Autore archivio: piero-murineddu

Alex Zanotelli “VITTIME DELL’IPOCRISIA DELL’OCCIDENTE”

 Carlo    Lania     intervista   Alex   Zanotelli

 

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Padre Zanotelli: «L’economia è in mano a poche persone, e chi vuole sopravvivere deve migrare. Salvo poi essere cacciato quando non serve più. E in Italia la Chiesa ha tollerato questo razzismo di Stato»

 

«Rifletto da tempo sul pro­blema delle migra­zioni in chiave glo­bale. Siamo all’interno di un sistema economico-finanziario mon­diale che per­mette a pochi di diven­tare sem­pre più ric­chi a spese di molti morti di fame. Oggi circa il 20% della popo­la­zione, un miliardo di per­sone su sette, con­suma l’86% delle risorse. E soprat­tutto que­sto 20% ha in mano i soldi e può gestire il lavoro. Chiaro quindi che le per­sone vanno lì dove c’è la pos­si­bi­lità di avere una vita migliore. E’ il sistema che spinge la gente a migrare. Il para­dosso, anzi il dramma, è che le merci pos­sono pas­sare ovun­que, invece le per­sone no, anche se, ripeto, è lo stesso sistema che le obbliga a spo­starsi con il mirag­gio di una vita migliore. Allo stesso tempo si innal­zano muri, come quello tra Stati uniti e Mes­sico, oppure tra Israele e Pale­stina, o tra la Gre­cia e la Tur­chia, muri che ser­vono a bloc­care l’arrivo dei migranti. E dove que­sto non è pos­si­bile, come in mare, si prov­vede in altro modo, con le mis­sioni Fron­tex che ser­vono a bloc­care l’arrivo dei bar­coni cari­chi di dispe­rati. Sono le con­trad­di­zioni di que­sto sistema, che da una parte ti obbliga a migrare e dall’altra ti blocca alle frontiere.

Fron­tiere peri­co­lose. Padre Alex Zano­telli, secondo dati dell’Oim. l’Organizzazione inter­na­zio­nale per le migra­zioni, il 2013 è stato l’anno che ha fatto regi­strare il mag­gior numero di vit­time tra i migranti. In par­ti­co­lare al con­fine tra Stati uniti e Mes­sico e nel deserto dell’Africa occi­den­tale, lungo la rotta che porta fino in Libia.

Sì, spe­cie in Africa i morti sono tan­tis­simi. Ritengo che le vit­time del Medi­ter­ra­neo siano molte di più delle 20mila di cui si parla. Secondo alcuni studi tra il 2004 al 2008 sarebbe 42 mila, quindi pos­siamo imma­gi­nare che rea­li­sti­ca­mente più di 50 mila per­sone siano affo­gate nel Medi­ter­ra­neo. Senza con­tare quanti sono morti attra­ver­sando il deserto del Sahara. E’ un vero disa­stro quello che avviene in quella zone.

Si fugge dalla fame, ma anche dalle per­se­cu­zioni. Il 2013 è stato anche l’anno in cui, stando ai dati for­niti dall’Unhcr, si è regi­strato il mag­gior numero di profughi.

C’è pra­ti­ca­mente un intero con­ti­nente, l’Africa, in fuga. In Sud Sudan c’è una guerra civile in atto, così come in Cen­tra­frica. Gente che scappa da tutte le parti a causa della guerra o della fame. Da que­sto punto di vista dav­vero il 2013 è stato un anno estre­ma­mente pesante. Ricor­dia­moci che abbiamo tutto il Nord Africa per aria: dall’Egitto, che sta vivendo un momento dif­fi­cile, alla Tuni­sia, alla Libia. E poi il Mali, il Nord Nige­ria, il Niger, Ciad, Dar­fur, e ancora l’Eritrea con una dit­ta­tura che l’Italia sostiene. Sono tutte zone di una fra­gi­lità incre­di­bile, dalle quali le per­sone fug­gono e nes­suno riu­scirà a fer­marle. Uomini donne e bam­bini che arri­ve­ranno da noi, che noi lo vogliamo oppure no.

Eppure a fronte di que­sti drammi, l’Europa risponde con leggi che limi­tano sem­pre più gli ingressi.

Certo, per­ché si pre­fe­ri­sce la difesa dei pro­fitti anzi­ché quella dell’uomo. Ecco il tra­di­mento dell’economia e della finanza mondiale.

Ma è sem­pre stato così.

Si ma oggi è ancora peg­gio che in pas­sato, per­ché a gover­nare l’economia sono le ban­che il cui unico scopo è il profitto.

Le leggi però le fanno i governi.

E’ inu­tile par­lare dei governi. Chi decide vera­mente sono le ban­che, le mul­ti­na­zio­nali e le realtà finan­zia­rie. I governi sono solo dei para­venti utili a coprire le deci­sioni vere, che sono quelle economico-finanziarie. La poli­tica è subalterna.

C’è un’ipocrisia che carat­te­rizza l’occidente: chia­miamo «pro­fu­ghi» quanti scap­pano dalle guerre, ma non appena le stesse per­sone arri­vano in Europa, ecco che diven­tano «clandestini».

Que­sto vale soprat­tutto per l’Italia dove esite una legge assurda, la Bossi-Fini, che non rico­no­sce gli immi­grati come sog­getti di diritto ma solo come forza lavoro pagata a basso prezzo. E quando non ci serve più la riman­diamo al mit­tente. E’ la stessa legge che ha intro­dotto il reato di clan­de­sti­nità, una cosa gravissima.

