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Il coraggio di dissentire, in Russia come ovunque

di Tomaso Montanari

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L’accusa di ‘putinismo’ rivolta a chiunque osi parlare di pace per l’Ucraina e la Russia segna, come un insopportabile riflesso pavloviano, il discorso pubblico occidentale, condizionando ormai azioni e reazioni. Così, appare paradossalmente difficile perfino dire l’ovvio: e cioè che l’immagine di Jorit (*) abbracciato a Putin (un artista abbracciato a un dittatore…) è riprovevole non certo per ‘lesa maestà atlantica’, ma perché è un imperdonabile schiaffo alla Russia che a Putin si ribella: l’unica alla quale dovrebbe andare la fraternità di chi, in Occidente, si schieri dalla parte dei popoli, e non dei governi. Della pace, e non della guerra.

A quella Russia è dedicato il prezioso, piccolo libro di Maria Chiara Franceschelli e Federico Varese (La Russia che si ribella. Repressione e opposizione nel paese di Putin, Altreconomia, 2024), costruito intorno a cinque testimonianze, e sostenuto da un accurato apparato documentario che offre numeri, nomi e date a chi chiede, con sufficienza colonialista, “perché i russi non si ribellano?”.

Nel 2023, 5.024 soldati russi sono stati processati per diserzione: i veri eroi di questa guerra. È, nota Franceschelli, «un record storico assoluto. Nel 2022 erano stati 1.001 casi, nel 2021 ‘solo’ 615». Dal 2022 al gennaio di quest’anno sono stati aperti procedimenti penali contro 1.082 dissenzienti politici, e nello stesso periodo 509 persone fisiche e organizzazioni sono state classificate come ‘agenti stranieri’: ecco chi dovremmo abbracciare pubblicamente.

Accanto a chi ha il coraggio di farsi arrestare e processare, molte persone praticano una quotidiana resistenza culturale e morale, secondo quella “teoria delle piccole cose” che non è del tutto ignota anche a noi occidentali, alle prese con una (ovviamente diversissima) crisi della democrazia e della rappresentanza politica.

Ogni tanto questo vasto dissenso russo emerge in azioni geniali e coraggiose, come quella dell’artista Aleksandra Skochilenko, «arrestata il 31 marzo 2022 a San Pietroburgo per aver sostituito i cartellini dei prezzi di un supermercato con bigliettini che denunciavano il massacro dell’esercito russo in Ucraina, e per questo condannata a sette anni di carcere».

Una protesta simboleggiata dalla scritta «No alla guerra» comparsa nel marzo 2022 sulla Neva ghiacciata, a San Pietroburgo: clamorosa, ma destinata per sua natura a perdersi nell’acqua (e comunque solo dopo essere stata, altrettanto clamorosamente, cancellata).

Le cinque figure scelte dagli autori sono esemplari, ed esemplarmente diverse: l’ottantenne LJUDMILA, sopravvissuta all’assedio di Leningrado e per questo intoccabile, ma indomita nella sua contestazione dell’uso strumentale e perverso che Putin fa della Seconda guerra mondiale e della vittoria sul nazismo;

padre IOANN, pope ortodosso scomunicato (proprio come Tolstoj), e ora rifugiato in Bulgaria, per aver osato predicare esplicitamente un vangelo di pace, peccato imperdonabile nella chiesa corrotta e serva del potere guidata dal patriarca Kirill;

GRIGORIJ, professore universitario di filosofia politica, elencato tra gli “agenti stranieri” e oggi espatriato a Princeton;

IVAN, attivista politico con una storia di arresti e torture, che dalla Germania continua a organizzare la resistenza attraverso Zona solidarnosti (Zona di solidarietà), un progetto che assiste i prigionieri politici arrestati per aver manifestato contro la guerra;

e infine KATIA, redattrice di Doxa, rivista universitaria della Higher School of Economics di Mosca, che aveva continuato a raccontare e ad alimentare il dissenso nonostante il progressivo tradimento dei vertici accademici, sempre più allineati con il Governo di Putin.

Storie tristemente accomunate, con una sola eccezione, dalla necessità dell’esilio: e che proprio per questo sono pienamente raccontabili. Ma che rinviano a tante altre ancora in corso all’interno della Russia, tra difficoltà e rischi immaginabili. Storie che dimostrano «che l’opposizione a un regime può assumere tante forme diverse.

Siamo abituati a pensare (e a parlare) in maniera superficiale, opponendo consenso e rivoluzione. Ragioniamo in termini di piazze, strade, rivolte, folle e masse. Senza dubbio, molti grandi cambiamenti nella Storia hanno avuto questo aspetto. D’altronde, limitarsi a questa prospettiva ci impedirebbe di cogliere un presente più complesso, in cui questo costrutto binario non trova spazio. Soprattutto, non renderebbe giustizia a un altro tipo di lotte, silenziose, sotterranee ma non meno importanti, che molti cittadini e cittadine intraprendono, nel loro piccolo, ogni giorno, sfidando regimi e violenze. Questo libro indaga ciò che intercorre fra consenso e rivoluzione, fra silenzio e rivolta».

Sono parole importanti, che devono far riflettere anche noi occidentali, incapaci di ribellarci a governi ben meno temibili che, tradendo le nostre costituzioni e i nostri veri valori, condannano violentemente chiunque si azzardi a parlare di negoziato, foss’anche il papa, e ci conducono verso un possibile armageddon nucleare. Sono gli stessi governanti che fino a ieri intrattenevano ottimi rapporti con Vladimir Putin, e che un domani potrebbero tranquillamente ricominciare ad averli.

«Il sangue degli abitanti dell’Ucraina macchierà non solo le mani dei governanti della Federazione Russa e dei soldati che eseguono i loro ordini. Esso macchierà le mani di chi tra noi approva questa guerra, o semplicemente rimane in silenzio»: così aveva detto padre Ioann nel sermone che l’ha costretto all’esilio. Vale anche per noi occidentali, che avanziamo come silenziosi sonnambuli verso una guerra mondiale.

(*) https://tg24.sky.it/cronaca/2024/03/07/jorit-chi-e

Se vis pacem para bellum

di Raffaele Crocco

Siamo tornati al “se vuoi la pace, prepara la guerra”. Sembrava un’idea superata, vecchia e un po’ fascista: è tornata di moda. A pronunciarla alla vigilia del vertice di marzo dell’Unione Europa è stato il Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. Nel Risiko mondiale fra “filoamericani” e “antagonisti”, l’Unione appare sempre più disperata e spaventata. La guerra in Ucraina è diventata il “motore del futuro” per l’Unione, che vuole trasformarsi in una macchina militare produttiva ed efficiente. La Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha incaricato l’ex Presidente finlandese, Sauli Niinisto, di redigere un rapporto su come migliorare la preparazione e la prontezza d’intervento della difesa dell’Ue. Non a caso, la Finlandia: Stato diventato simbolo delle nuove tensioni internazionali con Mosca, dopo l’adesione alla Nato. E la presidente ha rincarato la dose con una frase precisa: «E’ chiaro – ha detto – che non c’è più spazio per le illusioni: il Mondo è diventato più pericoloso e l’Ue si deve svegliare. Sappiamo che le ambizioni di Putin non si fermano all’Ucraina».

