Passiva rassegnazione davanti a quanto accade? Assolutamente no!

Dallo sciopero della Rai squilli di rivolta per il giornalismo italiano

Pier Giorgio Pinna

 

Intromissioni partitiche, manovre finanziarie, input imprenditoriali, veleni, silenzi, distorsioni, propagande.

E, mai come in questi ultimi anni, menzogne per “costruire il nemico” con metodi da talk.

In tempi di guerra il blocco di sistema politica/affari/giornalismo costituisce un’emergenza democratica. È un’arma potentissima nelle mani di chi fabbrica le vere armi, poi le vende alimentando i conflitti, comprandosi magari nel frattempo qualche testata a sostegno delle fabbriche di morte. Ed è un’arma letale nelle mani di chi controlla i media non per favorire un’editoria sana, ma solo per tutelare interessi in altri settori e alimentare speculazioni attraverso strategie di marketing e sovranità degli algoritmi.

La Sardegna, per versanti prevalenti, non fa eccezione. Anzi: quasi tutta l’informazione è pervasa da un’aura di ineluttabilità.

Inevitabilità verso il mantenimento di poligoni, basi, esercitazioni e servitù militari.

Inevitabilità verso l’approvazione in parlamento di nuove missioni cosiddette di pace con mezzi e battaglioni che continuano a utilizzare l’isola come piazzaforte “di prove belliche” nel Mediterraneo.

Inevitabilità verso la pregiudiziale esclusione di qualsiasi alternativa diplomatica da parte di troppe direzioni giornalistiche sarde e non sarde, come l’avvio di negoziati internazionali e cessate il fuoco.

Sentir dire e crederci è un tutt’uno: grazie a quel potere della disinformazione che Mussolini, Stalin, Goebbels conoscevano bene, e oggi conoscono altrettanto bene imperialisti vecchi e nuovi. Ma adesso c’è più di un’aggravante. La prima è che l’opinione pubblica, la maggioranza almeno, nonostante il bombardamento mediatico, continua a essere pervicacemente contraria alla guerra. La seconda: la stessa opinione pubblica, la sua maggioranza, pur contraria alla guerra non partecipa che marginalmente alle mobilitazioni indette dai diversi soggetti che le promuovono.

Ciò dimostra, insieme alla rassegnazione diffusa, la sfiducia totale nel sistema politico e della rappresentanza che coinvolge pressoché quasi ogni soggetto – “tanto son tutti uguali” – e rende inefficace l’opposizione. Però, con i dovuti distinguo, l’informazione in larga misura non aiuta a impedire i cortocircuiti che ne derivano. Il che rappresenta un’ulteriore aggravante.

Nel frattempo sul web, molto spesso, le reti social non filtrano il vero dal falso. Ci sono siti che producono news truccate, troll e robot che le amplificano seminando scontri, insulti, infamie. E anche le fonti ufficiali che fanno capo agli organi di comunicazione tradizionali di frequente agiscono per iniziative e promozioni preconfezionate. Prevale così il giornalismo che indica il tema scelto del giorno e basta, senza mai analisi complesse e testimonianze prive di pregiudizi. Dominano invece l’approssimazione e il plausibile, gli spettacoli di parole, gli show ammiccanti. Così come le gabbie a effetto per i click e i titoli di scatola su ipotesi non verificate. Insomma: nel caso dei conflitti in atto è il gatto con l’elmetto e il giubbotto antiproiettile che si morde la coda. Una spirale perversa.

Sul perché attraversiamo questo momento esistono ragioni complessive generali: di tipo globale, per così dire, e ragioni territoriali più specifiche, nel nostro caso legate all’area del Mediterraneo. Per esempio, in Italia nell’ultimo quarto di secolo è aumentata a dismisura la concentrazione delle testate e dei mezzi di produzione nelle mani di non-editori: a improvvisarsi eredi di Caracciolo, Olivetti e Longanesi sono perlopiù finanzieri, industriali e operatori con interessi in ambiti diversi, spesso stretti a doppio filo con politici delle maggioranze di governo (e non solo). Dalle precedenti lottizzazioni sino a oggi, poi, la pressione dei partiti sulla Rai si è trasformata in occupazione. Assetto di potere assoluto dov’è facile manipolare le scelte verso le sole impostazioni di notizie utili alle tattiche di governo. E quindi in favore di un’escalation bellica.