Pensa che per quanto riguarda l’immigrazione la Chiesa abbia svolto fino in fondo il suo dovere?

Dob­biamo distin­guere, se par­liamo di Chiesa ita­liana oppure no. Su que­sto tema in Ita­lia la Chiesa sem­pli­ce­mente non c’è stata. Negli ultimi venti anni avrebbe dovuto cri­ti­care tutte le leggi sull’immigrazione, dalla Turco-Napolitano che ha intro­dotto Cpt, i cen­tri di per­ma­nenza tem­po­ra­nea per gli immi­grati, alla Bossi-Fini, ai decreti emessi da Roberto Maroni quando era mini­stro degli Interni. La Chiesa ita­liana avrebbe dovuto fare una cri­tica radi­cale di que­sto raz­zi­smo di Stato, ma così non è stato. Rin­gra­zio papa Fran­ce­sco per­ché è andato a Lam­pe­dusa dicendo: «Vengo a risve­gliare le vostre coscienze». Dove­vano essere i nostri vescovi ad andare a Lam­pe­dusa e dire le stesse cose, per­ché quello che avviene oggi su quell’isola è il risul­tato delle poli­ti­che adot­tate in que­sti ultimi venti anni. Da parte della Con­fe­renza epi­sco­pale, invece, è man­cata que­sta cri­tica. Ricor­dia­moci che la Costi­tu­zione ita­liana è stata scritta da pro­fu­ghi ed esi­liati poli­tici una volta rien­trati in patria dopo il fasci­smo e cita per due volte il diritto all’asilo poli­tico. Eppure dopo 60 anni di sto­ria repub­bli­cana non abbiamo ancora una legge sul diritto all’asilo politico.

don TONINO BELLO e LA PACE

“La pace come cammino”

 

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http://www.youtube.com/watch?v=jHHPNE7WG5I

 

di don Tonino Bello

 

A dire il vero non siamo molto abituati a legare il termine PACE a concetti dinamici.

Raramente sentiamo dire: “Quell’uomo si affatica in pace”, “lotta in pace”, “strappa la vita coi denti in pace”…

Più consuete, nel nostro linguaggio, sono invece le espressioni: “Sta seduto in pace”,  “sta leggendo in pace”,  “medita in pace” e, ovviamente, “riposa in pace”.

La pace, insomma, ci richiama più la vestaglia da camera che lo zaino del viandante. Più il comfort del salotto che i pericoli della strada. Più il caminetto che l’officina brulicante di problemi. Più il silenzio del deserto che il traffico della metropoli. Più la penombra raccolta di una chiesa che una riunione di sindacato. Più il mistero della notte che i rumori del meriggio.

Occorre forse una rivoluzione di mentalità per capire che la pace non e’ un dato, ma una conquista.

Non un bene di consumo, ma il prodotto di un impegno. Non un nastro di partenza, ma uno striscione di arrivo.

La pace richiede lotta, sofferenza, tenacia. Esige alti costi di incomprensione e di sacrificio.

Rifiuta la tentazione del godimento. Non tollera atteggiamenti sedentari. Non annulla la conflittualità. Non ha molto da spartire con la banale “vita pacifica”.

Sì, la pace prima che traguardo, è cammino. E, per giunta, cammino in salita.

Vuol dire allora che ha le sue tabelle di marcia e i suoi ritmi, i suoi percorsi preferenziali ed i suoi tempi tecnici, i suoi rallentamenti e le sue accelerazioni.

Forse anche le sue soste. Se è così, occorrono attese pazienti.

E sarà beato, perché operatore di pace, non chi pretende di trovarsi all’arrivo senza essere mai partito, ma chi parte.

Col miraggio di una sosta sempre gioiosamente intravista, anche se mai – su questa terra s’intende – pienamente raggiunta.

 

Sul terreno della pace non ci sarà mai un fischio finale che chiuda la partita:

