ELOGIO DELL’ASINO (Pedran Matvejevic)

 

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(P.Muri.)
Preziosissimo mezzo di trasporto dei nostri nonni, a torto denigrato e ingiustamente preso a paragone di chi è duro di comprendonio e lento nell’apprendere, complice l’imperdonabile responsabilità dei maestri elementari di una volta e, disgraziatamente, pure di molte maestre d’oggi.
Sono incappato in questa bella foto  e mi è venuto di proporvi questo

ELOGIO DELL’ASINO

di Pedran Matvejevic

L’asino viene chiamato con nomi diversi – somaro, ciuco, musso, buriccu in Sardegna, sciccu in Sicilia, ciuccio a Napoli. Tutti questi nomi non sono meritati, specie alcuni altri, dispregiativi. Questo animale è sempre stato utile nei lavori faticosi che si fanno sulle sponde del nostro mare. Serviva a dissodare le sassaie e ad ampliare i prati, a tracciare i sentieri e ad aprire le strade, ad alzare i muretti, a far girare i mulini e a macinare il grano. Sul Mediterraneo si è spesso sbagliato, più sovente che altrove, chiamando con uno dei suoi nomi quelli che non sono neppure degni di lui . Porta il basto sulla schiena, carico da una parte e dall’altra, davanti e dietro. Si arrampica sulle pendii e scende dalla colline. Procede sulla riva del mare o ben dentro l’interno. Di natura è paziente, avvezzo all’obbedienza. E’ raro che si opponga o che si ostini. E’ più facile condurlo che non il cavallo e soprattutto il mulo. Non ha bisogno di essere ferrato, giacché il suo zoccolo si comprime sul terreno e s’indurisce. Non serve la frusta a chi lo mena, né lo sprone a chi lo cavalca. Si comporta allo stesso modo se il padrone gli cammina davanti o gli va dietro. Ricorda e riconosce i passaggi scoscesi ed erti come quelli facili e piani. Se si dimentica per quale via è passato, si ferma e attende di essere nuovamente avviato.
Sa scegliere il posto dove porre la zampa sulla pietraia e nel crepaccio, trovando un punto d’appoggio sicuro per sé e il fardello che porta. Ha gli occhi grandi due volte quelli dell’uomo, vede davanti e di lato. Quando drizza le orecchie, le tende o le abbassa, sente come pochi altri animali, meglio del suo padrone. Avverte l’arrivo della pioggia e s’inquieta, anzi si eccita, presagendo il maltempo. Giace sulla paglia, mastica il fieno, beve a sorsi lunghi e lenti. Si può dire che sonnecchia piuttosto di dormire davvero. Come se aspettasse lo scossone del risveglio per tornare quanto prima al lavoro. Qualche volte si addormenta appoggiato sulle quattro zampe o ancora, proprio quando è stanchissimo, piega le anteriori e le posteriori sotto l’inguine come se così riposasse meglio. Non c’è bisogno di legarlo, basta dare un giro alla cavezza attorno alla siepe più vicina – resterà là fino a quando qualcuno non verrà a prenderlo. Non sa nuotare, e quando attraversa a guado un fiumicino, si tiene lontano dai gorghi e rifugge dalle rapide. Spesso lo assalgono le mosche che sembrano scatenarglisi addosso, talvolta anche le vespe, e non riesce a cacciarle via a colpi di coda – con quella specie di nappa che ha in cima di essa. In certi momenti si butta per terra sopra un mucchio di paglia o un cespo di foglie per grattarsi la schiena e strofinarsi la criniera – che è, a quanto pare, una della sue poche distrazioni, forse l’unico svago. Non si sceglie da solo la compagna con cui accoppiarsi, c’è sempre qualcuno che lo porta accanto ad essa perché la fecondi – e si direbbe che lo faccia più per dovere che per bisogno. Se lo si carica oltre ogni misura, si mette a barcollare e sembra voler precipitare o in una direzione o nell’altra – la saliva nelle sue fauci diventa densa e giallastra. Allora si ferma, s’incaponisce e non si lascia smuovere a nessun costo. E non lo fa per cocciutaggine o per disobbedienza, ma proprio perché non ce la fa e, può darsi, anche per rivolta contro l’ingiustizia che gli tocca patire. Quando raglia non si può dire se esprima allegria o tristezza, se lo faccia per ammonire o lamentarsi. Talvolta diventa rauco, come se avesse sforzato la gola fina a farla seccare, e tuttavia lo si continua a sentire da lontano.
