ma lui, senza troppi problemi, se c’era da battere i pugni sul tavolo, lo faceva. A volte in modo -è vero- un po’ maldestro, come nel caso della posizione sul divorzio. Chiederà infatti perdono al Vescovo, ma appunto per il modo, non per il contenuto. Qualcuno infatti aveva visto in quella presa di posizione come un atteggiarsi a ‘profeta’ oltre che un passo falso, mentre quell’intervento era frutto di sofferenza e di notte di preghiera e di saggezza.

A Spello dunque, con Carlo, da Carlo, -Vangelo alla mano-, come suggeriva Charles de Foucauld: Ritornate al vangelo, in adorazione davanti a Gesù eucarestia, sia di giorno e una volta alla settimana di notte (“Fratellino, sorellina alzati: meglio pregare che dormire”), a contatto, nel lavoro, con i contadini della vallata, ho imparato (dal ‘69 la prima volta, poi novizio, poi in fraternità dall’84 al 91) a camminare nella conoscenza del volto di Dio, del volto dell’Uomo, del volto della Chiesa.

Pellegrini, come il pellegrino russo la cui icona -della pittrice e amica Margherita Pavesi, che con altre icone aveva dato un tono d’arte e di forte presenza dello Spirito- campeggiava all’entrata della cappella del Giacobbe; in cammino, pellegrini e stranieri sempre, come e sulle orme del Pellegrino tra Cielo e terra, tra Dio e l’uomo, imparando ancora e sempre a credere, a pregare (‘Sono una preghiera in cammino’), ad amare … Questo uno dei primi insegnamenti di chi, venuto a Spello per motivi vari, ripartiva con fiducia, con speranza, con la beata povertà di chi sa che ‘Non esiste il cammino; è camminando che si fa il cammino’.

E nel ‘pellegrinaggio’ della sua vita, perché così si può dire, visto i vari passaggi, ma in profonda unità di radici e di direzione, Carlo mi ha portato a scoprire un altro volto di Dio, un altro volto dell’Uomo, un altro volto di Chiesa.

Il problema è proprio quello: Credo o non credo in Dio, ma quale Dio? Sto dalla parte

dell’Uomo, ma quale Uomo? Faccio parte della Chiesa o la rifiuto, ma quale Chiesa?

 Quale Dio?

Quando arrivai a Spello, venivo da una famiglia ultra cattolica di un paesino delle Langhe, proprio confinante con il paese dei genitori di Carlo. Venivo dal seminario, da un misto di teologia conciliare e preconciliare, con anche buoni professori, ma il clima generale era ancora del ‘prima’: un Dio potente, anzi onnipotente , un Dio piramidale dominava ancora (e ora si vuole ritornare lì), dunque una chiesa forte, gerarchica soprattutto, che chiede degli ‘araldi’ per l’altare; dei nemici da combattere ….

A fianco di Carlo, nel clima del Concilio e nella spiritualità di fr. Charles de Foucauld, tanti hanno scoperto il volto Umano di Dio, il volto di Gesù di Nazareth 

Dio Padre e Madre (Papà e Mamma), un Dio che fa dei figli non degli schiavi o solo degli oggetti, che invita a stare con Lui , nella casa che è casa di tutti, proprio tutti, di tutte le etnie, tutte le religioni, tutti figli nel Figlio.

Dio Bambino, Piccolo, che scende nella valle, nella pianura (Vangelo di Luca) che si confonde davvero, non per scherzo, con i peccatori, con i piccoli.

Un Figlio di Dio laico, (“Non voglio essere presbitero, per conservare un minimo di libertà .…”) operaio, pescatore, che invita a tavola i peccatori, le prostitute ….

Dove Carlo ha imparato queste cose? Certo dal Vangelo, dalla Bibbia “Basta con un cattolicesimo senza Bibbia, con una predicazione senza midollo … Quando bruciò il tempio di Gerusalemme, gli Ebrei, che se ne intendevano di tesori, abbandonarono alle fiamme tutto, ma salvarono la Bibbia”; e in particolare dall’altro Carlo,(che anche qui in Italia è meglio chiamare fr. Charles per non confondere), e da Milad, piccolo fratello maestro dei Novizi a El-Abiodh, nel deserto, che lo invitò a spogliarsi di tutte le sovrastrutture, di tutte le vanità del passato, anche l’indirizzario (bruciato tra le dune di sabbia), per imparare a ‘gridare il vangelo con la vita, nell’essere piccolo e fratello universale, come Gesù’. Un Dio imparato in ginocchio davanti all’Eucarestia, dove ‘si sta come lucertole al sole, ma soprattutto come un feto, essere vivente, nel seno della madre’.

 Carlo piccolo e bambino. Oh si, Alcuni segni: non dice mai, avrei potuto essere parlamentare, onorevole ….; non ha nostalgia degli anni di gloria (300 mila baschi verdi in S. Pietro …); è gioioso di vivere in semplicità, guida la macchina come un bambino a volte chiudendo gli occhi “Sai Tommaso cos’è la fede? Ecco …”, e giù con gli occhi chiusi. Dipinge il carrettino nella mani della Madonna; interviene a volte in questioni politiche sognando come un bambino. (Oggi direbbe, come lo ha fatto per i suo tempo: Se a Montecitorio, se come Premier ci fosse un bambino le cose andrebbero bene, così è solo una rovina, un disastro).

Carlo: appassionato di Dio (“Quando sarò nell’Al di là non chiedetemi miracoli, ma il dono della fede”), del Dio di Gesù di Nazareth, del calvario, vivente; Carlo appassionato dell’Uomo.

 Quale Uomo?

Sui passi di Carlo zoppicante (in umanità siamo tutti zoppicanti), ho ritrovato ogni umano nel ‘figlio dell’Uomo’. Carlo, un uomo prima di tutto, prima di essere maestro o professore, prima di essere il Presidente (di A. C.), prima di essere piccolo fratello, senza nulla togliere al fatto di essere un religioso.

E a Spello ho incontrato un uomo che, soprattutto nell’ospitalità accogliente, calorosa, (“oh, sorellina, che bello vederti, rivederti”), indicava a tutti, anche senza parole, Colui che qui a Betania abbiamo imparato a cantare così: Tu nostra luce, Tu nostra pace, sei Tu lo splendore dell’umanità, l’Uomo-Dio, Gesù di Betlemme, di Nazareth, figlio di Dio.

In fraternità a Spello ho imparato, che in quel batuffolo di carne della grotta di Betlemme tutti i bambini (gli uomini), di tutte le etnie, religioni sono tutti plasmati nella divinità. Si tratta solo di risvegliarsi a questa verità. Ho imparato che dunque i sacramenti sono un segno, un risveglio,( ma aggiungono ontologicamente qualcosa?).

 Ecco, desidero raccogliere in un solo colore l’arcobaleno di Umanità che Carlo ha vissuto e mi ha fatto ammirare, il colore arancione della Convivialità.

Che la vita sia una chiamata a ‘mensa’, a ‘messa-convito, dialogo, condivisione, fraternità, amicizia’, Carlo me lo ha fatto gustare proprio a tavola nelle case dei contadini della vallata Chiona o in paese; così come durante i pasti (pranzo e cena) al Giacobbe, al S. Girolamo o negli eremi con gli ospiti; e ancora durante i digiuni (a vote) del venerdì, non vissuti con volto triste bensì con il profumo che sfociava nella cena festosa del dopo la liturgia di riconciliazione. Me lo ha fatto gustare nelle Liturgie del sabato sera, preparate dai vari eremi e condivise, come a tavola, nel chiostro per nutrirsi di Parola fatta ri-suonare reciprocamente con canti, danze, poesie-preghiere, fiori, terra , acqua …; e ancora nelle Messe-mensa domenicale nel ‘sacro’ refettorio del chiostro con il telone arancione, dove l’eucarestia era ‘Una’ dall’inizio del rito -Nel nome del Padre … – alla pasta asciutta condivisa, seduti sui muretti del chiostro, nella gioia di ‘chiacchierare’ conoscendosi meglio, rinforzando amicizie nelle confidenze reciproche e a volte intessendo matrimoni.

