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La Rivoluzione di Yeshu’a

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Qualche parola d’introduzione

Piero Murineddu

Nel 2019 le donne del paesino di Barchi, piccolo centro nel comune marchigiano di Terre Roveresche, hanno realizzato all’uncinetto una coperta gigante per ricoprire tutta la facciata di Porta Nuova che dà accesso alla parte più elevata e più antica del borgo di neanche mille abitanti. Coi suoi colori sgargianti la bellissima opera vorrebbe trasmettere un messaggio di gioia.

Con la divulgazione che Alberto Maggi fa del Messaggio Evangelico mi sembra un ottimo accostamento. La lunga riflessione sull’Uomo Nazareno che vado a proporre è ricavata dall’audio registrazione di una conferenza  tenuta l’8 luglio 2018 proprio a Barchi. Concetti ripresi dal frate servita in suoi vari articoli pubblicati generalmente nel sito della rivista ventennale gratuita illibraio.it e che non disdegno, di tanto in tanto, di  proporre nel mio profilo FB. In questo paginone che si costruirà cammin facendo, ho deciso invece di riportare l’intera conferenza, e nelle conferenze non “cattedratiche” generalmente, seguendo dei punti prefissati, si parla perlopiù, come si dice, “a braccio”, per cui è doveroso chiarire che l’intero testo non è stato rivisto dall’autore.

La Gioia del Vangelo Alberto usa trasmetterla anche attraverso vari canali comunicativi, che poi non è  altro che il frutto dei suoi quasi cinquant’anni di studio quotidiano dei libri sacri. Gioia Interiore, tutt’altra Cosa degli sterili ( e a volte ipocriti!) devozionalismi che portano ad adempiere a ripetitivi precetti ma che lasciano come si è, e ancor peggio, sono sordi e muti in mezzo allo sconquasso che avviene tutt’intorno, spesso causato, ma guarda un po’, proprio da potenti “religiosissimi”.

Ma Alberto non comunica l’Urgente e Rivoluzionaria Gioia del Vangelo solo “in veste ufficiale” di biblista. Avendo un corpo che non gode purtroppo della massima salute possibile, so e sappiamo che in qualche occasione ha goduto della comoda ospitalità in ospedale servito e riverito di tutto punto, a parte il cibo immangiabile, cosa comune ad Ancona e, temo, sempre in troppi altri ospedali della sanità pubblica. Il riferimento non è solo a quei 75 giorni di ricovero nella primavera 2012 quando un gravissimo problema cardiaco lo portò ad affacciarsi alla Porta dell’aldilà, esperienza su cui ci scrisse un libro che tengo ancora accatastato nel comodino e che saltuariamente riprendo in mano per farmi più di due santissime risate. In questa pagina vi è inserito l’audio di un incontro pubblico in cui parlò di questa particolare esperienza, e in quest’altra, attraverso un’intervista, cosa il frate pensa della morte.

Nel pieno della pandemia altro ricovero per un intervento di toracotomia per dare un aiutino elettronico al cuoricino che non è più quello di un adolescente. Anche durante questi ricoveri fratello Alberto non manca di comunicare il suo sentire interiore, che son certo non è solo questione caratteriale.

Vuoi vedere che è principalmente questo il motivo che porta molti, io tra questi, ad avere per lui un grande senso di gratitudine, nonostante che certi pestilenziali “fumi” del satanasso, assai diffusi in diversi ambienti di certa cattolicità eccessivamente ‘nostalgica’ ( di cosa poi? Boh!) accusino il biblista di non credere nella Bibbia?  Nella “loro” tetra Bibbia sicuramente no, mi viene da pensare, e questo è solo un Bene. A tale proposito, utile cosa leggere in questo articolo dell’esaltante biografia di chi ha la certezza che Alberto non solo, come detto,  non crede nella Bibbia, ma che distoglierebbe addirittura le persone dall’interessarsi alla salvezza della propria animaccia.

Ps

Dimenticavo. Tra i tantissimi consigli che indirettamente elargisce, sant’ Alberto da Ancona, due anni per raggiungere gli ottanta, suggerisce di non leggere troppo i bugiardini dei farmaci o vagare in Rete per capire l’origine dei mille e più sintomi che capita di ritrovarsi: gli uomini possono riconoscere anche quello di una…gravidanza.

Buona lettura

Parte prima

Eliminato perché infastidiva il potere sacerdotale

 

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Il Nazareno da noi conosciuto come Gesù non era un pio giudeo, cioè una persona osservante delle leggi, dei riti del suo tempo. Non era nemmeno un riformatore come si attendeva a quel tempo, venuto a purificare la religione, purificare il Tempio. Questa era l’aspettativa dell’epoca e questo è stato il crimine che lo ha portato poi alla sua morte.

Da quando studio i vangeli ogni volta mi pongo un interrogativo: come ha fatto Gesù a campare così tanto? Non mi meraviglio che sia stato ammazzato, mi meraviglio che sia riuscito a sopravvivere tanto e lo faceva perché si dava alla latitanza. Quando vedeva un pericolo scappava dall’altra parte, e non per vigliaccheria, ma perché prima doveva organizzare un piccolo gruppo capace di portare avanti il suo programma. Gesù ha osato l’inosabile e per questo è stato ammazzato.

Attenti quando leggiamo nei vangeli i titoli, che non fanno parte del testo ma sono normalmente opera dei traduttori o degli editori. “Purificazione del Tempio”  oppure  “cacciata dei mercanti del Tempio”: né l’uno né l’altro. Purificare significa eliminare la stortura, lo sporco, per riportarlo alla sua funzione originaria. Gesù invece è andato a toccare il tasto nevralgico dell’economia dell’Istituzione religiosa.

Gesù non è stato neanche un profeta inviato da Dio. Chi sono i profeti? Uomini carismatici che all’interno dell’Istituzione religiosa ne auspicavano il cambiamento, la trasformazione, un miglioramento. Gesù ha tentato ed è riuscito a fare quello che nessun profeta o riformatore religioso aveva tentato o era riuscito a fare prima di Lui. Perché? Gesù che è l’Uomo/Dio, almeno noi credenti crediamo questo: non si è mosso nell’ambito del sacro, ma ne è uscito, ha sradicato le radici della religione e ne ha mostrato il marcio. Quello che gli uomini credevano permettesse la comunione con Dio, Gesù lo ha denunciato come quello che in realtà lo impediva, ecco perché lo hanno ammazzato. E Gesù, e questo sia chiaro, non è morto perché questa fosse la volontà di Dio ma per l’interesse e la convenienza della casta sacerdotale al potere che, messa in pericolo da questo agitatore che veniva a denunciare il marcio della religione, ha preferito eliminarlo.

Gesù ha fatto una fine, secondo i vangeli, veramente tremenda: è morto abbandonato dalla famiglia, tradito dai suoi discepoli, ridicolizzato dai romani – basta  pensare al processo farsa che gli hanno fatto – deriso dalle autorità religiose ed è stato inchiodato al patibolo dei maledetti da Dio.

Se leggiamo il vangelo quello che emerge di Gesù è veramente desolante. Per le autorità religiose Gesù è matto, ha un demonio, che non significa essere indemoniato ma significa essere pazzo. Per gli scribi, che come vedremo erano le massime autorità religiose, Gesù è un bestemmiatore, quindi merita la pena di morte. Per i sommi sacerdoti e per i farisei è un impostore, anche per la folla che lo seguiva dicono che è uno che inganna la gente, e Gesù è riuscito a deludere perfino Giovanni Battista. Questi lo aveva riconosciuto come Messia. È in carcere, eppure quando sente parlare delle azioni di Gesù, gli manda un ultimatum che ha tutto il sapore di una scomunica: sei tu quello che doveva venire o ne dobbiamo aspettare un altro? Ma come? Io ho annunziato un Messia che ha in mano la scure, ogni albero che non porta frutto lo taglia e lo brucia….

Questa è l’immagine del Dio della religione, il Dio che punisce, il Dio che castiga, e Gesù invece dice che se un albero non porta frutto io si zappetta attorno, si concima, si aspetta uno, due, tre anni. Quindi è un Dio completamente diverso da quello che il Battista aveva annunciato e perfino i suoi discepoli e nel vangelo di Giovanni c’è scritto che da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con Lui. Quindi ha deluso anche i suoi discepoli, dalla gente era conosciuto come un mangione e un beone, un ghiottone, e ha fatto la fine dei maledetti da Dio.Com’è stato possibile questo?

 

Parte seconda

 

Primo scontro tra Gesù e l’istituzione

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Il vangelo di Marco, il più antico, il più rude e il più vivace. Gli altri evangelisti, per motivi di convenienza e di relazione “pacifica”, hanno dovuto un po’ attenuare o smorzare certe frasi, certi insegnamenti, certe posizioni di Gesù. Il vangelo di Marco no. Qui si parla del primo scontro tra Gesù e l’Istituzione religiosa, fino al punto che l’uno esige l’eliminazione dell’altra. Perché?

Per l’istituzione religiosa come si raggiunge Dio? Attraverso l’osservanza delle leggi, la pratica dei riti, l’osservanza di quanto comandato. Molti, non riuscendoci, di fatto rimangono “fuori”. Gesù ha fatto il contrario, portando Dio verso gli uomini, e non attraverso una dottrina da tradurre, interpretare e che invecchia già dal momento in cui viene emanata, ma attraverso la tenerezza e l’amore, e una carezza amorosa che capiscono tutti non ha bisogno di essere tradotta o interpretata.