bisognerà sempre giocare ulteriori tempi supplementari

Un saggio orientale diceva che, se lui avesse avuto per un attimo l’onnipotenza di Dio, l’unico miracolo che avrebbe fatto sarebbe stato quello di ridare alle parole il senso originario. Sì, perché oggi le parole sono diventate così “multiuso”, che non puoi più giurare a occhi bendati sull’idea che esse sottendono. Anzi, è tutt’altro che rara la sorpresa di vedere accomunate accezioni diametralmente opposte sotto il mantello di un medesimo vocabolo. Guaio, del resto, che è capitato soprattutto ai termini più nobili; alle parole di serie A; a quelle, cioè, che esprimono i sentimenti più radicati nel cuore umano come pace, amore, libertà. A dire il vero, per quel che riguarda la pace, pare che questa “sindrome dei significati stravolti” fosse presente anche nei tempi remoti, se è vero che perfino in un salmo della Bibbia troviamo denunce del genere: “essi dicono pace, ma nel loro cuore tramano la guerra”. Su quale pace scommettere? Con questo non si vuol dire che il termine “pace” indichi inequivocabilmente una realtà così precisa e dai contorni così ben definiti, da escludere nettamente zone di valori limitrofi. E’ difficile tracciare la linea di demarcazione che distingue l’area della pace da quella propria della libertà, o della giustizia, o della comunione, o del perdono, o dell’accoglienza, o della verità. Ed è fatica improba disegnare sulle mappe lessicali gli spartiacque di questi valori. Sicché, se le immagini possono aiutarci a capire, dovremmo dire che la pace più che una stella è una galassia, più che un’isola è un arcipelago, più che una spiga è un covone. A fare difficoltà, però, non è lo sfumare della pace propriamente detta nelle fasce degli altri concetti viciniori con i quali, per così dire, essa ha rapporti stretti di consanguineità. Ciò che crea problemi, invece, è quella terribile operazione di contrabbando secondo cui si espongono nella medesima vetrina, magari con la medesima etichetta, prodotti completamente diversi. Diciamocelo francamente: la pace la vogliono tutti, anche i criminali; e nessuno è così spudoratamente perverso, da dichiararsi amante della guerra. Ma la pace di una lobby di sfruttatori è la stessa perseguita dalle turbe degli oppressi? La pace delle multinazionali coincide con quella dei salariati sotto costo? La pace voluta dai dittatori si identifica con quella sognata dai perseguitati politici? E sul vocabolario del regime di Pretoria, la definizione di pace suona allo stesso modo che sul vocabolario delle vittime delI’apartheid ? Come si vede, è necessario evitare il rischio di pericolose contraffazioni. Pertanto, si rende indispensabile, almeno per noi credenti, fissare dei criteri sulla cui base selezionare il genere di pace, per il quale valga la spesa di impegnarsi in una scommessa. Non scommettere sulla pace che non venga dall’alto: è inquinata. Dire che la pace è un dono di Dio sta diventando purtroppo uno slogan pronunciato da noi cristiani senza molta convinzione e usato come formula di maniera. Tutto sommato, all’atto pratico facciamo affidamento più sulle mediazioni diplomatiche che sull’implorazione, più sulla bravura delle cancellerie della terra che sulla forza impetrativa della preghiera, più sull’abilità dei politici che sulla tenacia dei contemplativi. Preghiamo, questo sì, per la pace. Ma di essa abbiamo una concezione maledettamente tolemaica: il cielo sembra che le ruoti attorno solo per fecondarne lo sviluppo e per incoraggiarne la crescita. Ebbene, considerare la pace come acqua ricavata dai nostri pozzi è un tragico errore di prospettiva di cui, prima o poi, pagheremo le spese col prosciugamento o con l’inquinamento delle falde freatiche. Quando la riflessione delle nostre comunità riuscirà a scoprire che i pozzi della pace sono le stimmate del Risorto? Non scommettere sulla pace non connotata da scelte storiche concrete: è un bluff. Se, per un verso, non è infrequente l’equivoco su descritto, che potremmo designare come l’eresia del “pelagianesimo della pace”, per un altro verso non è raro il rischio opposto che è quello del disimpegno, coperto oltretutto dall’alibi comodo che la pace è una realtà “oriens ex alto”, proveniente dal Cielo. Occorre scongiurare questa specie di fatalismo che fa ritenere inutili, se non addirittura controproducenti, le scelte di campo, le prese di posizione, le decisioni coraggiose, le testimonianze audaci, i gesti profetici. E’ vero, la pace è un’acqua che scende dal cielo: ma siamo noi che dobbiamo canalizzarla affinché, attraverso le condutture appropriate della nostra genialità, giunga a ristorare tutta la terra. Ecco perché è un “bluff” limitarsi a chiedere la pace in chiesa, e poi non muovere un dito per denunciare la corsa alle armi, il loro commercio clandestino, e la follia degli scudi spaziali. Per impedire la crescente militarizzazione del territorio. Per smascherare la logica di guerra sottesa a tante scelte pubbliche e private. Per indicare nelle leggi dominanti di mercato i focolai della violenza. Per accelerare l’accoglimento di criteri che favoriscano un nuovo ordine economico internazionale. Per tracciare i percorsi concreti di una educazione autentica alla pace. Per esporsi, magari anche con i segni paradossaIi ma eloquenti dell’obiezione di coscienza, in tutte le sue forme, sui crinali della contraddizione. Non scommettere sulla pace che prenda le distanze dalla giustizia: è peggio della guerra. La Bibbia allude spesso ad abbracciamenti tra pace e giustizia simili a quelli tra madre e figlia, o tra due amanti comunque. Frutto della giustizia è la pace, dice Isaia in uno splendido passo. E il salmo 85 parla così apertamente di baci tra i due partners, che non mancano coloro a cui verrebbe il sospetto che questi rapporti abbiano del torbido, e calpestino il cosiddetto elementare senso del pudore. In effetti, è un’accoppiata che fa scandalo. Tant’è che molti agenti della “buon costume” preferirebbero che le due imputate se ne tornassero ciascuna a casa sua e rientrassero, per così dire, a vita privata. Parlando fuori parabola, non è difficile capire come ai ben pensanti che quasi sempre coincidono con i garantiti di turno, dà fastidio questa scoperta biblica, recente tutto sommato, del legame esistente tra pace e giustizia. Pace, sì. Ma che c’entrano i 50 milioni di esseri umani che muoiono ogni anno per fame? Sulla pace