La vita dunque un ‘banchetto’, una ‘mensa’ non dove qualcuno si abbuffa e altri soffrono la fame, una mensa sapendo gustare i dolci del maestro Nestore, la contadina minestra di Maria Baglioni, gustando e facendo gustare il vissuto di ogni con-mensale venuto da tante parti d’Italia o del mondo. Uno dei segreti di Carlo, di Spello, un segreto che io chiamo ‘sacramento della tavola’ erano proprio le ‘presentazioni’ o ‘condivisioni’ a tavola dei discreti: perché sei venuto? Da dove vieni? dove vai? che cosa ti preoccupa, ti anima?

Convivialità nell’accoglienza. A Spello Carlo ha accolto persone di tutti gli strati sociali, di tutte le differenti ‘Chiese’, di tante religioni diverse. Ognuno trovava la porta aperta. Se osava frenare l’invadenza, a volte pregava così (di fronte a tutti): “Signore metti le ali a chi viene in ricerca, con desiderio di condividere il quotidiano degli eremi, ma ‘buca’ le ruote di chi viene solo per approfittare, per danneggiare ….”

Convivialità tra piccoli fratelli e ‘sabbatici’, .riuscendo a far stare alla stessa tavola del ‘regno’ (a volte non senza difficoltà) carsismi diversi, stili di vita differenti. Penso in particolare a Giovanna con il suo carisma di pellegrina, con il suo dono di accoglienza, per anni a fianco di Carlo al Giacobbe; penso a Pierangelo e il suo straordinario carisma di canto, a Gino e Meri, a Erina e tanti altri

Convivialità con i proprietari degli eremi (non sto a nominarli tutti, sono più di 25) che Carlo sapeva coinvolgere nella condivisione non solo dei beni terreni ma dello spirito, del cammino di fede.

Convivialità con tutto il paese di Spello in tutte le sue dimensioni, anche artistiche (penso in particolare alla collaborazione con il pittore Norberto e con Orlando , che, come p.f. era stato agli inizi con Carlo al s. Girolamo, passato al Padre -non a caso- proprio ieri); convivialità con le varie amministrazioni in un clima di non giudizio, di ‘il primo dialogo è la collaborazione nelle opere di bontà.’

Convivialità tra i piccoli fratelli stessi del Vangelo (per es. Giuseppe Florio, con il suo talento di annuncio della Parola, ma in un rapporto non facile con Carlo), con gli altri rami della spiritualità di Charles de Foucauld, in particolare, anzi direi preferenziale con G. Carlo Sibilia e la Comunità Jesus Charitas da lui fondata.

Convivialità , la più difficile, con la chiesa locale (penso a D. Angelo parroco di S. Lorenzo), comunque desiderata, ricercata e voluta anche attraverso la richiesta di perdono.

Andando più a fondo nella vita di Carlo: convivialità tra presente e passato (Piccolo fratello e Azione cattolica), non spaccatura,bensì approfondimento (anche se al momento di fare il passaggio, gli è parso così, ma questo è il famoso detto di Gesù: lascia – addirittura si traduceva: se uno non odia- il padre, la madre … lascia tutto e seguimi. Nei passaggi c’è sempre un distacco…).

Carlo, non sposato, eppure ‘coniugato’ nel suo intimo, nel cuore.

Lungo il cammino, dall’esperienza di Direttore didattico, dall’Azione Cattolica al Deserto di El-Abiod, di Tamanrasset, aveva imparato a fare unità dentro, senza confusione, a cogliere che le differenze, le diversità, le difficoltà o li metti d’accordo nel cuore, oppure rimangono o diventano ostacolo, paura … Si avvertiva che Carlo aveva imparato la Pace dentro, la Giustizia dentro, la Povertà dentro, l’Ospitalità dentro; avvertivi un celibe “coniugato”. Per questo poteva abbracciare uomini e donne, i poveracci (alcolisti, drogati, malandati …) come i parlamentari.

I coniugati, in particolare i religiosi ‘coniugati’, sanno amare davvero e hanno il segreto dell’ e … e …. (non conoscono o … o …., salvo per: o Dio mammona): Divinità e umanità, lavoro e preghiera, maschile e femminile, azione e contemplazione; cattolici e protestanti; europei e africani, cristiani e mussulmani ….

Questo significa mettere l’uomo al centro, essere appassionati di Dio e dell’Uomo.

E poi Carlo era appassionato, figlio scomodo ma fedelissimo, della Chiesa.

 Quale Chiesa?

Non mi voglio soffermare. Oso solo dire che da Carlo ho imparato un po’ a far parte del ‘popolo di Dio’ che è la Chiesa universale, con un credo che formulerei cosi, prendendolo da d. Miche Do, parroco a St: Jacques in Val d’Aosta, figlio spirituale di Mazzolari

 Credo in Dio,

amore infinito, Padre di bontà, Misericordia che si manifesta nel cosmo e nell’umanità.

E in Gesù, nostro Messia, immagine unica di Dio, Figlio beneamato.

Egli percorse il cammino della Compassione fino alla sofferenza e alla morte,

fu crocifisso per ordine di Pilato, morì e fu sepolto,

ma vive in pienezza, perché si è aperto a Dio, risuscitato,

rimanendo interamente immerso in Lui,

Egli conduce tutta l’umanità alla sua pienezza.

Credo nell’azione ispiratrice del Soffio di vita di Dio, Spirito Santo Consolatore.

Credo che nella comunità universale della chiesa,

Gesù, il Cristo, continua a vivere con volto umano.

Credo nel dono di Dio, che ci sana e fa di noi una nuova creazione,

per diventare, infine, nuovi esseri umani.

E credo nel futuro divino dell’umanità, un futuro che significa la vita senza limiti. Amen

 Avant’ieri un amico, p. Giordano Cabra di Brescia, che era presente (aveva 19 anni) al grande raduno dei 300 mila baschi verdi in P. S. Pietro mi diceva: “La forza di Carlo era l’entusiasmo genuino per la Chiesa corpo mistico di Cristo , entusiasmo che coinvolgeva e spingeva a una missione di ‘araldi’ di Cristo, di contrapposizione con le forze del male, di servizio alla Chiesa, al Papa … Io poi l’ho seguito meno nel suo cammino nel deserto, come piccolo fratello quando, credo -e lo sto riscoprendo ora con te- è passato a seguire e annunciare, con entusiasmo genuino, Gesù Cristo di Nazareth, del Calvario e Risorto nel mondo (non del mondo) e nella Chiesa”.

Nell’anno sacerdotale, da poco terminato, a Betania dove mi trovo (Padenghe sul Garda) abbiamo spesso ripresola lettera a Pietro del 4 febbraio 1987.

