Messaggio più recente

Verso un’utopia di pace e di giustizia


Rielaborazione del Salmo 23

di Giuliana Martirani (*)

Benedico il Signore, vado raccontando a tutti le cose belle che ha fatto nella mia vita, le tengo bene nella mente e nel mio cuore, non le dimentico facilmente.

Ha perdonato tutte le sciocchezze che ho fatto e soprattutto ha dimenticato quelle gravi.

Ha guarito direttamente o attraverso i suoi figli le mie malattie fisiche e quelle psichiche; quando non sapevo dove sbattere la testa mi ha trattenuto impedendomi di fare irrimediabili sciocchezze.

Mi ha rivestito di abiti nuovi,
e mettendomi sulla via della nonviolenza
mi ha dato nuovi percorsi di tenerezza e d’amore da solcare.

Il Signore è il Dio della giustizia,
pronto a creare diritti sempre più giusti
per tutti gli oppressi della Terra.

E’ così che ha dato shalom alla mia vita, pienezza e beatitudine.

E mi sono sentito pieno di energie,
e come un’aquila ho volato alto,
verso le vette sempre più alte di un’utopia di pace e di giustizia, che lui va sussurrando a quelli che ne sono affamati

e che, come Mosè, conducono altri verso questa terra promessa.

La bontà di Dio è proprio grande,
la sua rabbia è molto lenta,
mentre veloce come il razzo è il suo amore
che corre verso me quando ancor sono lontano mille miglia da lui.

Avrebbe dovuto essere furioso con me e sdegnato ma si è dimenticato di tutti i torti che ho fatto a lui e ai miei fratelli,
non ha continuato a contestarmeli né a recriminare per questo né a commisurare sui miei torti le sue elargizioni.

Il suo cuore si apre alla mia miseria con una larghezza d’amore simile all’altezza tra terra e cielo.

Lontano, come dista l’Australia dall’Europa,
così spinge dalla mia stessa vita
tutte le conseguenze negative dei miei errori
perché non soccomba sotto quel peso la mia stessa vita ed energia, amandomi, così, con cuore forte di padre e tenero di madre.

Egli sa bene che non sono null’altro che terra e acqua, che sono solo una composizione di fang che lui ha messo nel giusto equilibrio col soffio del suo spirito.

Egli sa bene che brevi come l’erba sono i nostri giorni sulla terra, al mattino germogliamo come il fiore e a sera siamo già appassiti e spazzati via dal vento e neanche si riconosce più il posto che occupavamo in famiglia che forse presto è occupato da un altro, e anche sul lavoro subito subentra un altro a occupare camera e scrivania e vengono messi in una busta i nostri effetti personali.

Ma non perdiamo il posto nel cuore di Dio,
duriamo nel suo cuore per sempre.

Benedite il Signore, messaggeri di pace,
costruttori di pace e di giustizia,
siate solerti e pronti quando vi ordina di sussurrarla la pace o di gridarla dai tetti,
parlate bene di lui e delle opere che fa,
siate obbedienti, voi che addirittura fate un voto di obbedienza, al suo volere di pace e di giustizia.

Benedite il Signore, opere tutte del creato,
che da lui avete ricevuto il vostro giusto equilibrio, continuate a dire bene quell’armonia, l’equilibrio e lo shalom
che la sua Parola un giorno lontanissimo ha detto e che vi ha dato.

Io, lo confermo, voglio dir bene del Signore
ogni giorno della mia vita.

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(*) Giuliana Martirani, nata a Napoli nel 1945, scrittrice, meridionalista, docente universitaria di geografia politica ed economica e di politica dell’ ambiente, fa parte del direttivo dell’International Peace Research Association (IPRA), è membro di Pax Christi, del MIR, e collabora con numerose altre esperienze pacifiste, ecologiste, della solidarietà, nonviolente.

 

Migrazioni. Quello che insegnano i bambini….

…. e gli adulti non imparano

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Io vengo da. Corale di voci straniere” è un viaggio appassionante alla scoperta delle storie dei nuovi italiani. È l’ultimo libro di Daniele Aristarco, autore di racconti e saggi rivolti soprattutto ai ragazzi, pubblicati sia in Italia, sia in Francia. Una raccolta di testimonianze di bambini stranieri che abitano il nostro Paese, attraverso cui scoprire in quanti modi si può essere stranieri, anche nella propria casa. Aristarco ci mostra che essere straniero è una possibilità, un dono, una scelta nostra o degli altri. Classe 1977, ex insegnante di lettere nella scuola media, oggi dedito anche alla scrittura per il cinema e la radio e regista teatrale, ideatore di laboratori di scrittura creativa per l’infanzia presso scuole e associazioni culturali.

Alcuni dei titoli di altri suoi libri sono uno straordinario biglietto da visita: “Lettere a una dodicenne sul fascismo di ieri e di oggi”, “Io dico NO! Storie di eroica disobbedienza”, “Io dico SI! Storie di sfide e di futuro”. Sono tutti libri che insegnano a pensare, ad essere differenti nel pensiero, a sviluppare una coscienza critica. Come è arrivato a scegliere il tema di questo libro?

I miei libri nascono dagli incontri nelle scuole, mi piace ascoltare e prestare particolare attenzione alle voci che vanno fuori tema. In questo caso mi sono sintonizzato sui cambiamenti che sta vivendo la nostra società, questa nuova composizione del nostro Paese. Come succede in libreria dove spesso sono i libri a sceglierci, così succede a me per la scrittura: a volte mi sembra di aver scelto un tema, ma in realtà è un momento particolare che si incrocia con il mio interesse e con quello die miei lettori, che nel mio caso sono ragazzi. Arthur Schopenhauer diceva che noi acquistiamo libri illudendoci di acquistare del tempo per leggerli; secondo me li scriviamo anche per illuderci di acquistare un tempo ulteriore, diverso. Quando scrivo un libro mi prendo un tempo differente per ragionare. E allora mi sono detto: spesso il racconto dei media in questi anni è stato un racconto catastrofico, quando invece girando per le scuole italiane spesso mi sono trovato davanti a realtà in cui la curiosità nei confronti dell’altro è uno stimolo. Mi sono chiesto: come mai i bambini vivono già in una società multietnica dove ogni differenza può essere un valore, e il racconto degli adulti è invece così negativo? La spiegazione forse è semplice: non viene data voce ai bambini, che invece raccontano spesso il racconto degli adulti. Così ho iniziato questo viaggio nelle scuole, nei centri di prima accoglienza, nelle associazioni culturali, ragionando con i nuovi e i vecchi italiani su come sta cambiando il nostro Paese e su che cos’è questa migrazione, facendomi portavoce delle storie dei ragazzi che difficilmente ottengono ascolto.

Molto spesso viene chiesto ai ragazzi cosa vorranno diventare. Lei ha scelto di raccontare invece chi sono e lo ha fatto ponendo una domanda diretta: Da dove vieni? In che modo ripercorrendo il cammino che ci ha condotti fino a qui possiamo delineare la nostra identità?

In genere i bambini, anche quelli che hanno vissuto esperienze drammatiche, che sono scappati da realtà complicate, difficilmente condividono il dolore, tendono a fare un racconto che ha più a che fare con il gioco, tendono a condividere lo stupore, la novità. Come dico nel libro, ogni società ha bisogno di uno sguardo straniero che la racconti, che la descriva e faccia anche da specchio, come un amico, un amore, che ti aiuta a comprendere meglio chi sei e cosa fai. Ecco, il racconto di una identità si muove secondo me sempre tra due punti: la nascita e la morte. Noi possiamo muoverci lungo questa linea guardandoci alle nostre spalle, raccontando da dove veniamo, oppure guardarci attorno con uno scopo. I ragazzi hanno sempre uno scopo. In generale, chi si muove da un Paese verso l’altro e intraprende in genere un viaggio anche pericoloso, ha uno scopo, anche se non delineato. I ragazzi hanno una curiosità che è un grande motore, e quindi la loro identità, ciò che raccontano nel libro, è la capacità di sognare e la consapevolezza che quel sogno si può realizzare.

In quanti modi si può essere stranieri?

Nel concetto di straniero c’è una duplice natura a mio parere. C’è una possibilità o una condanna. Se noi giocassimo a volte a sentirci stranieri attraversando le strade delle nostre città come se le vedessimo per la prima volta, lo sguardo che porteremmo si caricherebbe di odori e colori nuovi, come se non ci appartenessero. Quando invece veniamo definiti stranieri, ossia estranei a ciò che sta accadendo, quella è una condanna che può diventare molto pesante. Un ragazzo nordafricano che vive in Italia da qualche anno mi raccontava che ogni volta che rientrava a casa la sera indossava il cappuccio e i guanti per nascondere il colore della sua pelle, perché aveva paura. Ogni volta che bolliamo una persona per un dato così superficiale, come a volte succede anche nei confronti delle donne, non ci accorgiamo che quel dato è molto difficile da sconfiggere in una società costruita sul pregiudizio. Io gioco spesso con i ragazzi sul confine tra la parola “straniero” ed “estraneo”, perché spesso è una percezione. Noi riusciamo a sentirci estranei o stranieri anche all’interno del nucleo familiare, della classe, del contesto in cui lavoriamo: io credo che l’identità sia anche il desiderio di adesione ad un sogno, a un gruppo, a un progetto. Se sostituissimo l’identità con la dignità, forse vivemmo in un mondo dove tutti possono decidere dove si sentono a casa e cosa vogliono raccontare.

Il libro si apre con la storia di Mircea, un bambino rumeno, e muove i tassi dal ricordo di un racconto di suo nonno. Dice: “Mettersi in viaggio è l’unico modo che abbiamo per diventare umani, altrimenti si resta pupazzi di fango”. Il tema del viaggio è ricorrente in questi racconti: cosa sta a simboleggiare?