Così, mentre scocca il giorno 758 dall’invasione russa dell’Ucraina, la tensione del Risiko mondiale sale, con l’Europa che mette sul tavolo le proprie carte. Dopo le voci – ma forse non sono solo voci – e le ipotesi di soldati francesi e dell’Unione schierati sul campo di battaglia in Ucraina, arrivano le scelte per rafforzare le difese. La paura europea nasce, probabilmente, anche dal timore di una vittoria di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca, il prossimo novembre. Con il miliardario – ma lo è ancora? – alla presidenza degli Stati Uniti, lo spettro di un indebolimento del ruolo statunitense nella difesa europea assumerebbe contorni di verità e realtà. Quindi, in qualche modo e confusamente, l’Unione si prepara a fare da sé, sfidando apertamente Mosca.

È il segno del caos planetario. Mentre sul fronte militare poco accade e il logoramento dell’esercito ucraino continua, Kiev si muove sul fronte politico. Dallo staff del presidente Zelensky filtra la speranza che la Cina possa partecipare al vertice per la pace in Ucraina, in programma in Svizzera. Vertice che nasce comunque monco: non sarà, infatti, invitata la Russia. Zelensky, per altro, è entrato mani e piedi nella questione del Risiko planetario, spiegando che a suo modo di vedere la leadership degli Stati Uniti dovrebbe «rimanere salda nella protezione dell’ordine internazionale» oggi più che mai. Ha aggiunto che Putin deve perdere la guerra: «È una questione di vita o di morte per il Mondo democratico».

Un’opinione che, evidentemente, non fa arretrare Mosca. Secondo gli analisti internazionali, Putin sta effettivamente lavorando ad un’alleanza sempre più forte con Cina, Iran e Corea del Nord. L’obiettivo è creare una coalizione che sia in grado di controbilanciare quella dell’Occidente, anche sul piano economico. E nell’alleanza entreranno anche molti altri “antagonisti”, pronti a contrastare i “filomaericani”. La partita è sempre più planetaria: il Presidente iraniano Ebrahim Raisi ha avuto contatti con Putin per rilanciare la cooperazione bilaterale e trovare strumenti per stabilizzare il Caucaso meridionale: parliamo di Armenia e Azerbaigian.

Più distante, a Gaza, la strage dei Palestinesi continua. Il diritto umanitario è sospeso, con Israele che continua a bloccare gli aiuti – cibo e medicine – alla popolazione palestinese ammassata in pochissimi chilometri quadrati. A peggiorare il quadro, c’è l’annuncio fatto da Netanyahu di avere dato l’ok ai piani per attaccare Rafah, a sud della Striscia. Li sono ammassate più di un milione e mezzo di persone, che si troverebbero nel mezzo dell’attacco, con nessuna via di fuga sicura. Washington sta cercando di convincere il Premier israeliano a non attaccare e a garantire la sicurezza alimentare ai palestinesi. Il Governo israeliano appare irremovibile e gli osservatori delle Nazioni Unite parlano in modo sempre più esplicito di volontà di “pulizia etnica” da parte di Tel Aviv nei confronti dei palestinesi.

Il dramma si misura, ad oggi, in più di 32mila morti – almeno un terzo sono bambini – e quasi 80mila feriti. Una macelleria che Israele non ha intenzione di fermare. Le conseguenze arrivano sino al mar Rosso. Gli attacchi degli Houthi yemeniti alle navi europee e filoisraeliane continuano, ma si è aggiunto un elemento nuovo. Un missile Houthi a lungo raggio in settimana è caduto vicino alla città israeliana di Eilat, sul Mar Rosso. Il missile è arrivato senza essere avvistato, tracciato e distrutto dalle difese aeree di Tel Aviv o delle tante navi statunitensi, inglesi ed europee delle coalizioni anti-houthi presenti nell’area. Due gli elementi di inquietudine. Il primo è che potrebbe trattarsi di un nuovo modello di missile ipersonico, in grado di superare indenne le difese aeree avversarie. Il secondo motivo è che è stata raggiunta e colpita una città israeliana. La guerra si allarga, insomma. La grande partita del Risiko planetario muove sempre più pedine.

* da atlanteguerre.it

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Tonino Mario Rubattu

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di Piero Murineddu

Instancabile studioso e ricercatore il nostro TONINO MARIO RUBATTU, nato in un paesino nel sud dell’isola greca di Rodi, Lindos, italianizzato Lindo, dove il padre faceva il finanziere.

Grazie all’amico comune Giuseppe, nel periodo in cui era costretto a casa avevo avuto modo di fargli diverse visite, ognuna delle quali arricchente per il piacevole dialogare, dovuto alla sua vasta cultura. In una di queste occasioni, mi aveva fatto dono di una precedente versione del dizionario sardo – italiano multi volume che aveva pubblicato, segno della reciproca stima e simpatia che erano nate tra noi.

L’ incarico di sindaco per otto anni se l’era guadagnato per la piena fiducia che i sennoresi avevano riposto in lui. In questo avevano contribuito anche quei contatti pre elettorali che aveva con la gente in diverse zone del paese, parlando sempre in sardo e stimolando confronto su varie problematiche riguardanti la comunità che desiderava guidare amministrando la Cosa Pubblica.

Eccelso studioso della lingua sarda, in tutte le variazioni territoriali dell’isola. Ricordo che quando avevo qualche dubbio nello scrivere qualche termine nell’idioma locale sussincu, ambito in cui mi ritrovo purtroppo ad avere molte lacune, il consultare il suo sito mi era di grande aiuto.

Da questo sito, nato nel 2013 ad opera del suo amico di Romana Franco Piga ed oggi disattivo, riporto parte di quanto scrisse nella pagina introduttiva. È bilingue, ma per omaggiare il suo lungo ed instancabile lavoro di ricerca, scelgo la versione in sardo.

A seguire un suo testo presente nel volume “In biddas”, raccolta di poesie di autori sennoresi pubblicato nel 1994 a cura dell’amministrazione comunale guidata da Cicitu Morittu, in cui fa un excursus storico del suo paese. A questo proposito, appassionato creatore lui stesso di componimenti poetici, a lungo è stato membro della giuria  Premio di Poesia “Romangia”.

In conclusione uno dei tanti componimenti dedicati alla sua e nostra isola che tanto ha amato, con l’invito a chi vi capita, per poco o per molto non importa, di farlo col massimo rispetto, sforzandosi anche di guardare oltre i soliti luoghi comuni e non fermandosi solo all’apprezzamento dei paesaggi, siano essi marini che dell’entroterra.

Buona lettura

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Lindos, sormontato dall’acropoli e che richiama la nostra Castelsardo, paesino greco in cui era nato Tonino

DELLA MIA VITA E DELLA MIA PASSIONE

di Antoninu Rubattu

A mie, chi puru ch’apo abbertu sos ojos in una ‘iddaredda de sa Grècia, in Lindos in s’ìsula de Rodi, est capitada sa fortuna manna de aer àpidu unu babbu e una mama “sardos”, fieros de l’èssere, a tales de no aer mai sessadu de impreare sa limba insoro, s’est chi l’ana semper faeddada tra issos, forsis finas pro appasigare su dolore de ch’èssere disterrados fora ‘e domo pro chistiones de trabàgliu. Babbu fit finantzieri e in su 1938, annu de sa nàschida mia, fit servende sa pàtria in su Dodecannesu “italianu”, ue che fit bistadu imbiadu.

