La morte di un giovane  di 23 anni all’interno del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di corso Brunelleschi a Torino pone pesanti interrogativi sulle condizioni di vita all’interno dei centri di detenzione italiani. È la sesta morte avvenuta in un Cpr dal 2019 ed è particolarmente scandalosa perché Moussa Balde era stato vittima di un violento pestaggio solo qualche settimana prima a Ventimiglia. Il giovane, accusato di aver rubato un telefono, era stato aggredito da tre italiani all’uscita di un supermercato con tubi di plastica e spranghe. L’aggressione era stata ripresa da una passante con lo smartphone. La donna gridava: “Lo ammazzano, lo stanno ammazzando”. Il video ha permesso di identificare gli aggressori e incriminarli per lesioni. Balde è stato ricoverato all’ospedale di Bordighera ma una volta dimesso, invece di essere curato, è stato trasferito nel Cpr di Torino e messo in isolamento. Il giovane aveva infatti il permesso di soggiorno scaduto e un decreto di espulsione. Secondo la rete di attivisti No Cpr, a Balde non sarebbero state fornite cure adeguate. L’avvocato Gianluca Vitale ha raccontato che le sue ultime riflessioni erano di sbigottimento: “Non riesco più a stare rinchiuso qui dentro: quanto manca per farmi uscire? Perché sono stato rinchiuso?”, diceva. Due giorni dopo si è tolto la vita annodandosi un lenzuolo al collo.

La sesta morte in un Cpr
Il volto e la storia di Moussa Balde li racconta un video girato nel 2017 da Sanremonews in una delle strutture di accoglienza di Imperia che si erano occupate di lui dopo il suo arrivo in Italia dalla Libia nel 2016. Raccontava di essere scappato da una situazione difficile nel suo paese e diceva di voler studiare e di voler trovare un lavoro. In Italia aveva preso la licenza di terza media. Ma il suo suicidio è solo la punta dell’iceberg di un sistema detentivo che presenta gravi problemi strutturali fin dalla sua creazione nel 1998.

Il garante nazionale per i diritti delle persone detenute o private della libertà personale Mauro Palma ha pubblicato un rapporto in cui rende note le condizioni dei Centri di permanenza per il rimpatrio in Italia dopo un anno di visite (2019-2020). Nel rapporto il garante ha evidenziato l’inutilità e l’inadeguatezza di questi centri: innanzitutto meno del 50 per cento delle persone trattenute nei Cpr sono state effettivamente rimpatriate nel corso dell’ultimo anno, a fronte di una notevole sofferenza registrata da parte di chi è privato della libertà personale senza aver commesso alcun reato.

“La detenzione amministrativa assume nella prassi prevalentemente i tratti di un meccanismo di marginalità sociale, confino e sottrazione temporanea allo sguardo della collettività di persone che le autorità non intendono includere, ma che al tempo stesso non riescono nemmeno ad allontanare”, sottolinea il rapporto. Il garante ha evidenziato inoltre come i problemi strutturali che riguardavano le vecchie strutture non siano stati risolti nel corso degli anni.

Tra il giugno del 2019 e il dicembre del 2020, altri cinque migranti erano morti mentre scontavano una misura di detenzione amministrativa. Nei centri sono state riscontrate gravi carenze: la privacy dei migranti non è rispettata, i bagni per esempio non sono provvisti di porte, la polizia è presente durante le visite mediche, non è garantita la possibilità di ricevere materiale per scrivere, elementi di arredo, gli spazi dedicati all’attività fisica o gli spazi condivisi sono chiusi o non funzionanti, le strutture sanitarie non funzionano o non sono in condizioni accettabili, il riscaldamento non funziona, i telefoni sono sequestrati. Durante la pandemia, le condizioni dei centri sono addirittura peggiorate, anche perché sono stati sospesi i voli di rimpatrio e dunque per chi era all’interno dei centri la detenzione è diventata ancora più insensata.

“Per proteggere la salute di migranti e comunità locali, lo scorso maggio le Nazioni Unite hanno chiesto alla comunità internazionale di sospendere i rimpatri forzati. Ciò nonostante, le autorità italiane hanno continuato a chiudere cittadini stranieri in strutture simili a prigioni, pensate per trattenere e deportare i migranti in situazione di irregolarità. Isolati dalla società e in precarie condizioni fisiche e mentali, i cittadini stranieri che si trovano reclusi nei Cpr sono sprovvisti delle protezioni riservate ai detenuti del sistema carcerario. Rivolte, autolesionismo e aggressioni sono frequenti e la trasparenza dei privati che gestiscono le strutture è scarsa”, denuncia l’inchiesta sui Cpr italiani del sito d’informazione Frontierenews.