non si discute. Ma che cosa hanno da spartire con essa i discorsi sulla massimizzazione del profitto? La pace, va bene. Ma non sa di demagogia chiamare in causa, ad ogni giro di boa, le divaricazioni esistenti tra Nord e Sud della terra? Pace, d’accordo. Ma è proprio il caso di tirare in ballo la ripartizione dei beni, o i debiti del terzo mondo, o le manipolazioni delle culture locali, o lo scempio della dignità dei poveri? Attenzione! E’ in atto una campagna “soft” che spinge pace e giustizia alla “separazione legale”, con espedienti che si vestono di ragioni morali, ma camuffano il più bieco dei sacrilegi. Non scommettere sulla pace che si proclami estranea al problema della salvaguardia del creato: è amputata. Qualcuno potrebbe pensare che il bisogno di allargare i consensi, con l’ammiccamento ai temi di moda, abbia provocato l’inclusione del problema ambientale nell’area degli interessi di coloro che si battono per la pace. Non è così. Alla radice di questa coscienza, che potremmo chiamare “trinitaria”, visto che la pace oggi si declina inesorabilmente con la giustizia e con la salvaguardia del creato, c’è la constatazione che, a produrre tanti guasti inesorabili della natura, è sempre il seme del profitto. Lo stesso che genera le guerre. L’utero che partorisce la guerra è sempre gravido, diceva Brecht. E i suoi parti sono trigemini, dal momento che, oltre alla guerra e all’ingiustizia, si porta dentro anche il mostro ecologico. Isaia le aveva intuite prima di noi queste articolazioni, quando annunciava la discesa dello Spirito che avrebbe trasformato il deserto in giardino, all’interno del quale sarebbe fiorito l’albero della giustizia, sui cui rami sarebbe spuntato il frutto della pace. “In noi sarà infuso uno Spirito dall’alto. Allora il deserto diventerà un giardino…e la giustizia regnerà nel giardino…e frutto della giustizia sarà la pace” (32,15-17). Non scommettere sulla pace che sorrida sulla radicalità della nonviolenza: è infida. E’ giunta l’ora in cui occorre decidersi ad arretrare (arretrare o spingere?) la difesa della pace sul terreno della nonviolenza assoluta. Non è più ammissibile indugiare su piazzole intermedie che consentano dosaggi di violenza, sia pur misurati o prevalentemente rivolti a neutralizzare quella degli altri. Richiamarsi al dovere di “camminare con i piedi per terra”, e fare spreco di compatimento sul preteso “fondamentalismo” degli annunciatori di pace, significa far credito alle astuzie degli uomini più di quanto non si faccia assegnamento sulle promesse di Dio. La nonviolenza è la strada che Gesù Cristo ci ha indicato senza equivoci. Se su di essa perfino la profezia laica ci sta precedendo, sarebbe penoso che noi credenti, destinati per vocazione a essere avanguardie che introducono nel presente il calore dell’utopia evangelica, scadessimo al ruolo di teorizzatori delle prudenze carnali . Il grande esodo che oggi le nostre comunità cristiane sono chiamate a compiere è questo: abbandonare i recinti di sicurezza garantiti dalla forza per abbandonarsi, sulla parola del Signore, alla apparente inaffidabilità della nonviolenza attiva. Non scommettere sulla pace che non provochi sofferenza: è sterile. Il grande teologo protestante Bonhoeffer parlava di “grazia a caro prezzo”. Forse è ora che ci abituiamo a pensare che anche la pace ha dei costi altissimi. I prezzi stracciati destano sospetto. Gli sconti da capogiro inducono a credere che la merce è avariata. Le svendite fuori stagione sanno di ambiguità. E le allettanti offerte sottocosto fanno pensare ai surrogati. La pace non è il premio favoloso di una lotteria che si può vincere col misero prezzo di un solo biglietto. Chi scommette sulla pace deve sborsare in contanti monete di lacrime, di incomprensione e di sangue. La pace è il nuovo martirio a cui oggi la Chiesa viene chiamata. L’arena della prova è lo scenario di questo villaggio globale che rischia di incenerirsi in un olocausto senza precedenti. E come nei primi tempi del cristianesimo i martiri stupirono il mondo per il loro coraggio, così oggi la Chiesa dovrebbe fare ammutolire i potenti della terra per la fierezza con cui, noncurante della persecuzione, annuncia, senza sfumare le finali come nel canto gregoriano, il vangelo della pace e la prassi della nonviolenza. E’ chiaro che se, invece che fare ammutolire i potenti, ammutolisce lei, si renderebbe complice rassegnata di un efferato “crimine di guerra”. Ma, grazie a Dio, stiamo assistendo oggi a una nuova effusione dello Spirito che spinge la Chiesa sui versanti della profezia e le dà l’audacia di sfidare le trame degli oppressori, i sorrisi dei dotti, e le preoccupazioni dei prudenti secondo la carne. Non scommettere sulla pace come “prodotto finito”: scoraggia. La pace è una meta sempre intravista, e mai pienamente raggiunta. La sua corsa si vince sulle tappe intermedie, e mai sull’ultimo traguardo. Esisterà sempre un “gap” tra il sogno cullato e le realizzazioni raggiunte. I labbri delle conquiste non combaceranno mai con quelli dell’utopia, e il “già” non si salderà mai col “non ancora”. Ciò vuol dire che sul terreno della pace non ci sarà mai un fischio finale che chiuda la partita, e bisognerà giocare sempre ulteriori tempi supplementari. Tutto questo può indubbiamente provocare delusioni e stanchezza, creando collassi operativi e crisi da insuccesso. Ma chi è convinto che la pace è un bene la cui interezza si sperimenterà solo nello stadio finale del Regno, troverà nuovi motivi per continuare la corsa anche nella situazione di scacco permanente in cui è tenuto dalla storia. Cristo, nostra Pace, non delude Coraggio, allora! Nonostante questa esperienza frammentata di pace, scommettere su di essa significa scommettere sull’uomo. Anzi, sull’Uomo nuovo. Su Cristo Gesù: egli è la nostra Pace. E lui non delude. Del resto anche lui, finché staremo sulla terra, sarà sempre per noi un Ospite velato. Faremo di lui un’esperienza incompleta, e i suoi passaggi li scorgeremo solo attraverso segni da interpretare e orme da decifrare. Faccia a faccia, così come egli è, lo vedremo solo nei chiarori del Regno di Dio. Allora, come per una arcana dissolvenza, le linee con cui abbiamo tenacemente disegnato la pace quaggiù si ricomporranno nella luce dei suoi occhi e assumeranno finalmente i tratti del suo volto. E la realtà, stavolta, sopravvanzerà il sogno. Ma qui siamo già alle soglie del mistero!