“Quanto sei contestabile Chiesa, eppure quanto ti amo! Quanto mi hai fatto soffrire, eppure quanto a te devo! Vorrei vederti distrutta, eppure ho bisogno della tua presenza. Mi hai dato tanti scandali, eppure mi hai fatto capire la santità! Nulla ho visto nel mondo di più oscurantista, più compromesso, più falso e nulla ho toccato di più puro, di più generoso, di più bello. Quante volte ho avuto la voglia di sbatterti in faccia la porta della mia anima e quante volte ho pregato di poter morire tra le tue braccia sicure. No, non posso liberarmi di te, perché sono te pur non essendo completamente te. E poi dove andrei? A costruirne un’altra? Ma non potrò costruirla se non con gli stessi difetti, perché sono i miei che porto dentro. E se la costruirò, sarà la mia Chiesa e non quella di Cristo. Coloro che sognano cose diverse da questa realtà, non fanno che perdere tempo. E in più dimostrano di non aver capito l’uomo. Perché quello è l’Uomo, proprio come lo rende visibile la Chiesa, nella sua cattiveria e, allo stesso temo, nel suo coraggio invincibile che la fede in Cristo gli ha dato e la carità di Cristo gli fa vivere”.

La Chiesa di Cristo, non la mia! La chiesa di ‘peccatori in conversione, in cammino ….’

La chiesa della Verità-Amore, che è mai riducibile a formule, a leggi, a sabati; ( chiesa che ha il coraggio di denunciare i ‘pedofili’, ma senza partire ancora una volta, con la lancia in resta, per la difesa di una chiesa pura), la Chiesa della Misericordia come pienezza della giustizia, della santità.

Tutto un dono, tutto un cammino.

Ancora una volta: Un cammino senza fine …

Grazie Carlo , tu l’uomo che cammina con il bastone, un bastone (il famoso vincastro del salmo) che ti proteggeva, che ti sosteneva, con cui, alzandolo, benedicevi chi arrivava e chi partiva e a volte rimproveravi le ‘galline’ che invadevano l’orto del Giacobbe; grazie per aver indicato un cammino di Dio (in Dio), dell’Uomo (nell’uomo), della Chiesa (nella Chiesa) …..

Da non fare con un narcisista

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di Anna De Simone

I narcisisti sono completamente assorbiti da se stessi. La maturità emotiva di un narcisista, in un certo senso, è come se fosse bloccata all’infanzia, al periodo in cui hanno subito il più grande torto della loro vita. Quel mancato riconoscimento, quell’abbandono, quella negazione…
Molti psicologi ritengono che la maturità emotiva del narcisista possa corrispondere, almeno in parte, a quella dell’età in cui, da bambino, ha vissuto il suo trauma.

Per trauma non s’intende qualcosa di necessariamente eclatante. Prima ho usato il termine “torto emotivo“, proprio come quello che può causare una mamma poco attenta.

Già, il narcisista non è stato necessariamente un bambino troppo amato. A prescindere da quelle che sono le cause, di seguito ti riporto alcuni atteggiamenti da evitare quando ti trovi a contatto con un narcisista.

1. Non prendere per oro colato ciò che dice.

L’immagine è tutto per i narcisisti. Più di ogni altra persona, il narcisista si affanna per mantenere un’immagine integra e di superiorità.

Per quanto possano apparire certi e sicuri, la loro facciata è stata “progettata” per nascondere un vuoto interiore difficile da capire e impossibile da colmare.

Il narcisista, per regalare la migliore immagine di sé, può essere portato a mentire. È meglio riflettere bene sulle informazioni che ti dà, soprattutto quando queste mettono il narcisista in bella luce a discapito di altre persone.

2. Non sbilanciarti troppo nel raccontargli di te

Certo, fai bene ad aprirti e a stringere rapporti intimi, profondi e sinceri. Quando lo fai con un narcisista, però, sappi che più gli racconti di te e più munizioni avrà lui da lanciarti contro.

I narcisisti si sentono bene screditando il prossimo. E’ triste, ma questo è l’unico modo che hanno per sentire il loro valore. Quando ti screditano, si sentono migliori di te e così credono di valere.

I narcisisti possono usare qualsiasi informazione per umiliarti e manipolarti. Se ti mostri invulnerabile, potresti diventare il suo nutrimento preferito. Sii prudente su ciò che decidi di raccontargli, soprattutto se hai già una bassa autostima.

3. Non giustificare i tuoi pensieri ne’ i tuoi atteggiamenti.

Se hai stretto un qualsiasi rapporto con un narcisista, sai già bene come queste persone riescono a farti dubitare di te. In molte circostanze, potresti essere portato a doverti giustificare. Sappi che non sei tenuto a dare spiegazioni dei tuoi atteggiamenti. Ogni emozione che provi è lecita e non devi giustificarti con nessuno.

4. Non banalizzare i suoi atteggiamenti disfunzionali

I narcisisti attuano una danza famelica e sono capaci di assorbire moltissime energie. Nel corso del tempo, potrai abituarti ai suoi atteggiamenti disfunzionali senza capire quando realmente siano dannosi per la tua salute mentale e per la tua crescita personale.

Non lasciarti ingannare, fai introspezione e interrogati sempre su quelle che sono le tue volontà. Devi avere ben chiaro il limite tra la tua volontà e le sue istigazioni. Umiliare, schernire, minimizzare o manipolare, sono tutti atteggiamenti malsani e sbagliati.

5. Non aspettarti che possa assumersi le sue responsabilità.

I narcisisti sono bravi ad assumersi le proprie responsabilità, ma solo a parole! Possono gonfiarsi la bocca di belle parole ma la verità è che i narcisisti si prendono il merito e scaricano le colpe… anche su di te.

I narcisisti pensano di avere uno status speciale. Cercare di far ragionare un narcisista circa un suo torto sarà un’impresa dura. Se vuoi mettere alle strette un narcisista devi farlo con fatti tangibili, portandogli la realtà sotto al naso… attento però, anche così potrebbero sottrarsi e negare. Con la realtà di fronte, potrebbero affermare che era tutto un gran malinteso, che tu non l’hai capito oppure, al limite, che non si è spiegato bene ma è l’evidenza ciò che intendeva.

6. Non dare per scontato che possa condividere i tuoi stessi valori.

Il narcisista ha una visione del mondo tutta sua. Se ti aspetti dal narcisista, valori come compassione e sincerità, hai fatto male i tuoi conti.

I narcisisti sono affamati di attenzioni, quindi non farti false aspettative. Imposta dei limiti e cerca di non scavalcarli.

7.Non aspettarti che possa cambiare.

Se messo alle strette, il narcisista può prometterti mari e monti e potresti assistere a cambiamenti repentini. Attento a non cantare vittoria troppo presto, i cambiamenti non reggono a lungo. Spesso degli atteggiamenti disfunzionali spariscono ma ne appaiono altri che potrebbero essere addirittura più dannosi.

Le dinamiche di fondo non spariscono da un giorno all’altro e soprattutto non spariscono in assenza di ammissioni e consapevolezza.

8. Non alimentarlo con la tua rabbia.

La rabbia e gli scontri, possono alimentare un circolo vizioso di atteggiamenti disfunzionali. Hai ragione, i narcisisti suscitano inevitabilmente rabbia ma è sbagliato lasciarsi sopraffare dalla collera… beh, è vero, anche reprimerla non è saggio. La rabbia repressa si deposita in una piega della tua psiche e la danneggia causando depressione, ansia, risentimento, cinismo, sfiducia in se stessi…

Un modo positivo per esprimere la rabbia è mediante l’assertività. Così si difendono le proprie convinzioni e si dimostra rispetto per gli altri. Messa da parte l’aggressività, parla con fermezza e rimani coerente con la decisione presa. La rabbia, in questo modo, sarà usata in modo costruttivo per farti sentire meglio, senza aspettarsi nulla in cambio dai narcisisti.

9. Non metterti da parte

Attento a non fare troppi passi indietro. Non mettere da parte i tuoi interessi e… se hai perso di vista te stesso e non riesci più a capire quali sono i tuoi gusti e le tue aspettative, lavora su te stesso!