“Le persone restano in questo luogo senza uno statuto giuridico, diversamente dal carcere. L’amministrazione del Cpr quindi non è tenuta a scrivere un provvedimento formale che spieghi l’adozione dell’isolamento, non c’è l’obbligo di indicare la durata del provvedimento, che quindi può essere arbitrariamente estesa. Inoltre la persona non ha il diritto di opporsi, per esempio proponendo un ricorso. Quindi la gestione delle modalità dell’isolamento è rimessa all’arbitrarietà dell’amministrazione del Cpr”, spiega Veglio.

Nel 2019 si era già verificata una morte nel Cpr di Torino: anche in quel caso si trattava di una persona che presumibilmente aveva un disagio psichico, che era stata tenuta in isolamento per cinque mesi. “In isolamento non c’è il diritto nemmeno di chiedere l’ora d’aria, che invece in carcere è permessa, non c’è la possibilità di usare il telefono, tutti i telefoni sono sequestrati all’interno del centro”, continua Veglio.

“Di fatto è un istituto carcerario di massima sicurezza senza che le persone recluse abbiano commesso alcun reato”, continua l’avvocato, che sta organizzando una manifestazione di protesta il 4 giugno davanti alla prefettura di Torino.

Al momento nel centro di detenzione della città sono rinchiuse circa cento persone a cui è garantita tra l’altro una scarsa assistenza medica: c’è un solo medico per sei ore al giorno. “Sembra però che questa questione non interessi nessuno e che sia accettabile che qualcuno che non ha commesso reati sia recluso in una struttura del genere senza avere il diritto di comunicare con l’esterno”, conclude. “In questo momento quello che avviene all’interno dei Cpr è completamente invisibile”.

Cpr di Torino. Credits: Agora, periodico del Consiglio comunale di Torino

Cpr di Torino

Sulla morte di Moussa Balde e sui CPR

di Rosita Rijtano

” lavialibera”, 26 maggio 2021

 

Lo chiamano ospedaletto, ma non ha nulla di un luogo di cura. Le immagini satellitari di Google restituiscono la fotografia di un casermone dove l’unico spazio esterno concesso per prendere un po’ d’aria è un piccolo cortile al di fuori di ogni stanza, coperto da un’inferriata: una gabbia. È qui che vengono confinate alcune persone trattenute nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) dei migranti  di Torino. Ed è qui che si è tolto la vita Moussa Balde, un 23enne del Gambia che agli inizi di maggio era stato vittima di un pestaggio da parte di tre ragazzi italiani, ora indagati a piede libero.

Per il giovane, privo dei documenti in regola, l’aggressione ha aperto le porte del Cpr. “Non riesco più a stare rinchiuso qui dentro: quanto manca a farmi uscire? Perché sono stato rinchiuso?”, chiedeva il ragazzo al suo avvocato, Gianluca Vitale, due giorni prima di annodarsi un lenzuolo intorno al collo.

Da giugno 2019 a oggi, Balde è la sesta persona morta nei Centri per il rimpatrio dei migranti (Cpr). La seconda solo a Torino, dove sempre nella zona dell’ospedaletto nel luglio del 2019 ha perso la vita Hossain Faisal: un bengalese di 32 anni, ufficialmente morto per arresto cardiaco. Se ha chiesto aiuto, nessuno l’ha sentito: l’area è lontana dall’edificio principale e priva di sistemi per richiamare l’attenzione, come un campanello. Ma, secondo molte associazioni a tutela dei diritti umani, il problema va oltre Torino ed è strutturale.

Alda Re, attivista di LasciateCIEntrare, campagna nazionale contro la detenzione amministrativa dei migranti, definisce i centri “un’aberrazione”. “Al loro interno – dice – ci sono persone che spesso non sanno perché sono finite lì né conoscono le tutele legali cui hanno diritto. La società civile non se ne occupa. Oggi siamo indignati, ma domani la vicenda sarà dimenticata e tutto tornerà come prima, fino alla prossima tragedia”.