Intanto spadroneggiano Mediaset e gli alleati dell’ex capo di Forza Italia Berlusconi nelle tv e radio private da un lato, mentre si estendono le multinazionali che controllano social e siti su internet dall’altro lato. Tutti soggetti che, nelle tv e in rete, hanno raggiunto posizioni monopolistiche tali da rendere residuale la quasi totalità dei tentativi di contro-informazione fatti da piccole emittenti o blog alternativi rispetto a propagande dominanti in campo pubblicitario e bellico. È diventata “legge della fisica”, perfino nella stessa categoria dei comunicatori, l’idea mistificante secondo cui il declino della carta stampata sta segnando la fine del giornalismo. Mentre questo assioma, idolatrato da integrati a senso unico del web, serve semplicemente a bloccare l’avvio di quei network fondati sul mix sistematico di tutti i mezzi insieme (tv, radio, online, quotidiani e periodici). Mix in altri paesi da tempo alla base di sfide moderne: dalla multimedialità alle interazioni per un citizen journalism il passo può rivelarsi breve, ma pericoloso per certi manovratori lasciati per ora indisturbati. Resistenze e controriforme perciò partono anche da qui.

Nelle recentissime vicende belliche, tra mille depistaggi, il fumo delle bugie virali è arrivato a oscurare addirittura le informazioni sulla disinformazione. Con la copertura e le connivenze di non pochi giornalisti di regime o semplicemente di redattori organici alla mistica della guerra. Da qui i copia incolla, le omesse citazioni delle fonti, la caduta in ogni sorta di trappola tesa dagli apparati dei servizi segreti militari e dai ministeri per la comunicazione degli Stati coinvolti nei 40 conflitti che insanguinano il pianeta. Con l’Italia che non fa certo mancare la sua impronta negativa per via degli interessi economici in Libia e nell’Africa centrale. E con la Sardegna ritornata al centro di test esplosivi e war games. Non è quindi fortuito che da noi si stia in coda alle classifiche sulla libertà di stampa, come risulta da recenti statistiche internazionali, e che l’Italia perda posizioni su posizioni in graduatoria di anno in anno. Ma non c’è unicamente la disinformazione. Esiste “l’assenza”: ossia l’eliminazione a priori degli avvenimenti “fastidiosi”. La cancellazione. La rimozione. La sparizione dei fatti. Un primo caso significativo: mesi fa quanti sapevano in Italia della convocazione dei Brics – la rete dei paesi emergenti non allineati – prima dell’effettivo svolgimento del vertice in Sudafrica? Non se n’è parlato. E poco si è parlato dell’allargamento del fronte economico anti-USA. Così come dell’annuncio della visita “a sorpresa” di Xi in Europa.

In definitiva: mancano sempre più news sostanziali. E si possono fare altri esempi. Chi più ne ha più ne metta:

– la scomparsa quasi simultanea delle pagine di commenti e lettere, così come la soppressione delle rubriche in difesa dei cittadini/lettori.

– il triplicarsi dell’odio da sfide sanguinarie che cinicamente scorre sul web.

– un certo giornalismo che in partenza limita o annulla gli spazi per notizie su proteste civili e critiche pacifiche.

– un’impalcatura pseudo comunicativa priva d’interattività con i propri referenti.

– menzogne a raffica rese virali e diffuse con ogni mezzo.…

Per tutti questi motivi, e non da adesso, tra i media più seri sta prendendo corpo il lavoro per depotenziare le bugie virali. La disinformazione ha fatto nascere moltissimi siti di Fact Checking, o di riscontro: converrà d’ora in poi farci ricorso più spesso. Anzi, in maniera sistematica, dopo la corsa al riarmo e il pericolo di catastrofi atomiche.

E allora: come reagire?

Come superare il numero infinito di trappole – online, in tv e su carta – tese per oscurare la verità dei fatti?