E dae Lindos, poi de calchi annu, nos ch’agattemis trasferidos a Bagnara, in Calàbria, ue b’istemis finas a sessare de sa 2^ gherra mundiale e ue frecuentei sas iscolas elementares. E sicomente babbu e mama ant sighidu che sempre a allegare in sardu, galu deo dae minoreddu apo suttu su limbazu insoro, chi apo mantesu e pratigadu finas a nde recuire in Sardigna.

Ma in sa terra ‘e sos mannos mios, sighinde in sas iscolas, apo dévidu istudiare e faeddare un’àtera limba, s’italianu, chi apo atzettadu, che tottu, comente una limba “sorre” de sa mea, e chi cun su tempus est finas diventada pius importante e pius appretziada.

E s’est beru chi custa segunda sorre m’at finas giuttu, prima, a unu diploma de mastru ‘e ‘iscola e, pustis, a una làurea in “lettere moderne” e a pratigare sa passione manna chi tenia pro sa poesia e sa litteradura e a su comintzu de s’attividade litterària mia, e finas a meressire maicantos prètzios e riconnoschimentos, beru est però chi mai apo olvidadu o minispretziadu sa limba “mia” prima, sa chi m’at formadu comente ómine de una “terra” ricca de valores umanos, morales, tziviles e sotziales pròprios, chi non sunt mezus de cuddos de àteras zenias, ma nemmancu peus.

Istesit gai chi, intendéndemi prima “sardu” e poi “italianu”, apo leadu s’àtera detzisione de mi dedicare a fàghere calchi cosa chi potterat servire a fagher torrare sa limba nostra a sas làccanas de “connottu”, in sa cumbintzione chi s’identidade de onzunu e de donzi pópulu no est cosa de pagu contu, ma s’indicu primu e pius ladinu de s’èssere “ómines inter ómines”, diversos eppuru cheppare in su consórtziu manu.

Apo comintzadu degai a iscrìer poesias, a imprentare lìbaros, a fàghere “bortaduras in limba” de autores de sa litteradura mondiale, cales Omero (Odissea e Iliade), Federicu Garçia Lorca (Su teatru sou: Bodas de sangre, Yerma, In casa de Bernarda Alba) e maicantas àteras cosigheddas.

A sos primos annos Settanta, finas meravizadu dae sa ricchesa de abberu manna de sa limba sarda, in cadaunu de sos limbazos nostros, cunsiderende chi sos Vocabulàrios chi aimis fint tottu “de parte”, ossiat o logudoresos o campidanesos, nugoresos o tataresos o Gadduresos, mi so cumbintu chi forsis baliat sa pena de chircare de los pònnere tottu a pare, ca sa limba est “una” (ammentàmulu!).

Mi so finas abbizadu chi mai niune aiat pensadu a comente si det iscrìere custa limba, e chi, non connoschende -sa zente- sas régulas de s’iscrittura, si regulaiat iscriende a sigundu de comente pronuntziaìat.sas peràulas.

Aerru mannu! -custu- ca non b’at “limba” in su mundu intreu chi si iscriat comente si faèddat, ca una cosa est su “fonema” (su sonu de una paràula), un’àtera su “grafema” (comente cussa paràula andat iscritta).

Aende deo fattu pro ùndighi annos su direttore de S’Ischiglia, s’ùnica rivista de poesia e Litteradura Sarda, de su 1900, animada e ghiada dae “tiu” Anzeleddu Dettori, e aende toccadu cun manu de comente onzi poeta o iscrittore iscrierat sa matessi paràula a manera pròpria (sosthe, soste, solte, solthe, sorte, sorthe, sorti, sorthi, solti), meravizadu chi mai niune in Sardigna aeret pensadu a “isdighire” custa “chistione”, forsi ca su Sardu serviat solu pro lu faeddare e mai pro essere iscrittu, meravizadu finas chi medas istudiosos e professores de limbìstiga sarda de sas Universidades de Casteddu e de Tàtari no aerent mancu pensadu a fàghere calchi cosa, apo detzisu de mi nd’impignare e, sighinde iscièntzia e bonu sensu, apo cumintzadu a ammanizare su DULS (1991), Dizionàriu Universale de sa Limba Sarda, cun 200.000 vocàbulos, tottu iscrittos a sa matessi manera, in sas chimbe faeddadas sardas (logudoresu, nugoresu, campidanesu, tataresu e gadduresu) e, po andare a passos cun sos tempos noos, aggiunghendebei finas : inglesu, frantzesu, Ispagnolu e tedescu..

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Tonino alla presentazione del dizionario in due volumi distribuito alle famiglie di Sennori

Breve sintesi della storia di Sennori

di Tonino Mario Rubattu

Il territorio di Sennori è cosparso di testimonianze prenuragiche e nuragiche. La Domus de janas dell’orto del Beneficio Parrocchiale, impreziosita da tre ancora nitide protomi taurine i resti, purtroppo malandati, dei nuraghi di Sa Pattada, Iscala de Todde, San Biagio e Chercos, la Tomba dei giganti di Oridda, come pure la vicinanza al recinto megalitico di Monte Cau, “forse fortezza e tempio ad un tempo istesso”, in cui sono stati rinvenuti numerosi reperti di varie epoche ora conservati nei Museo “Sanna” di Sassari, attestano inequivocabilmente la presenza di antichi insediamenti umani.

Alla conquista romana della Sardegna (238 a.C.), Sennori costituito in villa o Civitas, sotto la giurisdizione di un praefectus, che risiedeva certamente a Sassari, legherà il suo sviluppo e buona parte della sua storia futura al vicino e più importante centro di Sorso e a quella dei villaggi della zona (Gelidhon, Taniga, Gennos, Gerito, Uruspa, ecc.).

Fino all’età giudicale non si hanno notizie certe; verso il 1020 risulta aggregato alla Curatoria della Romandia o Romangia del Giudicato di Torres e, dopo il 1300, caduta la repubblica sassarese, andò a far parte di una delle tante baronie costituite dagli aragonesi, denominata “Encontrada de Romangia”, sotto la giurisdizione della famiglia De Senay Pilo Y Castelvì, alla quale nel 1430 subentrò quella di Gonario Gambella.

Al successore di Gonario, Antonello Gambella, e alla maggiore delle sue tre figlie, Rosa, è legata, seppure in maniera mai abbastanza chiarita, la costruzione del Palazzo di Rosa Gambella o “Palattu ‘ezzu” , tuttora esistente ed in discreto stato di conservazione.

Pare che il Palazzo non sia stato mai abitato dall’infelice baronessa, essendo questa divenuta erede del padre e avendo dovuto dimorare, “causa regni”, nel capoluogo dell’Encontrada, cioè a Sorso, se non addirittura a Sassari.