Tragedie che, come ha notato il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, è difficile non considerare il sintomo di luoghi “non sempre in grado di proteggere e tutelare la vita delle persone”. La morte di Balde è la dimostrazione del fallimento di un sistema che non solo criminalizza le migrazioni, causando sofferenze a chi lo subisce, ma è anche inefficiente e costoso.

Cosa sono i Cpr

La creazione dei Centri per il rimpatrio risale al 1998, quando il Testo unico sull’immigrazione voluto da Livia Turco e Giorgio Napolitano, ha introdotto il trattenimento delle persone in attesa di espulsione. Il tempo massimo di permanenza era fissato a 30 giorni: periodo poi raddoppiato con la Bossi-Fini e allungato ancora di più dal primo decreto sicurezza a firma di M.S. che l’ha alzato a 18 mesi, ridotti poi a 90 giorni dall’attuale ministra dell’Interno Luciana Lamorgese.

Nati come Centri di permanenza temporanea e assistenza, i Cpr hanno assunto il nome attuale con la legge Minniti-Orlando del 2017 che prevedeva di ampliarne l’utilizzo e aprirne uno in ogni regione. I Centri di permanenza per il rimpatrio si andavano così a configurare come l’ultimo anello di una politica migratoria che punta a una esternalizzazione dei confini attraverso accordi con i Paesi d’origine e transito dei migranti, negando di fatto il diritto alla mobilità.

Non esistono informazioni pubbliche che permettano un monitoraggio dei Cpr. L’ultimo elenco disponibile sul sito del Ministero dell’interno ne conta dieci. Al momento, però, quelli in funzione sembrano otto, collocati in altrettante città: Gradisca d’Isonzo (Gorizia), Milano, Torino, Roma, Palazzo San Gervasio (Potenza), Bari, Brindisi, e Macomer (Nuoro). Mentre le persone presenti, al 30 aprile 2021, erano 229.

La legge stabilisce la reclusione al loro interno, quando non è possibile “eseguire con immediatezza l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera o il respingimento, a causa di situazioni transitorie che ostacolano la preparazione del rimpatrio o l’effettuazione dell’allontanamento”.

Previsti come estrema ratio, i centri sono diventati “luogo di privazione della libertà per ex detenuti che avevano già scontato la propria pena, persone che avevano perso il lavoro e con esso il diritto a restare in Italia o persone che vivevano di lavoro nero, richiedenti asilo e vittime di tratta”, scrive sulla rivista Left Stefano Galieni, concludendo che queste strutture “per come sono pensate, per la funzione che svolgono, per l’assenza di garanzie reali, dal diritto alla difesa alla difficoltà per gli operatori dell’informazione di entrarvi e verificare le condizioni di vita, sono irriformabili e vanno chiuse”.

Quattro ragioni per chiudere i Cpr

Le principali ragioni per cui i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) andrebbero chiusi sono quattro:

  • inefficacia;
  • costi;
  • condizioni di vita disumane;
  • la discrezionalità lasciata alla polizia nel decidere il trattenimento dei cittadini stranieri all’interno di questi luoghi.

1. L’inefficacia

L’obiettivo ufficiale dei Cpr è il ritorno nel Paese d’origine delle persone trovate sul territorio italiano senza un valido permesso di soggiorno. Valutando quanto riescono a farlo è evidente il primo paradosso: l’inefficacia del sistema.

Maurizio Veglio, avvocato dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), parla di “un fallimento che va avanti da oltre venti anni”. Analizzando i dati si nota che la quota di migranti transitati nei centri, e poi effettivamente rimpatriati, non ha mai superato il 50 per cento. Nel 2018, su 4092 persone trattenute ne sono tornate in patria 1768. Nel 2019, sono state 2992 su 6172.

“La percentuale è rimasta più o meno invariata nel corso degli anni, indipendentemente dal tempo massimo di permanenza all’interno delle strutture stabilito dai vari governi – assicura Veglio –. L’altra metà dei migranti ha riottenuto la libertà dopo un periodo di sofferenze terribili e inutili“.

Una situazione diventata paradossale durante la prima ondata di contagi da Covid-19, quando “il governo ha scelto di mantenere attivi i centri nonostante la chiusura delle frontiere e, quindi, il blocco dei rimpatri a cui la detenzione amministrativa dovrebbe essere finalizzata”, denuncia Gennaro Santoro, consulente della Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili.