Da subito Marco ci dice che ogni qualvolta Gesù si trova ad avere a che fare con l’istituzione religiosa è una situazione di conflitto. Nel primo capitolo leggiamo che Gesù va nella sinagoga a Cafarnao, città di frontiera, di sabato, e si mette ad insegnare. Ogni volta che partecipa al rito sinagogale o nel Tempio, Gesù non partecipa al culto che non riconosce, perché il culto è quello che l’uomo deve fare verso Dio invece Lui è venuto a proporre quello che Dio fa verso gli uomini. E cosa insegna? L’esatto contrario di quello che veniva insegnato nella sinagoga, cioè la dottrina tradizionale, quella tratta dalla sacra Scrittura, tutta una serie di obblighi, di osservanze e soprattutto una minaccia continua dell’azione divina, un Dio che era pronto a premiare i pochi buoni e a castigare i malvagi.

Il messaggio di Gesù su questo smonta le radici stesse dell’impianto della religione: come si fa a sottomettere le persone e far sì che obbediscano a delle leggi
strampalate che non hanno ne capo ne coda, attraverso la paura? La religione si impone attraverso il terrorismo religioso. Pensate noi cattolici: generazioni e generazioni hanno creduto all’inferno. Ma vi rendete conto? Una condanna per tutta l’eternità. Oggi che la civiltà è avanzata si comprende che una condanna per tutta la vita, l’ergastolo, è anche troppo perché altrimenti non è più una pena rieducativa ma diventa una vendetta. Abbiamo attribuito a Dio un comportamento inaccettabile. Perché questo? Perché bisogna mettere paura alle persone, per sottometterle attraverso un evidentissimo  terrorismo religioso, ovvero castigo da parte di Dio.

Quindi l’insegnamento che veniva fatto nella sinagoga era che Dio premia i buoni ma castiga i malvagi. Arriva Gesù e dice: è falso, non è vero, Dio non premia i buoni ma neanche castiga i malvagi e Gesù non lo fa con argomenti teologici difficili, filosofici, ma con argomenti che tutti potevano comprendere e diceva: avete visto oggi che giornata di sole? E Cosa fa il sole? Illumina e riscalda tutti quanti, non è che illumina le persone per bene e le altre non le illumina. E se domani dovesse piovere, cosa fa la pioggia? Bagna soltanto l’orticello della persona pia, devota? La pioggia bagna tutti quanti, buoni e cattivi. E così è Dio. Dio è amore e si rivolge a tutti, poi sta alle persone accoglierlo o no. Quindi Dio non premia e non castiga le persone.

Ma come – scrive l’evangelista – ci hanno insegnato che bisogna obbedire a Dio, che se non obbediamo commettiamo peccato, che c’è tutta una serie di azioni che ci rendono in peccato e che se pecchiamo meritiamo i suoi castighi…

Si, completamente stupiti del suo insegnamento.

Avete presente l’ “Atto di dolore”, quell’ orrendo passaggio “..perché peccando ho meritato i vostri castighi”? Una bestemmia! Ho toccato con mano quanto un insegnamento religioso o spirituale errato possa incidere negativamente nella vita delle persone. Quando si è attaccati da un male improvviso, in quasi tutti sopraggiunge l’interrogativo: “Che cosa ho fatto per meritare questo?”. Ce l’abbiamo nel DNA questa idea di un Dio che castiga e questa è una bestemmia. Dio non castiga, Dio è amore e sta alle persone accogliere o no quest’amore.

 

Parte terza

Sugli scribi, considerati gli interpreti ufficiali delle scritture

 

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Davanti a Gesù ci si stupisce perché insegnava come uno che ha autorità e avere autorità significa avere il mandato da parte di Dio, ma non come gli scribi, cioè laici che dopo un intero percorso che durava tutta la vita, attraverso l’imposizione delle mani all’età avanzata per quel tempo di 40 anni, ricevevano la trasmissione dello spirito di Mosè e da quel momento erano gli unici interpreti della parola di Dio, e per questo avevano una importanza straordinaria. Addirittura quando c’era un conflitto tra la sentenza di uno scriba e un versetto della bibbia bisognava credere allo scriba, perché erano gli interpreti ufficiali e autentici della Scrittura ed erano gli unici ad avere il “mandato divino”.

La gente, sentito parlare Gesù dice “oh, questo si che ha il mandato divino, non i nostri scribi”. Ebbene, appena c’è questa reazione, l’uomo che era nella sinagoga posseduto da uno spirito impuro si mise a gridare. Ecco l’effetto della sinagoga, ecco il frequentare i luoghi religiosi! Questi sono a rischio, sono pericolosi, è il luogo dove c’è lo spirito impuro. Cos’è lo spirito impuro? Spirito è una forza e quando questa forza viene da Dio si chiama santo, Spirito Santo, non soltanto per la sua qualità ma per la sua attività di santificare la persona che viene allontanata dal male e vive nel bene. Quando invece viene da realtà contrarie a Dio è una forza “impura” perché ti trattiene nel buio e ti impedisce di scorgere la vita, la luce che Dio emana.

Quello che l’evangelista denuncia è tremendo. Attenzione, questo personaggio che rappresenta gli altri presenti nella sinagoga ha lo spirito impuro perché ha dato adesione acritica all’insegnamento degli scribi.L’ insegnamento degli scribi non solo non permetteva la comunione con Dio, ma era quello che l’ impediva. Allora questo non ne può più e  grida: “Che centri con noi, Gesù nazareno? Sei venuto a rovinarci?“. Com’è possibile che questa persona singola parli al plurale e perché si esprime in questi termini ? Gesù chi sta rovinando? Gesù, con il suo insegnamento, sta rovinando la reputazione degli scribi. Allora chi è questa persona con lo spirito impuro? È la persona che da sempre ha creduto ciecamente a quanto gli veniva insegnato e appena sente Gesù con qualcosa di diverso che lo turba come un terremoto, prende le difese di chi gli ha insegnato la religione: “Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il Santo di Dio”.  Gesù lo sgridò “taci, esci da quest’uomo” e lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Perché straziandolo? Perché, e molte persone lo hanno sperimentato, è uno strazio arrivare ad un certo punto della propria esistenza e dover riconoscere che quello che ci hanno insegnato nella religione non solo non viene da Dio ma addirittura gli è contrario. È uno strazio, qualcosa di lacerante, ci si sente ingannati. 

Quindi l’evangelista riflette l’esperienza di queste persone e fa la conclusione: “Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda “che è mai questo? Una dottrina nuova?“. Per nuova l’evangelista adopera un termine greco che non indica un’ aggiunta nel tempo, ma di una qualità che sostituisce tutto il resto, ovvero insegnata con autorità.

Quando Gesù entra per la prima volta nella sinagoga subito c’è lo scontro con gli scribi, la seconda volta addirittura cercheranno di ammazzarlo perché ha curato una persona nel giorno di sabato, e la terza non è creduto a Nazareth, perché la gente tra l’autorità di Gesù e quella degli scribi preferisce quella di quel’ultimi.

Parte quarta

“Se vuoi puoi guarirmi”

 

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 È da tener presente che i vangeli mettono in rilievo la “teologia” e non la storia, dunque non ci raccontano dei fatti ma delle verità. Sono episodi nei quali ognuno di noi
che vive la stessa situazione ci si può identificare. Siamo alla vicenda, importantissima, riguardante il lebbroso. Se compresa può condurre verso la libertà tante persone.
Scrive Marco al cap.1, versetto 40 che presso Gesù venne appunto un lebbroso, che non era considerato un ammalato e non suscitava negli altri nessuna compassione e nessuna pietà, perché la lebbra era ritenuta un castigo inviato da Dio. Ancora: un castigo. In effetti, a quel tempo come si faceva a comprendere il perché della malattia? Per “discolpare” allora Dio si attribuiva la colpa all’uomo peccatore e che per questo riceve un castigo da Dio, e la lebbra era  tra i castighi più tremendi. La persona lebbrosa perdeva tutto,
doveva vivere fuori dai centri abitati, perdeva la famiglia, il lavoro, gli amici. Perdeva la dignità. Nell’episodio il lebbroso è anonimo, a significare che è un personaggio
nel quale tutti coloro che vivono la stessa situazione ci si possono identificare.

La situazione del lebbroso è drammatica.La religione dice: tu sei impuro! Chi mi può salvare da questa impurità? Dio, allora vado da Dio? No! siccome sei impuro non ti puoi rivolgere a Dio. È la perfidia diabolica della religione che è capace di infliggere sofferenze tremende alle persone. Tu, per la tua condizione, per la tua situazione di vita sei impuro – oggi si dice in peccato – l’unico che ti può liberare da questo peccato è Dio ma tu siccome sei impuro non ti puoi
rivolgere a Dio; è la disperazione totale. Che cosa fa questo lebbroso? Venne a lui, fa una trasgressione tremenda perché il lebbroso non poteva avvicinare le persone. Come prescriveva la bibbia, quando da lontano vedeva un altro individuo doveva gridare “impuro, impuro” per allontanarsi. Questo lebbroso continua a trasgredire la legge e si avvicina a Gesù, supplicandolo in ginocchio perché non sa mica come sarà la reazione di Gesù. Ha sentito parlare di Gesù, ha sentito il suo insegnamento, ha sentito la novità di un Dio che non ama gli uomini per i loro meriti ma per i loro bisogni…Quindi pensa: “Chissà se questo è valido per me….” Ci prova e gli dice: “Se vuoi puoi guarirmi !”.