La storia, in buona parte romanzata, dalla nobile signora di Romangia è stata nel secolo scorso ripresa da Enrico Costa nel suo “Rosa Gambella”. Lo scrittore sassarese addebita al secondo marito di Rosa, il vicerè spagnolo Ximen Perez Escriva de Romani, uomo avido e dissoluto, la morte del primo marito della baronessa, il capitano Angelo Marongio, del figlio di questi e della stessa Rosa, al fine di impadronirsi delle proprietà dei Gambella. Sta di fatto che Ximen Perez ereditò comunque tali possedimenti e che, alla fine del suo mandato in Sardegna, vendette l’Encontrada a tale Antonio Cotona, ricco mercante.

Dopo varie peripezie, nel 1723, la Romangia pervenne alla famiglia degli Amat, marchesi di San Filippo, che la tennero fino alla fine del feudalesimo in Sardegna.

Sotto la loro denominazione va ricordata la rivolta del 1795, anno in cui i vassalli di Sorso e di Sennori, esasperati dalla politica fiscale del feudatario, dopo essersi rifiutati di versare i diritti feudali ed aver saccheggiato il palazzo baronale, cacciarono il barone Vincenzo Amat, il quale “veniva avviato sulla strada per Sassari a caval di un somaro”.

Immediata e spietata fu la reazione del Governatore di Sassari, cavalier Meli, che guidò di persona 2.000 cavalieri e una compagnia di dragoni. Sorso si arrese subito, nel timore di essere messa a ferro e a fuoco; Sennori tentò di resistere, ma dovette alla fine arrendersi e subire l’occupazione e il saccheggio.

Da segnalare ancora l’ adesione di Sennori al tentativo antifeudale di Giovanni Maria Angioy. Allorquando l’ex Alternos, irrimediabilmente sconfitto, si dirigeva in fuga verso Sassari, scriveva da Santu Lussurgiu al sorsese Quirico Marongiu, capo dei rivoltosi locali invitandolo a “radunare tutta quella gente che potrà unitamente ai sennoresi ed altri”, per un ultimo tentativo di riscossa.

AI suo arrivo a Sassari, Sennoresi e Sorsesi erano ad attenderlo con le armi in pugno e ad acclamarlo.

La sconfitta dell’ Angioy e della sua causa decretò la restaurazione della prepotenza feudale, prepotenza che doveva finire solo nel 1839.

Negli ultimi anni dell’ 800, sull’esempio trascinatore di quanto seppe fare “un sennorese trapiantato a Sorso”, Antonio Catta, anche Sennori fu scosso da fremiti socialisti, a tendenza repubblicana, il cui vessillo espressivo e organo propulsore fu quella Società Operaia denominata “Popolo Sovrano”, vera erede del pensiero angioyano.

FRÌMMATI, FURISTERI

di Tonino Mario Rubattu

S’ides su nuraghe
in gas alturas
chi dae sempre.
gherrat con su ‘ento,
frimmati, furisteri, unu momentu
ca che ses dadu in sa Terra mia.

Si de barveghes
bélidas t’arrivin,
de su pastore
su tristu lamentu,
s’andare tou,faghe pius lentu
ca sunt feridas de sa Terra mia.

S’àrvures notas
chena fruttu e fozzas,
pàsculos siccos
chena nutrimentu,
s’oju tou faghe pius attentu:
sun sas piaes de sa Terra mia.

Si solitariu
peri sas montagnas
su bandidu incontras
con s’armamentu,
culpa es’ totta de s’isolamentu
che da mill’annos patit Terra mia.

FERMATI, FORESTIERO

Se vedi il nuraghe
sulle alture
che da sempre
lotta con il vento,
fermati, forestiero, per un momento
ché sei capitato nella mia Terra.

Se ti arrivano
belati di pecore
e il triste lamento
del pastore,
rallenta il passo
ché sono le ferite della mia Terra.

Se noti alberi
senza frutto e foglie,
pascoli secchi
senza nutrimento,
aguzza lo sguardo:
sono le piaghe della mia Terra.

Se solitario
per le montagne
incontri il bandito armato,
è tutta colpa dell’isolamento
che da mille anni soffre la mia Terra.

Sempre grati e onorati per avere avuto come nostro conterraneo e amico una bella persona come Antoninu

 

I dati della siora Giorgia? Vediamo…

di Chiara Brusini (Il FQ)

Non solo le iperboli già utilizzate una settimana fa per sostenere che il suo governo ha fatto una lotta all’evasione senza quartiere, anche se sui 24,7 miliardi recuperati ben 5 derivano da rottamazioni e “paci fiscali” che nulla dicono sulla reale capacità di contrastare il nero.

Intervistata ad Agorà su Rai3, Giorgia Meloni ha elencato una lunga serie di presunti successi dell’esecutivo citando però dati incompleti o esagerati. A partire dall’inesistente aumento del reddito reale delle famiglie, passando per un sontuoso aumento dei salari che fa a pugni con l’esperienza dei lavoratori dipendenti ma pure con i dati ufficiali.

IL REDDITO MEDIO REALE NON È AUMENTATO. “L’Ocse dice che in Italia il reddito reale medio delle famiglie nel 2023 è aumentato dell’1,4% quando nella media dei paesi Ocse diminuiva dello 0,2%”, ha detto la premier. In realtà quel dato si riferisce solo al terzo trimestre dello scorso anno. Basta prendere il grafico e la serie storica dell’indice del reddito disponibile pro capite per scoprire che quello italiano nell’ultima rilevazione era a 93,18 punti contro i 93,43 del terzo trimestre 2022: insomma, rispetto al periodo precedente l’arrivo di Meloni a Chigi è diminuito. A differenza di quanto avvenuto in Francia e Spagna. Un calo si è invece registrato in Germania, che come è noto lo scorso anno è andata in recessione.

I SALARI ORARI? Molto sotto il livello pre Covid – “Sempre l’Ocse ci dice che nel 2023 i salari sono aumentati tra le tre e le cinque volte rispetto a quando c’erano i governi precedenti”, afferma Meloni. Non è chiaro a quali dati si riferisca. L’organizzazione parigina, sulla base dei dati Istat, ha rilevato un aumento delle retribuzioni orarie nella manifattura (l’indice nel terzo trimestre ’23 era a 111.8 contro i 106.8 del quarto trimestre 2022) legato al rinnovo di alcuni contratti, quindi senza alcun collegamento con decisioni governative. Ma se si prende come riferimento la fine del 2019, pre Covid e guerra, si scopre che il livello generale dei salari reali in Italia è crollato di quasi il 10%: la performance peggiore di tutta l’area Ocse.

SUI POVERI una mezza verità. “L’Istat ci dice che è diminuito il rischio povertà“, ha continuato la leader di FdI. Questo è vero, stando a un rapporto sul 2023: merito unicamente delle modifiche all’assegno unico e universale per i figli a carico, che è stato adeguato al costo della vita e aumentato per i nuclei più numerosi e per quelli con figli sotto l’anno di età. Ma dal 2024 il governo ha abolito il reddito di cittadinanza, sostituito con due misure non universali che secondo la Banca d’Italia escludono parte importante della platea prima raggiunta dall’aiuto pubblico. Probabile quindi che le future analisi evidenzieranno per quest’anno un aumento dell’indigenza.