Cerca di consolidare a pieno la tua personalità, la tua posizione e soprattutto prenditi cura di te.

Certo, puoi avere compassione per le profonde ferite che si porta dentro il narcisista. Puoi provare tristezza per le limitazioni vissute da queste persone, ma tu sei la tua principale responsabilità. Concentrati sulle tue aspirazioni e cerca di condurre una vita sana e gratificante. Purtroppo il narcisista non sa regalare gratificazioni durature.

10. Non fare lo sprovveduto, documentati.

Documentati su quello che è il disturbo narcisistico e soprattutto su quelli che sono gli atteggiamenti e i comportamenti manipolatori più messi in atto dai narcisisti. Esistono dei comportamenti piuttosto comuni anche se non è mai facile riconoscerli.

Difendersi da un narcisista non è affatto un compito semplice. Per ottenere risultati apprezzabili è necessaria una forte autoconsapevolezza.

Il narcisismo è considerato un grave disturbo di personalità, in Italia è ancora troppo sottovalutato anche se gli effetti sulle altre persone possono essere davvero devastanti.

Con i narcisisti non esistono soluzioni facili ma, come premesso, il primo passo per fronteggiare qualsiasi situazione è la consapevolezza.

Gianni Fazzini, stimabilissima persona

di Piero Murineddu

Difficile incappare in un prete che si è mantenuto lavorando in un’impresa di pulizie e rinunciando allo stipendio come parroco. Vai a dillo a certi giovani preti che stanno venendo su in questi ultimi anni e ti ridono in faccia, offendondosi persino perché ti permetti, fraternamente, di dargli del tu. Nel mio paese, Sorso, c’è un esempio di questo genere di pretaglia. La distanza con le persone che non fanno parte della casta sacerdotale è la cosa a cui tiene di più. Comunque, per non rischiare di perdere tempo, vado alla sostanza.

M’interessa molto di più presentarvi questa intervista fatta una decina d’anni fa da Eugenio Melandri, attualmente impegnato in una strenue lotta contro il “drago”, così lo chiama, un male duro da vincere, ma che dovrà faticare parecchio se vuole prevalere, cosa che tuttaltro gli vogliamo augurare, noi tutti vicini al lottatore.

Don Gianni, quindi. Sicuramente uno di quei preti che verrebbe massacrato da certi devoti consumatori domenicali di riti religiosi e che guardano schifati gli zingari e neri che chiedono l’elemosina. “I preti devono parlare di religione -dicono- e non fare politica”. Va bene va bene, andate pure ad ascoltare le innocue predichette dei vostri preti. La scelta è vastissima.

Don Gianni, tra le altre iniziative, è stato promotore di una Campagna sul consumo critico, dell’acqua sopratutto, bene di primaria importanza e che, al contrario di quanto si pensi, non è per niente inesauribile….

Ecco, per certi cristiani, un prete che si occupa di queste cose, non sta’ facendo il suo mestiere. Mah, ascoltiamolo e lasciamo stare le imbecillagini agli imbecilli….

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SUL CONSUMO CONSAPEVOLE

di Eugenio Melandri

Parla adagio. Quasi sillabando le parole. Racconta una storia di vita normale. Figlio di operai. Prete “per portare un po’ d’amore nel mondo”.

Don Gianni, chi sei? Perché ti sei fatto prete?

Sono un prete della diocesi di Venezia. Ho fatto il parroco operaio per 23 anni: ho lavorato in un’impresa di pulizie. Ho visto che si poteva lavorare la mattina e fare il parroco il pomeriggio. In questo lavoro mi sono accorto quanto sia importante l’economia nella vita delle famiglie… Mi sono fatto prete per mettere un po’ d’amore in questo mondo.

Quali motivazioni sono state alla base di questa scelta?

Il motivo principale è stato il distacco che notavo e noto ancora tra la Chiesa e la vita della gente. Occorre che il prete si immerga di nuovo nella quotidianità della vita. Il prete porta il messaggio di Gesù, ma deve portarlo da spoglio. Da nudo. Come gli altri. Perché la comunicazione vera avviene quando si trova una persona vera davanti…

Come mai questa tua attenzione all’economia?

Ho visto quanto l’economia segni la vita delle famiglie. Oggi dobbiamo chiedere alla gente in quale rapporto sia con i soldi. I soldi sono importanti. Ma riusciamo a vederli come strumenti? Oppure sono loro che stanno comandando sulla nostra vita?

Dici queste cose nel Nord Est del paese. Una regione che ha un forte passato di legame con la Chiesa, ma che ora sembra essere divenuta solo attenta al guadagno e al profitto. Non c’è anche una responsabilità della Chiesa stessa?

Dovremmo ritrovare la libertà nei confronti dei potenti economici e dei potenti politici. Cosa che è mancata alla nostra Chiesa. Io non sono stato il primo prete di Venezia a fare l’operaio. Il primo è stato il mio cappellano, Gianni Manziega. I soldi guadagnati da lui che lavorava nella lana di vetro, e i soldi che lo Stato dava a me non potevano stare insieme. Erano incompatibili. Il Signore mi ha fatto il grande dono di capire, fin dal ‘70, che dovevo mantenermi con il lavoro delle mie mani. Il ministero del prete mi è stato dato gratuitamente e gratuitamente devo dare. Ancora una volta è in ballo l’economia.

Ma consumando si consente al motore dell’economia di andare avanti…

C’è una grossa truffa… Quando mi viene detto che devo consumare, mi dicono anche che devo consumare ciò che loro producono. In questo modo sono loro che comandano la mia vita. Trovo la libertà quando divengo capace di svincolarmi dai bisogni indotti che mi sono stati proposti. Con un consumo critico, che partendo dalla ricerca del vero benessere, mi orienta su altri parametri. Ma il punto centrale è un altro: è il tempo. Dobbiamo riprenderci il nostro tempo. Recuperando il tempo, infatti, recuperiamo libertà e recuperiamo le relazioni.

Mi dici in poche parole cosa è il consumo critico?

È il cercare di selezionare i consumi che servono al reale benessere… Ognuno deve cercare il proprio benessere. Non farselo imporre dalla televisione…

Ma come si fa concretamente a selezionare i propri consumi?

Cominciando ad interrogarsi su cosa possiamo cambiare per essere più felici… Poi bisogna dar spazio alla fantasia, per cercare i modi migliori per vivere insieme una vita felice… Il consumo critico parte dalla nuova capacità della famiglia di farsi progettuale. Poi dalla voglia di mettersi insieme con altre famiglie che fanno la stessa cosa…

Parli di consumo critico per le famiglie: ma la proposta vale anche per la Chiesa e le sue organizzazioni?

Certo. Ma si stanno facendo dei passi. Un giorno il mio vescovo mi ha chiamato: «Devi aprire in curia l’ufficio degli stili di vita». Nel 2003 mi ha nominato responsabile dell’ufficio degli stili di vita. Sto facendo questo nel patriarcato di Venezia. Ma le difficoltà non mancano. Dopo aver lanciato la campagna «Imbrocchiamola», il Cardinale è stato bersaglio di polemiche… «Imbrocchiamola» nasce dal fatto che la Conferenza episcopale italiana ha chiesto alle chiese di riflettere sul tema dell’acqua… Di qui è nata la proposta di lanciare per la Quaresima di quest’anno il digiuno dall’acqua minerale…

Ma le famiglie che fanno il consumo critico sono poche: non è una sorta di nicchia che di fatto non incide sulla realtà?

Io spero davvero che la base si allarghi. Credo sia possibile.

Senti, da destra e da sinistra il messaggio è lo stesso: quello della crescita, dello sviluppo, dei consumi, del mercato. Non ti senti un po’ don Chisciotte?