Qual è stata la reazione di Gesù? Quest’uomo era impuro, Gesù è un uomo di Dio, avrebbe dovuto mandare via, cacciare questa persona che si è avvicinata a lui con il rischio di infettarlo, di renderlo impuro. Scrive l’evangelista: “Gesù mosso a compassione stende la mano”. La compassione è un atteggiamento divino con il quale si comunica vita a chi vita non ce l’ha, però l’evangelista Marco ci crea suspense. Quando leggiamo i vangeli, per gustarlo nella sua pienezza mettiamoci nei panni dei primi lettori, dei primi ascoltatori. “Stende la mano”. Stendere la mano è un azione con la quale nell’ Antico Testamento si indica la punizione di Dio o di Mosè sopra i peccatori e sopra i nemici. Al contrario delle aspettative dei presenti invece, Gesù lo tocca e la lebbra scompare.Non lo rimprovera, non gli rinfaccia le sue trasgressioni. Manifestandogli la volontà di Dio che è solo amore, lo guarisce, facendo crollare così un certo tipo di teologia. Per “meritare” la guarigione il lebbroso non ha fatto nulla. In questo modo ci viene mostrato tutto il filo conduttore del vangelo, cosa che noi credenti stentiamo ancora a comprendere: l’amore di Dio è a chi ne ha bisogno non a chi lo merita, e tutti siamo bisognosi. L’avvicinarsi, l’accogliere il Signore… È questo che purifica, come vedremo in un altro episodio dove protagonista è una donna.

Continua…

Realtà volutamente nascoste

Intervista alla ricercatrice MJRIAM ABU SAMRA

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di Michele Giorgio (il manifesto)

 

Domanda
Sono state settimane di grande mobilitazione per la Palestina nelle università statunitensi e in quelle europee, anche in Italia. Con quale bilancio a suo avviso?

Risposta
Fare un bilancio è ancora prematuro. Negli Stati uniti è significativo che ogni gruppo studentesco stia cercando di raggiungere dei risultati nel confronto con la propria amministrazione universitaria all’interno degli obiettivi che sono comuni al movimento studentesco nazionale che chiede la fine del genocidio della popolazione palestinese a Gaza, assieme al disinvestimento da accordi economici in particolare con industrie militari e alla fine delle collaborazioni accademiche con istituzioni e aziende israeliane. Un risultato significativo è che questo movimento ha definito i modi, le finalità e il quadro in cui mobilitarsi a sostegno del popolo della Palestina. Non meno rilevante è che in alcuni atenei le amministrazioni abbiano preso in considerazione l’idea di votare possibili risoluzioni che portino al disinvestimento e al boicottaggio di Israele. Più di tutto questa mobilitazione studentesca, che in realtà abbraccia ben più ampi settori, ha permesso di smascherare e svelare la collusione della politica dei governi occidentali e del sistema internazionale di sfruttamento e oppressione delle masse e dei popoli del sud del mondo, con il genocidio a Gaza e le politiche coloniali di Israele.

D
Grazie alla mobilitazione per la Palestina, siamo di fronte a una riscoperta dell’internazionalismo dato per morto dai fautori, vecchi e nuovi, del liberismo globale?

R
Più che una riscoperta è una ripresa del discorso internazionalista che era stato offuscato dalla retorica di stampo neoliberale e da un nuovo linguaggio basato su concetti depoliticizzati, finalizzati ad atomizzare e rendere fenomeni isolati le istanze di lotta che si sono ciclicamente presentate nel corso degli anni, da Black Lives Matter alla lotta dei lavoratori, dalle rivendicazioni delle popolazioni indigene alla lotta del popolo palestinese. Ora vediamo che tutte queste istanze vengono collegate tra loro. Gaza e il genocidio diventano il simbolo evidente di un sistema globale iniquo, inerente al modello capitalista.

D
Come va letta la risposta o la reazione delle comunità ebraiche negli Stati uniti? I media o parte di essi ci riportano banalmente i giudizi di coloro che definiscono il movimento studentesco per la Palestina come una sorta di propagatore dell’antisemitismo.

R
Ci troviamo di fronte a una narrazione strumentalizzata, studiata ed elaborata a tavolino per presentare la realtà per quella che non è. Stando in mezzo agli studenti, alla gente che manifesta da mesi contro le politiche israeliane e la complicità occidentale nella colonizzazione della Palestina, appare evidente un dato: la comunità ebraica non è monolitica. Una buona fetta di manifestanti per Gaza è composta da ebrei che ci tengono a ribadire la loro identità ebraica e antisionista. Gruppi come Jewish Voice for Peace o Jews Against White Supremacy sono in prima linea nelle manifestazioni. E denunciano la strumentalizzazione del concetto di antisemitismo e di come tale accusa sia diventata uno strumento politico per censurare qualsiasi critica a Israele e per nascondere le misure punitive impiegate contro gli ebrei antisionisti. C’è una volontà del sistema, delle istituzioni e dei mezzi di comunicazione mainstream di continuare a offuscare la realtà sul territorio presentando le mobilitazioni in chiave antisemita: sono spesso proprio gli studenti ebrei a denunciare il tentativo di presentare la comunità ebraica come compatta a sostegno di Israele, tramite una mendace lente antisemita che nega la pluralità delle voci ebraiche. La questione palestinese è radicata in una analisi politica che va a criticare il progetto di colonialismo di insediamento di Israele.

D
È reale il pericolo, visto da alcuni, che l’attenzione sul movimento studentesco negli Usa e in Europa, finisca per concentrare troppo l’attenzione su quanto avviene fuori dalla Palestina a scapito proprio dei territori palestinesi?

R
Non vedo questo rischio. Certo, può esistere un tentativo di strumentalizzazione e dirottamento dell’attenzione verso dinamiche tipiche delle società occidentali per limitare lo spazio alle notizie che arrivano dalla Palestina. Non credo però che questa dinamica sia stata innescata dalle mobilitazioni globali. Al contrario le manifestazioni, le proteste (all’estero) sono una cassa di risonanza della lotta palestinese e centralizzano l’attenzione su quanto avviene in Palestina, inserendolo all’interno di una visione critica di stampo olistico che denuncia la collusione degli attori internazionali, ciò che rende possibile il genocidio e da oltre un secolo, l’oppressione dei palestinesi.

La Fede non è un rito

 

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Paolo Cugini

Aver identificato il rito con la fede: è questo il grande errore. Aver identificato il cammino di fede, che esige un cammino di conversione, un cambiamento di mentalità, con la partecipazione al rito: è stata questa la grande bestemmia che è stata prodotta e riprodotta nei secoli. Un tempo ci credevano tutti – ci ho creduto anch’io -, nel senso che tutti pensavano che fosse proprio così. Secoli e secoli di messe domenicali, hanno fatto credere che per andare in paradiso, che rappresenta un altro grande problema d’interpretazione, bisognava andare a messa la domenica e, il non andarci, significava cadere in peccato mortale e, di conseguenza, la necessità di confessarsi per non rischiare di aggiungere peccati su peccati. Anche perché a quel tempo, che in realtà è l’altro ieri, di preti ce n’erano a bizzeffe, per lo meno in Occidente, nel continente cristiano.

I seminari erano pieni di bambini e di ragazzi, ed erano pieni perché ce li mandavano i genitori. Le numerose famiglie cattoliche regalavano volentieri alla chiesa un figlio maschio o una figlia al seminario o al convento. Il mondo era tutto cattolico ed avere in famiglia un prete o una suora era un onore e non (quasi) una vergogna come ai nostri giorni.

Dicevo che c’erano tanti preti e, di conseguenza, era possibile un certo tipo di pastorale che poneva il prete al centro del discorso. La pastorale, infatti, nasce dalle esigenze del momento, dai problemi incontrati, dal contesto specifico. Non ci si deve meravigliare, dunque, se nel corso della storia le scelte pastorali cambiano e se in un luogo si agisce in modo differente da un altro.

C’è stato, dunque, un tempo in cui ci si poteva permettere il lusso d’inventare che, il non andare a messa, fosse un peccato mortale e che, per accedere nuovamente al banchetto eucaristico, fosse necessaria la confessione sacramentale, che non costava nulla, vista la quantità industriale dei preti a disposizione. Ce n’erano così tanti, ma così tanti che un giorno, negli anni ’50 del secolo scorso, un vescovo in visita ad un seminario del Nord Italia nella Regione dell’Emilia-Romagna, in quella città che rimane tra la Pilotta e la Ghirlandina, disse con tono sconsolato al rettore: “e dove li metteremo tutti questi futuri preti?”.

Ce n’erano così tanti di preti da far credere che davvero Gesù avesse inventato la chiesa al maschile, che davvero le donne servivano solo per lavare la biancheria dei preti e delle sacrestie, perché, come si diceva a quei tempi che, in realtà era ieri pomeriggio, è stata la donna a mangiare la mela e a darla poi all’uomo. Tutto un mondo, una cultura, una spiritualità, ma anche un’economia e, perché no, una pedagogia è stata costruita su questa abbondanza spaventosa – in tutti i sensi – di preti.

Quello che viene chiamato patriarcato ha fornito il substrato culturale per il diffondersi di pratiche ecclesiali, spacciate per oro colato dal Vangelo, mentre, in realtà, si trattava di scelte pastorali, anche se di pastorale in senso stretto c’era ben poco, perché si trattava d’imposizioni vere e proprie dettate dall’alto e, in altro, a quel tempo, c’erano loro: i preti. Si è fatto credere, e tutto un mondo ci ha creduto per secoli, che l’uomo fosse superiore e la donna inferiore e, per questo, solo gli uomini potevano entrare nei seminari e diventare preti.

Il problema, se così possiamo parlare, è che si è creduto che questa sovrabbondanza di preti fosse un dono della provvidenza. Poi si è scoperto che non era proprio così, che in diversi casi la provvidenza divina c’entrasse poco o nulla, anzi!

Questo errore di valutazione è stato il problema, l’inizio dei problemi. Si è chiaramente confuso la quantità con la qualità. Ne hanno sfornati così tanti, da non permettere alcun tipo di lettura differente. Tanti preti hanno voluto dire per secoli tante messe, a tutte le ore del giorno.