SUL PNRR c’è poco da festeggiare – “Siamo il primo paese europeo nell’attuazione del Pnrr“. Meloni rispolvera le esultanze espresse da tutto il centrodestra quando la Commissione Ue ha presentato la revisione intermedia della Recovery and resilience facility, cuore del Next generation Eu. Da cui emergeva che l’Italia è sul podio per numero di milestone e target raggiunti (178 su 527). Ma c’è poco da festeggiare: semplicemente, essendo di gran lunga il Paese destinatario di più risorse, il nostro piano aveva fin dall’inizio molti più obiettivi. In più i primi risultati erano più facili da raggiungere perché si trattava soprattutto di approvare decreti e riforme, mentre ora stanno diventando prevalenti i target quantitativi. Ed è lì tutto si complica, come dimostra l’ultima relazione sull’attuazione.

SULL’INFLAZIONE dimentica il passato. “Abbiamo l’inflazione più bassa tra i paesi G7″. Oggi quel che dice Meloni è vero, ma l’indice dei prezzi al consumo ha solo ripiegato dopo che nell’autunno-inverno 2022-23 è stato in Italia ben più alto che negli altri grandi Paesi industrializzati a causa del peso dell’import di energia. E occorre ricordare che i continui aumenti su base mensile, anche se contenuti, si cumulano con le fiammate del post invasione russa dell’Ucraina mettendo a durissima prova la possibilità di molte famiglie di arrivare a fine mese. Il calo degli ultimi mesi peraltro non dipende in alcun modo dalle misure governative, che anzi sono state fallimentari: il carrello tricolore non è servito a nulla visto che i prezzi di quei beni sono addirittura aumentati.

LA CRESCITA? Sotto quella di Francia e Spagna. “L’Italia lo scorso anno è cresciuta più della media europea, una cosa che non si vedeva da moltissimo tempo”. La capa del governo non rinuncia a sottolineare le performance del pil, nonostante il +0,7% registrato nel 2023 sia tutt’altro che entusiasmante. Se è vero che la media Ue è stata inferiore, la Francia ci ha superati mettendo a segno un +0,9% e la Spagna ci ha più volte doppiati chiudendo a +2,5%. “Vuol dire che le nostre politiche danno risultati migliori di quelle che abbiamo visto prima? Probabilmente sì”, la chiosa della presidente del Consiglio.

IL FONDO SANITARIO è da record, ma c’è stata la maxi inflazione. “Non accetto, come ho sentito, la leader del Pd dire che la sanità è bellissima e che si paga con le tasse, sono d’accordo ma le lezioni anche no, perché è stato questo governo a portare il fondo sanitario al suo massimo storico“. Al netto dell’avversione della premier per le tasse, è vero che con i 3,3 miliardi in più previsti in manovra il Fsn ha raggiunto quest’anno un valore assoluto di 134,1 miliardi, il valore più alto finora, ma in passato altri governi avevano fatto stanziamenti maggiori. Inoltre, se si tiene conto della fortissima inflazione si scopre che i maggiori fondi basteranno a malapena a coprire l’aumento dei costi. E dentro deve starci anche il rinnovo dei contratti del comparto sanitario.

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Auguri, Celestanna

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di Piero Murineddu

Di Celestanna, figlia della coppia sassarese trasferitasi a Sorso per lavoro Teresa Loru, maestra elementare, e Edmondo Lumbau, figura storica tra i medici di Sorso, non si parla molto nel Diario familiare scritto dal figlio Mauro e pubblicato a puntate in questo spazio, salvo i tantissimi momenti in cui la si sorprende, vi si legge, “scompisciarsi dalle risate” che certi atteggiamenti del marito Piero le provocavano. Quattro anni prima del decesso della donna, che ogni qualvolta l’andavo a visitare mi accoglieva col massimo della cordialità di cui era capace, avevo realizzato alcune videointerviste in cui, oltre conoscere altri aspetti della famiglia, si coglie anche l’interesse culturale avuto da questa energica signora, sia per la letteratura e sia per la musica.

Di queste ripropongo il video in cui recita alcune poesie di autori che ha amato.

Oggi, 21 marzo, Giornata in memoria delle vittime di mafia

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DON CIOTTI: “BASTA CON LE POLITICHE CRIMINOGENE !”

di Piero Murineddu

Continuando l’ascolto di persone che aiutano a migliorare la vita collettiva e inevitabilmente quella personale, ieri è stato il turno di Luigi Ciotti, il grande prete a cui Michele Pellegrino,il cardinale con la croce di legno o fatta di corda da ragazzi più o meno sbandati, dopo l’ordinazione, affidò la parrocchia della Strada. Ed è proprio del rapporto filiale che lo legava all’allora cardinale di Torino che Luigi si sofferma nell’ evento che propongo svoltosi nell’ottobre 2022 e che lo vide ospite a Romena, la Fraternità toscana guidata da luigi Verdi.

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Oggi Giornata in memoria delle vittime di mafia. Da sempre prete Ciotti è in prima linea per combatterne le diverse sfaccettature e diramazioni nella società, per cui ascoltarlo ieri sera non è stato casuale, ma voluto.

Un altissimo intervento aperto e chiuso con l’augurio fatto a ciascuno della Solitudine, che è altra cosa dell’isolamento. Solitudine cercata per conoscere e capire l’essenza di noi stessi, per capire cosa realmente vogliamo dalla vita e per non farci travolgere da quanta ci accade intorno.

Nelle sue preziose e accorate parole, non manca di rilevare il grande rispetto per la Sacralità delle Istituzioni, ma nel contempo, insieme al dovere della FERMA DENUNCIA di molti che la rappresentano indegnamente, anche il richiamo fatto a ciascuno del necessario dovere di essere una spina al fianco se chi ha un incarico pubblico che condiziona la vita altrui non opera realmente per il Bene di tutti, di tutti,  di

TU -TTI !

 

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Ancora quel misero ministruncolo che purtroppo ci ritroviamo tra i piedi non aveva manifestato il peggio del suo cervello definendo il nostro amico prete “un signore in tonaca” volgare, ignorante e superficiale perché si era permesso di dire che il Ponte sullo Stretto più che unire due coste unirà due cosche. Un SIGNORE si don Ciotti, di cui la piccolezza mentale di costui non è degno neanche di pronunciarne il nome. Purissima verità quella di Luigi, naturalmente per chi è in grado di capire, possibilità esclusa per questo rozzo individuo.

Fai lo sforzo di dimenticarti dell’esistenza di questo miserello e ascolta con grande attenzione questo gigante della società civile.

Un invito a ogni amico e amica. Presta particolare attenzione all’ultimo scorcio della registrazione, quando Luigi ci augura di ….morire, col suo usuale modo provocatorio che ha di introdurre i grandi concetti. Non anticipo nulla. Lo ripeto: fai moooolta attenzione a quanto dice…

 

Nel link seguente, l’elenco delle persone assassinate dalla mafia, curato da Libera

https://vivi.libera.it/it-ricerca_nomi

E di ga razza sei, me figlio’ ?

Introduzione

di Piero Murineddu

 

Rita Spanu oltre 40 anni fa decise di lasciare la sua Sorso per raggiungere altri lidi. E in questo caso, proprio di “lido” si tratta, in quanto vive a Soverato, una cittadina di poco meno 9000 abitanti sulla costa orientale calabrese, ad una trentina di chilometri da Catanzaro.

