Una riflessione “laica” e molto concreta sul presepe

di Francesco Coniglione

Polish_20231223_041410250

Quest’anno ricorrono 800 anni dalla data in cui è tradizionalmente collocata l’ideazione e la realizzazione del presepe da parte di san Francesco d’Assisi nella località di Greccio, presso Rieti. Di tale episodio ci parlano i suoi principali biografi (Tommaso da Celano e Bonaventura di Bagnoregio) e altre testimonianze di epoca immediatamente successiva. Al di là della verosimiglianza dell’episodio (sia per la sua effettiva consistenza, sia per le modalità in cui si è svolto), esso riveste, nella biografia di Francesco e nel suo insegnamento, un posto che va al di là del significato interno, quello che si riferisce alla fede di un cristiano con tutti i sensi simbolici legati ai motivi spirituali classici di tale religiosità, per rivestire invece un significato che è in sintonia con la figura di un santo dal significato “universale”, che va al di là dei confini della fede professata e che quindi può intercettare sentimenti e sensibilità esterne ai suoi confini di fede. Ed in fondo è proprio questa caratteristica ad aver fatto di Francesco un santo che parla a tutti gli uomini e non solo ai propri fedeli.

Ma per lumeggiare tale aspetto – a volte non adeguatamente preso in considerazione – è necessario fare un passo indietro, al 1219, quando Francesco riesce finalmente a realizzare il proprio desiderio di predicare ai saraceni e a tal scopo finisce per recarsi a Damietta, in Egitto, in quel momento assediata dalle truppe cristiane nel corso della quinta crociata. Qui egli vorrebbe fare da mediatore tra i due eserciti, sí da evitare lo scontro e la conquista della città con l’inevitabile e consueto spargimento di sangue; a tale scopo esorta inutilmente le truppe cristiane alla mitezza, pena la disfatta, ma, pur ricevendo una certa attenzione da parte dei principi e duchi cristiani, è il legato pontificio a opporsi a tale soluzione. Riesce tuttavia a incontrare il sultano al-Malik al-Kamil, dal quale viene ben accolto. Infatti, diversamente dagli altri predicatori cristiani con cui i musulmani avevano avuto a che fare, Francesco non vuole mortificare gli “infedeli”, sconfiggendoli sul piano della dottrina; pur nutrendo la speranza della conversione del sultano, egli non vuole imporla, ma desidera sia liberamente accettata, nel rispetto della coscienza altrui. Egli predica il Vangelo, ma soprattutto vuole “annunciarlo”, testimoniarlo col buon esempio, con la mitezza e quindi senza assumere un atteggiamento aggressivo, provocatorio, che magari avrebbe potuto procurare dei martiri di cui andar fieri, ma del tutto inefficace nel convertire. Non disprezza né ridicolizza Maometto, non lo insulta né lo taccia di nefandezze, perché sa che solo in un rapporto di reciproca fiducia e rispetto sarebbe stato possibile parlarsi tra fedi diverse ed essere accetti a quella altrui. Egli quindi punta sulla persuasione che presuppone la comprensione della mentalità altrui, delle esigenze e dei valori che ne stanno alla base.

Era quanto esplicitamente aveva fatto scrivere nella sua Regula dell’Ordine del 1221 – quella “non bollata”, cioè non approvata dal papa – dove, sulla base della propria esperienza e della vicenda dei cinque frati francescani martirizzati in Marocco nel 1220, accenna ai due modi possibili con cui esercitare l’opera missionaria: innanzi tutto la sottomissione e l’umiltà, che è in sostanza quello “svuotamento di sé” quale prerequisito di ogni possibilità di dialogo interreligioso, pur nella aderenza e nella trasparenza della propria fede, nella sua testimonianza; in secondo luogo, quando questo atteggiamento avrà suscitato un moto di attenzione e simpatia, l’esplicita predicazione e il tentativo di conversione, ma senza che sia fatta violenza alla mente o al corpo di chi si vuole portare alla vera fede. Era un modo di concepire l’apostolato verso i musulmani che non aveva precedenti nella storia della Chiesa ed era la prima volta che nella regola di un Ordine religioso viene inserito un capitolo riservato alla evangelizzazione dell’Islam. Sarà proprio questo il punto che verrà emendato nella successiva Regula bullata del 1223: quanto auspicato da Francesco non era congeniale a una Chiesa per la quale il confronto col mondo islamico non poteva essere che armato, secondo quanto consigliava la pugnace dottrina di un san Bernardo, rampollo di una delle più nobili famiglie della Borgogna e influenzato dagli ideali della cavalleria medievale, per il quale uccidere un infedele da parte dei Templari, da lui sostenuti e lodati e per i quali aveva tracciato i primi lineamenti della Regola, non era un homicidium, bensì un malicidium.