Tante messe, moltissime messe, sempre più messe ha fatto credere che il centro di tutto, il centro della religione cristiana fosse il rito e non il contenuto. Per questo per secoli si sono prodotte tantissime messe in cui la stragrande maggioranza dei fedeli partecipava senza capire assolutamente nulla. Del resto, non ce n’era bisogno di comprendere, perché chi portava in paradiso era la messa, il rito e non il contenuto, che avrebbe potuto provocare dei cambiamenti di comportamento o, addirittura, dei cambiamenti culturali.

Eppure, il discorso di Gesù all’inizio del Vangelo era chiaro, anzi, chiarissimo, al punto da non dare adito ad alcun tipo di fraintendimento. e diceva: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1,15). Più chiaro di così! Non c’è nemmeno bisogno di chiamare un interprete, un esegeta: è tutto molto chiaro. Del resto, il Vangelo è scritto per le persone semplici ed è, quindi alla portata di tutti.

L’invito è all’accoglienza del Vangelo e alla disponibilità al cambiamento, per permettere allo Spirito del Signore di modellare la nostra umanità, per fare in modo che i tratti dell’umanità di Gesù, del suo modo di essere nel modo, del suo stile non-violento, della sua capacità di accogliere tutti e tutte senza escludere nessuno, siano riprodotti in noi.

È di questo che avevamo bisogno! È di questo che il modo aveva sete e continua ad averne! Certamente, lo si capisce bene che il rito è più facile, che una quantità di riti da ascoltare è più facile che essere disponibili a cambiare idea, a modificare il proprio modo di essere e di pensare. È più facile pensare e far credere che se tieni le manine in un certo modo e ti inginocchi in un altro Gesù è contento.

Più difficile è smettere di essere disonesto. Difficile è condividere quello che si ha con i più poveri. Difficile è rispondere all’arroganza del mondo con gesti di amore e comprensione. Spacciare il rito come una scorciatoia per il paradiso: è stata questa la grande furbata.

Se uno ci guarda dentro bene, però, se si osserva il rito da vicino ci si accorge quasi immediatamente che c’è della sintonia, dell’armonia, c’è del sincronismo tra rito e contenuto del Vangelo. Il centro della messa, infatti, contiene in sintesi lo stile della vita di Gesù: un corpo spezzato per tutti, un sangue sparso per amore, una vita donata in modo gratuito e disinteressato. Forse per questo che, ad un certo punto, qualcuno ha cominciato a dire: meno messe più messa! Che cosa voleva dire quel furbacchione?

Probabilmente che la religione fa male alla salute, che una vita religiosa fatta solo di precetti e di riti nuoce all’equilibrio esistenziale, perché ci porta a credere che possiamo controllare Dio, possiamo pretendere di aver il pass per il paradiso e, di conseguenza, rischiamo di entrare nella pericolosissima fase di delirio di onnipotenza.

Il Vangelo, invece, ci propone uno stile di vita in cui il rito è una parte del percorso, un ricordo di ciò che è stato e un invito per continuare il cammino insieme ai fratelli e alle sorelle.

regiron.blogspot.com

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Lettera all’Europa dei vescovi Zuppi e Crociata

Qualche considerazione in premessa

Piero Murineddu

Una lettera piena di appassionate sollecitazioni questa di MATTEO ZUPPI, presidente della conferenza episcopale Italiana (CEI), e di MARIANO CROCIATA, delegato dalla dalla stessa Cei presso la Commissione delle conferenze  episcopali della Comunità Europea (COMECE).

Crociata, un  cognome questo che rimanda a un tristissimo passato della Chiesa Cattolica e di buona parte di chi governava questa porzione del pianeta che si recò, con la croce sul petto e addirittura nel nome del Principe della Pace fatto fuori dal potere religioso, a seminare morte e distruzione in quella terra da troppo tempo, e oggi forse più  che mai.

Sul lungo e rispettabilissimo testo voglio evidenziare alcune mie modeste considerazioni:

1. La disumana carneficina che continua contro i palestinesi non ha risvegliato l’antisemitismo espresso atrocemente con la Shoah attuata dal nazismo con la complicità italiana fascista, ma la contrarietà al sionismo, confermato dalla disumana ferocia di chi governa oggi Israele. (*)

2. La “forza” del nostro continente, che nel titolo ho volutamente chiamare Europa e non Unione Europea, ancora tutta da costruire, non deve esprimersi nella potenza delle armi possedute e nella rincorsa forsennata ad armarsi sempre più, ma nel livello di civiltà che dimostra di aver raggiunto e che pratica, cosa ancora tutta da dimostrare coi fatti.

3. Riguardo alla mancata crescita demografica. Anche su questo: e se la civiltà, per ora molto presunta, i Paesi europei la dimostrassero incoraggiando, agevolando e non intralciando l’adozione dei tanti bambini che nel mondo hanno bisogno di genitori che si occupino di farli crescere serenamente?

4. Opportuno il riferimento alla persistente tendenza dell’Italia a chiudersi verso chi si sente costretto a lasciare la propria terra depredata da tempo immemorabile dagli interessi di stranieri e governata spesso da loschi individui foraggiati dai vecchi e nuovi stranieri, se possibile ancor più interessati. Purtroppo, ed è sempre più evidente, sono “politici” che si son formati in un ambiente che si sente orfana del ventennio mussoliniano e di quello berlusconiano – e cosa grave con l’assenso di una certa Sinistra che sembra aver smarrito le sue idealità! – a rafforzare negli elettori l’idea che chi approda alle nostre coste o si affaccia ai nostri confini è a prescindere un pericolo e non un’opportunità di crescita, per entrambi ma principalmente per chi accoglie.

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Lettera all’Europa

Matteo Maria Zuppi e Mariano Crociata

Cara Unione Europea,

darti del tu è inusuale, ma ci viene naturale perché siamo cresciuti con te. Sei una, sei “l’Europa”, eppure abbracci ben 27 Paesi, con 450 milioni di abitanti, che hanno scelto liberamente di mettersi insieme per formare l’Unione che sei diventata. Che meraviglia! Invece di litigare o ignorarsi, conoscersi e andare d’accordo! Lo sappiamo: non sempre è facile, ma quanto è decisivo, invece di alzare barriere e difese, cancellarle e collaborare. Tu sei la nostra casa, prima casa comune. In questa impariamo a vivere da “Fratelli Tutti”, come ha scritto un tuo figlio i cui genitori andarono fino alla “fine del mondo” per cercare futuro.

NEL CUORE UN DESIDERIO

Ti scriviamo perché abbiamo nel cuore un desiderio: che si rafforzi ciò che rappresenti e ciò che sei, che tutti impariamo a sentirti vicina, amica e non distante o sconosciuta. Ne hai bisogno perché spesso si parla male di te e tanti si scordano quante cose importanti fai. Durante il Covid lo abbiamo visto: solo insieme possiamo affrontare le pandemie. Purtroppo, lo capiamo solo quando siamo sopraffatti dalle necessità, per poi dimenticarlo facilmente. Così, quando pensiamo che possiamo farcela da soli finiamo tutti contro tutti.

DAGLI INIZI AD OGGI

Non possiamo dimenticare come prima di te, per secoli, abbiamo combattuto guerre senza fine e milioni di persone sono state uccise. Tutti i sogni di pace si sono infranti sugli scogli di guerre, le ultime quelle mondiali, che hanno portato immense distruzioni e morte. Proprio dalla tragedia della Seconda guerra mondiale – che ha toccato il male assoluto con la Shoah e la minaccia alla sopravvivenza dell’umanità intera con la bomba atomica – è nato il germe della comunità di Paesi sovrani che oggi è l’Unione Europea. C’è stato chi ha creduto che le nazioni non fossero destinate a combattersi, che dopo tanto odio si potesse imparare a vivere assieme. Tra quelli che ti hanno pensata e voluta non possiamo dimenticare Robert Schuman, francese, Konrad Adenauer, tedesco, e Alcide De Gasperi, italiano: animati dalla fede cristiana, essi hanno sentito la chiamata a creare qualcosa che rendesse impossibile il ritorno della guerra sul suolo europeo. Hanno pensato con intelligenza, ambizione e coraggio. Non sono mancati momenti difficili, ma la forza che viene dall’unità ha mostrato il valore del cammino intrapreso e la possibilità di correggere, aggiustare, intendersi.

La Comunità Europea venne concepita nel 1951 attorno al carbone e all’acciaio, materie allora indispensabili per fare la guerra, per prevenire ogni velleità di farne uso ancora una volta l’uno contro l’altro. In realtà quei tre grandi uomini, e tanti altri con loro, hanno cercato di più, e cioè la riconciliazione tra i popoli e la cancellazione degli odi e delle vendette. Trovare qualcosa su cui lavorare insieme, anche solo sul piano economico, come dimostrano i Trattati firmati a Roma nel 1957, è stato l’inizio di un cammino che ha visto poco alla volta nuovi popoli entrare nella Comunità e, dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1989, il cambiamento del nome, nel 1992, in Unione Europea, e l’allargamento, nel 2004, ai Paesi dell’allora Patto di Varsavia, ben dieci in una volta. I problemi non sono mancati, ma quanto sono stati importanti la moneta unica e l’abbattimento delle barriere nazionali per la libera circolazione delle persone e delle merci! Ultimo, l’accordo sulla riforma con il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009.

IL SENSO DELLO STARE INSIEME

Cara Unione Europea, sei un organismo vivo, perciò forse viene il momento per nuove riforme istituzionali che ti rendano sempre più all’altezza delle sfide di oggi. Ma non puoi essere solo una burocrazia, pur necessaria per far funzionare organizzazioni così complesse come quella che sei diventata. Direttive e regolamenti da soli non fanno crescere la coesione. Serve un’anima! In questi anni abbiamo visto compiere passi avanti significativi, quando per esempio hai accompagnato alcuni Paesi a superare le crisi economiche, ma abbiamo anche dovuto registrare fasi di stallo e difficoltà. E queste crescono quando smarriamo il senso dello stare insieme, la visione del nostro futuro condiviso, o facciamo resistenza a capire che il destino è comune e che bisogna continuare a costruire un’Europa unita.