Una ragazza che ricordo dai modi gentili, discreti ed estremamente rispettosi, caratteristiche che oggi, raggiunta l’età del “ripensamento”, avrà sicuramente conservato.

Rita, accogliendo il mio invito racconta alcuni suoi ricordi degli anni trascorsi a Sossu, esprimendo sul finale le sue impressioni sulla Sorso attuale.

Rita continua a definirsi sussinca e “billellariana” della prima ora, ma da quello che qualche amico comune mi conferma, gia dai tempi della giovinezza aveva dei modi che si distinguevano dagli aspetti immancabilmente poco positivi che ogni comunità possiede, e il parlare con lieve accento “continentale” evidenziava questa sua piacevole “diversità”.

Nonostante ciò, o forse proprio per questo, dovendo percorrere da piccola il centro storico, dove vi abitavano probabilmente le famiglie meno abbienti e forse anche più numerose, Rita racconta che si sentiva attratta da questo mondo che provocava in lei un certo fascino. Era tra quelle vie strette che si viveva la vera essenza dell’essere sussinchi, coi suoi pregi e difetti.

La famiglia Spanu abitava di fronte all’attuale Biblioteca Comunale, la cui casa occupava uno dei quattro angoli che racchiudono il vasto blocco edilizio includente anche la parrocchiale di San Pantaleo.

Da piccola, dovendosi recare dalla nonna, Rita si trovava a dover percorrere la zona antica del paese, ed è proprio da qui che inizia il suo racconto, che sicuramente non mancherà di portare molti non più giovanissimi a ripensare a quello che si era, nel bene o meno bene.

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“E NON PASSARE DA VIA CORTE ALESSANDRIA”

di Rita Spanu

 

“Ecco, prendi questa busta e portala a nonna. Mi raccomando, vai dritta, non parlare con nessuno, non fermarti a curiosare, se qualcuno ti offre qualcosa rifiuta e corri via e NON passare da via Corte Alessandria”

La mamma di Cappuccetto Rosso faceva meno raccomandazioni!

Camminare per strada senza rischi

Sorso, negli anni ’60, era un paesotto tranquillo i bambini potevano andare ovunque senza che gli adulti li dovessero accompagnare. L’unico problema o pericolo serio era rappresentato dalle (poche) automobili che circolavano condotte da ex contadini e/o carrettieri che avendo ancora poca dimestichezza con questi nuovi mezzi di trasporto rischiavano di travolgere i pedoni con molta facilità.

Ragazzi di oggi e di ieri

Le siringhe si vedevano solo negli ambulatori dei medici di famiglia e se ne aveva un sacro terrore. I ragazzini e le ragazzine non si sognavano di entrare nei bar per prendere birrette da consumare nei marciapiedi antistanti, bevendo e ruttando in faccia ai passanti con serena incoscienza come se fosse la cosa più normale del mondo.

Tutti noi si andava dappertutto, si giocava in strada, e le nostre mamme ci spedivano ovunque per fare i “comandi”, seppure con tutte le raccomandazioni di cui sopra. In ogni caso, il più delle volte, al rientro a casa le genitrici sapevano perfettamente se avevi ubbidito o meno ai dettami impartiti prima di uscire. Infatti, comari, vicine o passanti se notavano qualcosa di strano riferivano immediatamente a chi di dovere. Il controspionaggio dei “ciarameddhi” era sempre in servizio.

Il centro storico, luogo di vita vera

Via Corte Alessandria è il tratto antistante via Jelithon: in quegli anni erano considerati una specie di suburra. Su me quella zona esercitava un fascino incredibile. Passando di lì si osservava un mondo che in altri punti del paese non esisteva. C’erano un paio di famiglie che abitavano al piano terra e vivevano la loro esistenza interamente per strada. Il nucleo che mi incuriosiva di più era la famiglia di uno degli spazzini* del paese. Non ho idea di quanti figli avessero, so solo che erano sempre per strada e la loro madre non taceva un minuto urlando contro di loro delle espressioni che, all’epoca trovavo pittoresche salvo poi capire che la cosa più carina che augurava loro, con mille sadiche varianti, era una lunga e dolorosa agonia senza rimedio e/o la morte:

ti vegghiani tuttu fragassaddu mari

ti n’esciani l’occi

vai che la chisgina

ti vegghia fatt’a pezzi…,

 

Figuratevi la mia curiosità. A parte le cose che capivo o credevo di capire, rimaneva una lunga sequela di parolacce irripetibili delle quali sapevo solo che, per l’appunto, non potevo ripetere né chiederne il significato ad anima viva!

Cantare durante le faccende domestiche

Proseguendo, superato il tratto incriminato, iniziava il “festival della canzone”. Porte e finestre spalancate con le padrone di casa che facendo pulizia (imbarrazzéndi) cantavano a squarciagola “Non ho l’età per amaaartiiii” o “Tu mi fai girar come fossi una bambolaaa” e successi vari del tempo.

Era bello vedere in tempi di pre-lavatrice come le casalinghe si aiutavano con il bucato:

“Me’ surè, véni a aggiuddammi a trippià li linzori”.

Già, strizzare bene le lenzuola per facilitarne l’asciugatura era lavoro da fare in due. Ed ecco che anche il bucato diventava un evento sociale: cosa prepari per pranzo-ancora non lo so – ieri ho fatto il minestrone e oggi lo riscaldo – non parlarmene mio marito non vuole vedere nulla di riscaldato e “li pizzinni” poi non ne parliamo…Hai sentito che la tale ha litigato con la tal’altra e non si parlano più – come sta’ tua suocera,ecc ecc.

Non si passava inosservati

Nel frattempo chi passava di lì e non abitava nei dintorni veniva squadrata/o dalla testa ai piedi e si cercava di intuire di che “razza era”. Niente di discriminante, per carità. Era solo il modo che le persone più anziane avevano per stabilire di chi eri figlio, nipote e individuare così i parenti più o meno prossimi, elemento fondamentale per la loro tranquillità psico-fisica pare, dal momento che la prima domanda che ti rivolgevano era:

“me figliò, e di ga razza sei”?

Ovvero, figliolo/a, chi sono i tuoi parenti, genitori, nonni ?

Non si passava inosservati. Crescendo, però, questo genere di attenzione cominciò a dare fastidio.

Davvero seccante tornare a casa e vedere che le mamme sapevano, con minuzia di particolari, dove eri stato, con chi e per quanto tempo… Eh sì. Le mamme a quei tempi parlavano, osservavano, curiosavano negli affari dei figli, la privacy si debellava, se necessario, con qualche scappellotto e un “stasera non esci” a seconda della gravità dei limiti superati. Attenzione: giudizio materno totalmente inappellabile, ergo, fila dritto e non provarci nemmeno.

Le mariedefilippi avevano ancora da venire e il loro Piano di Rincoglionimento e Appiattimento dell’Attività Neuronale non aveva ancora inficiato il rapporto di gerarchico rispetto presente, fino ad allora, nelle famiglie normali.