La scelta ha reso il trattenimento illegittimo, come hanno scritto diverse associazioni in una lettera aperta indirizzata ai Giudici di pace, cui spetta il compito di convalidare o rinnovare le misure restrittive, dimostrando che la funzione dei Cpr va oltre il rimpatrio della popolazione irregolare.

2. I costi

Legati a doppio filo all’inefficacia ci sono i costi di gestione dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), che viene affidata dalle prefetture ai privati. Anche in questo caso un monitoraggio è difficile: non esistono dati pubblici per conoscere le spese complessive, ma un’idea la possono dare alcuni bandi pubblicati. L’ultimo riguarda il Cpr di via Corelli, a Milano: per un anno è previsto un corrispettivo di un milione e 400mila euro (iva esclusa): circa 42 al giorno per ospite.

Ai soldi spesi per far funzionare le strutture si aggiungono i costi per i lavori di riparazione dei danni causati dalle frequenti rivolte delle persone trattenute e i costi per i rimpatri. L’importo più recente fissato in un decreto pubblicato in Gazzetta ufficiale lo scorso marzo quantifica in 1.905 euro la cifra media prevista per il trasferimento di ogni straniero nel suo Paese d’origine per il 2021. Tariffa in aumento del 30 per cento rispetto ai 1.398 euro previsti l’anno precedente.

3. Condizioni di vita inumane

Un quadro delle condizioni di vita all’interno del Cpr lo dà l’ultimo rapporto del Garante nazionale, che ha visitato le strutture tra il 2019 e il 2021. In molti casi, si legge nel documento, le condizioni degli edifici non sono accettabili: mancano spazi, luce, riscaldamento, mobili. I trattenuti non hanno vestiti, dormono su materassi vecchi e senza lenzuola.

Anche le condizioni igieniche sono spesso carenti, con bagni fuori uso e finestre rotte. Per esempio, nel Cpr di Pian del Lago, a Caltanissetta, sulle otto docce presenti al momento della visita ne funzionavano due: una per padiglione. Pesa, poi, la totale assenza di attività. A differenza delle carceri, “le persone sono costrette a un ozio forzato e soggette a una serie di regole che variano di struttura in struttura. Non esiste una legge organica che regola la vita all’interno dei centri e definisce le modalità di trattenimento”, spiega Massimiliano Bagaglini, responsabile dell’unità Migranti e privazione della libertà del Garante.
Così ogni istituto fa da sé, adottando a volte misure in aperta violazione dei diritti delle persone trattenute. Un esempio è il telefonino. Quasi tutti i centri ne hanno disposto il sequestro all’ingresso, soprattutto dopo che i cittadini stranieri hanno iniziato a inviare video e foto all’esterno per denunciare le condizioni di vita nelle strutture. Peccato non esista nessuna legge che vieti l’utilizzo degli smartphone, tanto che il tribunale di Milano ha accolto il ricorso presentato da un giovane tunisino, cui era stato impedito di poter usare il proprio dispositivo.

Un altro problema è l’assistenza sanitaria, affidata a chi gestisce i Cpr e non al servizio sanitario nazionale. La presenza di molti tossicodipendenti e malati psichici richiederebbe un forte coinvolgimento dei servizi sanitari locali, sottolinea l’autorità. Al servizio sanitario nazionale spetta solo di valutare le condizioni di salute del migrante prima dell’ingresso nel centro. Ma nei fatti, in molti casi, il certificato di idoneità alla vita all’interno della struttura viene rilasciato dal medico dell’ente gestore. Un mancato controllo che non solo è “contro la legge”, ma toglie al cittadino straniero la garanzia di essere valutato da un soggetto imparziale.

4. La discrezionalità della Polizia

La detenzione amministrativa pone anche un problema di compatibilità costituzionale del Testo unico sull’immigrazione. La norma attribuisce il potere di decidere il trattenimento nei Centri di permanenza per il rimpatrio alla polizia: una discrezionalità che va oltre i casi eccezionali e urgenti previsti dall’articolo 13 della Costituzione italiana. La misura deve essere poi confermata da un giudice di pace. Ma “in quasi tutti i casi – conclude Veglio – i giudici convalidano il provvedimento dopo udienze molto brevi e senza adeguate indagini, delegando di fatto alla polizia il ruolo di assoluta protagonista”.