Stamattina ho letto un salmo che comincia facendosi una domanda inquietante: «Quando le fondamenta vengono scosse, cosa potrà fare il giusto?». E finisce dicendo: «Il giusto vedrà il Suo volto». Io cerco di stare dentro la logica di questo salmo.

L’incertezza, incisivo strumento di potere

Premessa

 

di Piero Murineddu

 

Sembrano trascorsi secoli da quando,  dopo l’ubriacatura quasi collettiva degli anni settanta che pareva l’inizio di una partecipazione mooooolto attiva da parte di chi a pieno titolo esigeva di essere protagonista di qualsiasi scelta “politica”, da esplicitarsi in regole sociali che rendessero migliore la vita per tutti, oggi ci ritroviamo immersi in una convivenza che rende moltissimi più o meno scontenti se non addirittura incazzatissimi, verosimilmente per motivazioni  forse contrapposte. Governi a non finire e di varia durata.

Soluzioni definitive e giuste? Visto il clima, non mi sembra proprio:

che risposte son state date per il diritto ad un lavoro dignitoso per il proprio sostentamento e per mandare avanti la propria  famiglia senza patire continui disagi?

Che certezza abbiamo di essere ben curati se non abbiamo adeguate possibilità economiche?

Come fanno due giovani a mettere su famiglia senza certezze per il presente e per il futuro?

Che rispetto vediamo verso la natura e come fai a sopportare la vista di coloro che s’ingrassano a spese e disagi altrui?

Potrei andare avanti, e tu potresti fare mille esempi.

Da troppo tempo sembra esistere solo il “problema” della migrazione dai Paesi impediti di raggiungere un accettabile sviluppo, in parte colpa, e anche grossa, di altri Paesi ingordi ed oppressori. Chi siamo noi per impedire che un essere umano cerchi altrove condizioni migliori per condurre la sua esistenza e quella dei propri cari? Ci sentiamo padroni anche della vita altrui? Le migrazioni ci son sempre state e sempre ci saranno. Ecco, in quest’epoca “moderna” questi poveracci son diventati il capro espiatorio di tutto, anche delle nostre malefatte.

Siamo alla vigilia di nuove elezioni. Ci stanno già chiedendo la “fiducia”, perchè “loro” hanno pronte in tasca le soluzioni, quelle giuste…

E quella Partecipazione che dicevamo che fine ha fatto? Delegare, sempre delegare….. E spesso al furbacchione di turno, quello che ti si presenta come disinteressato e illuminato  benefattore dell’umanità.

Ogni tanto mi arriva a casa uno scritto di una ventina di pagine circa. Sulla testata, in prima pagina, leggo: “c.d.b.informa, foglio d’informazione della Comunità Cristiana di Base di Chieri”. Un gruppo di persone che si riconosce in degli ideali comuni. Si ritrovano per parlare, discutere,  prendere posizione davanti alla realtà circostante, essere propositivi e pure capaci di ribellarsi davanti alle ingiustizie, farsi carico di chi patisce disagi….Condividere il reciproco pensiero, il bene più grande che ogni essere umano possiede, ammesso che lo si usi in modo appropriato e non per fregare il prossimo.

In mezzo alla diffusa desolazione umana e morale, la decisione di trovarsi con altri per costruire qualcosa, la vedo un alto Gesto Rivoluzionario, perchè così facendo, si pensa insieme, e di questo il Potere ha paura, ha avuto sempre paura.  L’articolo che stai per leggere è opera di Rita Clemente, che in questo periodico solitamente scrive gli editoriali, facendo un’analisi del momento che si sta vivendo. Questo numero è uscito lo scorso mese, ma è di strettissima attualità, e questo nonostante la velocità degli eventi che quotidianamente si susseguono… Nessuna proclamazione di verità assolute. Solo pensare e cercare di analizzare, la cosa più nobile

Chi desidera ricevere a casa “c.d.b.informa, foglio d’informazione della Comunità Cristiana di Base di Chieri”, può richiederlo a

Silvano Leso email:postmaster@cdbchieri.it   cell. 3395723228

 

Nessun costo di copertina, se non quello di contribuire liberamente per far si che quest’azione di libertà possa continuare.

 

 

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“L’incertezza, che dellinsicurezza è la causa principale, rappresenta di gran lunga lo strumento di potere più incisivo, anzi, la sua essenza stessa(Zygmunt Bauman)

 

di Rita Clemente (*)

Fare la radiografia della situazione politica italiana non è mai stata impresa facile e oggi meno che mai. Ma vediamo di provarci.

Dunque al governo vi sono due forze politiche alleate: la Lega e il M5S.

Prima domanda: che cosa le unisce? Una volontà sovranista? Un atteggiamento “antisistema”? Una sfida all’Europa? (più cauta e traballante per il M5S, più decisa e irruente da parte della Lega, ma insomma!).

Seconda domanda: che cosa le divide? Il M5S è nato con una forte vocazione sociale ed ecologista. Che si è spesso espressa contro le grandi opere, i “mostri” ambientali e i privilegi di casta. A favore di interventi di sostegno al reddito (microcredito, reddito di cittadinanza ecc.). La Lega, oltre alla polemica continua e ossessiva contro il “pericolo immigrati”, come soluzioni alla politica interna riesce a riesumare quelle solite della destra: abbassamento delle tasse, condoni per evasione fiscale e abusi edilizi, rafforzamento delle misure e dei provvedimenti “securitari”. Ma, almeno per il momento, pare che la road map la stia guidando alla grande la Lega, cui il M5S si accoda con razionalizzazioni più o meno speciose, a parte qualche dissidio interno, qualche flebile protesta, qualche più accentuato mal di pancia e anche qualche “benservito” per i più ribelli.

E l’opposizione? Anche qui, non è che si registrino chissà che novità! Forza Italia, suo malgrado, è incappata nel ruolo della “moglie tradita”, abbandonata dal fedifrago sposo di una vita (la Lega) che se la fa con la nuova e avvenente giovane donzella appena comparsa sulle scene (il M5S). E allora, i suoi fedelissimi rimasti, al netto dei transfughi emigrati verso altri più promettenti lidi, non possono far altro che rispolverare la loro inossidabile vocazione alla crescita produttiva, contro il desolante pauperismo e assistenzialismo propugnato dagli odiati 5stelle. E fin qui ci può stare. Ma poi rispolverano anche la loro ferma e indefettibile vocazione europeista. E qui non si capisce come l’avrebbero poi conciliata con le smanie sovraniste di Salvini. Ma è un film che tanto non vedremo.

E che dire del PD? A parte le “frasi fatte” dell’ex portavoce Martina sulla “rovina” e “l’isolazionismo” cui sarebbe condannata l’Italia, la situazione nel PD è un po’ più complessa. Intanto, deve fare i conti con uno spettro che ancora si aggira al suo interno, spettro che evoca recenti débâcles: quello di Renzi. Ma Renzi, fa ancora parte del PD oppure ha un partito tutto suo, quello della Leopolda? In realtà, non è che tutti, all’interno del partito, lo vedano come il condottiero migliore: troppo supponente, troppo “divisivo”.

Ma esiste un’alternativa a Renzi? E se sì, chi? Minniti? Ma dopo l’éxploit degli accordi con la Libia che ha contribuito a ridurre gli sbarchi di “indesiderati” ancora prima della crociata salviniana per la chiusura dei porti, non pare abbia sollevato altre grandi idee. Calenda? Mah! Intanto è l’ultimo arrivato, con il piede sempre pronto a uscirsene al minimo segnale di “insubordinazione”. Zingaretti? Avrà anche fatto bene l’amministratore del Lazio, ma chi lo vede, chi lo sente mai? Comunque, staremo a vedere.