Le botteghe “umane” sotto casa

Altro evento sociale era fare la spesa nei negozi di alimentari dove trovavi dalla farina ai lacci per le scarpe, c’era sempre folla, tutto era ritardato dal servizio ad personam (pochissimi i prodotti preconfezionati): mezzo chilo di pasta, due etti di caffè, 3 etti di zucchero ecc.ecc. Per quanto il negoziante fosse veloce ci voleva un sacco di tempo per approntare tutte le richieste e quindi tempo per una “ciaramiddhadda”, scambio di pareri, notizie varie ne rimaneva sempre parecchio. Inutile dire che rimanevo incantata a sentire “i grandi” parlare di fatti per me misteriosi e di persone ancora più misteriose che dimenticavo quasi subito a meno ché non fosse qualche fatto raccontato con atteggiamento da cospiratori. Mi colpiva più il tono della voce che il racconto in sé stesso anche perché il più non capivo la portata dell’evento raccontato. Infatti per lungo tempo non riuscii a spiegarmi (avevo circa 7/8 anni) cosa ci fosse di strano nel fatto che una tale fosse andata a casa del fidanzato rimasto solo a casa perché la madre era in visita alla sorella in un paese vicino, e loro avessero trascorso l’intero pomeriggio insieme lontani da occhi indiscreti.

Feci ridere tutti i presenti affermando che mi sembrava una gran buona azione che la tale avesse fatto buona compagnia al suo fidanzato rimasto solo in casa. Arrivai addirittura a dire che probabilmente lui non sapesse cucinare e lei gli avesse preparato la cena. Beata ingenuità. Mi offese molto comunque, la gran risata di mia madre quando una delle presenti le raccontò l’accaduto e nessuna delle due volle dirmi il perché di tanta ilarità.

Rischio gravidanze …premature

In quegli anni, l’unico rischio per le ragazze era di ritrovarsi incinta e ricorrere a matrimoni riparatori in giovane età. Sia chiaro, lo “scandalo” era sempre notevole, ma dopo qualche tempo tutto finiva nel rientrare nei binari della totale normalità.

Cambiamenti trovati nelle rimpatriate occasionali

A Sorso le cose sono cambiate nel giro di pochissimo tempo. Io sono andata via definitivamente nel 1980. Bene, nel giro di pochi anni (tornavo sempre per le feste comandate e altre occasioni) cominciavo a trovare cambiamenti poco piacevoli. Intanto la desertificazione della “passeggiata” presso la stazione ferroviaria, storico punto d’incontro per tutti, giovani e meno giovani sostituita da bar affollati da ragazzini e ragazzine sbracati e sboccati con precoci facce da tossici.

Poca gente per strada. Portoni sprangati. Finestre ai piani bassi protette da inferriate. Vagabondaggio automobilistico di nullafacenti che ti ritrovi tra i piedi in continuazione.

Purtroppo Sorso non ha più una connotazione, un’identità che possa consentire a chi passa di lì di avvertire un senso di appartenenza propria dei piccoli centri. Ora non è né carne né pesce: diabolicamente presenta i problemi e disagi della grande città (uno per tutti: i parcheggi maledetti, ti ritrovi auto in ogni dove) unendo gli svantaggi dei piccoli centri: niente teatro, cinema, poche occasioni e pochi o nulla centri di aggregazione.

San Giuseppe dimenticato

di Alberto Maggi

L’ebraico Yôsep (Giuseppe), è un nome augurale per chi desidera una famiglia numerosa, infatti significa “il Signore aggiunga” (al bambino nato), tanti altri ancora.

Nome popolare nella Bibbia, è portato da personaggi illustri della storia d’Israele, dal figlio di Giacobbe e Rachele, venduto come schiavo dai suoi fratelli per gelosia, ma divenuto poi governatore d’Egitto (Gen 37-42), al marito di Maria; quel che li accomuna è che entrambi, in situazioni drammatiche, sono stati i salvatori della loro famiglia.

Nel Nuovo Testamento c’è però un’evidente reticenza nel trattare di Giuseppe di Nazaret, marito di Maria e padre di Gesù. Sia nelle lettere di Paolo sia degli altri autori del Nuovo Testamento non si fa alcun accenno a Giuseppe, ma quel che sorprende è il ruolo marginale che sembrano dargli anche gli evangelisti.

Nel vangelo considerato più antico, quello di Marco, non c’è alcun riferimento a lui, e Gesù è ricordato solo come “il figlio di Maria”; vengono nominati i fratelli Giacomo, Ioses, Giuda e Simone, e anche le sue sorelle (Mc 6,3), ma non c’è alcun cenno al padre.

Anche nel vangelo di Giovanni si parla della madre di Gesù (Gv 2,1; 19,25) e dei suoi fratelli (Gv 7,3-10), ma non si trova alcun indizio su Giuseppe. È solo nei vangeli di Luca, e in particolare di Matteo, che gli evangelisti, in modi diversi, trattano questa singolare figura della quale stranamente non riportano neanche una parola, e del cui mestiere si parla solo in relazione a Gesù, conosciuto come “il figlio del falegname” (Mt 13,55).

La scarsità di notizie riguardo a Giuseppe nei vangeli, ha fatto sì che la Chiesa e la tradizione abbiano attinto abbondantemente dai testi apocrifi, in modo particolare dal Protovangelo di Giacomo, di poco posteriore ai vangeli. È in questo testo che Giuseppe viene presentato già come anziano (“Ho figli e sono vecchio, mentre lei è una ragazza” (9,2), mentre nell’apocrifo “Storia di Giuseppe Falegname” si legge che era vedovo con ben sei figli (quattro maschi e due femmine), quando si sposò con la dodicenne Maria di Nazaret. E quando Giuseppe morì, a ben centoundici anni (15,1), Gesù e Maria erano presenti al suo capezzale insieme a tutti i suoi figli e figlie.

Queste notizie indussero la tradizione cristiana a presentare Giuseppe come una persona molto avanti con gli anni e, in modo particolare dal quindicesimo secolo, il consolidarsi del culto a San Giuseppe, portò a raffigurarlo sempre più come un anziano che sembrava più il nonno che il padre di Gesù, forse per rendere così più sicura la verginità della Madonna, e generazioni  di bambini hanno imparato la dolce filastrocca dedicata a “San Giuseppe vecchierello…”.

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La grande lezione di Giuliano Branca dal suo trono di disabilità

Da un articolo di Cristoforo Puddu

Tutta la poetica di Biglianu è percorsa da una particolare attenzione e viscerale amore per l’uomo. Un meditato messaggio e testamento di vita, malgrado un’esistenza di dolore e solitudine, che evidenzia autenticità e immediatezza nei toccanti testi con chiare e interiori radici nella tradizione letteraria sarda orale.

A partire dal 1978 con l’iniziale partecipazione al “Romangia” e gli stimoli di Tonino Rubattu a rendere pubblici i suoi versi, è stata presenza attiva nell’incredibile e sorprendente laboratorio poetico sardo degli anni Ottanta e Novanta. La sua figura, sempre discreta, offriva costante pregio e qualità poetica.