Ha detto bene: è un simbolo. Io sono un appassionato lettore di Mircea Eliade, uno storico delle religioni rumeno, che dice che il simbolo può rappresentare tutto, perché ciascuno proietta su questo simbolo dei significati. Io sono partito da questo, ossia che il viaggio è ciò che si desidera farne e spesso ce ne rendiamo conto solo a metà percorso. Molti di questi bambini hanno passato già metà della vita viaggiando, per loro il viaggio non è una parentesi come spesso invece è per noi, è una condizione quasi stabile seppure nell’instabilità. È il loro modo di stare al mondo, a me affascina molto. Bruce Chatwin, un noto autore di racconti di viaggio, dice che quando siamo in viaggio siamo felici, perché è il ricordo di una dimensione lontanissima. Quando sei in viaggio hai con te solo quello che ti serve, non sei appesantito fisicamente né dal ruolo sociale, e andando in un posto in cui nessuno ti conosce l’unica cosa che vale è la nostra capacità di raccontare storie. Per questi bambini il viaggio è un modo di stare al mondo che ha a che fare con il racconto.

Chang è un bambino cinese, ha 10 anni, una grande passione per le arti marziali e per i sorbetti al limone. Ogni mattina in classe prima dell’appello alza la mano e dice: “Voglio cambiare nome”. Qual è la sua storia?

Ho incontrato questo bambino in una scuola romana, in uno dei quartieri più multietnici della capitale. Nella sua classe c’erano 20 bambini che provenivano da 20 Paesi differenti e che comunicavano soprattutto facendo musica. Una mediatrice culturale mi ha raccontato di questo bambino che più volte aveva espresso il desiderio di cambiare nome, anche perché soprattuto nelle comunità cinesi è difficile e faticoso insegnare agli altri la giusta pronuncia. Nel suo caso però il desiderio non era legato al conformismo o ad una vita d’uscita da un imbarazzo perpetuo, ma dal desiderio di diventare invisibile, così come lo erano stati in tante classi dei ragazzi che si chiamavano Paolo e che nessuno aveva mai notato. Lui voleva cambiare nome per non dover chiedere un’autorizzazione, ogni giorno, per essere se stesso, per poter restare in silenzio e seguire il volo dei propri pensieri.

Leggendo le storie di questi bambini, figli di coloro che spesso sono appellati come “barbari invasori”, si scopre un fatto: tutte le persone che scappano hanno elaborato un sogno. Che cosa significa avere un progetto migratorio?

Questa è una delle scoperte che ho fatto ragionando con i ragazzi. Mi ha colpito moltissimo la storia di un ragazzo dell’Est-Europa che aveva 12 anni quando l’ho incontrato la prima volta. Era stato separato da suo fratello per molte ragioni, in nome di regolamenti mostruosi. Lui raccontava che avrebbe finito le medie, si sarebbe iscritto ad un professionale, avrebbe presto il diploma e a 18 anni lo avrebbe rivisto. Da una parte certamente quel racconto serve a quel ragazzo a stare con la schiena dritta e lavorare per uno scopo preciso, ma negli occhi di quel ragazzo c’era una determinazione incredibile. L’ho rincontrato anni dopo e sta andando su quella linea.

Questo cerco di raccontare ai bambini che spesso non lo sanno: una persona che fugge da un luogo si sta mettendo di fronte a dei rischi enormi. Ma se lo fa, quando lo fa, elabora un sogno, un progetto. Sono spesso progetti molto semplici, concreti e sono esattamente gli stessi progetti che hanno i ragazzi italiani, anche se questi ultimi quasi sempre posticipano, perché noi siamo abituati ad avere un appuntamento con il futuro eternamente rimandabile. Quello che voglio dire è che i sogni sono cose estremamente concrete e che i bambini me l’hanno insegnato, quindi un progetto migratorio ha a che fare con due elementi che vivono dentro di noi. Tutti desideriamo conoscere ciò che è diverso da noi, ma chi si trova a volte nell’obbligo di farlo riesce ad arrivare in fondo a quel sogno.

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Lettera da Spello, accompagnata da molta Nostalgia. La mia.


Lettera agli amici da Spello

Luglio 2020

Cari amiche ed amici,

sappiamo che diversi di voi hanno vissuto dei momenti dolorosi durante questi mesi perché toccati personalmente o attraverso famigliari o amici colpiti dalla pandemia.

In particolare pensiamo a quanti non hanno potuto essere vicini e accompagnare coloro che li hanno lasciati.

In questa tragedia abbiamo riscoperto il valore della solidarietà e la necessità di riflettere su ciò che è essenziale nelle nostre vite.

Ce lo ha ricordato Papa Francesco in questo passaggio della preghiera sul sagrato della Basilica di S. Pietro:

“Tu ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri. E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. È la forza operante dello Spirito riversata e plasmata in coraggiose e generose dedizioni. È la vita dello Spirito capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo.”

Come potete immaginare anche noi in questi mesi abbiamo dovuto chiudere l’accoglienza e quindi rinviare anche la decisione su cosa fare per l’estate.

Ora, dopo una valutazione che ha tenuto conto delle modalità con cui si svolgono le settimane, vita comune negli eremi e diversi momenti comunitari, e dell’impossibilità di garantire le condizioni di sicurezza richieste alle strutture di accoglienza, abbiamo deciso di mantenere la chiusura anche durante l’estate.

Nella speranza di poter riaprire in autunno per la raccolta delle olive vi auguriamo una serena estate.

I vostri fratelli

Alberto, Franco, Gabriele ed Yves

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Carlo non smetterá mai di vegliare sulla sua “creatura”

di Piero Murineddu

Con la recente lettera  dei Piccoli Fratelli, vengo a sapere che quest’estate, dopo che nel passato era giá avvenuto a causa di avvenimenti tellurici particolarmente aggressivi, l’Accoglienza viene sospesa.

No, non avevo programmato di andarci, cosa che non faccio oramai da parecchio tempo, ma ugualmente la notizia mi ha leggermente immalinconito, pensando all’assoluto silenzio – altra cosa da quell’altro Silenzio ricercato e necessario – che avvolgerá gli ormai pochi eremi rimasti in uso alla Fraternitá fondata da Carlo Carretto.

I tanti affezionati a quelle Colline della Speranza che desideravano esserci per vivere la settimana comunitaria, dovranno attendere.

Dal mio amico Marco vengo anche a conoscenza che i Fratelli hanno dovuto lasciare l’eremo Beni Abbès, divenuto il centro delle attivitá comunitarie dopo che il convento di San Girolamo, col suo prezioso chiostro testimone e riparo di momenti inenarrabili, era stato reso inagibile dal terremoto, in seguito ristrutturato e affidato alla gestione dell’Azione Cattolica.

Lo so, il particolare ramo dei seguaci di Charles De Foucauld che conosco io, i Piccoli Fratelli del Vangelo, per Statuto che si son dati non posseggono niente e probabilmente il doversi occupare della ventina circa di case affidate inizialmente a Carlo in comodato d’uso perché realizzasse il suo Progetto dopo aver fatto rientro dal deserto sahariano, comportava un alto costo finanziario, ma come ho detto, ugualmente la cosa mi provoca un non so che di malinconia, pensando anche che in questo modo veniva preclusa a molti la possibilitá di sperimentare la Ricchezza data da tale esperienza.

Ricchezza in che senso? I tanti, tantissimi che ne hanno beneficiato potrebbero raccontarne, anche se forse l’aspetto più intimo é meglio che rimanga nell’angolo  custodito con molta cura dell’individuale memoria, quell’angolino a cui si ricorre sopratutto nei momenti più difficili dell’esistenza e che aiuta a credere che una Via d’uscita e motivi per sperare ci sono sempre.

Come fatto in precedenza e riportato in questo blog, in altra occasione continuerò a scrivere delle preziositá di quest’esperienza che non solo a me aiuta ad andare avanti senza disperare.

Anche se la Fraternitá nel tempo si renderá visibile sotto un’unico ulivo fra i tantissimi che negli anni hanno regalato la loro ombra durante le ore dedicate al lavoro, abbiamo in ogni caso la certezza che Carlo, il cui corpo giace accanto a quello dell’amico Ermete nel piccolo prato che si affaccia al cimitero di Spello, continuerá a vegliare dalla Dimensione di Felicitá Infinita – seppur misteriosamente sempre partecipe alle cose poco felici del mondo – che lo ha accolto in quel lontano quattro ottobre del 1988. Come in molti sappiamo, lui é stato veramente una Testa coraggiosamente e generosamente Dura.

In ricordo dell’ex abate di san Paolo a Roma

Premessa

di Piero Murineddu

Tre anni che Giovanni Franzoni non é più insieme agli amici e amiche della comunitá di base romana che diversi anni fa ebbi occasione di visitare, accolto con particolare cordialità e grande senso di ospitalitá dall’ottimo e simpatico Luigi Sandri, giornalista e opinionista di particolare pregio. Il giorno, l’ex abate della vicina basilica di san Paolo fuori le mura era assente, ma durante il pranzo offerto da Luigi appresi tanto della sua battagliera e per certi versi sofferta vita.

Nell’articolo che segue ho sottolineato alcuni passaggi che avrei voluto commentare, se non avessi il timore di dilungarmi troppo. Evidenzio solo quello delle omelie “condivise”, applicato normalmenre nella comunitá da lui fondata in via Ostiense, a pochi passi dalla basilica.