IL RITORNO DELLA GUERRA

Perciò, qualche volta ci chiediamo: Europa, dove sei? Che direzione vuoi prendere? Sono questi anche gli interrogativi del Papa: «Guardando con accorato affetto all’Europa, nello spirito di dialogo che la caratterizza, verrebbe da chiederle: verso dove navighi, se non offri percorsi di pace, vie creative per porre fine alla guerra in Ucraina e ai tanti conflitti che insanguinano il mondo? E ancora, allargando il campo: quale rotta segui, Occidente?» (Discorso, Lisbona, 2 agosto 2023).

In tutti questi anni siamo molto cambiati e facciamo fatica a capire e a tenere vivo lo spirito degli inizi. Dopo un così lungo periodo di pace abbiamo pensato che una guerra su territorio europeo sarebbe stata ormai impossibile. E invece gli ultimi due anni ci dicono che ciò che sembrava impensabile è tornato. Abbiamo bisogno di riprendere in mano il progetto dei padri fondatori e di costruire nuovi patti di pace se vogliamo che la guerra contro l’Ucraina finisca, e che finisca anche la guerra in corso in Medio Oriente, scoppiata a seguito dell’attacco terroristico del 7 ottobre scorso contro Israele, e con essa l’antisemitismo, mai sconfitto e ora riemergente (1) . Lo dice così bene anche la nostra Costituzione italiana: è necessario combattere la guerra e ripudiarla per davvero!

Se non si ha cura della pace, rischia sempre di tornare la guerra. Lo diceva Robert Schuman nella sua Dichiarazione del 9 maggio 1950, che ha dato avvio al processo di integrazione europea: «L’Europa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra». Egli si riferiva al passato, ma le sue parole valgono anche oggi. L’unità va cercata come un compito sempre nuovo e urgente. Non dobbiamo aspettare l’esplosione di un altro conflitto per capirlo.

IL RUOLO INTERNAZIONALE E LA TENTAZIONE DEI NAZIONALISMI

Che ruolo giochi, Europa, nel mondo? Vogliamo che tu incida e porti la tua volontà di pace, gli strumenti della tua diplomazia, i tuoi valori. Risveglia la tua forza così da far sentire la tua voce, così da stabilire nuovi equilibri e relazioni internazionali. Le tue divisioni interne non ti permettono di assumere quel ruolo che dalla tua statura storica e culturale ci si aspetterebbe. Non vedi il rischio che le tue contrapposizioni intestine indeboliscano non solo il tuo peso internazionale ma anche la capacità di far fronte alle attese dei tuoi popoli?

Tanti pensano di potere usufruire dei benefici che tu hai indubbiamente portato, come se fossero scontati e niente possa comprometterli. La pandemia o le periodiche proteste, ultima quella degli agricoltori, ci procurano uno sgradevole risveglio. Capiamo che tanti vantaggi acquisiti potrebbero svanire. Il senso della necessità però non basta a spingere sempre e tutti a superare le divisioni. Alcuni vogliono far credere che isolandosi si starebbe meglio, quando invece qualunque dei tuoi Paesi, anche grande, si ridurrebbe fatalmente al proverbiale vaso di coccio tra vasi di ferro. Per stare insieme abbiamo bisogno di motivazioni condivise, di ideali comuni, di valori apprezzati e coltivati. Non bastano convenienze economiche, poiché alla lunga devono essere percepite le ragioni dello stare insieme, le uniche capaci di far superare tensioni e contrasti che proprio gli interessi economici portano con sé nel loro fisiologico confrontarsi.

Ha detto Papa Francesco: «In questo frangente storico l’Europa è fondamentale. Perché essa, grazie alla sua storia, rappresenta la memoria dell’umanità ed è perciò chiamata a interpretare il ruolo che le corrisponde: quello di unire i distanti, di accogliere al suo interno i popoli e di non lasciare nessuno per sempre nemico. È dunque essenziale ritrovare l’anima europea» (Discorso, Budapest, 28 aprile 2023).

Vorremmo che tutti sentissimo l’orgoglio di appartenerti, Europa. Oggi appare distante, a volte estraneo, tutto ciò che sta oltre i confini del proprio Paese. Eppure, le due appartenenze, quella nazionale e quella europea, si implicano a vicenda. La tua è stata fin dall’inizio l’Unione di Paesi liberi e sovrani che rinunciavano a parte della loro sovranità a favore di una, comune, più forte. (2)
Perciò non si tratta di sminuire l’identità e la libertà di alcuno, ma di conservare l’autonomia propria di ciascuno in un rapporto organico e leale con tutti gli altri.

VALORI EUROPEI E FEDE CRISTIANA

Le nostre idee e i nostri valori definiscono il tuo volto, cara Europa. Anche in questo la fede cristiana ha svolto un ruolo importante, tanto più che dal suo sentire è uscito il progetto e il disegno originario della tua Unione. Come cristiani continuiamo a sentirne viva responsabilità; e del resto troviamo in te tanta attenzione alla dignità della persona, che il Vangelo di Cristo ha seminato nei cuori e nella tua cultura. Soffriamo non poco, perciò, nel vedere che hai paura della vita, non la sai difendere e accogliere dal suo inizio alla sua fine, e non sempre incoraggi la crescita demografica.(3)

«Penso – dice il Papa – a un’Europa che non sia ostaggio delle parti, diventando preda di populismi autoreferenziali, ma che nemmeno si trasformi in una realtà fluida, se non gassosa, in una sorta di sovranazionalismo astratto, dimentico della vita dei popoli. […] Che bello invece costruire un’Europa centrata sulla persona e sui popoli, dove vi siano politiche effettive per la natalità e la famiglia […], dove nazioni diverse siano una famiglia in cui si custodiscono la crescita e la singolarità di ciascuno» (Discorso, Budapest, 28 aprile 2023).

IL TEMA DEI MIGRANTI E LE SUE IMPLICAZIONI

Cara Europa, tu non puoi guardare solo al tuo interno. Non si può vivere solo per stare bene, ma stare bene per aiutare il mondo, combattere l’ingiustizia, lottare contro le povertà. Ormai da decenni sei il punto di arrivo, il sogno di tante persone migranti che da diversi continenti cercano entro i tuoi confini una vita migliore. Tanti vogliono raggiungerti perché sono alla ricerca disperata di un futuro. E molti, con il loro lavoro, non ti aiutano forse già a prepararne uno migliore? Non si tratta di accogliere tutti, ma che nessuno perda la vita nei “viaggi della speranza” e tanti possano trovare ospitalità. Chi accoglie, genera vita! L’Italia è spesso lasciata sola, come se fosse un problema solo suo o di alcuni, ma non per questo deve chiudersi.(4)
Prima o poi impareremo che le responsabilità, comprese quelle verso i migranti, vanno condivise, per affrontare e risolvere problemi che in realtà sono di tutti. Tu rappresenti un punto di riferimento per i Paesi mediterranei e africani, un bacino immenso di popoli e di risorse nella prospettiva di un partenariato tra uguali. Compito essenziale perché in realtà un soggetto sovranazionale come l’Unione non può sussistere al di fuori di una reciprocità di relazioni internazionali che ne dicano il riconoscimento e il compito storico, e che promuovano il comune progresso sociale ed economico nel segno dell’amicizia e della fraternità.

COMPITI E SFIDE

Cara Europa, è tempo di un nuovo grande rilancio del tuo cammino di Unione verso una integrazione sempre più piena, che guardi a un fisco europeo che sia il più possibile equo; a una politica estera autorevole; a una difesa comune che ti permetta di esercitare la tua responsabilità internazionale; a un processo di allargamento ai Paesi che ancora non ne fanno parte, garanzia di una forza sempre più proporzionata all’unità che raccogli ed esprimi. Le esigenze di innovazione economica e tecnica (pensiamo all’Intelligenza Artificiale), di sicurezza, di cura dell’ambiente e di custodia della “casa comune”, di salvaguardia del welfare e dei diritti individuali e sociali, sono alcune delle sfide che solo insieme potremo affrontare e superare. Non mancano purtroppo i pericoli, come quelli che vengono dalla disinformazione, che minaccia l’ordinato svolgimento della vita democratica e la stessa possibilità di una memoria e di una storia non falsate.
Insieme alle riforme istituzionali democraticamente adottate, c’è bisogno di far crescere un sentire comune, un apprezzamento condiviso dei valori che stanno alla base della nostra convivenza nell’Unione Europea. Ci vuole un nuovo senso della cittadinanza, un senso civico di respiro europeo, la coscienza dei popoli del continente di essere un unico grande popolo. Ne siamo convinti: è innanzitutto questo senso di comunità di cittadini e di popoli che ci chiedi di fare nostro, cara Europa.