Molte divergenze, quindi, ma anche alcune strane convergenze. Come quella dei 30.000 scesi in piazza a Torino il 9 novembre scorso (ripetuta) nella prima quindicina di gennaio, che vedeva PD, FI e Lega, affratellati sotto lo striscione SI’ TAV mentre rimanevano fuori i pentastellati, da anni tenaci e convinti sostenitori del NO TAV. L’otto dicembre c’è stata per loro un’altra manifestazione ancora più numerosa, insieme a tutti gli altri NO TAV, ambientalisti e della sinistra radicale, seppur guardandosi abbastanza di traverso.

Insomma, la matassa si fa sempre più ingarbugliata. Inoltre, bisogna tener conto di un altro aspetto della faccenda. Il governo nazionale, in questo caso il governo giallo – verde, ma può trattarsi di qualsiasi altro tipo di governo, deve fare i conti con altri poteri che fortemente ne condizionano le scelte e ne segnano la road map. Ne citiamo almeno due, molto consistenti.

Il primo è la UE, dal cui esame devono passare al vaglio tutte le manovre di bilancio degli Stati membri, per ottenerne l’approvazione. Ora, pare che l’attuale governo italiano non sia messo molto bene nei rapporti con Bruxelles sotto il profilo dei conti. Questo ovviamente rinfocola le istanze sovraniste dei cosiddetti gialloverdi. I conti non tornano, se il governo volesse mantenere a puntino tutte le promesse fatte al suo elettorato. La questione non è semplice da sciogliere, anche perché le opposizioni (FI e PD in pieno accordo) rispondono con un più tenace e deciso europeismo, che però rischia di divenire acquiescente e acritico. Il fatto è che anche l’Europa deve sciogliere un bel po’ di contraddizioni. Anzitutto, sulla faccenda migranti, perché bacchetta sì l’Italia per il famigerato “Decreto Sicurezza”, però poi ogni Stato europeo chiude i propri confini e la UE non è in grado di imporre una linea comune sull’accoglienza. Inoltre la stessa UE è, a sua volta, sottoposta ai diktat di altri poteri, che sono i grandi potentati economici delle multinazionali e delle organizzazioni finanziarie e bancarie, cioè degli “investitori”, dei “mercati”, di coloro che, in definitiva, tengono i “cordoni della borsa”. Per cui poi a dettare legge sono le Agenzie di rating, chi compra e vende il debito pubblico degli Stati, chi decide se lo spread sale o scende. Cioè, è inutile negarlo, alla fine chi comanda è il denaro. E’ per questo che, pur apprezzando le intenzioni pregevoli del “Decreto Dignità” di Di Maio (porre un limite alla precarizzazione del lavoro, imporre in qualche modo alle aziende i contratti a tempo indeterminato, penalizzare le delocalizzazioni), c’è però da porsi la domanda: la politica è in grado di imporre dei doveri ai cosiddetti “investitori”? Oppure queste – diciamo – imposizioni scoraggiano gli investimenti e di conseguenza il lavoro? E anche su questo fronte l’Europa non appare del tutto innocente, se è vero quanto scritto da Paolo Biondani e Leo Sisti su “L’Espresso”:

Una voragine nei conti dei 28 Paesi dellUnione europea: mille miliardi di euro allanno, tra elusione ed evasione fiscale. Multinazionali che non pagano le imposte e smistano decine di miliardi di dollari dei loro profitti, accantonati grazie a operazioni finanziarie privilegiate in Lussemburgo, verso altri paradisi rigorosamente tax free. Stati membri dellUnione che si fanno concorrenza sleale sulle tasse. È disastroso il bilancio che sta lasciando Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea…

E allora? Avrebbe ragione MS che predica l’uscita dall’Europa? Ma un sovranismo che è profondamente radicato nel neoliberismo globalizzato, un sistema che chiude i porti e i confini alle persone ma lascia circolare in piena libertà, e senza regole, merci e capitali, è inutile e dannoso. Il sovranismo, oltre che possibili crisi monetarie senza controllo, produce nazionalismo esasperato, il quale rinfocola altri nazionalismi, fino ai conflitti non solo economici. L’economista francese Michel Husson, in un articolo riportato da “Sinistra anticapitalista” scrive: la …sovranità nazionale, e uno sviluppo autarchicoe graduale verso una società socialista, non solo sono impossibili, ma producono esiti reazionari”.

Le proposte “innovative” della Lega, in questo governo, consistono nella solita, vieta scappatoia di diminuire le tasse in modo da agevolare i più benestanti e nel procedere a forza di condoni edilizi e fiscali. Anche l’ “abolizione della legge Fornero” sulle pensioni con la cosiddetta “quota cento” sicuramente permetterà a una fetta di cittadini di beneficiarne, ma in prospettiva non risolve il problema e pone una pesante ipoteca sui giovani, i quali dovrebbero trovare lavoro con contributi almeno a partire dai 24 anni. La legge Fornero non viene abolita, ma solo modificata, come succedeva già con l’Ape volontaria di Renzi. Molto costosa, è vero, ma che almeno non prevedeva vincoli.

Certamente, non è facile conciliare, in uno Stato, le legittime esigenze sociali delle classi medio – basse impoverite e precarizzate con le richieste di “tenuta dei conti” per non esacerbare il debito pubblico e portarlo a livelli insostenibili, come è richiesto dalla UE. Ma in qualche modo la Spagna di Sanchez ce l’ha fatta, almeno per quest’anno, adottando, tra l’altro, due misure: una tassa dello 0,2% sulle transazioni finanziarie per le imprese sopra il miliardo di capitale e una patrimoniale dell’1% sulla ricchezza superiore ai 10 milioni. Questo ha anche consentito la possibilità di aumentare del 25% il salario minimo interprofessionale.

L’altro potere che condiziona le scelte di governo è naturalmente quello dell’elettorato. Ora quello italiano con le elezioni del 4 marzo ha espresso molto chiaramente le sue preferenze e a fare la parte del leone è stato il M5S. La Lega si è affermata come terzo partito, dopo il PD, ma quella in robusta crescita, l’altro in netto calo, come del resto FI. Così è nato il governo giallo – verde. Tuttavia, poiché l’elettorato è sempre molto mutevole e ondivago nelle sue preferenze, meglio tenerne gli umori sotto attento esame. Ora, sia i sondaggi, sia i risultati di elezioni amministrative successive al 4 marzo hanno fatto rilevare un dato nuovo: la Lega sempre in grande crescita, ma il M5S in calo. Come mai?

Anche qui si possono avanzare delle ipotesi. Probabilmente la percezione dei cittadini è che a guidare i giochi è, tutto sommato, la Lega, mente il M5S sembrerebbe giocare un po’ di rimessa. Poi questo “reddito di cittadinanza”, cavallo di battaglia dei pentastellati, ha suscitato parecchie aspettative, di soddisfazione immediata e tutta da vedere nei risultati e nelle conseguenze. Mentre la Lega, con il suo “Decreto Sicurezza” approvato in tempi brevi e con la ferma posizione sulla chiusura dei porti, ha dato l’impressione di un maggiore decisionismo.

Purtroppo, proprio questo “decisionismo” sul fronte immigrazione sta provocando conseguenze nefaste, e tuttavia – bisogna dirlo – gradite a una larga fetta di elettorato. Non è questo il luogo per un ragionamento ampio e articolato sul “Decreto Sicurezza”, però desidero rilevarne almeno qualche caratteristica fondamentale.