Ho letto nei giorni scorsi delle novitá introdotte nella vita ecclesiale, quali la possibilitá, in casi eccezionali, dell’amministrazione di alcuni sacramenti da parte dei laici. Un piccolo passo, segno che il grossissimo e pesante  pachiderma qual’é la Chiesa Cattolica seppur lentamente non é completamente immobile. O no?  Tuttavia quello dell’omelia, cioé il riportare l’insegnamento del Maestro alla vita concreta, almeno così dovrebbe essere, rimane ruolo esclusivo del prete. Troppo rischioso che un non chierico esprima pubblicamente il frutto della sua riflessione? Forse, tra l’altro un normale laico non é mai preparato come lo é il prete, che ha studiato, approfondito e pure sperimentato….. O no?Continuiamo dunque a far navigare la barca come si é sempre fatto. Finché va, lasciamola andare! Intanto per valorizzare il genio femminile ci sará tempo in futuro…… forse. Punto


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Ricordando dom Giovanni Franzoni

di Fabrizio Giusti
Dom  Franzoni è stato etichettato nel corso della sua vita e della sua opera in tutti i modi: ‘Abate Rosso’, ‘Abate Ribelle’, ‘Abate Eretico’. Lui, con più moderazione, si definì un “cattolico marginale” in un’autobiografia. Una specificazione azzeccata. Durante il rumore della guerra ideologica, ed anche successivamente, è stato infatti messo ai lati, dimenticato, pur avendo sempre voce, dialogo ed intelligenza acuta con cui interloquire.

Nato a Varna l’8 novembre 1928, gli capitò di passare per Firenze, città in cui esisteva un fermento culturale attorno alla Chiesa che farà parlare di sé: Padre Ernesto Balducci, Giorgio la Pira, Don Milani. Militò da giovane nell’Azione Cattolica. A 19 anni entrò in seminario, nel collegio benedettino all’Aventino. Nel 1950 cominciò il suo noviziato nel complesso abbaziale di San Paolo, a Roma, fino a prendere i voti. Fu poi inviato nel Monastero di Farfa. Iniziò ad insegnare storia e filosofia . Avrebbe dovuto chiudere ogni attività, invece rivitalizzò quella comunità aprendo la scuola media per le ragazze, creando serate ludiche, rinnovando il rapporto con i giovani. Una fiducia completa nei ragazzi che ritroveremo anche più tardi.

Nel 1964 diventa Abate di San Paolo. Papa Montini, con un gesto particolare di benevolenza, gli regalò un anello d’oro. Anni dopo sarà donato per una sottoscrizione a sostegno dell’ospedale di Gaza.

Il ruolo di abate diede la possibilità a dom Franzoni di partecipare al secondo Concilio Vaticano indetto da Giovanni XXIII, a soli 35 anni. Non intervenne mai, ma fu un atto di fondazione delle proprie convinzioni.

Nel tempo delle frazioni ideologiche, disturbò un certo clero con le sue omelie contro la guerra nel Vietnam, le speculazioni edilizie della Gerarchia cattolica, il dialogo politico nell’ottica di un socialismo dal volto umano e di una cattolicità schierata al fianco degli ultimi.

Si fece, in quel periodo, portatore di ulteriori istanze di cambiamento, richiamandosi alle comunità cristiane di base e alla necessità di dare un senso alle origini storiche della fede. Nel tempo della contestazione, vivendo tra i giovani, comprese i bisogni della società, iniziando ad applicare la preghiera come un evento comune, partecipato e riflessione, fino alla scelta condivisa delle omelie.

Nella radicalizzazione di un rapporto tra autorità e la sua realtà, iniziarono i primi problemi. Prima attraverso dei momenti di tensione politica che sfociarono persino in una incursione violenta di alcuni attivisti missini durante una liturgia, poi direttamente con la gerarchia pontificia, quando si schierò contro i licenziamenti all’interno di un’opera del Vaticano, fino ad arrivare ad esprimere delle simpatie per quel Pci di Berlinguer che sembrava rassicurare anche i più perplessi nel rapporto tra comunismo, processi democratici e distanziamento dalla ‘teca ideologica’ di Mosca.

All’inizio del 1974 Franzoni aveva già lasciato la Basilica e abitava in un appartamentino di via Ostiense. Il quotidiano “Il Tempo” scrisse: “L’abate rosso si è messo da parte: speriamo che stia tranquillo”.

“In Vaticano – raccontò in un intervista a “La Repubblica”, citando i tempi dell’allontanamento – mi denigravano. Dicevano che mi ero venduto al Pci. Una domenica in basilica un giovane pregò perché suo figlio potesse crescere in una Chiesa dove non si faceva speculazione finanziaria. Paul Mayer, a quel tempo segretario dei Religiosi, reagì. Mi disse che visto che ero così “democratico” dovevo accettare le sue condizioni: sottoporre ogni atto pubblico al parere dei superiori. Presi tempo. In una riunione della Comunità si alzò Vincenzo Meale. Disse che dovevo obbedire perché altrimenti sarei stato l’unico a pagare. Però, spiegò, “è certo che se accetta le censura, la mia esperienza con la Comunità finisce qui”. Fu un lampo, un’illuminazione appunto. Risposi: “Ho capito”. E il lunedì seguente dissi a Mayer che volevo dimettermi. E così ebbe inizio la mia nudità”.

La nudità, appunto. Franzoni ardiva a recuperare il Gesù autentico, quello spoglio di orpelli, il messaggero di una nuova visione del mondo e dell’umanità, scevro da decorazioni o addirittura ricchezze.

Nel periodo del referendum sul divorzio, che interrogò profondamente il mondo cattolico nonostante la presa di posizione ufficiale, gli dissero di cercarsi una diocesi. Chiese il trasferimento a Frascati, nei Castelli Romani. Nei suoi ricordi, spiegò l’aneddoto così: “Volevo che l’esperienza con il nostro gruppo di laici non finisse con la mia uscita da San Paolo. Cercai di nuovo il Cardinal Poletti, e, dopo avergli spiegato che la sentenza di sospensione a divinis era a mio avviso invalida perché io avevo ubbidito all’ingiunzione di non parlare più in pubblico disdicendo tutti gli appuntamenti, lui ammise che forse effettivamente c’era stato qualche errore ma si appellò alla mia comprensione delle procedure e delle prassi ecclesiastiche per cui non dovevo aspettarmi che la Chiesa ammettesse pubblicamente di avere sbagliato. Mi suggerì inoltre di trovare un vescovo benevolo pronto a incardinarmi nella sua diocesi. Contattai Monsignor Luigi Liverzani, a Frascati, la diocesi più vicina. Era una persona informata, aperta, vicina al mondo del lavoro, mi avrebbe preso nella sua diocesi senza alcuna condizione. Presentai quel nome a Poletti e il vicario mi rispose che Frascati era troppo vicina a Roma. «C’è un chilometraggio minimo, vostra Eminenza?».

La riduzione allo stato laicale avvenne il 4 agosto 1976. Quando arrivò la lettera era a Nusco, in provincia di Avellino. “Andai in trattoria con i ragazzi. A metà del pranzo mi si bloccò lo stomaco, la gola. Non riuscii a deglutire nulla. Per oltre due anni ho fatto fatica a inghiottire cibo asciutto”, ricorderà.

Così l’ex Abate aprì una sua Comunità di Base. Si era già lasciato affascinare, in quegli anni dalle tematiche contraddittorie di Roma e di un quartiere popoloso come San Paolo, in parte borghese e per larghi strati confinante e compenetrante con fasce di emarginazione, di baraccati e povertà degli altri quartieri vicini. Continuò a mettere insieme laici, donne, uomini, giovani, credenti. Lottò da pacifista e per gli operai licenziati. Quando lasciò il suo incarico, era già stato il tempo della sua lettera pastorale “La terra è di Dio”, in cui si denunciavano le speculazioni edilizie del Vaticano a Roma.

Fu il suo modo di pensare ‘Fuori le mura’ , come la Basilica, intraprendendo un percorso fatto di autonomia e libertà di coscienza per tutta la sua esistenza. Continuando a far discutere per le sue scelte.

Si è definito ‘marginale’, sì, ma molti dei temi che affrontava allora oggi sono storicizzati, sono nella società che viviamo, e a decennio di distanza da quel ‘conflitto’ doloroso hanno tutt’altro senso e fanno di ‘Dom’ (dal latino Dominus, è il trattamento riservato ai monaci benedettini) Franzoni un cristiano originale, inedito, ricco di spunti e considerazioni che hanno diviso, certo, ma come giusto che sia. Ricercare quel ‘qualcuno che tutti cerchiamo’ (per dirla con Padre Turoldo) è sempre un cammino di strade tortuose, d’altronde.

Teologo mai banale, argomentava le sue tesi. Sempre. In lui resisteva quella ‘Chiesa plurale’ che escludeva le scomuniche e pensava una casa comune in cui tutti potesse parlare.

Coniugato dal 1991 con una giornalista giapponese atea, considerò Paolo VI, che avallò la sua riduzione allo stato laicale, il Papa più progressista e antitemporalista del Novecento. Era stato, del resto, il primo Pontefice a rinunciare al triregno, la corona utilizzata a partire dal medioevo come simbolo di sovranità.

Idee che portarono  Franzoni lontano da un certo sistema. Il suo nome, nel 2012, sarà omesso dall’elenco dei padri conciliari, in occasione delle celebrazioni ufficiali per i 50 anni dall’apertura del Concilio. Un momento doloroso, l’ennesimo. Un riabilitazione mai avvenuta, diversamente da altri sacerdoti o figure della Chiesa che con il tempo hanno trovato una loro ricollocazione ideale e culturale.

