Referendum: perché l’Espresso dice NO

 

di Marco Damilano

Un lettore ci scrive:
«Caro direttore, mi chiamo Giorgio Pregheffi e sono un abbonato dell’Espresso da oltre 40 anni. Le confermo la mia stima, tuttavia in questo caso la mia voce è critica. Sul referendum L’Espresso ha preso posizione per il No, perché? Qui non siamo in presenza di un referendum come quelli per l’aborto e il divorzio, dove prendere posizione era una battaglia di civiltà. Qui è un esercizio di democrazia ed è giusto che un grande settimanale si limiti a registrare le varie posizioni. E basta. Anche perché l’ipotesi che il Movimento 5 stelle ne faccia una battaglia per chissà quali reconditi motivi è farlocca. Si attribuisce a un movimento che ha dimostrato di non avere abbastanza intelligenza una strategia sottile che è pura fantasia. La verità è che ridurre i parlamentari è un’operazione meritoria, tanto è vero che illustri giuristi e costituzionalisti (Cassese e Onida, tanto per fare due nomi che sono più quotati di chi dice No) la sostengono. E lasciamo perdere la storia del risparmio di un caffè al giorno (fra l’altro è qualcosa in più perché i costi indotti nessuno li ha calcolati), perché è solo una sciocchezza, uno spreco è uno spreco e vale sempre la pena eliminarlo. Oltretutto le argomentazioni da voi riportate a favore del No non è che siano così precise. Cuperlo, ad esempio, dice: “Oggi per eleggere un deputato servono 96 mila cittadini, dopo la riforma ce ne vorrebbero 151 mila”. È una bestialità: oggi per eleggere un parlamentare possono bastare anche 3.000 voti (dipende dal collegio e dal partito), semmai quei numeri si riferiscono alla rappresentanza. E a proposito della rappresentanza, le Sardine dicono che la Basilicata rischia di non avere un proprio rappresentante. Dispiace, ma mi chiedo: dov’è il problema? Ogni parlamentare rappresenta tutti gli italiani e fa gli interessi di tutti. In passato sono stati tanti i danni prodotti da parlamentari preoccupati di fare solo gli interessi dei propri elettori. In buona sostanza, votare Sì o No, è un libero esercizio di democrazia e come tale va rispettato. Vorrei poi sottoporre a lei direttore una domanda: quale è stata la percentuale media di presenze alla Camera e al Senato negli ultimi anni? Se la risposta è quella che io temo, ridurre il numero dei parlamentari è un atto dovuto. E per favore, smettiamo di dire che si vuole difendere la Costituzione. Per me la Costituzione italiana è un vero capolavoro, ma tanti, troppi parlamentari nei fatti non l’hanno mai difesa. Per cui evitiamo la retorica e la demagogia».

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Così mi ha scritto il 7 settembre Giorgio Pregheffi, appassionato e fedelissimo lettore di Reggio Emilia. Non è stato l’unico a manifestarmi il dissenso per la posizione presa dall’Espresso già il 28 giugno di voto contrario al referendum costituzionale sul taglio del numero dei parlamentari, in largo anticipo rispetto al dibattito di queste ultime settimane. Lo ringrazio in pubblico, dopo averlo fatto in privato, e con lui tutti i lettori che ci hanno scritto per esprimere simili perplessità sul nostro schierarci (non moltissimi, in verità).