Intanto, il problema migratorio viene qui equiparato a quello della criminalità organizzata e visto solo come un problema di devianza. Viene praticamente annullato il “permesso di soggiorno per motivi umanitari”, che poteva comprendere una grande casistica di situazioni, ridotto a qualche caso specifico e suscettibile peraltro di grande discrezionalità. Viene smantellato il sistema dello SPRAR che consentiva un’accoglienza diffusa sul territorio, mentre i richiedenti asilo saranno tutti concentrati in dei grossi centri con l’erogazione essenziale di cibo e di cure mediche, senza neppure corsi di lingua italiana. Viene negata ai richiedenti asilo la possibilità di ottenere la residenza e quindi reso molto più difficoltoso l’accesso ai servizi. Se il diritto d’asilo non viene poi riconosciuto (e le maglie per tale riconoscimento sembra si restringano in modo significativo) la stragrande maggioranza degli immigrati entra in una condizione di “irregolarità”, con tutti i possibili risvolti di instabilità sociale. Sicché, come affermano diversi legali, il Decreto Sicurezza paradossalmente rischia di fare aumentare notevolmente il rischio d’insicurezza sociale per tutti.

A ciò si aggiunge la continua éscalation di atti di violenza e di razzismo, anche da parte di persone insospettabili e la sempre più sfacciata esibizione sul territorio di forze fasciste o parafasciste. Tutto questo, in verità, già accadeva con il passato governo, ma adesso paiono fenomeni quasi di ordinaria quotidianità.

Insomma, mala tempora currunt, come si sente ripetere da più parti. Vero è però che il diavolo solitamente è meno brutto di come lo si dipinge. Non sono da sottovalutare i segnali positivi. Intanto, al di là delle millanterie di MS sui 60 milioni di Italiani che lo seguirebbero, vi sono diverse manifestazioni in varie parti d’Italia contro il razzismo, contro la violenza, contro l’erosione dei diritti e per la solidarietà. E poi, non dimentichiamo il luminoso esempio di Lodi, che ha visto la mobilitazione spontanea di decine di cittadini a favore di bambini stranieri esclusi dalla mensa dell’asilo. Il problema caso mai è un altro: come incanalare queste forze di passione civile, di resistenza, di ragionevolezza, di cultura, di sensibilità umana in una forza politica unitaria e coesa, che faccia realmente sentire il suo peso e proponga un’alternativa di “sinistra”. Una sinistra internazionalista e non sovranista, ecologista il giusto, centrata sui problemi del lavoro e dei diritti, accogliente e solidale ma anche rigorosa nel fare rispettare la legalità, che sappia dialogare con l’Europa ma anche mettere un freno alle aberrazioni del liberismo e della finanza sregolata. Come al solito, tutte cose facili da dirsi, difficilissime da tradurre in pratica. Ma occorre provarci. Ognuno a cominciare dalla propria realtà locale, con il contributo importante delle sue idee e delle sue capacità.

(*) Rita Clemente è nata a Lecce, dove si è laureata in Lettere classiche. Ha insegnato in provincia di Brindisi, a Perugia e a Torino. Attualmente in pensione, risiede a  Chieri, in provincia di Torino. Come volontaria, svolge attività di sostegno scolastico su alunni in difficoltà in una Scuola Media di Chieri. Dal 2012 è coordinatrice del Comitato Pace e Cooperazione Internazionale del Comune di Chieri. Occasionalmente svolge attività di formazione a docenti di scuole di vario ordine e grado sull’adattamento linguistico dei materiali di studio per ragazzi non italofoni o DSA. Avendo frequentato diversi corsi di dizione e di recitazione, si interessa anche di lettura espressiva sia come formatrice che come organizzatrice ed interprete di Reading pubblici. Fa parte della Comunità cristiana di base di Chieri e collabora con il periodico “CdBinforma”.

MINISTERO, SERVIZIO E NON ALTRO (diversamente, c’è la via dell’eremitaggio)

di Piero Murineddu

Chi in po’ lo conosce, sa che don Giorgio De Capitani, ottantenne prete lombardo, le cose le dice chiaramente, senza nessuna prudente diplomazia e senza troppi giri di parole. A molti può apparire irritante e troppo pieno di se. Io di tanto in tanto lo vado a leggere nel suo sito, lo leggo o l’ascolto e solitamente mi faccio una mia idea di quanto il suo pensiero esprime. Non sono né un suo fan né un suo detrattore, cose di cui in fondo non m’importa un fico, secco o fresco che sia.

Fatta questa premessa, più che altro questo video che trovate sotto lo prendo come spunto per qualche considerazione sul rapporto che vi è tra il vescovo e i suoi sacerdoti, di cui è riferimento e responsabile. Più precisamente sul livello di dialogo che, se proprio vogliamo fare il paragone, un padre deve avere coi suoi figli. Un padre può avere un atteggiamento autoritario o, appunto, dialogante.

Io faccio parte dell’arcidiocesi di Sassari che, come mi è stato spiegato e conoscendo la struttura piramidale della Chiesa Cattolica, estremamente gerarchizzata, è un rimasuglio del passato, una forma di scala di potere che si fa molta fatica a mettere da parte, ammesso che lo si voglia.

Chi ricopre questa carica, se lo fa con spirito di servizio o, al contrario, con spirito di potere, lo si vede benissimo dagli atteggiamenti e dalle iniziative. Dal come si comporta concretamente, insomma, in quanto ormai delle parole non importa più a nessuno, o almeno, non interessa a persone adulte e mature. Ma come sappiamo, i “sudditi” sono sempre esistiti e sempre, temo, esisteranno, e probabilmente in questo ruolo vogliono rimanere e ci stanno pure bene.

Grazie a Dio e alla volontà di certi “gerarchi” ecclesiastici, abbiamo esempi di vescovi e arcivescovi, o se si preferisce, di guide pastorali, che hanno vissuto il loro ministero realmente come servizio alla comunità. Se poi consideriamo che ministro vuol dire servitore, non hanno fatto altro che quanto dovevano fare. Lasciamo da parte i ministri in senso politico, altrimenti ci confondiamo le idee e iniziano a girarci i cosiddetti, in questi tempi specialmente.

Torniamo a don Giorgio, che alla sua età non ha sicuramente obiettivi carrieristici ( al contrario di molti dei nuovi giovani preti che stanno sostituendo le vecchie generazioni!).
Mi chiedo cosa scriverebbe di questo attuale arcivescovo – l’ “arci” gli è stato aggiunto da poco – uno spirito libero come lui. Sicuramente esprimerebbe la sua opinione sulle parole e principalmente sui fatti, senza alcuna soggezione, spesso travestita da docile ubbidienza. Se così potesse avvenire, mi auguro che la guida pastorale dei cattolici del sassarese considerasse il “giudizio” per riflettere, e se intelligente e in buona fede, come stimolo per modificare il suo operato. In altre parole, opportunità per crescere e migliorarsi. Nel caso di un arcivescovo, a beneficio suo personale e, ancor di più, di tutta la comunità.

In pratica, come con l’esempio del padre di famiglia nei confronti dei figli. Non sono solo questi ultimi a dover imparare. Molto spesso è l’esatto contrario.

 

La “cutura” del bere

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di Piero Murineddu

TRA CALICI DI STELLE E CANTINE ACCOGLIENTI, CONTINUA IMPERTERRITA L’INCENTIVAZIONE AL CONSUMO DI ALCOLICI. SENZA CONTARE I CONTINUI RIFORNIMENTI DI CASSE DI BIRRA NEGLI INFINITI BAR AD OGNI ANGOLO.