In un’età in cui quasi ogni anno veniva bandita una crociata contro nemici diversi della cristianità – musulmani ed eretici – e Innocenzo III vedeva in Maometto la rovina dell’umanità e l’Islam come la bestia apocalittica, incitando alla lotta armata e cruenta, Francesco si distingueva per un rifiuto della violenza deciso anche se silenzioso, senza toni polemici contro la Chiesa, ma offrendosi quale esempio, in aperta disarmonia con quanto al suo tempo era costume corrente, rappresentando non a parole ma nella prassi un “apostolo di pace”, in assoluta coerenza col messaggio spesso disatteso di Gesù. Il carattere di Francesco si manifesta, diversamente che in san Bernardo, in uno stile di pensare e fare, che gli impedisce una predicazione accusatoria, volta a denunziare i peccati nonché la corruzione di uomini e istituzioni ecclesiastiche (che certo Francesco non poteva ignorare), evitando di invocare la loro emendazione; così evita di varcare il sottile confine dell’eresia. Egli punta a suscitare la metànoia, a incoraggiare il perfezionamento interiore e spirituale del singolo, da percorrere liberamente.

V’è in lui la capacità di accogliere l’altro, di valorizzare la diversità per quel che di positivo può apportare alla comune ricerca del bene, che quindi non viene allontanato in nome di un totalizzante ed esclusivo monopolio di tutto il vero. Ci racconta Tommaso da Celano che, a un confratello che gli domandava «perché raccogliesse con tanta cura anche gli scritti dei pagani e quelli in cui non c’era il nome del Signore, rispose: “Figlio, perché vi sono contenute le lettere di cui si compone il gloriosissimo nome del Signore Dio. E quanto vi è di bene non riguarda i pagani né altri uomini, ma solo Dio, al quale appartiene ogni bene”».

Sembrano riecheggiare nelle parole di Francesco le medesime considerazioni fatte dal senatore pagano Simmaco all’imperatore Valentiniano per difendere la propria religione contro il cristianesimo trionfante ed esclusivo di sant’Ambrogio: «È la medesima cosa quella che noi tutti veneriamo, una sola cosa quella che pensiamo, contempliamo le stesse stelle, uno solo è il cielo che sta sopra di noi, è lo stesso il mondo che ci circonda: che cosa importano i diversi tipi di saggezza attraverso i quali ciascuno cerca la verità? Non si può arrivare a un mistero tanto grande attraverso un’unica via». Quasi assistiamo a una ripresa da parte di Francesco di quell’atteggiamento tollerante dell’antico cristianesimo, prima che esso diventasse religione dell’Impero e quindi si istituzionalizzasse, e che a sua volta era la felice ibridazione di cristiano amore per il prossimo e di principi di tolleranza ripresi da altre tradizioni di pensiero. Solo che in Francesco l’amore per i nemici non era solo scritto sui libri o meramente teorizzato, ma effettivamente praticato, come lui diceva, sine glossa.

È questo il quadro di riferimento generale che permette di intendere a pieno l’episodio del presepe di Greccio: nel riportare Betlemme e la nascita di Gesù in terra d’Umbria egli vuole lanciare un implicito messaggio, a significare che il luogo di nascita di Cristo è ovunque i cuori degli uomini partecipino e rivivano tale evento, rinnovando in sé la fede nella sua venuta, per cui non è necessario il materiale possesso di un pezzo di terra per sentirsi autenticamente cristiani; non è necessario lo spargimento di sangue cui aveva assistito a Damietta quando fu conquistata dai crociati e dal quale si allontanò disgustato, convinto dell’importanza di una predicazione di pace e tolleranza. Di tale atteggiamento sono anche testimonianza le lettere da lui scritte ai fedeli come anche ai ministri provinciali dopo il suo ritorno dalla Terra Santa: mai esorta a prendere la croce in armi e neanche a pregare per i crociati, come ci si sarebbe aspettati da chi ha visto di persona precipitare verso la sconfitta l’impresa in Egitto, così come mancano del tutto nei suoi scritti termini come miles, militia, militare o parole di condanna verso gli eretici o addirittura di esortazione alla loro persecuzione (consueta prassi del suo tempo, che vide la ventennale tragica crociata contro gli albigesi, dal 1208 al 1229): il silenzio è spesso in Francesco più eloquente delle parole. Ma ancor più eloquenti sono i messaggi in positivo, dati con l’esempio, alieni dalla esplicita critica.