Dico subito che non è una novità, in 65 anni di vita (li compiremo il 2 ottobre!) L’Espresso ha sempre preso posizione: in difesa dei diritti civili, delle libertà, della Costituzione. Lo dimostrano le copertine che pubblichiamo in questa pagina: non solo il referendum sul divorzio (1974) contro il fronte clericale, o quello sull’aborto (L’Espresso si fece promotore di un referendum per abrogare le norme che punivano l’interruzione della gravidanza, prima che il Parlamento approvasse la legge 194 nel 1978), o quello per cancellare la legge sulla fecondazione assistita (2005), oggi smantellata dalle sentenze delle corti nazionali e europee dato che quel referendum non raggiunse il quorum. L’Espresso si è schierato sulla responsabilità civile dei magistrati (1987), sul nucleare (1987 e 2011), sull’acqua pubblica (2011). E sul referendum sulla preferenza unica per l’elezione dei deputati del 1991, il primo di quelli promossi da Mario Segni, quando Bettino Craxi consigliò di far mancare il quorum e di andare al mare, con lui c’erano i leader di quasi tutti i partiti (compresa la Lega di Umberto Bossi, all’epoca una novità per la politica italiana), quasi ventisette milioni di elettori votarono Sì e cambiarono la storia. Ma ancora di più, a ripensarci, vanno ringraziati quegli elettori (un milione e due) che votarono No: non erano d’accordo con il referendum, ma lo manifestarono con il voto, con la partecipazione, vincendo la pressione di chi li voleva far restare a casa.

Questo referendum sul taglio dei parlamentari mi sembra abbia lo stesso valore: si vota su un aspetto in apparenza marginale e scontato, portare i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200, e con tutti i principali partiti schierati ufficialmente per il Sì a un cambio della Costituzione che è stato votato dal 97 per cento dei deputati nell’ultima votazione della Camera. Fino a qualche settimana fa il referendum sembrava un passaggio scontato: chi avrebbe potuto immaginare che qualcuno si sarebbe opposto a una scelta così banale? Ecco il primo merito di chi come noi si è schierato per il No. Senza qualcuno che dicesse No, il referendum sarebbe passato in silenzio, i sostenitori del Sì non hanno fatto campagna elettorale. Il taglio del 36,5 per cento dei parlamentari, il cambio della Costituzione, sarebbe stato approvato con un plebiscito, senza discussione. Uno scenario da brivido.

Sono le ragioni del No che hanno permesso anche alle ragioni del Sì di esprimersi. Si possono legittimamente avere posizioni diverse, condivido l’opinione di chi sostiene che in questo voto non c’è nessun scontro epocale. È vero, semmai è un dibattito tipico di questa stagione fredda, chirurgica, cui ai politici è stata attribuita la responsabilità di ogni male, mentre i tecnici o i professionisti come il premier Giuseppe Conte – acclamato alla festa dell’Unità senza che abbia mai manifestato un principio o una scala di valori che motivi le sue scelte – si auto-attribuiscono ogni merito.

Ai cittadini interessano l’inizio delle lezioni scolastiche, la messa in sicurezza del proprio posto di lavoro, la crescita mancata dell’Italia negli ultimi decenni. Ma ogni votazione in democrazia è un’occasione, non un atto dovuto. E anche in questa occasione, come nelle precedenti, un grande settimanale come L’Espresso non può limitarsi a «registrare le posizioni». Un giornale non è un semplice barometro, il giornalismo deve avere l’ambizione di dare strumenti di informazione e di critica, di interpretare l’opinione pubblica e a volte di anticiparla, di incidere. In questo caso L’Espresso ha avuto il merito, insieme ad altri, di aver contribuito ad aprire un dibattito sul cuore della questione che non è il numero degli eletti, una concezione contabile della politica, ma il ruolo del Parlamento e delle istituzioni e la parola magica di ogni democrazia, la rappresentanza. Mortificata, offesa, ferita a morte. Prima di tutto dagli stessi rappresentanti del popolo che hanno fatto di tutto per tradirla: indifferenza e disprezzo per la parola data agli elettori, promesse capovolte, asservimento a poteri occulti e criminali, corruzione. Nonostante questo, la rappresentanza resta essenziale per la vita democratica di un Paese.