Ermanno, Nandino e ciascuno di noi

“Cos’è più importante dell’accoglienza? Cosa? La sacralità dei simboli? Il simbolo deve rimandare ad una realtà di carne per avere valore. Non è possibile che ci genuflettiamo davanti ad un Cristo di cartone o di legno e poi non abbiamo solidarietà per chi soffre.”

di Piero Murineddu

Il cartone. Questo materiale, all’apparenza sicuro di sé ma che bastano due gocce d’acqua per rivelarne l’estrema inconsistenza, rimanda per forza di cose al suo film del 2011, “Il villaggio di cartone” appunto, in cui, mentre l’edificio di culto viene definitivamente dismesso, al parroco ormai vecchio e probabilmente solo, l’arrivo di un gruppo di clandestini africani ravviva una fede probabilmente stanca di esser stata vissuta prevalentemente attraverso ripetitivi riti che, nonostante il loro simbolismo di cui ci hanno sempre parlato nella nostra frequentazione “religiosa”, difficilmente son riusciti a sostanziarsi in una presenza tra le molteplici pieghe di un mondo che ha sempre aspettato, il più delle volte invano, l’individuale e faticoso contributo per renderlo veramente fraterno.

Nel 1931, in questo stesso giorno estivo, nel quartiere Malpensata di Bergamo venne alla luce Ermanno, frutto atteso di un incontro amoroso tra un ferroviere e una graziosa giovane. L’assurda ma purtroppo reale tragedia della guerra si portò via babbo Olmi, lasciando la moglie a doversi occupare da sola della crescita del figliolo.

Il ragazzo non riuscì ad avere un diploma di scuola superiore, ma scoprendo in lui attrattiva per il mondo dello spettacolo, a Milano frequenta i corsi di recitazione dell’Accademia di Arte Drammatica. Per mantenersi, il proprietario della fabbrica dove lavora la mamma gli offre un posto da fattorino, per poi, anche per far fare tirocinio di quanto il giovanotto stava studiando,  gli affida l’organizzazione delle attività ricreative per i dipendenti, dotandolo di una videocamera, per documentare la produzione.

Come sappiamo, di questa iniziale e inaspettata attivitá di registrazione, Ermanno ne fa il mezzo, che ben presto scopre a lui congeniale, per rappresentare le vicende della vita dal suo punto di vista, mettendo gli ultimi della societá al primo posto tra i suoi interessi.

Solidarietá per chi soffre”, concludeva nel richiamo, riportato all’inizio, del dovere di fare un tutt’uno tra ció in cui si dice di credere e la concretezza della vita. Il cruccio di ciascuno di noi, insomma.

E l’Accoglienza é il massimo della concretezza, quella di cui la nostra comoditá spesso vorrebbe fare a meno

E nella coerenza alle belle teorie enunciate rientra a pieno titolo anche il dovere della denuncia, quella pulce malefica che non ci fa stare tranquilli davanti alle cause che oggettivamente rendono difficile se non impossibile la vita per molti.

Pressoché l’intera filmografia di Olmi ha avuto questo come obiettivo, e anche nei tanti video che si trovano in Rete Ermanno non tralascia mai l’ impegno morale di denunciare gl’impedimenti ad una piena realizzazione dell’umanità. Perticolarmente accalorato l’ho sempre visto quando gli é stata data l’opportunitá di descrivere come avrebbe voluto vedere realizzato il Messaggio Evangelico da parte di chi del Maestro si considera seguace, di chi ha responsabilitá di guida sopratutto.

La premessa dedicata al regista scomparso il 7 maggio di due anni fa l’ho voluta usare per introdurre un intervento fatto da un prete, la cui attivitá a favore della Pace é veramente da conoscere, e che naturalmente viene accusato di “fare politica” perché non si limita a celebrare, sermoncinare senza sbagliare un verbo e col tono – di volta in volta di rimprovero o sollecito “paterno” – appropriato e, fatica delle fatiche, portare la comunione ai malati.

Ne parlerò in altra occasione, essendo di quelle figure che é utilissimo approfondirne la conoscenza.

Il suo nome é Nandino Capovilla, nipote di quel Loris che é stato segretario e testimone ravvicinato della grande umanitá che aveva Angelo Roncalli, bergamasco come Olmi. Si ritrova ad operare in una parrocchia di Marghera, sempre sforzandosi di essere sorridente e non perché é felice, ma perché, a quanto pare, sorridere aiuta ad esserlo. Questa sègnatela che é importante. Io me la metto nel comodino, così ogni mattina mi ricordo di metterla in pratica…. nonostante le incazzature provocate dalle vicende umane.

Il tema trattato é il coinvolgimento delle banche nella produzione ed esportazione di armamenti, quei giocattolini che provocano tuttaltro che gioia in chi né subisce l’ uso.

Faccio così. Al termine di quando scrive Nandino, riporto un elenco, credo incompleto, delle banche che di questo commercio si arricchiscono. Va bene?

Buona lettura e….buona decisione

LA MIA PARROCCHIA E’ DISARMATA!

di Nandino Capovilla

L’avevamo annunciato già durante le Messe: “Siamo pronti a ritirare il denaro destinato ai poveri e alle necessità della comunità se la banca non ci assicura che non è coinvolta in transazioni finanziarie con le industrie belliche!” D’altra parte era stato chiarissimo papa Francesco proprio il giorno di Pasqua: “Non è questo il tempo in cui continuare a fabbricare e trafficare armi, spendendo ingenti capitali che dovrebbero essere usati per curare le persone e salvare vite”.
Oggi abbiamo ricevuto la lettera e diremo a tutta la parrocchia che in coscienza sappiamo di non essere complici con il sistema di produzione ed export italiano di armamenti che la Legge 185, che compie vent’anni, proibisce in quanto alimenta guerre e trasferisce armi in paesi dove sono in corso conflitti, a nazioni che violano i diritti umani.

Ma la legge viene violata continuamente: per esempio nel 2019 si è avuto il valore più alto in assoluto di armi vendute in Nordafrica negli ultimi vent’anni: oltre un miliardo di euro. E ogni volta che vediamo i bambini yemeniti saltare in aria dalle bombe “made in Italy” chiediamoci perché dobbiamo farlo. Alla dittatura dell’Egitto, che deve ancora far luce sull’uccisione di Regeni, dovrebbe esser vietata la più grande commessa dal dopoguerra: 2 fregate, 4 navi, 24 caccia e 20 aerei, per 11 miliardi di euro, tutte italiane! Invece pochi sanno che i nostri politici sono talmente legati ai produttori di morte che, in piena pandemia, l’esecutivo Conte, mentre decideva che chiudessero tutte le industrie, non se l’è sentita di dare un segno di civiltà e difesa dei diritti umani e vergognosamente ha deciso che le fabbriche belliche dovevano continuare a sfornare armi in quanto “industria fondamentale ed essenziale per l’Italia”.

Tutte le parrocchie, gli istituti e le diocesi sono state invitate ad inviare una lettera alla propria banca e alla Cita, da domenica prossima, potrò dire più serenamente dall’altare: “La pace sia con voi!”

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Ed ecco l’elenco che dicevo delle banche coinvolte nella Distruzione, del Creato che spesso l’uomo riduce in terra bruciata:

Banca Carige;

Banca Commerciale Italiana;

Banca Nazionale del Lavoro;

Banca Nazionale dell’Agricoltura;

Banca Popolare di Bergamo – Credito Varesino;

Banca Popolare di Brescia;

Banca Popolare di Intra;

Banca Popolare di Lodi;

Banca Popolare di Novara;

Banca San Paolo di Brescia;

Banca Toscana;

Banca di Roma;

Banco Ambrosiano Veneto;

Banco Bilbao Vizcaya;

Banco di Chiavari e della Riviera Ligure;

Banco di Napoli;

Banco do Brasil;

Barclays Bank;

Cariplo;

Cassa di Risparmio di Firenze;

Cassa di Risparmio di La Spezia;

Credito Agrario Bresciano;

Credito Emiliano;

Credito Italiano;

Crèdit Agricole Indosuez;

Istituto San Paolo di Torino;

Monte dei Paschi di Siena;

Ubae Arab Italian Bank;

Unicredito Italiano;

Unione Banche Svizzere….

A te aggiungere altri nomi…

 

“Sondaggi” per (truffaldinamente) incanalare

di Piero Murineddu

Come non tutti sanno, di diverse testate giornalistiche che in un passato sempre più lontano hanno informato quotidianamente la gente sarda su fatti riguardanti la nostra isola, son rimaste solamente “La Nuova Sardegna” , considerata a torto o a ragione “di sinistra”, con sede centrale a Sassari ed edizioni locali in diverse cittá, e “L’Unione Sarda”, stampata e distribuita prevalentemente a Cagliari e a ragione, senza girarci troppo intorno, considerata a servizio del padrone.

A fine dello scorso mese, questo giornale se n’era uscito con un sondaggio che a considerare vergognoso é il minimo.

Testualmente recitava:

“Navi militari per bloccare i migranti diretti in Sardegna. Cosa ne pensate? Dite la vostra con un clic!”

Capito? Cioè togliere ogni possibilitá a chi insegue il sogno di una vita migliore col baubau delle divise tricolorate e sopratutto armate, naturalmenre nel caso sfuggissero alle motovedette libiche, queste ancora pagate coi nostri soldini perché riportino controvoglia i “fuggitivi” nei campi lager che sappiamo…

Un “sondaggio” col chiarissimo intento d’indirizzare l’opinione pubblica, o almeno chi ha il coraggio di sfogliare quelle luride pagine, in un argomento che sicuramente solletica i bassi istinti del Respingimento siaquelchesia, come se la presenza di migranti per necessitá potesse ulteriormente impoverire questa terra, attualmente spadroneggiata da politicaglia di dubbio valore al servizio della Lega, quella che tempo fa, quando i capi ne esprimevano più sinceramente la posizione ideologica, volevano “vendere” l’isola:  per poter riempire, col ricavato, ancor di più i loro stomaci giá fin troppo sazi, oppure per eliminare il “disonore” di dover essere per forza connazionali con gente ai loro occhi d’infima….lega?