(*) ANTONIO BELLO. Sui sentieri di Isaia, Molfetta, Editrice La Meridiana, 1989, p. 11-21

SILENZIO per ASCOLTARE e COMUNICARE

 

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L’ascolto. L’ho sempre considerato elemento  essenziale nella relazione interpersonale. E’ una capacità difficile d’apprendere e da praticare,di conseguenza molto rara. Non ci vuole molto per ammettere che  i  contatti che giornalmente abbiamo coi nostri simili spesso sono poveri proprio per mancanza di ascolto reciproco. I rapporti significativi lo sono perché ci si sente ascoltati, per l’appunto. E’ un argomento troppo importante per non essere approfondito. Per adesso preferisco rileggere e proporre ai miei pochi lettori questo grande insegnamento del popolo Dakota riguardo al silenzio, altro elemento fondamentale per imparare l’arte di ascoltare.

*****

 

L’educazione al silenzio, al tacere, iniziava molto presto.Insegnavamo ai nostri bambini a sedere in silenzio e a gioirne.Noi insegnavamo loro a utilizzare i sensi, a percepire i diversi odori, a guardare quando all’apparenza non c’era nulla da vedere, ed a ascoltarla con attenzione, quando tutto appariva totalmente tranquillo.Un bambino che non sa sedere in silenzio, è rimasto indietro nel suo sviluppo.Un comportamento esagerato,appariscente, noi lo respingevamo come falso e un uomo che parlava senza pause, era considerato maleducato e distratto.Un discorso non veniva mai iniziato precipitosamente nè condotto frettolosamente. Nessuno poneva affrettatamente una domanda, fosse stata anche molto importante, e nessuno era costretto ad una risposta.Il vero modo cortese d’iniziare, era un momento di silenziosa riflessione insieme; ed anche durante i discorsi, facevamo attenzione ad ogni pausa, nella quale l’interlocutore rifletteva e pensava.Per i Dakota il silenzio era eloquente. Nella disgrazia e nel dolore, quando la malattia e la morte, offuscavano la nostra vita, il silenzio era un segno di stima e di rispetto; altrettanto quando ci colpiva l’incantesimo di qualcosa di grande e degno di ammirazione.Per i Dakota il silenzio aveva una forza ben più grande della parola.

 

 

LA GRANDE UMANITA’ DI ENZO BIANCHI

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Quest’intervista che Enzo Bianchi, priore del monastero interconfessionale di Bose, ha rilasciato al settimanale “L’Espresso”, è da leggere e gustare. Lentamente. Senza fretta. A me ha riscaldato il cuore e riacceso la speranza. Lontano dalla baldoria,la rileggerò nelle ore che ci condurranno al nuovo anno, ancora più lentamente e senza fretta alcuna.Ogni tanto m’interromperò e guarderò il suo intenso sguardo.

http://www.monasterodibose.it/images/stories/priore/articoli_riviste/13_12_22_articolo_espresso.PDF

 

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Per onorare i nostri vecchi

Lettera di un padre a un figlio
( anonimo )

Salustiano Sanchez-Blazquez

 

Se un giorno mi vedrai vecchio: se mi sporco quando mangio e non riesco a vestirmi … abbi pazienza, ricorda il tempo che ho trascorso ad insegnartelo.

Se quando parlo con te ripeto sempre le stesse cose … non mi interrompere … ascoltami. Quando eri piccolo dovevo raccontarti ogni sera la stessa storia finché non ti addormentavi.

Quando non voglio lavarmi, non biasimarmi e non farmi vergognare … ricordati quando dovevo correrti dietro inventando delle scuse perché non volevi fare il bagno.

Quando vedi la mia ignoranza per le nuove tecnologie, dammi il tempo necessario e non guardarmi con quel sorrisetto ironico: ho avuto tutta la pazienza per insegnarti l’abc.
Quando a un certo punto non riesco a ricordare o perdo il filo del discorso … dammi il tempo necessario per ricordare e se non ci riesco non ti innervosire ….. la cosa più importante non è quello che dico, ma il mio bisogno di essere con te e averti lì che mi ascolti.

Quando le mie gambe stanche non mi consentono di tenere il tuo passo, non trattarmi come fossi un peso; vieni verso di me con le tue mani forti nello stesso modo con cui io l’ho fatto con te quando muovevi i tuoi primi passi.

Quando dico che vorrei essere morto … non arrabbiarti; un giorno comprenderai che cosa mi spinge a dirlo. Cerca di capire che alla mia età non si vive, si sopravvive.

Un giorno scoprirai che nonostante i miei errori ho sempre voluto il meglio per te e che ho tentato di spianarti la strada. Dammi un po’ del tuo tempo, dammi un po’ della tua pazienza, dammi una spalla su cui poggiare la testa allo stesso modo in cui io l’ho fatto per te.

Aiutami a camminare, aiutami a finire i miei giorni con amore e pazienza; in cambio io ti darò un sorriso e l’immenso amore che ho sempre avuto per te.