LE PROSSIME ELEZIONI

Le prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo e la nomina della Commissione Europea sono l’occasione propizia e irripetibile, da cogliere senza esitazione. Purtroppo, a farsi valere spesso sono le paure e il senso di insicurezza di fronte alle difficoltà. Anche questo andrebbe raccolto e ascoltato per mostrare come proprio tu sia lo strumento e il luogo per affrontare e vincere paure e minacce. Facciamo appello, perciò, a tutti, candidati e cittadini, a cominciare dai sedicenni che per la prima volta in alcuni Paesi andranno a votare, perché sentano quanto sia importante compiere questo gesto civico di partecipazione alla vita e alla crescita dell’Unione. Non andare a votare non equivale a restare neutrali, ma assumersi una precisa responsabilità, quella di dare ad altri il potere di agire senza, se non addirittura contro, la nostra libertà. L’assenteismo ha l’effetto di accrescere la sfiducia, la diffidenza degli uni nei confronti degli altri, la perdita della possibilità di dare il proprio contributo alla vita sociale, e quindi la rinuncia ad avere capacità e titolo per rendere migliore lo stare insieme nell’Unione Europea.
L’augurio che ti facciamo, cara Unione Europea, è che questa tornata elettorale diventi davvero un’occasione di rilancio, un risveglio di entusiasmo per un cammino comune che contiene già, in sé e nella visione che proietta, un senso vivo di speranza e di impegno motivato e convinto da parte dei tuoi cittadini.

UN NUOVO UMANESIMO EUROPEO

Sogniamo perciò ancora con Papa Francesco: «Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, un costante cammino di umanizzazione, cui servono memoria, coraggio, sana e umana utopia» (Discorso, Vaticano, 6 maggio 2016)

 

(*) Per capire meglio l’origine e la cronologia della tragedia palestinese

https://www.youtube.com/live/qeP9mcfF1C4?si=BVq8cXpyspM_-crU

Ah, ecco: il Silenzio!

Un racconto di Pablo J. Luis Molinero

Nel grembo di una mamma c’erano due bambini. Uno chiese all’altro:

Ma tu ci credi in una vita dopo il parto?

L’altro rispose:

Certo! Deve esserci qualcosa dopo il parto. Forse noi siamo qui per prepararci per quello che verrà più tardi

Sciocchezze” disse il primo – non c’è vita dopo il parto! Che tipo di vita sarebbe quella?

Il secondo riprese:

Io non lo so, ma ci sarà più luce di qui. Forse potremo camminare con le nostre gambe e mangiare con le nostre bocche. Forse avremo altri sensi che non possiamo capire ora

 Il primo replicò:

Questo è assurdo. Camminare è impossibile. E mangiare con la bocca!? Ridicolo! Il cordone ombelicale è tutto quello di cui abbiamo bisogno… e poi è troppo corto. La vita dopo il parto è fuori questione

Il secondo continuò ad insistere:

Beh, io credo che ci sia qualcosa, forse diverso da quello che è qui. Forse la gente non avrà più bisogno di questo tubo

Il primo contestò:

Sciocchezze! Inoltre, se c’è davvero vita dopo il parto, allora perché nessuno è mai tornato da lì? Il parto è la fine della vita e nel postparto non c’è nient’altro che oscurità, silenzio e oblio. Il parto non ci porterà da nessuna parte

Beh, io non sodisse il secondoma sicuramente troveremo la mamma e lei si prenderà cura di noi

Il primo rispose:

Mamma? Tu credi davvero alla mamma? Questo sì che è ridicolo. Se la mamma c’è, allora dov’è ora?

Il secondo riprese:

Lei è intorno a noi. Siamo circondati da lei. Noi siamo in lei. È per lei che viviamo. Senza di lei questo mondo non ci sarebbe e non potrebbe esistere

Riprese il primo:

Beh, io non posso vederla, quindi, è logico che lei non esiste

Al che il secondo rispose:

A volte, quando stai in silenzio, se ti concentri ad ascoltare veramente, si può notare la sua presenza e sentire la sua voce da lassù

 

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Parole che bruciano

Piero Murineddu

La MORTE DI 500 MILA UCRAINI è passato sotto silenzio; la DEPORTAZIONE dei migranti da parte del governo inglese è passato pressoché sotto silenzio; allo STERMINIO a Gaza di un popolo di donne e bambini, CON LA COMPLICITÀ DELL’OCCIDENTE, ci stiamo facendo l’abitudine e ormai tendiamo a girare la testa e il pensiero da tutt’altra parte.

In tutto questo immane flagello, i Media persistono nel presentare “Sant’Occidente”, che in fondo vuole testardamente e a costo di migliaia, migliaia e ancora migliaia di vittime, espandere il suo dominio servendosi di due pedine quali sono l’Ucraina e Israele. Il presunto Bene che combatte il sicuro Male. E nel mentre, l’Italietta della siora ‘scrivetesoloGiorgia’ si astiene nel dare riconoscimento pieno alla Palestina come membro dell’ONU, con motivazioni di un’ipocrisia tale da farci vergognare di dover calpestare lo stesso suolo di questi pseudo governanti politicanti.

Nell’analisi di ELENA BASILE davanti a un pubblico di Bologna di alcuni giorni fa, in mezzo ad altri aspetti, l’originaria e profonda ingiustizia voluta dall’Occidente già dal 1948 nei confronti del popolo che viveva in Palestina.

In quest’altra registrazione in studio dello scorso gennaio, un faccia a faccia con il coordinatore di PACE TERRA DIGNITÀ, in cui l’ex ambasciatrice inizia, dietro stimolo di Santoro, parlando dell’alzata di scudi da parte del sindacato degli ambasciatori allorché in TV la sentono prendere chiara posizione riguardo a quanto succedeva alle porte dell’Europa e in Medio Oriente e il suo graduale oscuramento da parte dei media nazionali…

L’incredibile vicenda della “Maternità” di Roberto Ferruzzi

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Riccardo Ghidotti

La storia che raccontiamo ha dell’incredibile. È il raro caso in cui la fama di un’opera d’arte supera di gran lunga l’aspettativa, pur rimanendo quasi sconosciuto l’autore e falsato il soggetto stesso. È il caso della Maternità di Roberto Ferruzzi, nata proprio in un incantevole angolo dei Colli Euganei, a Luvigliano. Raffigurò il volto di Angelina Cian, giovane ragazza di soli 11 anni avvolta in un manto blu, che tiene in braccio amorevolmente Giovanni, il suo fratellino di pochi mesi d’età, bambino dormiente. Il dipinto vinse la seconda Biennale di Venezia nel 1897. La bellezza pittorica, la dolcezza dei lineamenti e la tenerezza che esprime l’opera del Ferruzzi, hanno reso da subito famoso il dipinto, di cui misteriosamente non si ebbe più traccia della sua collocazione. Alcuni sostengono che andò perduto durante il secondo conflitto mondiale.

Sappiamo che fu acquistato per trentamila lire, e più volte rivenduto. Fu infine acquistato dai Fratelli Alinari noti fotografi fiorentini, i quali prima di rivenderlo, si riservarono il diritto di riproduzione e propaganda. La fama dell’opera superò ben presto quella dell’autore. L’immagine della giovinetta undicenne Angelina col fratellino venne diffusa con la scritta “Madonna con Bambino”, riprodotta in tutto il mondo, divenendo l’effige mariana più diffusa al mondo, a volte addirittura attribuita erroneamente persino a pittori come Raffaello e autori del Rinascimento. Anche il nome dell’effige ha assunto numerose varianti quali Madonnina, Madonna del Riposo, Madonna delle Vie, Madonna della Tenerezza, Madonnella, Zingarella.

Della tela originale non si ha traccia. Sembra sia stata acquistata da un americano, che probabilmente affondò con la nave che lo stava portando in America.
La vicenda vera legata al quadro venne scoperta solo nel 1984, grazie alla testimonianza della figlia di Angelina, Mary poi suor Angela Maria Bovo.

Eccone lo stralcio delle sue dichiarazioni, da cui si è riusciti a risalire a tutta la vicenda.

Angelina Cian, trasferitasi in seguito da Luvigliano a Venezia, sposò un certo Antonio Bovo e seguì il marito in America intorno al 1906, stabilendosi ad Oakland in California. La coppia ebbe 10 figli, e nel 1929 morì Antonio Bovo, a soli 42 anni di età. Furono tempi angoscianti per la povera vedova che non riuscì ad affrontare le grosse difficoltà finendo in un ospedale psichiatrico fino alla morte avvenuta nel 1972.

La piccola Mary era la settima dei 10 figli di Angelina Cian e Antonio Bovo. In seguito alla morte del padre e al crollo psichico della madre, con altri fratelli era stata affidata a un orfanotrofio. Divenne suora con il nome di Angela Maria, in omaggio a sua madre e a suor Angela, sua guida spirituale. Quest’ultima la incoraggiò a recarsi in Italia alla ricerca dei suoi lontani parenti. A Venezia ritrovò due vecchie zie ottantenni, sorelle di Angelina Cian, sua madre. Fu una delle zie che volle mostrarle il ritratto di sua madre da giovane. Era l’immagine della Maternità di Roberto Ferruzzi. Così fu svelato il segreto che avvolse nel mistero il quadro, e che fa ancora oggi di quella magnifica opera, la più amata e diffusa “Madonnina” del mondo.

ROBERTO FERRUZZI nacque a Sebenico, in Dalmazia, nel 1853, da genitori italiani. Condotto a 4 anni a Venezia, allora capitale della Cultura, per intraprendervi gli studi, alla morte improvvisa del padre, un noto avvocato, ritornò di nuovo in Dalmazia. Qui visse fino all’età di 14 anni, dedicandosi agli studi classici e apprendendo i primi rudimenti della pittura autodidatta. Destinato, secondo la tradizione di famiglia, alla professione forense, ritornò di nuovo a Venezia per completare gli studi e frequentare la Facoltà di Giurisprudenza a Padova. Nel 1879, dopo un ulteriore soggiorno in Dalmazia, maturò definitivamente la vocazione per l’arte e si stabilì a Luvigliano, sui Colli Euganei. La sua casa divenne meta di famosi artisti dell’epoca, come il musicista e amico Cesare Pollini. Alternando musica e pittura diede alla luce le sue opere migliori tra cui “Madonnina”. Dopo la prematura scomparsa della amatissima moglie Ester Sorgato, condusse una vita piuttosto riservata. Morì il 16 febbraio 1934 ed è sepolto con la moglie e la figlia Mariska nel piccolo cimitero di Luvigliano.