Questo di molto dubbio gusto uso dei media, irrispettoso alla massima potenza dell’intelligenza dei cittadini lettori (nel caso che segue, invece e più gravemente,di cittadini elettori) mi porta a collegarlo ad un altro pseudo sondaggio di sei anni fa presentato addirittura sul sito istituzionale del Comune dove vivo, da tempo retto da un interscambio di figure ora amici, ora avversari e financo apertamente nemici, ma sempre trainati da un particolare figuro di consigliere regionale –  definito recentemente, dal corrispondente de La Nuova Sardegna, “padrino” (!) dell’attuale giunta locale e realmente padrino e pure zietto del giovananotto che ha voluto sedesse nella poltrona di presidenza dell’assemblea consiliare – passato (convenientemente!) dall’iniziale corte berlusconiana a quell’attuale totiana, seguace di un guru di una non meglio precisata “spiritualitá”  e fatto oggetto, a varie riprese, delle attenzioni della Magistratura per fare evidentemente il suo dovere….

La domanda, collocata per diverso tempo ben in vista nella pagina principale del sito, recitava:

“RITIENI CHE LEGGERE NOTIZIE INESATTE SULLA STAMPA LOCALE DANNEGGI SORSO E LA SUA COMUNITA’?

Quando c’incappai io, sabato 19 luglio 2014, precisamente alle ore nove e trantadue minuti, il risultato era il seguente:

SI 85 (93.4%) – NO 6 (6.6% )

Faccio così, dai, anche per evitarmi la fatica di riprendere e riconsiderare quanto allora già considerato e, dal mio punto di vista, giudicato: senza spostare una virgola,riporto direttamente quanto scrissi allora. La mia opinione in proposito non cambia. Chi legge si faccia la sua……

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Luglio 2014

Sito istituzionale del Comune di Sorso: strumento d’informazione – partecipazione o cos’altro?

 

(P.M.)

“RITIENI CHE LEGGERE NOTIZIE INESATTE SULLA STAMPA LOCALE DANNEGGI SORSO E LA SUA COMUNITA’?

La domanda é proposta nel Sito del Comune do Sorso, Sossu nella locale parlata. Sito istituzionale, quello ben pagato volenti o no dai contribuenti (di destra, di sinistra, di giù e di sù…) e che spesso l’Amministrazione in carica (giunta Morghen) usa per autoelogiarsi.

Proviamo a fare qualche considerazioncella su questo intelligente e utile (!) sondaggio. E azzardiamo anche un probabile scopo, almeno a mio sindacabilissimo parere…

Come fare a non rispondere affermativamente a tale domanda posta in questi termini? Se una notizia è inesatta, è sicuramente un cattivo servizio all’informazione. Su questo non ci piove. Se la notizia è giudicata soggettivamente “inesatta” da chi in varia forma è coinvolto,per esempio un pubblico amministratore, allora è dovere di quest’ultimo dare prova dell’inesattezza, ed eventualmente l’autore dell’articolo dovrebbe, se il suo agire è professionale e sopratutto onesto, chiedere scusa del mancato approfondimento delle sue fonti. Ci siamo fin qui? Bene. Andiamo avanti.

A questo punto ci sono altri elementi da aggiungere. “Stampa locale”. Per esempio “La Nuova”? Per esempio. Poniamo il caso che il corrispondente sussinco di questa testata volutamente, vo-lu-ta-men-te, stravolge la notizia per un qualsiasi scopo diverso dalla serietà professionale per cui lavora, allora la cosa diventa un tantino preoccupante. Sia ben inteso, parlo di stra-vol-gi-men-to, e chiaramente questa non è informazione. Personalmente non credo che il solerte giovane corrispondente si spinga a tanto. Penso piuttosto che dando la notizia, a volte mette anche il suo parere, e questo lo ritengo un merito, un valore aggiunto che si dà alla notizia. Qui, naturalmente, la cosa si complica un tantino, abbracciando il tema generale dell’Informazione e del modo di presentare la notizia. Un organo d’informazione deve limitarsi a dare una notizia “nuda e cruda” rinunciando ad aggiungere commenti? O che cosa? Sappiamo che i “commenti” non possono prescindere dal personale giudizio sugli eventi e sulle persone, per cui…. Conosciamo anche l’estrema suscettibilità di chi comanda, aspettandosi solo applausi e detestando i dissensi. Dando per scontato che qualsiasi cosa faccia, andia be’ . Ma cussì non è. Ma comunque.

Come qualcuno dei miei pochi lettori sa, sono solito essere diretto, cercando di essere il più chiaro possibile. Io credo che il corrispondente da Sorso de “La Nuova Sardegna” non sia molto gradito agli attuali amministratori. Probabilmente viene giudicato “fazioso”, intenzionalmente fazioso. Del resto, anche lo stesso quotidiano sassarese viene considerato “di parte”, specialmente dalla ultimamente esigua ( ma non a Sossu, sia chiaro!) schiera dei seguaci del Signore di Arcore, riconosciuto non più corruttore di minorenni ( cosa che fa “commuovere” il suo vecchio pupillo Angelino). Non potendo intervenire per richiamare la Dirigenza e l’Editore di questo giornale, come al solito “comunista” incallito, allora ci si serve dei “propri” mezzi (il Sito Comunale!), non tanto per dimostrare l’inesattezza di certa informazione e dicendo chiaramente le cose come realmente stanno, ma per dare – indirettamente, per caritàdiddio – il proprio giudizio sulla mancanza di obiettività di certi organi di stampa. Il fatto è che lo si fa in un modo che rasenta il ridicolo e offende l’intelligenza dei destinatari. Il 93% ha risposto “ SI, LE NOTIZIE INESATTE DANNEGGIANO SORSO E LA SUA COMUNITA”. Non c’è che dire:di una logica indiscutibile. Meno comprensibile è quell’esiguo 6,6% che risponde NO. Ma forse, attraverso questo NO si vuol dire che la notizia data non è inesatta o addirittura falsa, ma obiettiva e corrispondente al vero? Chissà!

Che conclusioni trarre? Mah, almeno due:

che il “sondaggista” impari il suo mestiere, ponendo magari domande in modo più intelligente e più utili alla vita comunitaria (e qui si potrebbe spaziare all’infinito, diventando il sondaggio un utile strumento di crescita collettiva, e non mortificato come in questo caso)

il “manovratore” dovrebbe essere meno suscettibile e contento di essere “disturbato”: serve per tenerlo “sveglio” e per ricordargli che ha il dovere di condurre serenamente i “viaggiatori” verso la destinazione.

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Genova, 20 luglio 2001. - Alberto Giuliani, Luzphoto

 

Mancava poco a mezzanotte quando il primo poliziotto colpì Mark Covell con una manganellata sulla spalla sinistra. Covell cercò di urlare in italiano che era un giornalista, ma in pochi secondi si trovò circondato dagli agenti in tenuta antisommossa che lo tempestarono di colpi. Per un po’ riuscì a restare in piedi, poi una bastonata sulle ginocchia lo fece crollare sul selciato.

Mentre giaceva con la faccia a terra nel buio, contuso e spaventato, si rese conto che i poliziotti si stavano radunando per attaccare l’edificio della scuola Diaz, dove 93 ragazzi si erano sistemati per passare la notte. Mark sperò che rompessero subito la catena del cancello, così forse l’avrebbero lasciato in pace. Avrebbe potuto alzarsi e raggiungere la redazione di Indymedia dall’altra parte della strada, dove aveva passato gli ultimi tre giorni scrivendo articoli sul G8 e sulle violenze della polizia.

Proprio in quel momento un agente gli saltò addosso e gli diede un calcio al petto con tanta violenza da incurvargli tutta la parte sinistra della gabbia toracica, rompendogli una mezza dozzina di costole. Le schegge gli lacerarono la pleura del polmone sinistro. Covell, che è alto 1,73 e pesa meno di 51 chili, venne scaraventato sulla strada. Sentì ridere un agente e pensò che non ne sarebbe uscito vivo.

Mentre la squadra antisommossa cercava di forzare il cancello, per ingannare il tempo alcuni agenti cominciarono a colpire Covell come se fosse un pallone. La nuova scarica di calci gli ruppe la mano sinistra e gli danneggiò la spina dorsale. Alle sue spalle, Covell sentì un agente che urlava “Basta! Basta!” e poi il suo corpo che veniva trascinato via.

Intanto un blindato della polizia aveva sfondato il cancello della scuola e 150 poliziotti avevano fatto irruzione nell’edificio con caschi, manganelli e scudi. Due poliziotti si fermarono accanto a Covell, uno lo colpì alla testa con il manganello e il secondo lo prese a calci sulla bocca, spaccandogli una dozzina di denti. Covell svenne.

Ci sono diversi buoni motivi per non dimenticare cos’è successo a Mark Covell quella notte a Genova. Il primo è che fu solo l’inizio. A mezzanotte del 21 luglio 2001 i poliziotti occuparono i quattro piani della scuola Diaz imponendo il loro particolare tipo di disciplina ai suoi occupanti e riducendo i dormitori improvvisati in quella che in seguito un funzionario di polizia ha definito “una macelleria messicana”. Poi quegli stessi agenti e i loro colleghi incarcerarono illegalmente le vittime in un centro di detenzione che diventò un luogo di terrore.