Un altro aspetto è anche significativo, quello che connette la centralità che hanno per Francesco la figura di Cristo e la sua umanità alla sua sensibilità verso i poveri e i diseredati, che nella sua concezione non erano solo chi fosse privo di mezzi materiali, ma anche i deboli, gli emarginati, insomma coloro che nella società contavano poco ed erano ‘minori’ rispetto ai potenti, a chi gestiva il potere e l’autorità, fosse esso laico o ecclesiastico. Ciò si riflette nella sua diffidenza per ogni superfetazione di carattere teologico e dottrinario al messaggio di Cristo, per quel sottile potere di carattere intellettuale che fa sentire importanti e porta ad assumere un atteggiamento di superiorità verso chi fosse sprovvisto di cultura, anche in ambito monastico. Il concepire l’episodio della natività all’interno di una plastica e scenografica raffigurazione e la rappresentazione di Gesù con un bambino in carne ed ossa, sí da poter esser visto “con gli occhi del corpo”, la partecipazione di pastori e gente delle professioni più diffuse e umili, il bue, l’asinello, il fieno, la greppia, tutto ciò rende protagonisti oggetti reali, visibili, concreti, quotidiani, che avvicinano un evento straordinario alla sensibilità degli uomini.

In tal modo l’incarnazione e la nascita del Cristo non sono solo un evento narrato, descritto, discusso e concettualizzato nelle astrattezze della teologia, ma qualcosa che appartiene alla dimensione umana, che ciascuno può rivivere in una rappresentazione che sta immediatamente sotto gli occhi di tutti; è un accadimento eccezionale reso comprensibile nella sua tangibile presentazione mondana, nella sua concreta povertà, nell’emarginazione e nell’umiliazione di chi ha avuto rifiutato l’asilo, è stato da tutti respinto e infine deve rimediare una stalla. Ma non è solo una semplice pensata di ispirazione popolare, che si indirizza a uno specifico pubblico ‘minore’ per capacità d’intendere e per dotazione culturale; è invece il modo più chiaro ed esplicito per dare un senso tangibile alla umanizzazione di Gesù Cristo, del Dio che è anche uomo. Nel far uso di ritualità e immagini alle quali la gente semplice è abituata ed affezionata, Francesco adopera un linguaggio comprensibile e condivisibile da tutti, colti e incolti. È un modo per dare alla Chiesa, concepita come comunità di fedeli, una dimensione di popolo universale, plurale e strutturato, che contrasta con la visione di una Chiesa intesa come corpo mistico di Cristo, tipica della teologia medievale, così anticipando quanto sarà fatto dall’ecclesiologia a partire dal Vaticano II.

La riscoperta dell’umanità di Gesù, che sta al centro della spiritualità francescana, pone l’accento sull’umanità del povero, sollevandolo al modello di Cristo, in contrasto a una società nella quale sempre più contava il valore monetario di cose e individui e che vedeva crescere il potere di chi si trovava in condizione agiata, al tempo stesso degradando sempre più coloro che di potere e denaro erano privi. Quella società da lui platealmente rifiutata con il clamoroso gesto della spoliazione in piazza ad Assisi e della restituzione dei suoi abiti al padre, così abbandonando la propria condizione di agiato rampollo di un ricco mercante.

È soprattutto questo il senso e il valore del presepe da Francesco allestito a Greccio nel Natale del 1223, comprensibile da chiunque e non solo dai cristiani: la parola e la narrazione diretta di Dio e il racconto dell’Incarnazione e della Natività non necessitano di sovrastrutture e mediazioni teologiche per essere comprese nel loro valore universale, di messaggio rivolto a tutti gli uomini, qualunque sia la loro fede. L’umanità incarnata dall’evento permette di trasformare il messaggio cristiano – che non perde per i cristiani tutti i suoi significati dottrinari e di fede – in una lezione rivolta a tutti gli uomini, per una civiltà fondata su valori e principi in contrasto con la civiltà del profitto, dell’arricchimento e del potere da Francesco intravista nella nascente borghesia mercantile del suo tempo.

* Francesco Coniglione, professore di Storia della filosofia nella Facoltà di Scienze della Formazione di Catania, è stato presidente nazionale della Società Filosofica Italiana. Articolo tratto da volerelaluna.it

FB_IMG_1703409704780

Una riflessione “laica” e molto concreta sul presepeultima modifica: 2023-12-24T10:20:53+01:00da piero-murineddu
Reposta per primo quest’articolo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non verrà pubblicato ma sarà visibile all'autore del blog.
I campi obbligatori sono contrassegnati *