Fermiamo SUBITO la corsa alle armi

di Carlo Rovelli

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Penso che ci troviamo su una china drammaticamente pericolosa. L’ “Orologio dell’Apocalisse”, la valutazione periodica del rischio di catastrofe planetaria iniziata nel 1947 dagli scienziati del Bulletin of the Atomic Scientists, non ha mai indicato un livello di rischio alto come ora. Le tensioni internazionali sono cresciute bruscamente. Molti governi moltiplicano forsennatamente le spese militari. Si parla apertamente di una possibile guerra atomica. La demonizzazione reciproca si è impennata: nelle narrazioni di molti paesi, “gli altri” vengono dipinti come criminali pazzi e pericolosi, in perfetta simmetria.

C’era un tempo in cui i leader mondiali, da Clinton a Gorbaciov, da Mandela ai politici che hanno fermato la guerra civile in Irlanda, pensavano in termini di “risolvere i problemi senza spargere sangue”. Oggi i politici parlano in termini di “vincere e abbattere il nemico, non importa se costa spargere sangue”. Queste sono le parole che vengono pronunciate sempre più spesso a Washington come a Tel Aviv, a Mosca come a Berlino. Un esasperato nazionalismo si diffonde in vari paesi del mondo, dall’India agli Stati Uniti, e cresce ovunque.

La catastrofe climatica è già in corso, e le contromisure che stavamo iniziando a prendere sono già state accantonate, messe in secondo piano dall’urgenza di litigare. Il mondo scivola inesorabilmente verso un’altra delle sue periodiche catastrofi: quando gli esseri umani si massacrano l’un l’altro, pieni di ardore, convinti da ogni parte di essere nel giusto, dalla parte del vero Dio, della Democrazia, della Santa Patria, tutti convinti che gli aggressori, i cattivi, siano gli altri.

La fonte dell’instabilità recente è chiara. Il piccolo gruppo di nazioni composto da America, Canada, Europa, Australia e Giappone, minoranza dell’umanità, disponeva fino a ieri di una gigantesca supremazia economica ereditata dal colonialismo, che dalla fine della guerra fredda ha permesso un controllo politico pressoché completo del pianeta. Il diffondersi della prosperità nel mondo sta modificando radicalmente la situazione, lasciando a questo piccolo gruppo ormai praticamente la sola supremazia militare. Il mondo sta cercando di adattarsi a questa nuova geografia economica. Se sarà in grado di farlo in maniera pacifica o violenta, è la questione che deciderà la storia di questo secolo.

Su questo scenario pericoloso si sovrappone l’immensa e scellerata pressione esercitata dai fabbricanti di armi di tutto il mondo. Gli smisurati proventi dell’industria militare generano un potere che spinge all’incremento degli armamenti e al loro uso, per il solo motivo che qualcuno ci guadagna. È celebre la denuncia di questo stato di cose fatta dallo stesso presidente americano Eisenhower, che ben conosceva il sistema dall’interno.

In Italia, un personaggio che ha giocato un ruolo centrale per la potente industria militare italiana è ora ministro della difesa. Il sito web del ministero della Difesa ora menziona fra le sue priorità quella di aumentare, per lucro, la vendita di armi. Le decisioni strategiche di armamento del nostro paese possono essere influenzate dai fabbricanti di armi. La vita e la morte delle persone, la guerra e la pace, dipendono dagli interessi economici di questo o di quello.

Quello di cui il pianeta ha bisogno oggi sono teste fredde, capaci di pensare globalmente, di pensare all’interesse comune, ai pericoli comuni, di calmare il gioco che si sta facendo sempre più pericoloso per tutti. Servono leader ragionevoli capaci di cercare soluzioni pacifiche agli inevitabili conflitti di potere. La maggior responsabilità è sulle spalle dell’Occidente, che deve decidere se accettare serenamente la rinegoziazione dell’equilibrio del potere globale, resa inevitabile dalla diffusione della prosperità nel mondo, o rimanere arroccato alla sua attuale posizione di pre-dominio. Deve decidere se accettare un pianeta più democratico a livello globale o continuare ad arrogarsi esplicitamente, come ora, una rapace leadership mondiale.

L’Europa, al momento molto spersa, potrebbe giocare un ruolo importante nel calmare le acque. L’Italia, in tutto ciò, è in prima linea. Mentre altri paesi europei come Austria, Irlanda, Spagna, cercano posizioni di neutralità o equilibrio, e invocano la calma, l’Italia è totalmente allineata ai più bellicosi. È uno dei principali produttori di armi al mondo e uno dei principali fornitori di armi ad Israele. Ha preso il comando delle operazioni militari europee contro lo Yemen, non autorizzate dalle Nazioni Unite, in palese violazione del diritto internazionale. È complice di ripetute violazioni della legalità internazionale in questa guerra e in diverse altre precedenti, non autorizzate dalle Nazioni Unite, in cui ha partecipato. Ma soprattutto, è in prima linea nella forsennata corsa agli armamenti che ci sta spingendo verso l’abisso.

L’Italia ha nel suo DNA culturale e politico una profonda avversione alla guerra, rinforzata nel secolo scorso dalla chiara consapevolezza del disastro generato dall’esaltazione della guerra e dalla glorificazione delle armi che hanno caratterizzato il ventennio di Mussolini. Esiste un’Italia vasta che desidera un mondo più pacifico, ma che al momento non trova un riferimento politico da sostenere, se non nelle parole del Papa. Esiste un’Italia consapevole che non vuole la corsa agli armamenti che ci sta portando alla catastrofe.

 

* Prefazione al libro “L’economia a mano armata”, scaricabile all’indirizzo https://sbilanciamoci.info/leconomia-a-mano-armata

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Passiva rassegnazione davanti a quanto accade? Assolutamente no!

Dallo sciopero della Rai squilli di rivolta per il giornalismo italiano

Pier Giorgio Pinna

 

Intromissioni partitiche, manovre finanziarie, input imprenditoriali, veleni, silenzi, distorsioni, propagande.

E, mai come in questi ultimi anni, menzogne per “costruire il nemico” con metodi da talk.

In tempi di guerra il blocco di sistema politica/affari/giornalismo costituisce un’emergenza democratica. È un’arma potentissima nelle mani di chi fabbrica le vere armi, poi le vende alimentando i conflitti, comprandosi magari nel frattempo qualche testata a sostegno delle fabbriche di morte. Ed è un’arma letale nelle mani di chi controlla i media non per favorire un’editoria sana, ma solo per tutelare interessi in altri settori e alimentare speculazioni attraverso strategie di marketing e sovranità degli algoritmi.

La Sardegna, per versanti prevalenti, non fa eccezione. Anzi: quasi tutta l’informazione è pervasa da un’aura di ineluttabilità.

Inevitabilità verso il mantenimento di poligoni, basi, esercitazioni e servitù militari.

Inevitabilità verso l’approvazione in parlamento di nuove missioni cosiddette di pace con mezzi e battaglioni che continuano a utilizzare l’isola come piazzaforte “di prove belliche” nel Mediterraneo.

Inevitabilità verso la pregiudiziale esclusione di qualsiasi alternativa diplomatica da parte di troppe direzioni giornalistiche sarde e non sarde, come l’avvio di negoziati internazionali e cessate il fuoco.

Sentir dire e crederci è un tutt’uno: grazie a quel potere della disinformazione che Mussolini, Stalin, Goebbels conoscevano bene, e oggi conoscono altrettanto bene imperialisti vecchi e nuovi. Ma adesso c’è più di un’aggravante. La prima è che l’opinione pubblica, la maggioranza almeno, nonostante il bombardamento mediatico, continua a essere pervicacemente contraria alla guerra. La seconda: la stessa opinione pubblica, la sua maggioranza, pur contraria alla guerra non partecipa che marginalmente alle mobilitazioni indette dai diversi soggetti che le promuovono.

Ciò dimostra, insieme alla rassegnazione diffusa, la sfiducia totale nel sistema politico e della rappresentanza che coinvolge pressoché quasi ogni soggetto – “tanto son tutti uguali” – e rende inefficace l’opposizione. Però, con i dovuti distinguo, l’informazione in larga misura non aiuta a impedire i cortocircuiti che ne derivano. Il che rappresenta un’ulteriore aggravante.

Nel frattempo sul web, molto spesso, le reti social non filtrano il vero dal falso. Ci sono siti che producono news truccate, troll e robot che le amplificano seminando scontri, insulti, infamie. E anche le fonti ufficiali che fanno capo agli organi di comunicazione tradizionali di frequente agiscono per iniziative e promozioni preconfezionate. Prevale così il giornalismo che indica il tema scelto del giorno e basta, senza mai analisi complesse e testimonianze prive di pregiudizi. Dominano invece l’approssimazione e il plausibile, gli spettacoli di parole, gli show ammiccanti. Così come le gabbie a effetto per i click e i titoli di scatola su ipotesi non verificate. Insomma: nel caso dei conflitti in atto è il gatto con l’elmetto e il giubbotto antiproiettile che si morde la coda. Una spirale perversa.

Sul perché attraversiamo questo momento esistono ragioni complessive generali: di tipo globale, per così dire, e ragioni territoriali più specifiche, nel nostro caso legate all’area del Mediterraneo. Per esempio, in Italia nell’ultimo quarto di secolo è aumentata a dismisura la concentrazione delle testate e dei mezzi di produzione nelle mani di non-editori: a improvvisarsi eredi di Caracciolo, Olivetti e Longanesi sono perlopiù finanzieri, industriali e operatori con interessi in ambiti diversi, spesso stretti a doppio filo con politici delle maggioranze di governo (e non solo). Dalle precedenti lottizzazioni sino a oggi, poi, la pressione dei partiti sulla Rai si è trasformata in occupazione. Assetto di potere assoluto dov’è facile manipolare le scelte verso le sole impostazioni di notizie utili alle tattiche di governo. E quindi in favore di un’escalation bellica.