Il 14 luglio 2008 quindici poliziotti, guardie penitenziarie e medici carcerari sono stati condannati per il loro ruolo nelle violenze. Ma nessuno sconterà la pena. In Italia gli imputati non vanno in prigione fino alla conclusione dell’ultimo grado di giudizio, e le condanne per i fatti di Genova cadranno in prescrizione l’anno prossimo. I politici che all’epoca erano responsabili della polizia, delle guardie penitenziarie e dei medici carcerari non hanno mai dovuto dare spiegazioni.

Le domande fondamentali su come tutto ciò sia potuto accadere rimangono senza risposta. Questa non è semplicemente una storia di poliziotti esaltati. Sotto c’è qualcosa di più grave e preoccupante.

Questa storia può essere raccontata solo grazie al duro lavoro coordinato da un pubblico ministero appassionato e coraggioso, Enrico Zucca. Con l’aiuto di Covell e di una squadra di magistrati, Zucca ha raccolto centinaia di testimonianze e analizzato cinquemila ore di video e migliaia di fotografie. Tutte insieme raccontano una storia cominciata proprio mentre Covell giaceva a terra sanguinante.

I poliziotti irruppero nella Diaz. Alcuni gridavano “Black bloc! Adesso vi ammazziamo”. Ma si sbagliavano di grosso se credevano di dover affrontare i black bloc che avevano scatenato i disordini in alcune zone della città durante le manifestazioni di quel giorno. La scuola era stata messa a disposizione dal comune di Genova a dei ragazzi che non avevano nulla a che fare con gli anarchici: avevano perfino organizzato un servizio di sicurezza per accertarsi che i black bloc non potessero entrare nello stabile.

Genova, 21 luglio 2001. - Reuters/Contrasto

Uno dei primi ad accorgersi dell’irruzione fu Michael Gieser, un economista belga di 35 anni che si era appena messo il pigiama e stava facendo la fila davanti al bagno con lo spazzolino in mano. Gieser crede nel dialogo e in un primo momento si diresse verso gli agenti dicendo: “Dobbiamo parlare”. Vide i giubbotti imbottiti, gli sfollagente, i caschi e le bandane che nascondevano i volti dei poliziotti, cambiò idea e scappò di corsa per le scale.

Gli altri furono più lenti. Erano ancora nei sacchi a pelo. I dieci spagnoli accampati nell’atrio della scuola si svegliarono sotto i colpi dei manganelli. Alzarono le mani in segno di resa, ma altri poliziotti cominciarono a picchiarli in testa, provocando tagli e ferite e fratturando il braccio a una donna di 65 anni. Nella stessa stanza alcuni ragazzi erano seduti davanti al computer e mandavano email a casa. Tra loro c’era Melanie Jonasch, 28 anni, studentessa di archeologia a Berlino, che si era offerta di lavorare nella scuola e non aveva neppure partecipato ai cortei.

Melanie non riesce ancora a ricordare cosa accadde. Ma molti testimoni hanno raccontato che i poliziotti l’aggredirono e la colpirono alla testa con tanta violenza che perse subito conoscenza. Quando cadde a terra, gli agenti la circondarono continuando a picchiarla e a prenderla a calci, sbattendole la testa contro un armadio e alla fine lasciandola in una pozza di sangue. Katherina Ottoway, che vide la scena, ricorda: “Tremava tutta. Aveva gli occhi aperti ma rovesciati all’insù. Pensai che stesse morendo, che non sarebbe sopravvissuta”.

Nessuno dei ragazzi che erano al piano terra sfuggì al pestaggio. Come ha scritto Zucca nella sua requisitoria: “Nell’arco di pochi minuti, tutti gli occupanti del piano terra furono ridotti all’impotenza. I gemiti dei feriti si univano agli appelli a chiamare un’ambulanza”. Per la paura, alcune vittime persero il controllo dello sfintere. Poi gli agenti si diressero verso le scale.

Nel corridoio del primo piano trovarono un piccolo gruppo di persone, tra cui Gieser, che stringeva ancora il suo spazzolino: “Qualcuno suggerì di sdraiarsi, per dimostrare che non facevamo nessuna resistenza, così mi sdraiai. I poliziotti arrivarono e cominciarono a picchiarci, uno dopo l’altro. Io mi riparavo la testa con le mani e pensavo: ‘Devo resistere’. Sentivo gridare ‘basta, per favore’ e lo ripetevo anch’io. Mi faceva pensare a quando si sgozzano i maiali. Ci stavano trattando come animali, come porci”.

I poliziotti abbatterono le porte delle stanze che si affacciavano sui corridoi. In una trovarono Dan McQuillan e Norman Blair, arrivati in aereo da Stansted, vicino Londra, per manifestare a favore di “una società libera e giusta dove la gente possa vivere in armonia”, spiega McQuillan. Avevano sentito la polizia al piano terra e insieme a un amico neozelandese, Sam Buchanan, avevano cercato di nascondersi con le loro borse sotto dei tavoli in un angolo di una stanza buia. Una decina di agenti fece irruzione nel locale e li illuminò con una torcia. McQuillan scattò in piedi, alzò le mani e cominciò a ripetere “Calma, calma”, ma non servì a fermare i poliziotti. McQuillan ne uscì con un polso rotto. “Sentivo tutto il loro veleno e il loro odio”, ricorda Norman Blair.

Gieser era in corridoio: “Intorno a me era tutto coperto di sangue. Un poliziotto gridò ‘Basta!’ e per un attimo sperammo che tutto sarebbe finito. Ma gli agenti non si fermarono, continuarono a picchiare di gusto. Alla fine ubbidirono all’ordine, ma erano come dei bambini a cui si toglie un giocattolo contro la loro volontà”.

Ormai c’erano poliziotti in tutta la scuola. Picchiavano e davano calci. Secondo molte vittime c’era quasi del metodo nella loro violenza: gli agenti pestavano chiunque gli capitasse a tiro, poi passavano alla vittima successiva lasciando a un collega il compito di continuare a picchiare la prima. Sembrava importante che tutti fossero pestati a sangue. Nicola Doherty, un’assistente sociale di Londra di 26 anni, racconta che il suo compagno, Richard Moth, si sdraiò sopra di lei per proteggerla. “Sentivo i colpi sul suo corpo, uno dopo l’altro. I poliziotti si allungavano per raggiungere le parti del mio corpo che erano rimaste scoperte”. Nicola cercò di proteggersi la testa con il braccio. Le ruppero il polso.

Un gruppo di uomini e donne fu costretto a inginocchiarsi in un corridoio in modo che i poliziotti potessero colpirli più facilmente sulla testa e sulle spalle. Daniel Albrecht, 21 anni, studente di violoncello a Berlino, fu colpito così violentemente che dovettero operarlo per fermare l’emorragia cerebrale. Fuori dall’edificio, i poliziotti tenevano i manganelli al contrario, usando il manico ad angolo retto come un martello.

In questo crescendo di violenza ci furono momenti in cui i poliziotti scelsero l’umiliazione. Un agente si mise a gambe aperte davanti a una donna inginocchiata e ferita, si afferrò il pene e glielo avvicinò al viso. Poi si girò e fece la stessa cosa con Daniel Albrecht, che era inginocchiato lì accanto. Un altro poliziotto interruppe un pestaggio per prendere un coltello e tagliare i capelli alle vittime, tra cui Nicola Doherty. Un altro chiese a un gruppo di ragazzi se stavano bene e quando uno disse di no, partì un’altra scarica di botte.

Alcuni riuscirono a sfuggire alla violenza, almeno per un po’. Karl Boro scappò sul tetto, ma poi fece l’errore di rientrare nella scuola e subì lo stesso trattamento degli altri. Riportò gravi lesioni alle braccia e alle gambe, una frattura cranica e un’emorragia toracica. Jaraslav Engel, polacco, riuscì a uscire dalla Diaz arrampicandosi sulle impalcature, ma fu preso sulla strada da alcuni autisti della polizia che gli spaccarono la testa, lo scaraventarono per terra e rimasero a fumare mentre il suo sangue scorreva sull’asfalto.

Due studenti tedeschi, Lena Zuhlke, 24 anni, e il suo compagno Niels Martensen, furono tra gli ultimi a essere presi. Si erano nascosti in un armadio usato dagli addetti alle pulizie all’ultimo piano. Sentirono la polizia che si avvicinava sbattendo i manganelli sulle pareti delle scale. La porta dell’armadio venne aperta, Martensen fu trascinato fuori e picchiato da una decina di poliziotti schierati a semicerchio intorno a lui. Zuhlke attraversò di corsa il corridoio e si nascose nel bagno. I poliziotti la videro, la seguirono e la trascinarono fuori per i capelli. In corridoio, l’aggredirono come cani addosso a un coniglio. Fu colpita alla testa e poi presa a calci da ogni parte finché sentì collassare la gabbia toracica. La rimisero in piedi appoggiandola a una parete dove un poliziotto le dette una ginocchiata all’inguine mentre gli altri continuarono a prenderla a manganellate. Scivolò giù, ma la picchiarono ancora: “Sembrava che si divertissero, quando gridavo di dolore sembrava che godessero ancora di più”.