Ti amo figlio mio

Mani che cercano un appiglio (Rita Clemente)

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DEDICATA AI RIFUGIATI

di Rita Clemente

Quelle mani che cercano un appiglio
Quelle ossa che cercano riposo
Quelle voci che cercano risposta
Quegli occhi che cercano un senso
Quella mente che spera in un futuro…

Abbiamo lasciato
il padre e la madre
Soli, curvi e vecchi
Portiamo con noi
il germe dei figli
Perché dopo di noi
appaia una cometa.

Ma troppi abbandonati nel tragitto
sono arida pietra sotto un sole cattivo
Forse erano amici, forse con l’ultimo singulto
chiedevano aiuto, con troppo debole voce.

Non attraversammo
strade di paradiso,
i predoni del tempo
e del nostro destino
rubarono ai vecchi
perfino la pelle
perché la cometa
potesse non svanire
dentro un sepolcro.

Altri giunsero in caverne disumane
Dove uomini come loro, nervi e pelle
E sangue e sterco e anima oscurata
Di loro fecero scempio, nel buio di urla ignorate.

Le nostre donne
pagarono
un prezzo più alto
i loro corpi,
un sovrappiù
di compenso
i loro corpi,
straziati ricettacoli
di figli,
figli del nulla,
figli della nuda atonia.

Lontano, in troppo alti inferni damascati
Con firme tracciate a premessa di long drink assassini
Si giocavano a dadi inestricabili agonie
Nell’attesa perduta in notti senza più data.

Ma noi
che attraversammo
i gironi dell’inferno.
E, grazie alle povere vite
vendute ai mercati,
strappammo
un lasciapassare
insidioso,
noi ci imbarcammo
con sfide più atroci
di un destino segnato.

Quattro, venti, cinquanta, duecento,
numeri su numeri dentro una liquida minaccia
a tenersi ben strette le reliquie delle madri
a leggere preghiere strappate e volatili addii.

Quanti di noi
hanno lasciato
un sospiro a metà
Sul mare insidioso?
Se ci guardiamo attorno,
nello spazio informe
che non è patria
e non è rifugio
solo la Morte ci accoglie,
come suoi biechi trastulli.

Quelle mani che cercano un appiglio
Quelle ossa che cercano riposo
Quelle voci che cercano risposta
Quegli occhi che cercano un senso
Quella mente che spera in un futuro…

Né morte né vita
racconteranno
un lieto fine
in purgatori
senza ascesa al cielo
Ma voi che potete,
pensate
che abbiamo un nome
e ricordi,
e una madre,
e una stella cometa…

IO VOGLIO SAPERE

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IO VOGLIO SAPERE

(David Maria Turoldo)

Io voglio sapere se Cristo è mai stato creduto,

se è venuto e viene e verrà;

o sia appena un’invenzione

per un irreale gioco del Signore

di contro al cupo

giorno dell’uomo.

 

Io voglio sapere

se veramente qualcuno crede

e come è possibile credere:

se almeno i fanciulli

-avanti ogni cultura-

vedono ancora il Padre.

 

Io voglio sapere

se l’uomo è una fiera

ancora sulle soglie della foresta:

se la ragione è una rovina.

 

Io voglio sapere

se il nostro vivere è appena una difesa

contro la vita degli altri:

questo uomo bianco

il più feroce animale

sempre all’assalto

contro ogni altro uomo,

o maledetto occidente.

 

Io voglio sapere

se ci sono ancora gli assoluti,

o se io sono sacerdote

di colpevoli illusioni;

se è vero che saremo

finalmente liberi

se saremo ancora liberi

se saremo mai liberi.

 

io voglio sapere

qual è il potere di resistere,

se sopravvivrà ancora l’amore,

se pure è mai esistito.

Io voglio sapere

se resisterà ancora Cristo,

perché, se no, mi ammazzo.

Io voglio sapere

se l’uomo cresce

e quale sarà l’intelligenza

d’un abitante della metropoli:

se la scienza non sia la morte

e questa macchina

non sia la nostra bara d’acciaio.

 

Io voglio sapere

se esiste una forza salvatrice

e se nasce a Natale;

che almeno la Chiesa non sia

la tomba di Dio,

l’ultima sconfitta dell’uomo.

 

Io voglio sapere

se la pace è possibile

se la giustizia è possibile

se lo spirito è più forte della forza.

 

Io voglio sapere

se qualcuno ha fede ancora

in un futuro.

 

Io voglio sapere

se Cristo è veramente risorto,

se la Chiesa ha mai creduto

che sia veramente risorto.

 

Io voglio sapere

perché allora è una potenza,

e perché non va per le strade

come una follia di sole

a dire: Cristo è nato! Cristo è risorto!

E perché non rinuncia alle ricchezze

per questa sola ricchezza di gioia.

Perché?

 

Mia chiesa amata e infedele,

mia amarezza di ogni domenica,

chiesa che vorrei impazzita di gioia.

Perché?

 

Io voglio sapere.

per conoscere Turoldo  http://www.club.it/autori/grandi/david.turoldo/indice-i.html

NATALE, ovvero seguire le tracce di Gesù nella vita quotidiana

fraternità-colore (1)

di Franco Barbero

Natale vuole invitarci a porre al centro della nostra vita l’insegnamento di Gesù, il suo stile di vita, la sua fiducia in Dio e il suo amore per i poveri. Se vogliamo diventare cristiani, questa Ricorrenza ci rinnova l’invito a  seguire le tracce di Gesù nella nostra vita quotidiana.