“No taxation without representation”, ricordate? Non c’è tassazione senza rappresentanza, è la sintesi che la rivoluzione americana fece secoli dopo del principio fissato una volta per tutte dalla Magna Charta Libertatum, 1215! Nessuna imposta può essere applicata dal Re se non è approvata dal Concilio del Re, ovvero da una camera di rappresentanza, l’embrione dei futuri Parlamenti nelle democrazie moderne. Oggi quel principio è calpestato. Dalla trasformazione dei partiti in macchine di privilegi, dall’inutilità delle assemblee legislative, dalla preminenza degli esecutivi, esaltata anche dall’emergenza covid. E dallo spostamento delle decisioni negli organismi sovranazionali: l’Europa dove, va detto, il prestigio e l’influenza del Parlamento europeo sono aumentati anche per merito dell’attuale presidente David Sassoli. E cresce nei cittadini, non solo in Italia, la spinta a rappresentarsi da soli, la voglia di fare da soli. In materia di sicurezza, giustizia, in materia di tasse, con il rifiuto delle imposte, il boicottaggio, la rivolta fiscale, l’evasione diffusa che si giustifica con l’alibi dello Stato sprecone, lo Stato che è il problema e non la soluzione come disse giusto quaranta anni fa Ronald Reagan (salvo poi, in tempo di covid, ritrovarci tutti a reclamare una sanità e un’istruzione pubblica pienamente funzionante, sussidi per le imprese e per i lavoratori). E c’è la richiesta di democrazia diretta che dovrebbe consentire ai cittadini di intervenire su tutte le questioni sensibili, senza delegare a nessuno le decisioni.

Il mio No al referendum è un Sì alla democrazia
Nella realtà, si rischia di allargare la lacerazione, l’impossibilità di riportare a un filo comune il mosaico degli interessi particolari, sempre più feroci, sempre meno disponibili a conciliarsi con gli interessi degli altri. Risultato: la Res Publica, la Cosa di tutti, si avvia a diventare una Selfie-Repubblica, una Repubblica del Selfie, dove ognuno si rappresenta da solo, ognuno fa l’autoscatto della propria urgenza particolare o addirittura individuale. Gli amministratori sul territorio lo sanno bene: ristoratori contro commercianti, insegnanti contro genitori, è una guerra civile quotidiana. In cui il compito dei rappresentanti, se proprio devono ancora esistere, sembra essere rimasto quello di eseguire plasticamente i voleri dei cittadini che si esprimono sulla Rete o chissà dove e come. Ma in questo modo la politica democratica perde il senso, la sua ragione d’essere, che è quella di trovare un equilibrio tra le spinte contrapposte, una direzione di marcia. Anche la politica, come il giornalismo, non può limitarsi a «registrare le posizioni». Perché altrimenti, lo sappiamo bene, a essere registrate saranno soprattutto le ragioni dei più forti.

Il taglio dei parlamentari, nel pacchetto originario presentato nel 2018 da Riccardo Fraccaro dei 5 Stelle, oggi sottosegretario di Giuseppe Conte, all’epoca ministro per i Rapporti con il Parlamento e, attenzione, per la democrazia diretta, era esplicito: «La volontà popolare ha sancito chiaramente il passaggio verso la Terza Repubblica, nella quale è essenziale riconoscere la centralità dei cittadini sul piano delle forme di partecipazione alla vita politica», dichiarò il ministro in audizione alla Camera (12 luglio 2018). Il capo dell’associazione Rousseau, Davide Casaleggio, fu più esplicito: «Oggi grazie alla Rete e alle tecnologie esistono strumenti di partecipazione decisamente più democratici ed efficaci in termini di rappresentatività popolare di qualunque modello di governo novecentesco. Il superamento della democrazia rappresentativa è inevitabile». Alla fine di quel pacchetto è rimasto in piedi soltanto il taglio dei parlamentari, ma dopo il 20-21 settembre la giostra è pronta a ripartire. Il deputato 5 Stelle Francesco D’Uva, questore della Camera, annuncia già il taglio dello stipendio dei parlamentari. Un altro deputato, Manuel Tuzi, ha detto che con la riduzione di numero i parlamentari diventeranno di meno e saranno più controllabili. Più esplicito di tutti, il capo Luigi Di Maio che ha scritto su Facebook: «Sanno di non rappresentare più nessuno e 345 poltrone gli fanno comodo. Se non è la politica a voler dare un segno, il 20 e 21 settembre possiamo darlo noi». Ma noi chi? E che cos’è uno che ha occupato quattro poltrone contemporaneamente e che ora fa il ministro degli Esteri, se non un politico? Uno dei massimi esponenti di quella politica che chiede al popolo di eliminare?