Come aggirare gli interessi di chi fa circolare solo alcune notizie di comodo e ne occulta altre?

Intanto possiamo rafforzare il senso critico nell’opinione pubblica, a partire da scuole e università. Domandarci ancora più a fondo che cosa stia accadendo a due anni e mezzo dall’invasione dell’Ucraina e a sei mesi dall’ennesima crisi in Medio Oriente. E chiederci nel frattempo che cos’è successo ancora prima e che accade ogni giorno in un’Africa sconvolta da violenze e combattimenti. E riflettere sull’inferno di fuoco che può scatenarsi attorno a Taiwan proprio mentre il leader cinese fa un tour in Europa. E che cosa continua succedere davvero in Siria, Iraq, Iran, Afghanistan. Ci deve interessare come ripristinare un flusso corretto e attendibile d’informazioni. Attraverso il coinvolgimento di specialisti e la restituzione ai redattori dei loro compiti di mediatori indipendenti tra fatti e racconto di quei fatti con controlli approfonditi.

Attualmente sono tante le iniziative sul piano delle comunicazioni che si moltiplicano contro le guerre. Anche in Italia. E anche in Sardegna. Segnali piccoli e grandi: uniti insieme possono fare la differenza rispetto al recente passato. In Sardegna e altrove in Italia arrivano dalle 600 sigle anti militariste laiche e cristiane. Negli scorsi mesi Cagliari ha ospitato il grande fotografo Don McCullin per una sua mostra d’immagini tragicamente emblematiche. Poi lui stesso ha dichiarato ai microfoni della Rai: “Ho visto centinaia di persone morire per le guerre, gli unici che oggi biasimo sono i politici che continuano a incoraggiare i conflitti anziché la pace”. Da poco l’Unione europea ha reso noto un bando, stanziando oltre un milione, per sollecitare istituzioni, enti e fondazioni a mobilitarsi contro i depistaggi sull’Ucraina. Da poco, persino il papa è intervenuto sul giornalismo divisivo paragonandolo allo sterco del diavolo.

La rete di giornalisti liberi #nobavaglio incrementa adesioni e iniziative. Nel frattempo, ovunque, non cessano sit in, flashmob, banchetti, raccolte di firme, interventi dei movimenti, mobilitazioni di attivisti. Ma tutto questo non basta. C’è l’urgenza assoluta di maggiore coesione per una svolta che faccia prevalere la non violenza attiva persino nelle comunicazioni. C’è bisogno di liberare le notizie per vincere le tattiche dei guerrafondai. E c’è la necessità di un giornalismo trasparente a favore dell’unico soggetto legittimato a pretendere la cessazione delle guerre: il popolo sovrano.

Dobbiamo batterci con incisività perché l’informazione è come il pane: se manca o è indigesta si vede, si sente. Perciò niente più ragazze/reporter e ragazzi/redattori nel coro di bande militari. Vogliamo giornalisti – senza aggettivi – che facciano il loro mestiere. E gente che interagisca con lo scopo reciproco di ridare chance alla pace. Così come abbiamo bisogno di ritrovare unità nelle manifestazioni per questi scopi. Basta violenze, distruzioni, rischi nucleari. E basta intimidazioni verso i redattori che scioperano per protesta e pressioni contro chi nel mondo della comunicazione fa semplicemente il proprio onesto lavoro.

Troppi tra loro – magari poco noti al grande pubblico – oggi si trovano al centro di attacchi squadristi o di minacce da parte della criminalità. Pensiamo a loro, sosteniamoli, difendiamoli. Non pensiamo più agli arlecchini servitori di tutti che passano da un padrone all’altro a suon di milioni: e se i falsi litigi tra pseudo star c’infastidiscono davvero, ignoriamoli. Ma non lasciamo più solo nessun professionista e nessun cittadino di fronte agli assalti delle garanzie costituzionali.

Ne va della libertà di tutti.

Passiva rassegnazione davanti a quanto accade? Assolutamente no!ultima modifica: 2024-05-07T16:03:23+02:00da piero-murineddu
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