MA SIiiiii ! L’IMPORTANTE È STARE ALLEGRI E SU DI MORALE…..
Aver la “libertà” di riflettere non è mai troppa. Sopratutto avere la padronanza del proprio pensare non è mai troppa. La “cultura” del bere facile si è talmente sparsa, da divenire fenomeno preoccupante. Per tutti, ma specialmente per le giovani generazioni, e questo lo sappiamo benissimo. Nei più, ogni momento è caratterizzato dal consumo di alcol e spesso, se non sei spinto dall’effetto del che da’, non si è in grado neanche di relazionarsi col prossimo. Quello che mi stragira è la “normale” sponsorizzazione dell’Ente pubblico, con l’ipocrita motivazione di voler fare “cultura” attraverso essa. È conosciuto l’alto e il dannosissimo consumo di alcol che c’è in paese, e quelli che presumono di bere “moderatamente” sono illusoriamente pochi. Gli alcolisti patologici sono molti, consapevoli o meno. Per come la si vuol girare, il consumo di bevande alcoliche produce gravi danni all’organismo, spesso irreversibili.

La propaganda attraverso i media continua, cosa grave che non accetto. So che l’abuso di alcol è molto diffuso, e il semplice uso è preso troppo alla leggera. So i danni che tale sostanza provoca all’organismo, con conseguenze gravi che gravano pesantemente all’individuo e alla collettività. So che in tutte le occasioni dello stare insieme è la presenza più gradita. So che, quasi automaticamente, una “innocente” birrettina ne tira un’altra, idem col vinellino ecc. L’alcolismo, diagnosticato o meno è diffusissimo. Capisco l’aspetto promozionale di queste sagre, ma un limite bisogna porlo. A Sorso in particolare, paese del nord Sardegna dove vivo e amministrata da dieci anni da una coalizine di centro destra e con una opposizione del tutto ininfluente,  la “cultura” si esaurisce prevalentemente nello sponsorizzare questi “eventi”. Sarei curioso, a fine serata, di conoscere il tasso alcolico nel sangue dei partecipanti, forze dell’ordine comprese, naturalmente non in servizio ma che quando sono nei posti di blocco, usano giustamente molta severità…..

Manlio Brigaglia, l’ “accudiddu”? Ci mancherà eccome!

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di Piero Murineddu

È cosa normale che ad un funerale di una persona illustre, vi ci trovi persone “importanti”, gente che ricopre particolari cariche nella società.

Per Manlio Brigaglia, studioso e storico di pregio il cui cuore ha smesso di battere alla veneranda età di 89 anni, non poteva essere diversamente. Vi era un po’ di tutto: politici locali e regionali, due sindaci con fascia tricolore, graduati militari, accademici e, immagino, numerosi suoi ex studenti a cui ha trasmesso il suo sapere, che era davvero tanto. Son sicuro che con molti di essi ha avuto un rapporto paterno, di figliolanza, quei figli che il matrimonio con Marisa non ha generato.

Sono entrato nella chiesa sassarese di San Paolo mentre al microfono stava parlando uno del quale, devo ammetterlo, non mi è rimasto impresso neanche un concetto. Sicuramente responsabilità mia, arrivato in ritardo e forse distratto e leggermente a disagio nel trovarmi in simile consesso.

Mi sono rincuorato quando subito dopo ha preso la parola il vescovo ora in pensione di Nuoro, Pietro Meloni.

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Personalmente ho avuto sempre grande ammirazione per quest’uomo, e la sua presenza mi ha aiutato a sentirmi a mio agio in mezzo a tanti sconosciuti.

Il suo è stato sempre un parlare estremamente semplice e alla mano, e quanto da lui detto sul vecchio Manlio non ha tradito le mie aspettative.

Cose che immaginavo in un uomo di vera cultura qual’è stato questo “accudiddu”, come scherzosamente amava definirsi con la sua innata ironia, quella cultura che non s’insuperbisce e che aiuta gli altri a capire chi sono, come individui e come popolo, nel nostro caso sardo.

L’oratore ha provocato una contenuta risata nell’assemblea quando ha ricordato che il giovane ventenne appena laureato, insegnante a Pozzomaggiore, coltivava la passione per il calcio, ricoprendo il ruolo di portiere nella squadra locale. L’ironia di Brigaglia avanti negli anni era così tanta, che si vantava quando raccontava che una volta era stato sostituito dal vice perché nella sua rete aveva fatto entrare il pallone per ben otto volte. In effetti, eccessivo in una sola partita.

Un patriarca per l’intera Sardegna Manlio. Patriarca ricco di generosa e sempre rispettosa ironia.

Parla lentamente l’83enne Pietro, e l’ascoltarlo davanti alla bara contenente la salma di Manlio, rende l’atmosfera meno triste, tristezza dovuta alla dipartita di un uomo che ha dato veramente tanto alla cultura e che non c’è più.

Altro sorriso quando ricorda che il prof. Pittalis, altro docente sassarese di rilievo e amico di Manlio, non indugiava nel promuovere i suoi studenti, senza però rinunciare a metterli in guardia dalle tante bocciature che la vita può riservare.

Pietro conferma che Brigaglia è stato una vera e propria enciclopedia a cui tutti si rivolgevano e si affidavano. Più facile elencare gli argomenti di cui non si è occupato che di quelli verso cui ha mostrato interesse ed ha approfondito.

Sono certo che Manlio, ben vivo e presente al di là di quel freddo e immobile corpo all’interno della bara, sia rimasto particolarmente compiaciuto quando il suo amico Pietro gli ha riconosciuto la sua capacità di far sorridere i bambini e l’affascinare i giovani, sempre interessati dal suo trasmettere il sapere che possedeva con semplicità e particolare capacità di coinvolgimento.

E poi la forza dell’amicizia, il suo saper accogliere l’altro. La casa di Manlio e di sua moglie Marisa era sempre aperta agli ospiti, spesso docenti di diversa provenienza. I loro dialoghi e confronti sulla storia e sulla cultura si completavano sempre col pasto consumato insieme, per saldare vecchie e nuove amicizie.

Pietro accenna all’ultimo libro scritto da Brigaglia insieme ad un altro gallurese come lui, Franco Fresi, in cui, parlando degli stazzi, abitazioni caratteristiche della parte nord est dell’isola dove sono nati, si ribadisce che dall’umiltà di un popolo può nascere un’altezza di cultura di grande umanità, e questa umiltà, attraverso la rubrica delle lettere sul giornale locale sassarese, Manlio l’ha mostrata quotidianamente, senza superbia, estremamente chiara, priva di saccenza esibita.

Caro Manlio,grazie. Hai lasciato all’intera isola una immensa eredità. E grazie per quelle occasioni in cui, nel giornale locale, spendevi tempo e parole per dire il tuo parere su qualche argomento che mi andava di proporre sulla rubrica dedicata alle lettere. Non sempre mi trovavo d’ accordo con te, come per esempio in questa occasione in cui proponevo ai lettori de La Nuova Sardegna il mio pensiero riguardo alla considerazione per la  Cultura che a Sossu, mio paese, i governanti che nel tempo si sono succedoti hanno avuto, salvo poi chiarirci qualche aspetto nella nostra corrispondenza privata che continuo a conservare e che mi é molto cara, come sempre caro mi é il tuo ricordo.

In quest’ ultimo collegamento sotto le parole che gli dedicai il giorno stesso della morte e dove riporto due lettere a lui indirizzate riguardo all’ argomento “fede”, una delle quali é mia.  Ah, le cose che ci siamo detti su questo argomento cosi intimo! Sempre in privato, s’intende. Non é che le nostre cose personali bisogna metterle in piazza cosi, dai…

https://pieromurineddu.myblog.it/2018/05/10/il-vecchi-cuore-di-manlio-ha-ceduto/

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