Nella legge elettorale in discussione alla Camera finora non è stato specificato se i cittadini potranno tornare a scegliere loro i parlamentari. Si capisce il motivo: le liste bloccate piacciono moltissimo a tutti i capipartito, è irrefrenabile la pulsione a designare a piacimento tutti i deputati e i senatori, pochi o tanti che siano. E qui si svela il meccanismo infernale che fa da sfondo al referendum: prima tolgo dignità e ruolo ai parlamentari e ai politici, li metto all’indice come scrocconi fastidiosi, sconosciuti sui territori. Assenteisti e fannulloni, come si è detto, anche autorevolmente. Tito Boeri e Roberto Perotti hanno calcolato che nella passata legislatura il 40 per cento dei deputati e il 30 per cento dei senatori hanno disertato un terzo delle sedute e che la maggior parte dell’attività legislativa si concentra sul dieci per cento dei parlamentari (“L’economia del referendum”, 11 agosto). Ma allora perché tagliare solo il 36 per cento? Tanto vale eliminare il 90 per cento dei parlamentari. E trasformare il Parlamento in un consiglio di amministrazione, come sognava anni fa Silvio Berlusconi.

Pochi parlamentari, impauriti, controllabili e ricattabili, dispersi in una terra di nessuno dove comandano non i buoni cittadini senza potere, ma al contrario i poteri forti, le lobby, le organizzazioni mafiose e la criminalità organizzata, spesso purtroppo più organizzata e radicata di chi dovrebbe contrastarla. Sono di meno e saranno più fedeli ai capi da cui dipendono. I partiti tagliano i parlamentari per non riformare se stessi. Il Sì si rivela così una macchina celibe, non ha altro fine se non il movimento, la dispersione di energia, la distrazione, un trenino che non va da nessuna parte perché non tocca nessun problema reale. Oppure un puro atto politicistico, di Palazzo. Il “pacta sunt servanda” di Dario Franceschini, seguito da Nicola Zingaretti, il patto di governo con M5S da rispettare, s’intende, lo stesso patto che al contrario il partito di Luigi Di Maio e di Vito Crimi rigetta nelle regioni che vanno al voto. È il risultato delle elezioni regionali, non del referendum, a far tremare il governo.

Può darsi che anche il No sia a sua volta una macchina celibe. Lo temo e lo sospetto anch’io, caro signor Pregheffi, non sono queste due parole, il Sì e il No, a racchiudere la verità, a ricostruire un’identità e una cultura politica, come non lo erano nel 2016 all’epoca del referendum Renzi. E sono più indignato di lei se penso ai tanti parlamentari che hanno tradito la Costituzione invece di difenderla. Ma resta da compiere un laico e disincantato atto di fiducia. Nelle istituzioni da cambiare radicalmente per rafforzarle, non per indebolirle. Meno parlamentari ma più forti e autorevoli, più rappresentativi dei loro territori, un Parlamento con due Camere che fanno lavori diversi, ma decisivi per il funzionamento dello Stato. E la ricostruzione dei partiti. Questa sarebbe una riforma seria. Un atto di fiducia nella capacità di immaginare un’altra politica, come la definì Stefano Rodotà, l’opposto dell’anti-politica che non crede a nulla se non alla pura e nuda perpetuazione di sé e della avvilente mediocrità che è il tratto di questa stagione. Il sogno di ripensare le categorie di sovranità popolare e rappresentanza dentro l’Europa che è il nostro destino, il nostro futuro spazio democratico, l’unico possibile. Per questo abbiamo buone ragioni per un No il 20 settembre, il No è una buona ragione.

Referendum: perché l’Espresso dice NOultima modifica: 2020-09-17T15:01:11+02:00da piero-murineddu
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