Significativi i suoi contributi a numerosi concorsi letterari e valida la collaborazione a giornali, riviste ed antologie. La sua poetica indirizza e guida verso valori autentici positivi; malgrado le forti tensioni esistenziali e di dolore c’è fede nell’umanità e nella bellezza della vita.

La sua poesia assume carattere autobiografico ma allo stesso tempo celebra paesaggi, il mistero delle piccole cose, canta con affetto e fantasia vivace la vita quotidiana, la capacità di stupirsi e meravigliarsi per la vita. Spesso la poesia è anche strumento di lotta partecipe agli eventi storici, sociali e forte impegno per la valorizzazione delle specificità della cultura sarda. Sicuramente sempre una poesia di contenuti.

Con intima voce di verità canta gli eterni sentimenti dell’uomo, cercando di penetrare nell’esasperato silenzio che avvolge la sofferenza fisica. I suoi risultati poetici sono estremamente originali e riflessivi. Analizza con lucidità la sua esperienza con linguaggio toccante: tutto è connotato da una forte tensione spirituale e meditativa.

I versi sono strazianti di verità, e ogni verso un sussulto di essenzialità. Non c’è angoscia di sconfitta, ma forza e coscienza, personale e sociale. Le sue “cantones” si nutrono dei sentimenti dell’uomo: siano essi d’amore o di dolore. Giuliano, dal suo trono, dalla sua sedia a rotelle è riuscito ad ampliare il nostro orizzonte umano, ad arricchirci con la sua semplicità e umanità trasmessa in versi.

È poesia a cui bisogna guardare, dare maggiore visibilità e tanto attingervi, è avventura letteraria di una fede laica, di una esistenza che la malattia ha chiamato a unirsi costantemente al Cristo sofferente in Croce. Dal suo trono di passione è stato capace di donare versi di giustizia, di fratellanza e amore.

Alla scomparsa, Giuliano Branca è stato commemorato con due orazioni civili pronunciate dai poeti Tonino Mario Rubattu e Antonio Pazzola.

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L’amore di Franco per la musica

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di Piero Murineddu

Come lui stesso racconta nel testo ricavato dal sito sorsomusica.altervista.org/, credo attualmente purtroppo non attivo, lo stimolo, quando era ancora uno sbarbatello, l’ebbe dalla “terzina” del fratello presente in casa. Da lì per Franco iniziò la voglia di dedicarsi alla musica, passione che negli anni futuri non lo ha mai abbandonato.

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Anche da emigrato in Belgio, dato che non sempre le sole passioni procurano il necessario da vivere, la voglia di musicare insieme ad altri non l’ha messa da parte, anzi, probabilmente lo ha aiutato a superare i disagi inevitabili del doversi trasferire all’estero per necessità, trovandoci in essa anche il tramite per costruirsi nuove amicizie.

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Personalmente ho vaghi ricordi di Franco, sia per gli anni che ci separavano e sia per la frequentazione di ambienti e interessi diversi. È qualche anno fa che ci entrai in contatto, proprio quando gli chiesi l’autorizzazione di pubblicare la sua esperienza soprattutto col gruppo de I Paggi riportata dopo questa mia premessa. Franco accolse volentieri la proposta e anzi ci riproponemmo di vederci per approfondire la reciproca conoscenza, dato più che lo stesso intendimento qualche tempo prima era nato col suo amicone artista, entrambi residenti ad Alghero, Cici Egidio Peis, nel mentre anche lui deceduto e a cui in questo blog ho dedicato una pagina. Purtroppo gli eventi della vita hanno impedito che questo desiderio diventasse una  piacevole realtà. Chissà quante cose si saremmo raccontati!

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La mia e nostra grande passione

di Franco Cappai

Uno dei primi gruppi della nostra generazione è stato quello dei Lords. Nel 1967 si divisero. Restò disponibile la sala prove che era una stanza a casa di Francesco Petretto, aspirante batterista.Ci incontravamo lì per qualche suonatina.lo portavo la chitarra terzina di mio fratello, lui aveva costruito una cassa.

Facemmo amicizia con un ragazzo di Sorso,Gavino Senes, che aveva una chitarra elettrica e cosi inserimmo anche lui.

In quel periodo con Francesco salivamo a Sennori e fu lì, precisamente alla “Scala”, che vedemmo un ragazzino che suonava un chitarra terzina tutta sgangherata. Era Giampiero Pazzola. Al gruppo si unì Albino Cappai di Sorso.

La formazione iniziale, a cui demmo il nome “I Paggi”,era formata da me alla chitarra solista, Albino Cappai voce, Giampiero Pazzola alla chitarra ritmica, Francesco Petretto alla batteria e Gavino Senes al basso.

Col tempo riuscimmo a migliorare la strumentazione, all’inizio molto scarsa come per tutti i gruppi locali.

Suonavamo nei matrimoni e nelle salette di Sassari, dove spesso non riuscivamo a ricavarne un soldo.

La nostra prima apparizione in pubblico fu a Sorso in piazza del Comune, nel 1968. Era la festa di San Costantino e suonavano I Discepoli. Il brano che eseguimmo era “Un figlio dei fiori non pensa al domani”.

Andavamo a ballare all’ “Otto Colonne” che ancora non era diventata discoteca. Zio Nicolino Pisanu usava fare dei contratti a gruppi locali. Ci sono passati un po’ tutti: I Corsari, Gli Elfi, L’ Altra Versione…

Quell’anno, dopo una stagione con i Corsari, aveva la gestione il maestro Fiori con il suo gruppo.Noi chiedevamo di fare l’intervallo e finalmente un bel giorno ci venne proposto di fare una serata.

Potemmo avere così la possibilità di rinnovare la strumentazione. Si iniziò a comprare qualche strumento e poter suonare in varie sale del circondario, come Castelsardo,Valledoria e Tergu.

Un anno dopo avevamo ingaggiato Pier Vincenzo Sechi come chitarra solista ed io ero passato al basso. Diverse serate ed anche vari concorsi. A Santa Teresa di Gallura vincemmo la tappa di “Sardegna Canta” con “Tu sei bella come sei”. Nella finale di Alghero presentammo “Davanti agli occhi miei”.

In inverno, a Porto Torres, partecipammo al Trampolino D’Oro.

In una serata dei Boba nel piazzale dei frati Cappuccini a Sorso facemmo l’intervallo e Tore Mannu e Gianni Virdis degli Humus notarono l’abilità di Pier Vincenzo in un brano dei Cream e lo ingaggiarono.

Dopo un periodo in cui suonavamo in tre, basso,chitarra e batteria, chiamammo Mario Rubattu come chitarrista. Suonammo come gruppo spalla degli Spaventapasseri a Tergu. Il manager che li aveva ingaggiati lo fece anche con noi per la tournè che questo gruppo doveva fare nel nord Sardegna. Gli Spaventapasseri era un gruppo che suonava a Settevoci, nel programma televisivo di Pippo Baudo e per la prima volta vedemmo le potenzialità della Gibson distorta e come si può suonare in tre. Era un gruppo stile Led Zeppelin.

Quell’estate suonammo ad Ittiri, Osilo e a Porto Torres nel campo sportivo, ma di compenso neanche a parlarne

Dovetti prendere così l’amara decisione di vendere tutto e partire in Belgio per lavoro. Il gruppo si sciolse.

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