Intanto spadroneggiano Mediaset e gli alleati dell’ex capo di Forza Italia Berlusconi nelle tv e radio private da un lato, mentre si estendono le multinazionali che controllano social e siti su internet dall’altro lato. Tutti soggetti che, nelle tv e in rete, hanno raggiunto posizioni monopolistiche tali da rendere residuale la quasi totalità dei tentativi di contro-informazione fatti da piccole emittenti o blog alternativi rispetto a propagande dominanti in campo pubblicitario e bellico. È diventata “legge della fisica”, perfino nella stessa categoria dei comunicatori, l’idea mistificante secondo cui il declino della carta stampata sta segnando la fine del giornalismo. Mentre questo assioma, idolatrato da integrati a senso unico del web, serve semplicemente a bloccare l’avvio di quei network fondati sul mix sistematico di tutti i mezzi insieme (tv, radio, online, quotidiani e periodici). Mix in altri paesi da tempo alla base di sfide moderne: dalla multimedialità alle interazioni per un citizen journalism il passo può rivelarsi breve, ma pericoloso per certi manovratori lasciati per ora indisturbati. Resistenze e controriforme perciò partono anche da qui.

Nelle recentissime vicende belliche, tra mille depistaggi, il fumo delle bugie virali è arrivato a oscurare addirittura le informazioni sulla disinformazione. Con la copertura e le connivenze di non pochi giornalisti di regime o semplicemente di redattori organici alla mistica della guerra. Da qui i copia incolla, le omesse citazioni delle fonti, la caduta in ogni sorta di trappola tesa dagli apparati dei servizi segreti militari e dai ministeri per la comunicazione degli Stati coinvolti nei 40 conflitti che insanguinano il pianeta. Con l’Italia che non fa certo mancare la sua impronta negativa per via degli interessi economici in Libia e nell’Africa centrale. E con la Sardegna ritornata al centro di test esplosivi e war games. Non è quindi fortuito che da noi si stia in coda alle classifiche sulla libertà di stampa, come risulta da recenti statistiche internazionali, e che l’Italia perda posizioni su posizioni in graduatoria di anno in anno. Ma non c’è unicamente la disinformazione. Esiste “l’assenza”: ossia l’eliminazione a priori degli avvenimenti “fastidiosi”. La cancellazione. La rimozione. La sparizione dei fatti. Un primo caso significativo: mesi fa quanti sapevano in Italia della convocazione dei Brics – la rete dei paesi emergenti non allineati – prima dell’effettivo svolgimento del vertice in Sudafrica? Non se n’è parlato. E poco si è parlato dell’allargamento del fronte economico anti-USA. Così come dell’annuncio della visita “a sorpresa” di Xi in Europa.

In definitiva: mancano sempre più news sostanziali. E si possono fare altri esempi. Chi più ne ha più ne metta:

– la scomparsa quasi simultanea delle pagine di commenti e lettere, così come la soppressione delle rubriche in difesa dei cittadini/lettori.

– il triplicarsi dell’odio da sfide sanguinarie che cinicamente scorre sul web.

– un certo giornalismo che in partenza limita o annulla gli spazi per notizie su proteste civili e critiche pacifiche.

– un’impalcatura pseudo comunicativa priva d’interattività con i propri referenti.

– menzogne a raffica rese virali e diffuse con ogni mezzo.…

Per tutti questi motivi, e non da adesso, tra i media più seri sta prendendo corpo il lavoro per depotenziare le bugie virali. La disinformazione ha fatto nascere moltissimi siti di Fact Checking, o di riscontro: converrà d’ora in poi farci ricorso più spesso. Anzi, in maniera sistematica, dopo la corsa al riarmo e il pericolo di catastrofi atomiche.

E allora: come reagire?

Come superare il numero infinito di trappole – online, in tv e su carta – tese per oscurare la verità dei fatti?

Come aggirare gli interessi di chi fa circolare solo alcune notizie di comodo e ne occulta altre?

Intanto possiamo rafforzare il senso critico nell’opinione pubblica, a partire da scuole e università. Domandarci ancora più a fondo che cosa stia accadendo a due anni e mezzo dall’invasione dell’Ucraina e a sei mesi dall’ennesima crisi in Medio Oriente. E chiederci nel frattempo che cos’è successo ancora prima e che accade ogni giorno in un’Africa sconvolta da violenze e combattimenti. E riflettere sull’inferno di fuoco che può scatenarsi attorno a Taiwan proprio mentre il leader cinese fa un tour in Europa. E che cosa continua succedere davvero in Siria, Iraq, Iran, Afghanistan. Ci deve interessare come ripristinare un flusso corretto e attendibile d’informazioni. Attraverso il coinvolgimento di specialisti e la restituzione ai redattori dei loro compiti di mediatori indipendenti tra fatti e racconto di quei fatti con controlli approfonditi.

Attualmente sono tante le iniziative sul piano delle comunicazioni che si moltiplicano contro le guerre. Anche in Italia. E anche in Sardegna. Segnali piccoli e grandi: uniti insieme possono fare la differenza rispetto al recente passato. In Sardegna e altrove in Italia arrivano dalle 600 sigle anti militariste laiche e cristiane. Negli scorsi mesi Cagliari ha ospitato il grande fotografo Don McCullin per una sua mostra d’immagini tragicamente emblematiche. Poi lui stesso ha dichiarato ai microfoni della Rai: “Ho visto centinaia di persone morire per le guerre, gli unici che oggi biasimo sono i politici che continuano a incoraggiare i conflitti anziché la pace”. Da poco l’Unione europea ha reso noto un bando, stanziando oltre un milione, per sollecitare istituzioni, enti e fondazioni a mobilitarsi contro i depistaggi sull’Ucraina. Da poco, persino il papa è intervenuto sul giornalismo divisivo paragonandolo allo sterco del diavolo.

La rete di giornalisti liberi #nobavaglio incrementa adesioni e iniziative. Nel frattempo, ovunque, non cessano sit in, flashmob, banchetti, raccolte di firme, interventi dei movimenti, mobilitazioni di attivisti. Ma tutto questo non basta. C’è l’urgenza assoluta di maggiore coesione per una svolta che faccia prevalere la non violenza attiva persino nelle comunicazioni. C’è bisogno di liberare le notizie per vincere le tattiche dei guerrafondai. E c’è la necessità di un giornalismo trasparente a favore dell’unico soggetto legittimato a pretendere la cessazione delle guerre: il popolo sovrano.

Dobbiamo batterci con incisività perché l’informazione è come il pane: se manca o è indigesta si vede, si sente. Perciò niente più ragazze/reporter e ragazzi/redattori nel coro di bande militari. Vogliamo giornalisti – senza aggettivi – che facciano il loro mestiere. E gente che interagisca con lo scopo reciproco di ridare chance alla pace. Così come abbiamo bisogno di ritrovare unità nelle manifestazioni per questi scopi. Basta violenze, distruzioni, rischi nucleari. E basta intimidazioni verso i redattori che scioperano per protesta e pressioni contro chi nel mondo della comunicazione fa semplicemente il proprio onesto lavoro.

Troppi tra loro – magari poco noti al grande pubblico – oggi si trovano al centro di attacchi squadristi o di minacce da parte della criminalità. Pensiamo a loro, sosteniamoli, difendiamoli. Non pensiamo più agli arlecchini servitori di tutti che passano da un padrone all’altro a suon di milioni: e se i falsi litigi tra pseudo star c’infastidiscono davvero, ignoriamoli. Ma non lasciamo più solo nessun professionista e nessun cittadino di fronte agli assalti delle garanzie costituzionali.

Ne va della libertà di tutti.

Manifesto/appello per una scuola dell’ Inclusione

 

Noi, docenti delle scuole primarie, secondarie, dell’università e dell’alta formazione, li vogliamo tutti assieme, nelle stesse classi, a seguire un percorso che dia a tutti le stesse opportunità nel rispetto delle specifiche potenzialità.

Li vogliamo lì, nelle stesse classi, fianco a fianco, perché ogni alunno, ogni studente, a prescindere dalle sue esigenze personali, rappresenta una risorsa per tutti.

Li vogliamo lì tutti assieme, nelle stesse classi, perché ognuno di loro porta un contributo di capacità, di competenza, di sensibilità, lavorando ad un progetto comune di crescita umana e didattica.

Li vogliamo lì, nelle stesse classi, anche se questo aumenta le nostre responsabilità, spesso ci carica di un lavoro stressante e non sempre riconosciuto, ma sappiamo che è indispensabile realizzare una scuola dell’inclusione e valorizzazione delle diversità se si vogliono raggiungere risultati importanti nella progettazione didattico-educativa.

Li vogliamo lì, nelle stesse classi, dove è possibile creare un ambiente dove ognuno, adeguatamente supportato, può raggiungere il suo potenziale di capacità e conoscenze.

Chi non li vuole lì non comprende che sono proprio gli alunni/studenti con particolari esigenze ad offrire ai loro compagni un’occasione irripetibile di confronto e di conoscenza, indispensabile per orientarsi in una società sempre più complessa e multiforme.

Noi li vogliamo lì, nelle stesse classi, vogliamo sentire le loro voci, ognuna diversa dall’altra, vogliamo essere disturbati dalle loro risate o dalle loro lacrime, vogliamo sentirli tutti uguali e tutti protagonisti di questa fondamentale storia collettiva che è la scuola.

 

Per firmare

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