I poliziotti trovarono un estintore e spruzzarono la schiuma sulle ferite di Martensen. Zuhlke venne afferrata per i capelli e scaraventata per le scale a testa in giù. Alla fine, trascinarono la ragazza nell’ingresso del piano terra, dove avevano ammassato decine di prigionieri insanguinati e sporchi di escrementi. La gettarono sopra ad altre due persone. Non si muovevano e Zuhlke, tramortita, chiese se erano vivi. Nessuno rispose e lei rimase supina. Non muoveva più il braccio destro ma non riusciva a tenere fermi il braccio sinistro e le gambe, che si contraevano convulsamente. Il sangue le gocciolava dalle ferite alla testa. Un gruppo di poliziotti le passò accanto: uno dopo l’altro si sollevarono le bandane che gli coprivano il volto e le sputarono in faccia.

Perché dei rappresentanti della legge si comportarono con tanto disprezzo della legge? La risposta più semplice può essere quella che ben presto venne urlata dai manifestanti fuori dalla Diaz: “Bastardi!”. Ma stava succedendo qualcos’altro, qualcosa che emerse più chiaramente nei giorni seguenti.

Covell e decine di altre vittime dell’irruzione furono portati all’ospedale San Martino, dove i poliziotti camminavano su e giù per i corridoi, battendo il manganello sul palmo delle mani, ordinando ai feriti di non muoversi e di non guardare dalla finestra, lasciandoli ammanettati. Poi, senza che fossero stati medicati, li spedirono all’altro capo della città nel centro di detenzione di Bolzaneto, dove erano trattenute decine di altri manifestanti, presi alla Diaz e nei cortei.

I primi segnali che c’era qualcosa di più grave possono sembrare banali. Alcuni poliziotti avevano vecchie canzoni fasciste come suoneria del cellulare e parlavano con ammirazione di Mussolini e Pinochet. Diverse volte ordinarono ai prigionieri di gridare “Viva il duce” e usarono le minacce per costringerli a intonare canzoni fasciste: “Uno, due, tre. Viva Pinochet!”.

Genova, 22 luglio 2001. Un’aula della scuola Diaz. - Alberto Giuliani, Luzphoto

Le 222 persone detenute a Bolzaneto furono sottoposte a un trattamento che in seguito i pubblici ministeri hanno definito tortura. All’arrivo furono marchiati con dei segni di pennarello sulle guance e molti furono costretti a camminare tra due file di poliziotti che li bastonavano e li prendevano a calci. Una parte dei prigionieri fu trasferita in celle che contenevano fino a 30 persone. Qui furono costretti a restare fermi in piedi davanti al muro, con le braccia in alto e le gambe divaricate. Chi non riusciva a mantenere questa posizione veniva insultato, schiaffeggiato e picchiato. Mohammed Tabach, che ha una gamba artificiale e non riusciva a sopportare la fatica della posizione, crollò. Fu ricompensato con due spruzzate di spray al pepe e, più tardi, un pestaggio particolarmente feroce.

Norman Blair ricorda che mentre era in piedi nella posizione che gli avevano ordinato una guardia gli chiese: “Chi è lo stato?”. “La persona davanti a me aveva risposto ‘Polizei’, così detti la stessa risposta. Avevo paura che mi pestassero”.

Stefan Bauer osò dare un’altra risposta: quando una guardia che parlava tedesco gli chiese di dove era, rispose che veniva dall’Unione europea e aveva il diritto di andare dove voleva. Lo trascinarono fuori, lo riempirono di botte e di spray al pepe sulla faccia, lo spogliarono e lo misero sotto una doccia fredda. I suoi vestiti furono portati via e dovette tornare nella cella gelida con un camice d’ospedale.

Tremanti sui pavimenti di marmo delle celle, i detenuti ebbero solo qualche coperta, furono tenuti svegli senza mangiare e gli venne negato il diritto di telefonare e a vedere un avvocato. Sentivano pianti e urla dalle altre celle.

Uomini e donne con i capelli rasta vennero brutalmente rasati. Marco Bistacchia fu portato in un ufficio, denudato, costretto a mettersi a quattro zampe e ad abbaiare. Poi gli ordinarono di gridare “Viva la polizia italiana!”. Singhiozzava troppo per ubbidire. Un poliziotto anonimo ha dichiarato al quotidiano La Repubblica di aver visto dei colleghi che urinavano sui prigionieri e li picchiavano perché si rifiutavano di cantareFaccetta nera.
Ester Percivati, una ragazza turca, ricorda che le guardie la chiamarono puttana mentre andava al bagno, dove una poliziotta le ficcò la testa nel water e un suo collega maschio le urlò: “Bel culo! Ti piacerebbe che ci infilassi dentro il manganello?”. Alcune donne hanno riferito di minacce di stupro, anale e vaginale.

Perfino l’infermeria era pericolosa. Richard Moth, che aveva difeso con il suo corpo la compagna, era coperto di tagli e lividi. Gli misero dei punti in testa e sulle gambe senza anestesia. “Fu un’esperienza molto dolorosa e traumatica. Dovevano tenermi fermo con la forza”, ricorda. Tra le persone condannate il 14 luglio ci sono anche alcuni medici della prigione.

Tutti hanno dichiarato che non fu un tentativo di costringere i detenuti a confessare, ma solo un esercizio di terrore. E funzionò. Nelle loro testimonianze, i prigionieri hanno descritto la sensazione d’impotenza, di essere tagliati fuori dal mondo in un luogo senza legge e senza regole. La polizia costrinse i prigionieri a firmare delle dichiarazioni. Un francese, David Larroquelle, ebbe tre costole rotte perché non voleva firmare. Anche Percivati si rifiutò: gli sbatterono la faccia contro la parete dell’ufficio, rompendole gli occhiali e facendole sanguinare il naso.

All’esterno arrivò una versione dei fatti molto distorta. Il giorno dopo il pestaggio Covell riprese conoscenza all’ospedale e si accorse che una donna gli stava scuotendo la spalla. Pensò che fosse dell’ambasciata inglese, poi quando l’uomo che era con lei cominciò a scattare foto si rese conto che era una giornalista. Il giorno dopo il Daily Mail pubblicò in prima pagina una storia inventata di sana pianta secondo cui Covell aveva contribuito a pianificare gli scontri (ci sono voluti quattro anni perché il Mail si scusasse e risarcisse Covell per aver violato la sua privacy).

Mentre alcuni cittadini britannici venivano pestati e trattenuti illegalmente, i portavoce del primo ministro Tony Blair dichiararono: “La polizia italiana doveva fare un lavoro difficile. Il premier ritiene che lo abbia svolto”.

Le forze dell’ordine italiane raccontarono ai mezzi d’informazione una serie di menzogne. Perfino mentre i corpi insanguinati venivano trasportati fuori dalla Diaz in barella, i poliziotti raccontavano ai giornali che le ambulanze allineate nella strada non avevano nulla a che fare con l’incursione, che le ferite dei ragazzi erano precedenti all’incursione, e che l’edificio era pieno di estremisti violenti che avevano attaccato gli agenti.

Il giorno dopo, le forze dell’ordine tennero una conferenza stampa in cui annunciarono che tutte le persone presenti nell’edificio sarebbero state accusate di resistenza aggravata e associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio. Alla fine, i tribunali italiani hanno respinto tutti i capi di accusa contro ogni singolo imputato, Covell compreso. I tentativi della polizia d’incriminarlo per una serie di reati gravissimi sono stati definiti “grotteschi” dal pubblico ministero Enrico Zucca.

Nella stessa conferenza stampa, furono esibite quelle che la polizia descrisse come armi: piedi di porco, martelli e chiodi che gli stessi agenti avevano preso in un cantiere accanto alla scuola, strutture in alluminio degli zaini, 17 macchine fotografiche, 13 paia di occhialini da nuoto, 10 coltellini e un flacone di lozione solare. Mostrarono anche due bombe molotov che, come ha concluso in seguito Zucca, erano state trovate in precedenza dalla polizia in un’altra zona della città e introdotte alla Diaz alla fine del blitz.

Queste bugie facevano parte di un più ampio tentativo di inquinare i fatti. La notte dell’incursione, un gruppo di 59 poliziotti entrò nell’edificio di fronte alla Diaz dove c’era la redazione di Indymedia e dove, soprattutto, un gruppo di avvocati stava raccogliendo le prove degli attacchi della polizia ai manifestanti. Gli agenti andarono nella stanza degli avvocati, li minacciarono, spaccarono i computer e sequestrarono i dischi rigidi. Portarono via tutto ciò che conteneva fotografie e filmati.

Poiché i magistrati rifiutavano di incriminare gli arrestati, la polizia riuscì a ottenere l’ordine di espellerli dal paese, con il divieto di tornare per cinque anni. In questo modo i testimoni furono allontanati dalla scena. In seguito i giudici hanno giudicato illegali tutti gli ordini di espulsione, così come i tentativi d’incriminazione.

Zucca ha lottato per anni contro le bugie e gli insabbiamenti. Nella memoria che accompagna la richiesta di rinvio a giudizio ha dichiarato che tutti i dirigenti coinvolti negavano di aver avuto un ruolo nella vicenda: “Neppure un funzionario ha ammesso di aver avuto un ruolo sostanziale di comando per qualsiasi aspetto dell’operazione”. Un alto funzionario ripreso in video sulla scena ha dichiarato che quella notte era fuori servizio ed era passato alla Diaz solo per accertarsi che i suoi uomini non fossero feriti. Le dichiarazioni della polizia cambiavano continuamente ed erano contraddittorie, e sono state platealmente smentite dalle prove fornite dalle vittime e da numerosi video. “Nessuno dei 150 poliziotti presenti all’operazione ha fornito informazioni precise su un singolo episodio”.