La “poesia natalizia”, che ora è largamente soppiantata dalla frenesia degli acquisti, può essere suggestiva e addirittura costruttiva, ma la vita cristiana non è ricordo nostalgico di un bambinello, ma “memoria fattiva” di quel Gesù di Nazareth che operò scelte concrete contro i poteri oppressivi e sollecitò gli oppressi a far valere i loro diritti.

O nasciamo e rinasciamo anche noi in questa direzione oppure rischiamo di archiviare il messaggio di questa festa che, del resto, è ormai nascosta dalla luce delle vetrine.

 

IN RICORDO DI CHICO MENDES

chico

Il 22 dicembre 1988 veniva assassinato Chico Mendes, sindacalista, difensore dei diritti umani e della biosfera, amico della nonviolenza. Nato nel 1944, operaio nell’attività estrattiva del caucciù, sindacalista dei seringueiros, militante del Partito dei Lavoratori, difensore ecologico dell’Amazzonia, premiato dall’Onu per il suo impegno, e per il suo impegno fu assassinato.

 

UNA SERA DI CHICO MENDES 


     (del”Centro di ricerca per la pace e i diritti umani” di Viterbo)


“Ho combattuto la buona battaglia,
ho terminato la mia corsa,
ho serbato la fede”

(2 Tm 4, 7)

La selva e nella selva l’altra selva
quella nei laghi neri del cuore
quella ove incontri lupe, leoni, lonze
e i killer prezzolati dai padroni.

La selva e nella selva vivi gli alberi
e sotto la corteccia il sangue loro
ed è mestieri di cavarne stille,
fratelli alberi, abbiamo fame anche noi.

La selva e nella selva gli abitanti
della selva. Ed ecco stabiliamo
un patto nuovo tra noi della foresta,
fratelli umani che dopo noi vivrete.

La selva e noi, le donne antiche e gli uomini
antichi e gli uomini e le donne che eccoci.
Stringiamo un patto, sorelle piante, ci diciamo
parole di rispetto e di dolore, fratelli alberi
abbiamo fame anche noi, hanno fame anche altri, tutti
vogliamo vivere.

La selva e nella selva io Chico Mendes
e tre proiettili che passo dopo passo
di ramo in ramo di talento in talento
dal portafogli e dalla scrivania
fino alla tasca e alla cintura e alla fondina
è tanto che mi cercano, e cercano me
Chico Mendes, il sindacalista
l’amico della foresta, l’amico della nonviolenza.

Ed è già questo ventidue dicembre
del mille novecento ottantotto
questa è la porta di casa mia, sono
le cinque e tre quarti. E mi sotterreranno
nel giorno di Natale antica festa.
Piangono nella selva lente lacrime
di caucciù le piante, piange l’indio
piange Ilzamar, Sandino ed Elenira
piangono e piangono i compagni tutti,
il sindacato piange e piange il cielo
in questa sera senza luce e senza scampo.

Mentre mi accascio guardo ancora il mondo
che possa vivere
ho fatto la mia parte.

I “Forconi” e la voragine dei non più rappresentati

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“La rivoluzione non si fa senza un progetto, senza una strategia, senza un’organizzazione”

di Giulietto Chiesa

“Forconi”? Chi si ricorda della manifestazione del 19 ottobre a Roma? Fu un segnale che esistevano ormai, prodotti della crisi, forze che stavano cominciando a muoversi. Quel segnale diceva chiaramente che tutte la sinistre, quella finta e quella impotente ma convinta, non erano capaci di intercettare la protesta crescente. In realtà erano le avvisaglie di una protesta che nessuno era in grado di intercettare. Neanche il Movimento 5 Stelle.

Anch’esso – lo si è notato poco, e invece meritava attenzione – bypassato e colto di sorpresa. Infatti è un’altra onda quella che sta passando. Siamo in mare aperto e le onde si susseguono, anche se ciascuna è diversa dalle altre. Questo mare è la “voragine” dei non (più) rappresentati.

Ho letto una quantità di commenti, molti dei quali rivelano una reazione di rigetto, di fastidio, di sufficienza. Con tutte le graduazioni e sfumature possibili e immaginabili, fino al limite dello snobismo. Prendiamo le più frequenti: da chi parla di movimento nazionalista, o fascista, che si sofferma sull’esplosione di spontaneità mista a analfabetismo politico; che depreca l’incultura, la semplificazione, il plebeismo; a chi vede incontrollate violenze, gli ultras spaccatutto, i sussulti di mentalità primitive da stadio.

I media, tutti, giornali e tv, hanno semplificato, come al solito, coniando il termine sintetico di “forconi”. Che è passato dovunque, come una lama calda nel burro. E anche molti di noi – che non hanno ancora ben compreso come difendersi dal mainstream – hanno finito per ripetere il mantra dei “forconi”. Che è astuto: perché usa associazioni negative e ostili. Forconi fa pensare a contadini primitivi. Fa pensare a “forca”, che è strumento per ghigliottine e impiccagioni, inquisizione e masse di popolo inferocite. Tutto negativo insomma. Penso che dovremmo guardarci meglio da questo tipo di semplificazioni. Il mainstream è astuto, ma anche pigro e stupido, e tende a descrivere il nemico come meglio gli fa comodo. Così facendo inventa magari un nemico che non c’è al posto di quello che c’è.

“Forconi”? Ma il movimento dei “forconi, nato in Sicilia 2 anni orsono, questa volta in Sicilia quasi non è esistito. Io c’ero e non l’ho visto. Nessuno l’ha visto. E dunque? Dovremmo concludere che è improvvisamente emigrato in massa, Jaguar e bagagli, a Torino, o a Milano? Evidentemente è una sciocchezza, inventata dal mainstream, nella quale è impossibile credere. Certo che c’erano dei forconi, qua e là. Ma non erano soltanto o prevalentemente i forconi quelli che si muovevano in strade e piazze.