Non cerca lodi né sostegno – gli basta una carezza sul collo o una battutina della mano sulla groppa. Capisce meglio i gesti delle parole. In alcuni momenti rizza e tende le orecchie o le abbassa rilassandole sul collo, come se in quel modo volesse dire qualcosa. Talvolta si lancia al trotto per dimostrare di saper fare anche così, o forse ci prova una qualche soddisfazione – ma non si direbbe che c’entri l’orgoglio o soprattutto la vanteria. Altre volte si stacca e si allontana in fretta, non troppo lontano né troppo vicino, quasi volesse restare libero e indipendente almeno per un attimo. Se inciampa e scivola, o succede qualche inconveniente al suo padrone, gli si inumidiscono gli occhi e diventano più luminosi. Chissà come si affligge. Certo, non piange. Rivela stanchezza e impotenza, più che dolore o sofferenza. L’asina la fanno lavorare persino quando è gravida e, subito dopo aver partorito, riesce a malapena ad allattare i cuccioli – il suo latte è sano, ma non abbondante. La carne d’asino da qualche parte è apprezzata ma, per fortuna non si mangia dappertutto. Fa tristezza vedere l’asino vecchio sforzarsi di essere così com’era una volta, di tirare il carretto come lo tirava prima, di fare quello che faceva un tempo. Quando perde del tutto le forze e si accascia, allora cominciano a compatirlo anche coloro che lo hanno tormentato di più. E quando poi crepa, si utilizza e si adopera tutto quanto ne rimane. Su molte sponde del Mediterraneo si è conservata l’abitudine di scuoiarne la lanugine grigia e bianca dalla carcassa e di farne, ad esempio, delle ciocie, degli otri o anche dei tamburi – e quando la stendono, vi si possono scorgere tante cicatrici che nessuno poteva neppure intuire. Sui rilievi di Menfi e nelle pitture delle piramidi, sulle pareti delle mastabe funebri e nei geroglifici del “Libro dei morti” gli viene però riservato un riconoscimento. Nel Talmud e nella Bibbia viene menzionato in molti punti. Del resto ha aiutato Abramo e Mosé in varie circostanze. I fratelli di Giuseppe portarono dall’Egitto il grano per nutrire gli affamati sulla schiena di dieci asini e di dieci asine. Se mi ricordo bene, nel maggior museo del Cairo si conserva la statua di un asino, intagliata in un legno chiamato karite, grasso e scuro, che le carovane trasportavano dai territori a sud del Sahara fino alla costa settentrionale dell’Africa. Né la letteratura greca né quella romana hanno dimenticato il fedele e devoto quadrupede. Luciano (Lukianos) di Samosata ci ha lasciato un lungo racconto col titolo “Lucio o l’asino”. Apuleio se ne ispirato nel famoso “Asino d’oro”. Il filosofo Buridano ha legato per sempre il proprio nome al quello dell’asino. Dostojevskij fa constatare dal principe Myškin, questo geniale “Idiota”, che l’asino è “un uomo buono”. Anche la grande pittura non lo ha trascurato: Giotto l’ha immortalato ad Assisi, Botticelli a Firenze, e nei paesi del Nord, dove peraltro preferiscono i cavalli da parata, lo hanno rappresentato sia Dürer che Rembrandt. L’antica Napoli ha deciso che l’amato ciuccio venisse a trovarsi anche sullo stemma partenopeo. Il maestro Buvina ha inciso la sua figura sul portale ligneo della cattedrale di Spalato. Cavalca un asino il saggio Sancho Panza nei monumenti di Siviglia e di Piazza di Spagna a Madrid.

ELOGIO DELL’ASINO (Pedran Matvejevic)ultima modifica: 2017-12-02T14:38:04+01:00da piero-murineddu
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