Senza Zucca, senza la determinazione dei magistrati italiani, senza l’intenso lavoro di Covell per trovare i filmati sull’incursione alla Diaz, la polizia avrebbe potuto sottrarsi alle sue responsabilità e ottenere false incriminazioni e pene detentive contro decine di vittime. Oltre al processo per i fatti di Bolzaneto, che si è appena concluso, altri 28 agenti e dirigenti della polizia sono sotto accusa per il loro ruolo nell’incursione alla Diaz. Eppure, la giustizia è stata compromessa.

Genova, 20 luglio 2001. La polizia carica davanti al cadavere di Carlo Giuliani. - Reuters/Contrasto

Nessun politico italiano è stato chiamato a rendere conto dell’accaduto, anche se c’è il forte sospetto che la polizia abbia agito come se qualcuno le avesse promesso l’impunità. Un ministro visitò Bolzaneto mentre i detenuti venivano picchiati e a quanto sembra non vide nulla, o almeno nulla che ritenesse di dover impedire. Secondo molti giornalisti, Gianfranco Fini – ex segretario del partito neofascista Msi e all’epoca vicepremier – si trovava nel quartier generale della polizia. Nessuno gli ha mai chiesto di spiegare quali ordini abbia dato.

Gran parte dei rappresentanti della legge coinvolti nelle vicende della scuola Diaz e di Bolzaneto – e sono centinaia – se l’è cavata senza sanzioni disciplinari e senza incriminazioni. Nessuno è stato sospeso, alcuni sono stati promossi. Nessuno dei funzionari processati per Bolzaneto è stato accusato di tortura: la legge italiana non prevede questo reato. Alcuni funzionari di polizia che all’inizio dovevano essere accusati per il blitz alla Diaz hanno evitato il processo perché Zucca non è riuscito a dimostrare che esisteva una catena di comando. Ancora oggi, il processo ai 28 funzionari incriminati è a rischio perché Silvio Berlusconi vorrebbe far approvare una legge per rinviare tutti i procedimenti giudiziari che riguardano fatti accaduti prima del giugno 2002. Nessuno è stato incriminato per le violenze inflitte a Covell. E come ha detto Massimo Pastore, uno degli avvocati delle vittime, “nessuno vuole ascoltare quello che questa storia ha da dire”.
È una storia di fascismo. Circolano molte voci che poliziotti, carabinieri e personale penitenziario appartenessero a gruppi fascisti, ma non ci sono le prove. Secondo Pastore, però, così si rischia di perdere di vista la questione principale: “Non si tratta solo di qualche fascista esaltato. È un comportamento di massa della polizia. Nessuno ha detto no. Questa è la cultura del fascismo”. La requisitoria di Zucca parla di “sospensione dello stato di diritto”.

Cinquantadue giorni dopo l’irruzione nella Diaz, diciannove uomini usarono degli aerei pieni di passeggeri per colpire al cuore le democrazie occidentali. Da quel momento, politici che non si definirebbero mai fascisti hanno autorizzato intercettazioni telefoniche a tappeto, controlli della posta elettronica, detenzioni senza processo, torture sistematiche sui detenuti e l’uccisione mirata di semplici sospetti, mentre la procedura dell’estradizione è stata sostituita dalla “consegna straordinaria” di prigionieri.

Questo non è il fascismo dei dittatori con gli stivali militari e la schiuma alla bocca. È il pragmatismo dei nuovi politici dall’aria simpatica. Ma il risultato appare molto simile. Genova ci dice che quando il potere si sente minacciato, lo stato di diritto può essere sospeso. Ovunque.

 

Il Cantico di Rita

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Due righe di presentazione

di Piero Murineddu

La voglia di metterci sopra qualche accordo di chitarra mi era nata dal primo momento che lessi questa dichiarazione d’amore di Rita Clemente – eccelsa testa pensante pugliese trasferitasi in terra piemontese dopo diversi anni d’insegnamento in giro per l’Italia – per la vita, nonostante i vari aspetti che non poche volte la rendono dura, molto dura,  invivibile addirittura per troppa parte dell’umanitá.

Tenutala ben custodita in uno dei cassetti dei tanti Desideri che ancora, grazie a Dio, caratterizzano lo scorrere dei miei giorni, la spinta per tirarla fuori mi é stata data da questo lungo periodo di pandemia virale, in cui un po’ tutti e seppur in diversa misura, ci siamo trovati di fronte alla fragilitá della vita stessa.

Per il lungo tempo d’inutilizzo, le sei corde dello strumento si erano allentate di molto e la polvere accumulatasi supplicava di essere rimossa.

Due giorni fa ho rotto ogni indugio. Ho chiesto all’armonica in RE se si sentiva di farmi compagnia, ho caricato la batteria della videocamera, mi son ben messo sotto gli occhi sempre mezzo accecati il testo che d’imparare a memoria il mio cervello non ne vuole proprio sapere,  eeeeee….via: finalmente la Cosa é fatta!

Del risultato tecnico non m’importa granché e la voce si vede che sta invecchiando insieme al corpo, ma quel che conta é che possa esprimere la mia gratitudine a Rita col suono di questi pochi accordi….

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Canto alla Vita

di Rita Clemente

Sia benedetta la terra
dove ho posato i miei passi

la luce con il suo dono
la notte con il suo sogno

Siano benedette le case
in cui mi son risvegliata

i cieli, le nubi e i lampi
che mi hanno stupita

i fiori le lucertole e i gatti
che mi hanno incantata

Siano benedette le musiche
e tutti i loro fremiti azzurri

Siano benedette le parole stampate
e i loro luminosi orizzonti

Siano benedetti i gesti d’amore
con le loro gemme felici

Sia benedetto il dolore
che mi ha aiutata a guarire

Sia benedetta la vita
e la sua traiettoria infinita

 

 

 

Andrea&Andrea

di Piero Murineddu

“Non mi dispiace per lui, mi dispiace per me. Come quando se ne andò don Gallo, mi sento un po’ più sola. Questi due Andrea, seppur in contesti e modalità differenti, hanno dato voce a molti dei miei pensieri, di quelli che io spesso non riuscivo a tradurre in parole. Ora siamo tutti un po’ più poveri e più soli, soprattutto perché non si vede all’orizzonte chi possa raccoglierne il testimone. Non vedo nessuno all’altezza. Forse questo significa che ci dobbiamo mettere in tanti”

Parole di spessore queste che l’amica piemontese Luciana scrisse come reazione ad un qualcosa che un anno fa, in occasione del ricordo dedicato ad Andrea Gallo e  Andrea Camilleri, pubblicai su feisbuk.

“Non vedo nessuno all’altezza. Forse questo significa che ci dobbiamo mettere in tanti”.

Avere un senso di vuoto per la mancanza di persone che hanno dato tanto alla Vita e questo “vuoto” poter essere colmato da ciascuno di noi che puó raccoglerne il testimone in termini di

Coraggio,

Libertá,

Forza interiore…

 

Qualitá, queste tre, solo per fare qualche esempio e che i due vegliardi hanno vissuto appieno sino all’ultimo respiro.

Il prete genovese nato il 18 luglio del ’28 e deceduto il 22 maggio 2013 dopo aver fatto disperare i cardinali alla Giuseppe Siri e fatto storcere il naso ai tanti cattolici benpensanti ma in fondo “sepolcri imbiancati”; lo scrittore nato il 6 settembre del ’25 a Porto Empedocle, Sicilia, e spirato il 19 luglio di un anno fa, dopo averci allietato e fatto pensare, scrivendo prevalentemente in “licatese”, col personaggio di Montalbano e quel simpatico imbranatone di Catarella e compagnia stipendiata dalla collettivita per “aiutarla”, spesso a suon di sganassoni ben assestati, a rispettare le leggi (embé, siamo fatti così siamo fatti…..).

Della loro vita sulla Rete c’é tantissimo, per cui chi vuole si accomodi pure.

Io mi sono arricchito con tre filmati.

Nel primo, purtroppo reso privato e oggi non visibile in Rete, Andrea prete, intervistato da quell’altro Andrea con due cosi così, Scanzi di cognome, accenna al gallopensiero riportando il suo parere sul Berlusca(zz) e a quando disse che l’avrebbe accolto volentieri nella sua comunitá a San Benedetto al Porto per aiutarlo a riprendere sembianze umane; alle speranze aperte (!) dal movimento del suo concittadino grilloparlanteanchetroppo; alla Chiesa, sua casa spesso con le porte chiuse e che Francesco ha iniziato se non a spalancare almeno a non tenere sprangate; a Formigoni lassemmupirdhì; all’omosessualitá, o meglio omotropia, in cui non vi é solo l’aspetto di due corpi che si uniscono carnalmente…..

Nel secondo video Camilleri parla di come, da italiani, abbiamo ridotto la nostra capacità umana di solidale accoglienza ai minimi storici. Da ascoltare con molta ma molta attenzione. Come con estremo rispetto é da seguire il terzo video – credo da copiare e incollare su google o dove si vuole – in cui ancora Andrea (giustamente Calogero perché siculo) Camilleri, stimolato dalle domande di Domenico Iannacone, parla di come la sua cecitá, incredibile ma verissimo, l’abbia aiutato a….Vedere meglio. Che cosa ce lo racconta lui.

E con questo, buona settimana che si apre ai miei contati lettori che neanche i denti in bocca a certi vecchi (cit. Guccini), con l’augurio di Luciana da Rivalta da Torino:

“Non vedo nessuno all’altezza (di don Gallo e Andrea Camilleri). Forse questo significa che ci dobbiamo mettere in tanti….” 

 

….. e non si tratta affatto di dover fare gli eroi!

 

 

 

https://www.raiplay.it/video/2020/07/Che-ci-faccio-qui-Camilleri-una-delle-ultime-interviste-vedere-oltre-502b03bb-2480-4170-93a5-75dbe3da8e76.html