Diciamo, meglio, che c’era di tutto. C’erano, e ci sono, tutte le componenti appena elencate. E anche le infiltrazioni delle destre estreme, degli ultras da stadio, dei fascisti , ecc. Ovvio che c’erano, ovvio che ci saranno. C’era tanta gente smarrita. Uso la parola gente perché non ho mai visto tanta stratificazione sociale diversa, anch’io semplifico un po’. Ma non ho visto avanguardie rivoluzionarie. C’era gente che – come è stato ben scritto – ha perduto tutti i contenitori politici per cui ha votato fino a ieri, o in cui (più raramente) ha militato. C’era gente che non ha mai riempito alcun contenitore politico, gente che non vota. Gente che scopre di non poter più avere tutto quello che aveva (che era poco, ma per loro era tutto) e lo rivuole indietro. Gente che non sa cosa sta succedendo e che non capisce come mai tutto quello che prima funzionava, bene o male, adesso non funziona più.

Gente che non vuole un altro sistema (anche perché pensa che questo, che conosce, sia l’unico possibile) e dunque chiede che sia rimesso in moto. Gente che non sa che è finita l’era dell’abbondanza e vuole continuare a consumare come prima, come le è stato insegnato di fare. Gente che si agita, e si fa agitare, da idee approssimative e ingenue, grimaldelli che considera risolutivi, definitivi, come quello della sovranità popolare, o monetaria, della lotta contro le burocrazie (quella europea in particolare), della lotta contro la classe politica, e contro i banchieri.

Gente che non ha nessuna idea di modelli alternativi.

Gente che pensava (e pensa) che stia per cominciare la rivoluzione. Ho ricevuto un bel pacco di mail, nelle settimane scorse, di messaggi su facebook, dove si esprimeva la certezza dell’imminente rivoluzione. A me, che qualche rivoluzione l’ho vista e non solo letta, sembrava uno scherzo, ma ho finito per capire che coloro che si aspettavano la rivoluzione il 9 dicembre erano del tutto convinti che ci sarebbe stata. E, quando cercavo di spiegare loro che il 9 dicembre non ci sarebbe stata nessuna rivoluzione, capivo e vedevo che mi consideravano perduto per la causa.

Naturalmente non è la rivoluzione, perché una rivoluzione non è un blocco stradale o una sassata contro un poliziotto. La rivoluzione non si fa senza un progetto, senza una strategia, senza un’organizzazione. Io so per esperienza che non è vero che “lo stato borghese si abbatte e non si cambia”. Io so che il potere non si arrende facilmente e che ha dalla sua molte forze e protezioni e vie di fuga. E i capi, quelli che finora si sono visti e sono stati sbandierati dai media di fronte al grande pubblico, sono solo dei piccoli aspiranti Masaniello, molto al di sotto delle necessità e dell’esperienza di una leadership reale.

Ma la protesta è reale. Questo è il punto. C’è una parte del popolo, sempre più grande. C’è la sofferenza e la protesta contro l’ingiustizia; c’è la ricerca, spesso disperata , di lavoro, cioè di dignità; ci sono i giovani che non hanno futuro e ormai lo sanno; ci sono gli studenti che dovranno andarsene perché questo paese non li vuole. E tanti altri che scoprono la necessità di difendersi.

E questa è la “voragine”. Che non parla il nostro linguaggio; che ha mille anime, non tutte bellissime, che non ha esperienza e sapere. Ma come potrebbe sapere se è stata privata della conoscenza, da decenni, e trasformata in consumatrice compulsiva? E noi, molti tra noi, continuiamo a parlare della “voragine” senza conoscere il suo linguaggio, senza andare a incontrarla dov’è, cioè senza conoscerla.

Ho pubblicato la riflessione di Gramsci sui “movimenti spontanei”. Rileggiamola. Diceva Gramsci che bisogna dare loro una “direzione consapevole”; che bisogna comprendere i “bisogni fondamentali” e le “energie latenti” delle masse che si intende, o presume, di rappresentare; bisogna “non avere paura di prendersi responsabilità concrete”; bisogna “non fare le mosche cocchiere”. In due parole: bisogna esserci.

Invece noi continuiamo a nuotare nei nostri riflessi condizionati della sinistra: poiché non siamo stati noi a evocare queste forze, affermiamo che esse non sono di sinistra; esse non parlano come noi; non sono rivoluzionarie come noi vorremmo che fossero. Dunque – molti concludono – sono nemiche.

Ma non è così. E così facendo noi, invece di gettare un ponte verso di loro, invece di contaminarle e di contaminarci, alziamo un muro, ripetendo l’errore di molti (che, per fortuna, non è stato il nostro) commesso nei confronti del Movimento 5 Stelle.

Significa questo accodarsi al primo corteo che passa? Niente affatto. Occorre capire e, quando è il caso, prendere le misure, mantenere il senso critico e la chiarezza della prospettiva. Ma bisogna esserci. Questo è l’imperativo. Altrimenti spariremo nelle prossime onde che già si vedono sul filo dell’orizzonte. E buona fortuna a tutti.

Si può ascoltare lo stesso Giulietto Chiesa nel seguente link

http://giuliettochiesa.globalist.it/Detail_News_Display?ID=93392&typeb=0&Forconi–Videoeditoriale-di-Giulietto-Chiesa